Works 1995-2009

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Steles of Anamnesis, 1994-1995.

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La civilisation du phoque, 1994-1995.

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Ninna nanna, 1995

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Les Ames du purgatoire, 1995

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Anabasis 1995

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Nanook Sequence 1996

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Cranial Nerves, 1996

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Still Lives, 1996

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Boustrophedon 1997

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L’art de la guerre, 1997

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Iconostasis, 1997

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Leçons d’anatomie, 1998

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Kinderatlas, 1998

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Wilderatlas, 1999

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Skyggerids, 1999

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1930 circa, 2002

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Inventarium, 2004 (detail)

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Ex voto, 1990-2006

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Monte Carmelo, 2009

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La Buoncostume 01, 2009

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La B-C, 2009

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L’Illustrazione Italiana ter, 2009

My artistic activity over the last years has focused on our common historic heritage. More specifically, I have endeavored to elaborate an iconographic program that enriches and skews our perception of “our” family portraits. To achieve this objective, I have collected archival material, scientific diagrams, administrative documents, as well as police mug shots and plates from anthropological studies. From such material, I have created new images. The work I have undertaken in recent years involving collages created from original documents mixed with painting naturally led me to attempt to develop a ‘photograph of history’.

Considering photography solely as a method of reproduction – i.e. its most restricted function — I have used it as a fragmented piece of “evidence” in large-scale articulated works, which were not intended to propose new meanings but rather to call into question our manner of regarding the past. The images I exposed were often mutilated and reduced to fragments, which prevented the viewer from imagining the whole that could be constructed from these fragments; they were sometimes rendered illegible by the superimposed layers of documents and iconographical material.

Using cut-up X-rays as screens or filters, I created a play of shadow and light, and transparency and opacity on the images. As both an abstract reproduction and a negative image of the hidden reaches of the body, the X-ray is itself a form of body writing – a recording that must be deciphered and interpreted. The transparency of the X-rayed body forces the viewer to reflect upon the impossible permeability of the photographed image. How can we pierce and destabilize its forms that are so saturated and definitive?

I have thus reproduced ‘our’ photographs on a support of sheets of transparent film. I superimposed them on completely unrelated photographs or on some of my earlier works that I have cut up and repainted. I then enlarged details to the point of rendering them abstract and hid them behind metal grating — a reference to pre-grammatical signs. I mounted them between two glass plates in metal structures that distanced them from the wall, thereby allowing any light source to transform them into shadows, which could be deformed or deformable according to the angle of the light source and the orientation of the frame.

By incorporating shadow in my work, I have reverted to the earliest form of image making, which, according to myth, was born from the contemplation of shadows. Using industrial supports typical of our period, such as transparent films, gelatinous material and florescent colors, I intended to shed the original icon of its solemnity and aura so as to present only a facsimile.

In addition, these materials allow us to ‘sublimate’ a mundane subject or to trivialise a pretentious subject. Perhaps this is a manner of getting around the question that has traditionally troubled all visual artists: the inadequacy of any given subject matter.

Reproduction functions as a conservation tool, yet this necessarily implies a loss. The original image having been at any rate lost, we, the viewers, are left with infinite possibilities to recreate it in our own imaginations.

La preoccupazione del padre di famiglia (1999-2008)

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Esslingen 2000

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Rome 2003

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Malborghetto 2004

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Acicastello 2007

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Burning man 2008

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Daegu 2008

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La preoccupazione del padre di famiglia
1999-2004
Inchiostro tipografico su seta (170×50 cm)
Circa 20 pezzi, dimensione dell’opera variabile secondo il sito dell’installazione

Il lavoro nominato La preoccupazione del padre di famiglia è un episodio di fotografia della storia.

Lungi dal trattare con fini dimostrativi i soggetti offerti dal passato storico, Puglia li riprende esaltandone in modo parodistico la loro natura fantomatica.
In quest’opera, in particolare, sono ri-presentate su un supporto leggero e volatile, in contraddizione col loro soggetto, delle immagini tratte dalle ricerche antropologiche sviluppate all’università di Uppsala, in Svezia, negli anni, ’20, ricerche tese a definire i tipi razziali e a dimostrarne l’esistenza stessa.

La fragile testimonianza della fotografia diviene qui una sorta di derisoria iconicità.

La presentazione di queste figure sotto forma di vessillo è un ulteriore processo deformante. Queste banderuole di seta, sparse nel deserto e svolazzanti alla minima brezza, segnalano semplicemente la presenza del passato e la nostra responsabilità nei suoi confronti: hic est historia.

Autopresentazione (2006)

Il mio programma artistico, da una quindicina d’anni a questa parte, è quello di riprendere la “nostra” storia attraverso un procedimento di trasformazione estetica.

Nel ri-presentare le immagini, trovate o create che siano, conferisco loro un’ombra. Questa è talvolta più leggibile delle immagini stesse, che sono sovrapposte e confuse, così come accade spesso nel lavorio della memoria.

Ma, più che un’arte della memoria, questo lavoro intende essere una fotografia della storia. Così come la nostra storia, esso si aggira nello spazio fra ciò che è perduto e ciò che rimane, fra ciò che è mostrato e ciò che resta celato, fra indizi reinterpretati e reperti frammentari. Il suo punto centrale è la convinzione che tanto la storia quanto le immagini non dovrebbero mai essere lasciate a se stesse, e che debbano essere sottoposte a misure radicali di metamorfosi.

Quanto al mio approccio metodologico, esso consiste nel mettere in relazione un determinato soggetto con un determinato materiale, lasciando all’espressione dell’uno e dell’altro, all’interno di una cornice formale costrittiva, una certa casualità di combinazione.

All’inizio, le lastre radiografiche ritagliate creavano sui documenti originali un gioco d’ombra e di luce, di trasparenza e d’opacità che tendeva a ingannare l’inevitabile saturazione dell’immagine.
In seguito ho riprodotto gli stessi documenti su supporti trasparenti, semplici fogli di acetato. Li ho sovrapposti ad altri documenti, che “non hanno niente a che vedere”, o a vecchi lavori personali, ritagliati, ridipinti. Ho nascosto queste immagini sotto griglie metalliche, fra due vetri, le ho allontanate dai muri, perché una qualunque fonte di luce le trasformasse in ombre.
Nell’ombra ritrovavo il primo stadio della riproduzione. E nella riproduzione ho continuato a lavorare: utilizzando materiali d’industria quali le gelatine, il PVC, gli acrilici fluorescenti intendevo sottrarre all’icona la sua originalità, la sua aura, presentandola come un simulacro. Inoltre questi materiali mi permettevano di trasfigurare un soggetto triviale, oppure di banalizzare un soggetto roboante.

Se la riproduzione funziona come un arnese di conservazione, ciò va insieme con una necessaria perdita. Essendo in ogni modo persa l’immagine primaria, rimangono le infinite possibilità di ricrearla con la nostra immaginazione.

The Postcard (Terni 2006-Seoul 2009)

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Saint-Ouen, France *
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Terni, Italy *
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La colonna sonora dell’installazione (Philippe Poirier, The Postcard, 8’29”):

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Seoul, Corea ***

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The Postcard

Un intervento d’artista intorno al gemellaggio Terni-Saint Ouen

Terni e Saint Ouen sono governati da due amministrazioni che hanno deciso, alla fine degli anni ’50, di gemellarsi. Il motivo di tale scelta era un’evidente analogia nella storia e nella composizione sociale delle due città, entrambe industriali, entrambe colpite dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, entrambe amministrate da partiti rappresentanti la classe operaia. Ancora in questi anni i destini delle due città sono simili, con la chiusura di taluni complessi industriali e la necessaria riconversione degli spazi urbani.

Fino ad ora i rapporti fra le due città sono stati incentrati intorno a scambi culturali episodici (gite scolastiche, partecipazioni di artisti a mostre di gruppo, partite di calcio, eccetera). Negli ultimi anni sono emerse, tuttavia, due realtà parallele alle istituzioni locali: a Saint Ouen ha aperto nel 2001 Mains d’oeuvres, un centro d’arte multimediale che accetta artisti in residenza sulla base di progetti che si rivolgono alla popolazione. Nello stesso tempo, a Terni, la ex Siri è sulla strada di diventare un luogo aperto all’attività di artisti internazionali.

L’installazione di S. Puglia esplora il concetto di tipico: cosa è che definisce visivamente uno spazio pubblico e l’identità locale che su quello si ancora? Esistono degli standard, degli elementi visivi che possono designare la specificità di un luogo, agli occhi dei suoi stessi abitanti? E il tipico, il caratteristico di un luogo, non è allo stesso tempo un generico interscambiabile?

Per verificare questa ipotesi Puglia ha percorso rapidamente, in bicicletta e a piedi, i centri urbani di Terni e di Saint Ouen. Ha fotografato, senza un vero criterio di scelta, i luoghi più comuni e i più “tipici”: crocicchi, piazze, semafori, parcheggi, statue, monumenti.
Ne ha ricavato due serie di diapositive che vengono proiettate in un lento diaporama di immagini parallele e sovrapposte, carte postali anodine di una serata “proiezione” al ritorno da un viaggio in un paese esotico.

Ai due lati di questa proiezione, su due pareti opposte, appaiono due strani mostri. Si tratta di due “caratteristici” monumenti di ognuna delle due città. Nel corso delle sue deambulazioni, difatti, Puglia ha scelto nel modo più casuale due sculture che non rappresentano altro che l’epoca e lo spirito in cui sono state edificate, ma che vengono qui presentate come delle icone arbitrarie: più che della rappresentatività estetica di uno spazio pubblico, esse rendono conto della soggettività di una scelta artistica.

Le sculture riprodotte sono parti di due monumenti più complessi. L’uno è la figura giacente di un vecchio, nello Square Marmottan a Saint Ouen; l’altro è un bassorilievo che sovrasta il monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, a Terni.

Entrambe le sculture sono appiattite e scomposte. Sono state riprodotte usando centinaia di piccole fotografie 10×10, con un effetto di “pixellizzazione”. Si tratta di fotografie fatte con un apparecchio di plastica di fabbricazione tedesca, un Carena 51, che dà stampe di formato quadrato. Queste immagini non mostrano vedute delle due città, ma tutti i luoghi visitati dall’artista nel corso degli ultimi quindici anni, ovunque sul pianeta. Si tratta quindi di un rumore di fondo. Nella stessa maniera, la composizione musicale di Philippe Poirier, che accompagna la successione delle immagini, presenta una sorta di “suono del mondo”.

L’aspetto autobiografico della pratica artistica e la ricerca su un luogo di lavoro (come è lo spazio urbano) si compongono in questa installazione multiforme.

 

Quattro pose statuarie (2006)

Fra le decine di disegni che Annamaria Morbiducci mi ha mostrato, ho deciso di confrontarmi con gli schizzi preparatori per le quattro formelle bronzee che Publio eseguì, intorno al 1928, per due porte della Casa madre dei mutilati di guerra, a Roma.

Il tema a lui assegnato dalla committenza (la stessa ANMIG, ovverosia l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra) era piuttosto costrittivo: si trattava di celebrare la vittoria in guerra (1915-18) delle varie Armi, di terra, di mare e d’aria.
Che siano dunque rappresentate in atteggiamento “terrifico” oppure statico, queste Vittorie, rigorosamente alate, hanno comunque a che fare con nemici mostruosi e maneggiano gladi, spade, saette e arpioni.

Lo stile delle formelle morbiducciane mi pare essere al passo con i propri tempi: riecheggia un classicismo sintetico non esente da influssi art-déco.
La coeva plastica francese, quella di un Bourdelle ad esempio, potrebbe esserne una fonte d’ispirazione.
Ma in quegli anni potremmo incontrare in ogni capitale europea testimonianze scultoree siffatte (con l’eccezione, forse, di Berlino, ancora avanguardistica in arte, non ancora messa al passo d’oca).
Non si può tuttavia sostenere che, in questo caso, l’arte di Morbiducci sia arte di regime. La costruzione e le successive committenze della Casa madre, se hanno accompagnato gli anni del consolidamento del fascismo, non ne sono ancora completamente influenzate, quanto a tematiche e a retoriche.
Si può parlare piuttosto di una visione ideologica della Prima guerra mondiale come compimento post-risorgimentale dell’unità della nazione. Tale visione era comune anche presso intellettuali e artisti di origine liberale e di pratica antifascista (quali, fra gli altri, Giovanni Amendola e Piero Calamandrei).

Sia come sia, Morbiducci si mise all’opra nel modo più tradizionale, preparando le sue sculture con una serie di bozzetti e di schizzi, a matita e a pastello, dal vivo.
Visto il carattere un poco accademico di tali pose, è evidente come esse fossero una sorta di pensiero plastico in fieri, che gli permise la sintesi statuaria, formalmente piuttosto riuscita, delle quattro formelle bronzee.

E’ dunque con questo “pensiero plastico in fieri” che mi confronto, considerando i disegni delle Vittorie per quello che sono, e cioè un momento di passaggio, una transizione fra idea ed esecuzione.
Ed è proprio il loro carattere di non-opera, o opera incompiuta, che mi autorizza a sovrapporre loro altre non-opere, o altre opere incompiute, usando delle tecniche frammentarie in mio possesso: sovrapposizioni, sbordamenti, stratificazioni, trasparenze.

In particolare, ho concepito la serie di quattro grandi formati denominata Trasparenze P.M: 1928, che riproduce direttamente le formelle (trasformandole da elementi decorativi a presenze monumentali), come un confronto, appena accennato, con la coeva arte europea: ho immaginato che si richiedesse la stessa prestazione ad artisti costruttivisti, dadaisti, surrealisti, astratti. Le linee sinuose di Morbiducci vengono così interrotte o coperte da segni brutali e talvolta malaccorti che a quelle avanguardie fanno richiamo.
I materiali da me scelti, prodotti dell’industria di massa, contrastano con la preziosità e la perennità del bronzo: fotocopie su carta, reti di zanzariera, teloni di plastica, pannelli di policarbonato, cere da asilo d’infanzia.

Le formelle celebrative della vittoria divengono in tal modo il monumento effimero della forma mutilata.

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Promemoria (Taggia 2005)

Una mostra “performativa”?

Ciò che la mostra di Taggia sul patrimonio culturale e i rischi sismici si propone è costituire un esempio di “memoria performativa”. E’ la proposta di una testimonianza fondata sì sull’indagine storica, sulla ricostruzione per quanto possibile accurata dei fatti avvenuti, ma che non è solo conservazione di conoscenze acquisite: è trasformazione di queste in avvenimento, manifesto, manifestazione e – eventualmente – drammatizzazione. E’ un approccio alle cose del passato e alla loro ri-creazione che richiede metodi e pratiche provenienti dal campo dell’estetica, e che intende superare l’alternativa tra memoria e oblio (bisogna conservare e testimoniare tutto il passato, oppure si può omettere e dimenticare qualcosa, per consentire una pacificazione di vecchie contese?). E’ un’alternativa falsa perché ognuno di questi termini – memoria e oblio – contiene l’altro in sé, lo implica necessariamente.

La mostra organizzata a Taggia nel gennaio-febbraio 2005 nasce da un evento, il terremoto del febbraio 1887, che costituisce una ferita nella storia e nella terra della Liguria di ponente. Evidenziare quanto e come tale ferita sia stata risanata è suo compito. Si vedrà come l’intreccio di reminiscenza e dimenticanza (con una certa prevalenza della seconda) ha creato l’aspetto attuale di quel territorio, assumendo nei fatti una funzione “performativa”.
Il tentativo di restituire allo sguardo ciò che è avvenuto in quell’anno e nei cento che lo hanno seguito – così come quello di mostrare lo stato di quei beni che l’uomo ha impiantato in questi luoghi – non può presentarsi come una mera opera di archiviazione e catalogazione. Per quanto le metafore dell’archivio e del catalogo siano sempre presenti nel percorso dell’esposizione Promemoria, si è preferito quella di “cantiere”. Così come lo stato delle nostre conoscenze è un continuo movimento di farsi e disfarsi, e la geografia stessa di queste terre è fatta di costruzioni e demolizioni, una mostra che vuole rendere conto di ciò non può avere una forma conclusa, né proporre un discorso finito. Una mostra che parla di ferite nel territorio, di cesure nella storia e dei modi e delle opportunità di risanarle o meno, non può non avere lati spigolosi, muri sbrecciati, voci dissonanti. L’aspetto performativo che si menzionava è quella pratica di trasformazione del materiale documentario che – nel renderlo leggibile sotto luci diverse – costituisce l’operazione critica di se stessa e del proprio oggetto.
A questo scopo – con un metodo che è allo stesso tempo filologico ed estetico – si sono usati i mezzi audiovisivi della nostra epoca: gli apparecchi fotografici digitali, i registratori, le videocamere. Nostro intento era precisamente superare il carattere dimostrativo e didattico di un’esposizione scientifica per farne un rendiconto, esaustivo per quanto possibile, ma aperto all’interpretazione – e all’emozione – di un pubblico che è il diretto interessato.

La mostra di Taggia è divisa in tre parti. Esse rispecchiano da una parte le opportunità e le costrizioni del luogo che la ospita – il palazzo Lercari – e rispettano dall’altra il principio della nostra “museografia”: fare con ciò che si trova, lavorare con le disponibilità umane, gli spazi e i materiali locali, intersecare le nostre conoscenze e le nostre pratiche con quelle di chi sul posto vive. Il rapporto che abbiamo cercato sia con l’amministrazione comunale che con il Circolo culturale tabiese che con tutte le persone incontrate è nato da questa convinzione: non si tratta tanto di restituire al territorio le informazioni che dal territorio si sono prese – sebbene “messe in forma” -, quanto di riesaminare insieme con coloro che qui vivono qualche aspetto della nostra temporanea presenza.
Un altro principio ha guidato il lavoro della mezza dozzina di persone che hanno montato l’esposizione: se esistono competenze specifiche, non ci sono mansioni separate. Tutti partecipano all’elaborazione concettuale e tutti danno una mano al montaggio. Ognuno sa cosa gli altri stanno facendo; un’idea di interscambiabilità si sostituisce, per quanto possibile, a quella di specializzazione. Questo è il motivo per cui l’allestimento della mostra di Taggia è stato firmato collettivamente.

Alcune note, infine, sulla struttura di Promemoria.
C’è una prima sala, che abbiamo battezzato Deposito. Questo è il luogo in cui il problema “si pone”, senza che per esso venga accennata alcuna soluzione. Immagini dei luoghi percorsi dalla nostra ricerca, materiale sparso e sedimentato, scarti del nostro lavoro che in negativo danno la forma della mostra, fotografie di edifici danneggiati: “c’è un problema”.
La seconda sala di palazzo Lercari è stata nominata Museo. E’ questo un luogo in cui si presentano documenti. L’allegoria è quella di un museo di storia locale “à l’ancienne”, in cui vengono raccolti, senza distinzioni gerarchiche o di qualità estetica, tutti gli oggetti e i dati che hanno a che fare con un determinato luogo o avvenimento, in questo caso il terremoto del 1887. Dalla profusione di documenti scaturisce l’immaginazione di ciò che un tale avvenimento ha potuto significare, e come possa continuare a essere presente malgrado il tempo trascorso e le necessarie ricostruzioni. Questa sala ospita quindi i materiali di archivio di carattere audiovisivo che abbiamo potuto rintracciare. Tali materiali già indicano alcune delle modalità in cui può rivivere un luogo colpito dalla catastrofe.
Si passa alla terza stanza, il Laboratorio. Così come tutta l’esposizione, essa è stata pensata secondo i principi di sovrapposizione e sbordatura. Così come il presente storico è fatto di stratificazioni, aggiunte, omissioni, riappropriazioni e dimenticanze, i materiali del cantiere che è la grande sala di palazzo Lercari si confondono a tratti fra di loro, si distinguono, tornano a confondersi.
I diversi supporti documentari o elaborati sbordano l’uno sull’altro: i paesaggi fotografici di Vittore Fossati, le fotografie digitali dell’UR8, le carte topografiche e geologiche, le immagini aeree. Si è voluta platealmente dare l’immagine di un intreccio da dipanare, di un diagramma da decifrare. Si è affidato questo “sdipanamento” alle storie esemplari di alcuni oggetti, a quattro microstorie che illustrano in altrettanti film punteggiati da didascalie sonore i modi diversi che hanno gli oggetti di sopravvivere ai cataclismi naturali e all’incuria (o alla cura) dell’uomo per le cose che ha ereditato.
La morale di queste storie è che non c’è una soluzione data al problema posto in partenza, ma tante soluzioni parziali e diverse. La mostra si conclude in questo modo, con un appello all’attenzione e alla cura.

Salvatore Puglia
Gennaio 2005

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Entretien Puglia-Balaÿ, novembre 2009

Salvatore Puglia, Dominique Balaÿ octobre 2009

DB : WebSYNradio propose aux artistes les archives d’UBUWeb comme point de départ : tu les a explorées d’une façon particulière,  peux tu nous faire part de ce  que tu y as trouvé, et qui ?

SP : J’avais auparavant collaboré, de manière ponctuelle, avec des amis musiciens (Rodolphe Burger, Philippe Poirier) pour des pochettes ou des installations. Une fois ou deux ils ont enregistré ma voix et ils en ont fait ce qu’ils ont voulu (voir: Tota’s Tongue de Poirier). Trois ou quatre fois j’ai donné des textes pour des chansons (toujours aux mêmes amis).
Les archives Ubu sont un outil incroyable. J’y ai cherché (et trouvé) les poètes sonores que j’admire (Bernard Heidsieck, Arrigo Lora-Totino) et surtout Demetrio Stratos, dont la rumeur disait en 1979 qu’il était mort à cause des médicaments qu’il prenait pour entretenir et pousser sa voix à des registres jamais atteints.

DB : Tu es cependant rapidement sorti des archives UBU pour nous proposer un ensemble de titres à la coloration très Italienne (E .Morricone) et amicale (R.Burger). Peux-tu expliquer ta sélection ?

SP : Amicale, d’abord, puisque nous sommes fait de l’étoffe dont les amis nous habillent. Mais chez R. Burger j’ai choisi les morceaux les plus poussés dans le sens de l’improvisation et du « bricolage », qui sont ceux de lui que je préfère. Par ailleurs, Burger et Poirier (avec entre autres Yves Dormoy) avaient crée à Strasbourg, au début des années 80, quand je les ai connus, un groupe de « jazz-rock », Oeuvre complète, inspiré par Wilhelm Breuker et les Westbrook, qui a peu vécu et que je regrette beaucoup.
Les morceaux de (ou avec) Demetrio Stratos que j’ai choisis ne couvrent meme pas une dizaine d’années, celles de mon adolescence et de mes vingt ans. Ce laps de temps, assez court, est d’une grande densité. Stratos en est pour moi l’emblème. De la musique pop, aux chansons engagées, au rock progressif, aux expérimentations vocales, il a été toujours loin avant. En ces mêmes années on voyait les films de Fellini et de Sergio Leone (ce dernier, pour se divertir, sans en percevoir le coté subversif), on écoutait le rythme and blues et, pour les plus « maudits » d’entre nous, Iggy Pop. On allait à des concerts gratuits, dans des vallées en Ombrie, par milliers, comme une tribou nomade, pour écouter Carla Bley et Miles Davis. J’ai voulu rendre compte de tout ça ; c’est un peu la colonne sonore d’une éducation en même temps esthétique et politique.

DB : La revue Droit de Cités qui héberge la radio a une vocation philosophique affirmée, du point de vue du profil de ses fondateurs et de ses animateurs, mais aussi de ses enjeux et de ses questionnements et ton travail a été reçu par les philosophes (le texte de Jacques Derrida « Sauver les Phénomènes, Pour Salvatore Puglia » http://spuglia.free.fr/derrida.html, la belle méditation de Philippe Lacoue Labarthe sur le plomb …). Peux tu nous préciser – ce qui intéressera certainement les lecteurs de Droit de Cités autant que les auditeurs de websynradio – quel est ton rapport à la philosophie et à l’histoire ?

SP : Mon rapport à la philosophie est en premier lieu en tant que sujet. C’est à dire que des philosophes (et je dois ajouter à ces deux noms ceux de Cadava, de Fynsk et de Loayza, et celui d’une sociologue, Lapierre) ont été amenés à écrire sur mon travail. Je ne connais pas la raison de ça. Moi-même, je viens du monde de l’écrit, mais j’étais un historien, par engagement, plutôt qu’un « penseur ». Et c’est par la pratique de l’histoire que je suis passé au visuel. J’ai commencé par subtiliser dans les archives tous ces petits papiers qui se glissent dans les fichiers, qui ont servi pour essuyer les plumes ou pour y accueillir des croquis distraits. Je faisais, dans mes heures de loisir, des montages de tous ces papiers, que je ne montrais pas. Un jour j’ai constaté l’insuffisance (ou le manque de passion) de ma recherche en histoire, et les montages sont devenus des tableaux d’abord et des installations ensuite. Une certaine critique du médium photographique, dans sa relation à la mémoire, m’a enfin autorisé à l’utiliser, ce médium, avec une relative liberté, ce qui m’a valu d’être adopté, en France, dans les années 90, dans la mouvance de la « photographie plasticienne ». J’imagine que la relation à l’écrit doit être évidente dans mon travail, et ça doit être la raison pour l’intérêt que des écrivains y ont portés. Et puis, encore une fois, l’aspect amical, le passage d’ami à ami. Mon attitude face à l’archivage, enfin : elle est en même temps de respect et de méfiance. Je sais par expérience combien les archives sont aléatoires et velléitaires, si on les regarde dans un effort de reconstruction d’un monde. Mais je connais la valeur, pour l’imagination et pour la création, de ces bribes sauvés du cataclysme, de ces bouts d’outils déterrés, dont on peut s’appliquer à construire une prolongation hasardeuse.

DEMETRIO’S TONGUE

J’aimerais nommer cette liste Demetrio’s Tongue. Elle est dédiée à ce chanteur grec d’Alexandrie, formé culturellement et politiquement en Italie, passé de la musique pop aux expérimentations vocales et à l’enseignement universitaire, mort à New York d’une maladie du sang, à l’âge de trente-quatre ans, la veille d’un grand concert en son honneur à Milan.
S.Puglia

1/
Playliste – Salvatore Puglia
2/
Time After Time – Miles Davis
3/
Complainte De La Seine – Marianne Faithfull
4/
What Keeps Mankind Alive – Tom Waits
5/
What Keeps Mankind Alive –  W.Burroughs
6/
Pugni chiusi – I Ribelli
7/
Gioia e Rivoluzione  – Area & Demetrio Stratos
8/
Dio è morto  – Nomadi
9/
La Dolce Vita –  Nino Rota
10/
Giu’ La Testa – Ennio Moricone
11/
When a Man Loves a Woman – Otis Redding
12/
Fellini  – Rodolphe Burger
13/
C’est dans la Vallée –  Rodolphe Burger/OlivierCadiot
14/
Tante Elisabeth – Rodolphe Burger/OlivierCadiot
15/
I am a Passenger –  Iggy Pop
16/
Sentire – Philippe Poirier/Salvatore Puglia
17/
Princesse mandchoue – Philippe Poirier
18/
Aphrodite’s Lizard – Kat Onoma
19/
Story Tellers – Yves Dormoy /Rodolphe Burger
20/
Gagarine  – Yves Dormoy /Rodolphe Burger
21/
Tota’s Tongue – Philippe Poirier/Salvatore Puglia
22/
O Tzitziras o Mitziras – Demetrio Stratas
23/
Evaporazione –  Demetrio Stratos

An Art of the Possible, Puglia-Fynsk, 1997

Some time ago, two years perhaps, Puglia sent me the reproduction of an old photograph shadowed with an X-ray image.  It showed a man in a chair in a severe, upright posture, a demonstrative posture of some kind (was this originally for medical purposes?).  He had affixed two red lines from corner to corner, effectively crossing out the image.  On a little scrap of paper, he added his regards and noted that he was involved in a new project that should take about 6 months; his aim, he said, was to destroy the photographic image.  As I prepared for our dialogue, I wondered about the fate of that project.

S.P. –I’ve come to the conclusion that the battle to bring the photographic image into question is doomed to failure.

C.F. –But after all your interventions in the medium of painting, all the work you’ve done with overlays of graphic images of every kind, and then the constant disruptions of the image with writing and archival materials (and this from the very beginning), why all the drama?  And why does it center around photography?  I presume it has to do with questions of historical legacy and testimony, with what I take to be–for you–a historical or even ethical task.  But photography also seems to torment you in some ways.  Bataille (the reference is relevant, I think) evokes in one of his titles a hatred for poetry.  Yours, I think, is a hatred for photography.

S.P. –A long time ago, I saw the images of torture in Bataille’s The Tears of Eros.  From that moment on, my relation with photography was terminated.  I asked myself whether all photography after this image was not its equivalent, and thus comparable to an act of torture.  For several reasons: because it has an affinity with a surgical operation, and then by reason of its role as passive witness before atrocity.  There is a cruelty in the act of photographing a human being.  Whenever the figure is reduced to a sign–a sign with meaning, a schema, a diagram (we see this most dramatically in clinical photography)–there is such an act of torture.  I say to myself that in order to attack this, one must in one’s own turn torture the image.  So it became a matter of traversing, piercing, transpiercing the image as the only possible way of subverting photographic violence, the only way of escaping photographic totalitarianism, the unassailable presence of photographic reproduction.

C.F. –To liberate what?

S.P. –The possible.  The possible of a world, which I can only think in the plural.  Not another possible world, in other words, but the multiplicity of the possible.  So, for example, the image can be doubled with shadow.  One can do more than double, one can multiply and thereby suggest that escape of the image from itself.  The superposition of texts had the same function–of distancing the image from itself.

C.F. –You know that I find in the multiplication of the image a powerful form of reduction.  First there is a kind of suspension–I think of a purgatory or a captivity of some kind; some of your figures remind me of mute ghosts (a strange twist on the clinical capture).  But in the multiplication of the image, there is also a reduction of the image to a 0-degree of representation that liberates it.  The image loses its meaning (as defined in any scientific, medical, historiographic, or monumental form).  It bears a history, to be sure, a mark of history, but it seems to mark more the fact of history itself than any given history.  That’s where I see the liberating potential.

S.P. –Yes, that’s the other possibility.  And it may be that the shadow is the most visible and legible thing.  I don’t mean to introduce a mystic discourse on the shadow as real essence.  That’s not necessary.  But the projection obtained might be the “originary” image, or rather an image in a state of purity, a kind of graphics or signature, or a monogram, as Kracauer says in his famous essay of 1929. One musn’t forget the infinite possibilities in the Greek graphein.
But again, it’s not a matter of the shadow being more real than the object.  The shadow just accompanies us.  Either one is there or one is not there.  When one is dead, one no longer makes a shadow on the earth.  Perhaps it’s just that simple.  One can see the shadow as our ambassador, as our public relations manager.  For Peter Schlemil, it was the only thing that made him acceptable to us.  For my part, I tell myself that in order to reopen communication, one must restore the shadow, and with it the possible.
As for history and testimony, the answer is complicated, because as you know I gave up the discipline of history.  I stopped wanting to demonstrate something about the past, to seek meaning, when the only meaning something has is that it existed, that it should have been possible.  I’d had enough of that mindless positivism that consists in saying: “Look: that’s how it was–I’m going to show you and tell you how it was.”

C.F. –But why photography, exactly?  Is it that our historical imaginary is structured by the photographic image today?  Or are you combatting the overwhelming presence, the omnipresence of reproduced images?

S.P. –On the one hand, there is that omnipresence.  But from the very beginning I was disarticulating the elements of representation.  Even when it was a matter of paintings.  There were always reduced elements; phrases that were extrapolated, transcribed, translated into other languages, sometimes portions of words or letters, sometimes tiny pieces of torn archival material where only a few words were visible.  There was always a dispersion, a spatial explosion and isolated floating elements that were unified only by a kind of context, for example color. (The working protocol was really one of exploring and bringing forth pigments that had been tossed on and then worked with a sponge, so that the support structure and its elements should emerge, slightly hidden.)  Then I started treating the image and writing in the same way.
But in concentrating on the question of the past in a more direct fashion, it became necessary to take on the question of the photographic image itself.  Because it’s true that there is an identification, a kind of superposition of our historical memory with the image itself.  It’s possible that we’ve passed from historiography to iconohistoriography, that our memory depends much more on the image than on written transmission.  And there we have photography and all its variations.  Like I said the first day, needing to use the photograph, it was crucial not to accept that dictat that is the given, saturated image…never to accept it as adequate presentation or as a beautiful object.  In this sense, photographic technique does not interest me.

C.F. –Your relation to history has evolved, hasn’t it?  Your work is more and more focused on the question of history.

S.P. –I think the temporalization has been a choice.  At the outset, the painting tended to escape temporality.

C.F. –I presume you’re speaking of a kind of historicity rather than the temporal factor introduced into the work itself (which I know is important to you).

S.P. –Yes, “temporality” in the sense of dating.  It’s been a way of getting past a rather vague discourse on a supposed origin, an originary state placed in the fog of a common heritage or a common history.  The aim is rather to approach individuals who have lived and have left us a real legacy…and thus to bring together a bit more the questions of legacy and witnessing.  And then, perhaps, a small ideological question: escaping testimony to oneself.  Painterly work tended more, I think, in the direction of a witnessing to one’s own existence.  In the turn to more explicitly historical materials, it was a matter of approaching a responsibility (not purposefully, but as an afterthought): responsibility not only for oneself, but as a saying.  In this sense, photography is like a bridge.  A means to use.  It shouldn’t be central.  It should be a medium for a passage.

C.F. –I’ve been struck by the way your movement away from painting has also distanced you from those strong efforts you made to evoke your Neapolitan background.  I confess that nothing was more beautiful for me than those colors and materials.  I started to see them everywhere.  But you left behind the need to mark that relation.  I don’t see the reference to Italy any longer.

S.P. –On the contrary!  It’s coming back slowly.  I’ll show you…Color, the graphic concept, that writing in space that emerged, like….an anamnesis.  There too, antiquity was involved, and the idea of a legacy, of everything that remained in a fragmentary state.  The act of leaving, of taking my distance from Italy, allowed me to attend to it.  Whereas, when I was too close….What interests me now is the incapacity of people to interrogate what they have done, what they were in the past, the Italian past.  When I see people of the generation of my parents…how they continue to be incapable of self-criticism.  The very fact that they did certain things, more or less by choice, prevents them from having a critical perspective.  It prevents them, fundamentally, from changing.  That fidelity to what has been, as though the capacity to say that one was perhaps mistaken at a certain moment in one’s life represented a mortal danger.  It’s the shock, I think–what scares them is quite simply experience itself, which they know as a kind of shock.  I’m trying to think about that.  For example, I did some work with a small image of my father taken when he was four or five years old.  They dressed him in a fascist uniform, like all the children at the time, and took a picture of him making a fascist salute.  I took that single photo and reproduced it in all sorts of ways, using the negative and overlaying various writings and materials, then an overlay of shadow with colors varying between a very soft pink and a very hard brown, thinking that an image like that could not but present something disquieting, even something horrible.  Because it’s a tender image that nonetheless anticipates everything to come.  An image, and way of working with it too, that plays between the poles of the horrible and the seductive.  So, I presented it with considerable trepidation.  I held an exhibition in Rome.  My father, presented in large format, dozens and dozens of times on a wall.  Of course, he came to the exhibition.  I feared his reaction tremendously.  He could consider himself an object of ridicule and get angry.  Well, it turned out he was delighted, extremely happy.  Why?  Because he was there.  As he had been in the past.  He hadn’t grasped the questioning at all! He was represented, so it was good. The rest was buried. You understand?  The image is good.  We lived, we did that.  It was good because we did it.  We remember; therefore we were.  Therefore it’s good. (Laughter) So in this sense, once again, the battle with photography was lost.

C.F. –There are several fronts there, no?  There is a battle with the seductions of the image–its saturated presence, its character as “given,” as you sometimes put it (by which I understand its capacity to “absorb” reference or seduce one into seeing its relation to the referent as immediate), and then there is its aesthetic side.  On the other hand, there is the (no doubt related) question of the image and its relation to memory.

S.P. –Yes; the stance at the outset is anti-aesthetic, even if one might feel great empathy with a particular object.  But I tend to resist enthusiasm, which serves those involved in imitation.  I believe that this procedure of transforming documents, which approaches a painterly handling, is one that uses the instruments of an aesthetics of taste, but must end by being anti-aesthetic.  But, however disquieting or ambiguous the images, however much I multiply them, it’s difficult to avoid the thing being taken at the end as an aesthetic experience.  Even images that are there to trouble the conscience, even images like that can be perceived as beautiful or seductive.  One can always go wrong.  And there is always the danger of going too far, or transforming the photograph to the point of denaturing it and leaving, well, a mere image–as you can see, there’s no winning.  All one can do is take on the photographic images, haunted as one always is by their power of seduction and substitution, and in all the disgust one feels for their hegemony.  Just as (I own this to Rodolphe Burger, who attributes it to Plato) one can only do politics while being disgusted by politics.  But one must do politics.
As for the question of memory.  Part of my need to torture the image comes from my rage against the need to attach mourning to a sole representation, as to a photo on a tomb.  That one should need to fix or capture memory in this manner, renouncing or abdicating a more inner, more unconscious, and perhaps truer memory.  Instead, one hangs on to a more episodic, punctual memory.  At the same time, I recognize the vital need for such a thing.  It’s always ambiguous.  Yesterday, we read in Klarsfeld’s book [Puglia and I had visited the Centre de Documentation Historique, a museum and library devoted to Holocaust studies, to consult Serge Klarsfeld’s volume on deported French children; the letter to which Puglia refers was displayed in an exhibition sponsored by the Centre] the letter from a young deported girl who in the most extreme danger and affliction wrote to her family: “I want photos–it’s more important than bread.”  One can only respect such a thing.  One must respect it.  But at the same time, I feel a great rage against the incapacity to live in a visual void.  To need always the handrail of the image.  The incapacity to live without handrails.  So a frontal assault is inevitable.  Or to say at least that the image can express something else, or several things.  Give it shadow, cut through it…
Also. on this question of memory.  I have the impression that [historical] consciousness is something that takes us beyond the question of memory.  There is a kind of Scylla and Charybdis here: those two poles of memory treated by the great Soviet psychiatrist, Lurija.  In the first, an individual is condemned to recall every instant, every experience, and cannot rid himself or herself of that obsession.  I believe that corresponds to a modern condition.  We stand in passive fascination before the images of our history, however horrific.  And then there is the related phenomenon we discussed a while ago: memory is good in itself.  Once again: we remember, therefore it’s good.  All expression, all lived experience is good.  I suppose this is a common thing; but in terms of historical reflection, I think it is part of the post-modern mentality.  In any case, I believe that the watchword, “Remember, remember” does not suffice.  It’s only a first stage, and it can even prohibit passage to another kind of memorized experience.  In this respect, I adhere to the position of Claude Lanzmann, who has taken a distance from Spielberg’s obsession with the restitution of what is lost.  Lanzmann puts it this way: “What counts is informing.  In the literal sense: giving a form.  Where is the form?  One adds stories upon stories.  Only works of art can transmit.”
Then there is the other pole, where we have an individual whose memory is scattered, fragmented, dispersed.  This was the case with an officer of the soviet army who had lost his memory after the explosion of a shell and could only recover it (though he never really recovered it) after an uninterrupted work of writing.  He would write the past events, little by little, even if he had forgotten what he had written two lines before.  Through writing, he found his memory piecemeal.  It worked like a leopard skin.  There are very beautiful sentences in which he recounts how he awoke from his state of forgetting after three days; he began to remember Lenin, the spring, the Soviet Union, the fact that he had a sister and a mother.  Whereas, in the other case, the individal suffers from an inability to forget images.  Every episode is linked to something visual. I like to try to move between these two poles.

C.F. –One can certainly see the second in your laborious transcriptions.  You’ve told me how painful it can be to engrave in glass for long hours.  But clearly, in moving between those two poles, you are also seeking to move beyond them.  You spoke of a “memorized experience.”  On other occasions, you’ve spoken of a thought.

S.P. –Of course.  But it is a matter of something more than intention.  And that’s another question I’ve given a great deal of thought to recently. You raised the question of address in our first discussions.  Well, if it is a matter of presenting a photographic image (which, as long as it is photography involves the presentation of some content–something that was there at a given time; that’s inescapable) the concern of an address always locks us into the necessity of a statement, an intended meaning [vouloir-dire] that situates itself finally in the field of good intentions, a veritable scourge in our time.  I’m not against intended meaning per se; but the latter must be forgotten along the way.  It has to be forgotten en route, so that at the other end there is something that stands on its own, something that belongs to the intervening execution but that is already beyond it.  If one remains under the imperative of a statement, there is a kind of contamination–the work will be caught up in that malady that is a problem for so many artists: by which I mean the inability to forget intention, an unrelenting good will.  As for my own concerns as an artist, I’m not there to express myself.  I’ve always seen my work as a process of interpretation…

C.F. –At dinner last night, we discussed the suffocating pressures of the culture industry in Paris.  Ariane [Chottin] maintained that there had perhaps never been less freedom of expression than in recent years.  Every word, every gesture, seems to suffer a specular capture in the space of representation.  No claim can be made in the public space–however authentic–that escapes the play of mirrors and lights.  Each gesture only augments the general effect of capture and evacuation, the general emptying of the act.  At that point, I tried to develop some of my thoughts on a different pragmatics of thought and art, a pragmatics that would not answer to a determinate means/end relation defined by a structure of representation and cultural value, and that would involve a different structure of intellectual relations (a pragmatics whose “object” would be the pragma of existence–something very close to what you called the possible, or “possibles,” of a world).  I even got into my work on Antigone to evoke the ethico-political dimensions of a public claim that would unsettle the symbolic order itself in the name of an exigency of an ethico-political order.  I don’t want to launch into that now, but it seems to me that what you have said about a praxis directed to the possible may correspond to what I was trying to evoke.  I’m very struck by your dual sense of an ethico-political imperative of a historical order, and your willingness to risk an undertaking without any defined telos–a praxis without the guide of any representation of its goal.  And I’m all the more struck by the fact that this is in the very uncertain realm of art, with all its material obscurities.

S.P. –We should come back to that: the choice of engaging matter (with its own properties, always to be discovered) in a dialectic with an idea.  A kind of alchemy.  And we need to define better that to which one responds while underway in this process.  In any case, I think that what one finds, when one loses oneself underway, is a time that is not linear, but, in a sense, immanent and spatial.  And in losing finality and the intention to pass along a message, one finds oneself again as witness to one’s time.  One becomes oneself a stèle.

C.F. –I’d almost prefer to pause and let those words stand without comment.  But I’m struck by that word “alchemy.”

S.P. –Perhaps the word is “metamorphosis.”  I think of it as a kind of metamorphosis.  Let me try to approach it this way.  Things only become real–in art, I mean–when a foreign gaze meets them.  They are addressed to others, so there must be exchange and transmission, there must be communication.  But at the same time, if they are caught up in meaning, if they are too close to the essential topic, too close to a denunciation, say, they will lose their force, their striking force, which derives from an address to the emotions.  The initial pathos must be transformed, coldly, that is, without remaining in that enthusiasm, so that one can propose at the other end an impact that is also emotional and that would touch the consciousness (even though something of the point of departure would be lost).  In that sense, it is a political undertaking.  The least effective and the least rigorous is the desire for a political art, an art of denunciation.  For it becomes kitsch.  What is kitsch but a displacement in scale, a pure citation; that is, a citation of one’s own way of having seen some history.  Statements are not enough. Someone who has chosen to use the weapons of art must use them properly; they are weapons of metamorphosis.  One should consider oneself an agent of metamorphosis.

C.F. –How do you understand that impact on emotion and consciousness?  You’ve also spoken on occasion of a kind of vitality.

S.P. –Well, it’s true that the impact in question involves the cords of sensibility, something on the order of sensation.  Bacon says something like this.  But it seems to me that they are not far from consciousness.  The artist’s own procedure of transformation involves a thought that is unconscious, but that also involves a reflection that leads to what I understand as a visualized thought (not a “visual thought”–that’s a little different).  The result should be something on the order of a little shock, an electro-shock that precedes consciousness by just the tiniest temporal fraction.  But again, one musn’t confuse aesthetic extremism (which, according to the jacobin Adorno is the only justification of the work of art) with the moral extremism that manifests itself in the choice of subjects that are difficult to look at.  Nothing is more boring, off-putting and useless than the latter, since it comes down to being a citation of one’s own audacity.  They are like works that name their object very precisely and thus illustrate it.  Like sex: you show a man performing fellatio.  Or death: you show a cadaver at the morgue.  No, it can’t be a matter of simply showing strong images.  In fact, such things can be very reassuring.  We know it exists: someone has taken on the job of going down to the morgue; or someone thinks they show us sexuality by showing the sexual act.  It’s very reassuring; someone is there to do it in our place.  But it’s only illustration.  It adds nothing.  Or yes, it adds something–it fills a lack in our imaginary.  But it doesn’t open anything. It fills.  Whereas the type of shock I’m talking about is not of the order of the visible, though…how can one put it exactly?…it’s still a form.
But still, it must be something that is unexpected.  Because one must…that is, it’s right to pose the question of originality.  It’s right to ask where one is situated.  Where one situates oneself in relation to the epoch, in relation to what others are doing.  To seek one’s place, to seek to say what the others are not saying.  One can demand the unexpected of oneself and propose it to others.  One starts with an idea and one goes toward an encounter with materials.  That’s where the unexpected must occur.  In that sense, it’s not really a question of a project, but rather a state of ambiguity.

C.F. –To return to what you said about metamorphosis as a political procedure.  I was thinking about your words yesterday on Rodolphe Burger’s political intervention with “EGAL ZERO” [a single CD commenting on the recent political crisis in France at the time of the elections and directed principally at the rise of racist ideology and governmental complicity].  You said you thought it was an important sign of something that is happening now–that such an artist, who has used the most diverse materials in his music, should pass to a more directly political mode, without sacrificing anything of the artistic side.

S.P. –Yes, I think it’s something good.  It’s the result of a state of urgency.  There are moments when one must express oneself in a certain way because there is a state of urgency.  There is nothing worse than lacking battles to fight, even on the aesthetic plane.  But if I were called on to make a painting on the same subject at this point, I don’t think I could do it…There is the whole voluntarist side of the thing I want to avoid.  In the place of will, I want there to be a necessity.  A thing is valid or becomes valid when the one who did it could not do otherwise.  It is not a matter of courage or will, it is a matter of necessity.  A matter, in that sense, of placing oneself in such a position and of choosing that activity in order to live by it.  There must be a necessity, not just an inclination…an effort at imagining being something.  One has to go at it to see if its true.  Once one is involved, one stays because it is necessary.  One couldn’t do otherwise.  In the case of Rodolphe, the same necessity…he couldn’t not do that.

C.F. –You’ve introduced a topic I’ve wanted to take up–your choice of a form of life, if I can put it that way.  I don’t want to make this personal, but I admire tremendously your fidelity to your work, your way of constantly engaging–through very long hours–that undefined movement of transformation we’ve discussed (by which I mean your willful loss of willed direction) and your way of doing it always in relation to a context of working friendships, that is to say, a “company” of people who pursue comparable projects along singular paths, an an-archaic constellation.  The difficult emigration to Paris and the constant travel belong to this commitment, it seems to me.  Given your limited resources, I can’t but be amazed at your endurance, your inventiveness, your stubbornness.  I’m stressing your itinerant side here, but there’s also another that is visible in this atelier.  That is to say, I see you very much as a kind of artisan working with modest means–like the foreign artisans working behind the blinds of what appear to be closed shops in this quartier (unable to work openly for want of the proper papers).  There is a relation to your materials and your site in this, but there is also a class identification of sorts, and a socio-political choice.  You lack, however, the social structure that would support an artisan’s activity.

S.P. –Yes, it’s a more paradoxical position.  On the one hand, an artist like myself stands on the margins of society.  On the other, I depend on the most privileged sectors.  One is not truly independent in such a situation–one depends on people for whom one’s work is a luxury.

C.F. –But it seems to me that the people who are moved to buy your work are in most cases individuals for whom it is not really a luxury, or at least not a superfluous one.  Some would even describe your work as a vital need.  At least I would–for me, it’s a matter of keeping reminders nearby.

S.P. –That’s important, that one sense in the other who recognizes your work and helps support you a sacrifice of some kind, even a little bit of suffering in the choice, because that’s the return for your own sacrifice, what you put into it.  There is nothing more debilitating, nothing empties you more than when you sell something at a high price, even too-high a price, to someone for whom it really doesn’t matter.  This can even be true of a merchant.  I remember an episode once in Morocco where I had to buy several pairs of sandals from a shoemaker.  We spent several hours haggling, each of us developing our arguments.  At the end, when we finally agreed on a price, we were so moved that we fell into each other’s arms.  Yes, an artisan…

C.F. –And there is the political choice.  At the Centre de Documentation, I felt recalled once again to my own political choices.  And most of all, I remembered the importance of politics–the existence of the political, if you will. (I believe that experience has to be undergone constantly and repeatedly–it is furtive by nature.)  “Never to forget”–that also means, never to forget the political.  Not just because the horrors we saw must not be allowed to repeat themselves (and that’s the big question in Paris these days, isn’t it: “Is it happening again?”), but rather because they are repeating themselves, today.  Or not repeating themselves, exactly (“Is it happening again?” is really the wrong question), but assuming always new configurations. It hit me again very strongly.  As though all the little preoccupations, the little phantasms, everything programmed by the technocratic structures of this society of consumption (including important dimensions of my professional life) suddenly fell away.  This is banal, I know.  But it seems to me that your choices as an artist and your relation to history, above all, have something to do with such an experience.  And I feel as though I can understand the fidelity in relation to that experience–your capacity to carry on despite the material challenges and the pressures of a culture that does not exactly encourage such a path.

S.P. –Absolutely.  It involves a kind of reconciliation with oneself.  It’s another kind of engagement.  And I was fortunate to find it…an ethical engagement that takes the form of producing visual objects designed to touch the vitality of the other.  In touching the consciousness of the other, it should also touch and renew their vitality.  In that sense, it’s a political engagement.  That’s the aim of the work of art…in that sense, yes.  And I hope it goes beyond the appeal that the past not be allowed to return.

C.F. –But the endurance is not an easy thing.  And I find it all the more arresting in that it is coupled with a certain lightness.  There is a constant insouciance in your artistic gestures that radicalizes your marginal position.  Perhaps it’s simply your perverse side, but I think something else may be at stake.

S.P. –It’s that one can’t do otherwise.  Once one’s in it, one doesn’t ask too many questions.  You have to go see.  You follow your idea, chase after it in order to see what will come of it.  No questions.  One is carried along by…it demands each time…

C.F. –Let me try to reformulate this.  There is a tremendous self-effacement in your work.  You leave a few traces of your person, but always lightly.  You do things in such a way that someone might well take notice (in the official art world, for example); but there’s an equal chance that you won’t be noticed.  You play at this movement that consists in presenting and effacing.  Even your exhibitions are marked sometimes by lightness.  What’s at stake there?  I don’t know if I’m touching on something you will recognize.  Perhaps it’s just an identification on my part since I tend to withdraw to such a point that people can’t grasp what I’m doing (or worse: they take the withdrawal as a mystifying tactic).  I don’t want to insist on similarities, I’m just trying to bring out something I think I see.

S.P. –Well, there is an aspect of flight.  And then an aspect of self-loss, a self-loss that is at the same time a seeking oneself elsewhere.  Which is sometimes so strong it takes over and makes one forget to promote oneself as someone living today.

C.F. –Indeed.  But there’s also a miming of that movement in your work.  I note that sometimes you present your objects in such a way that they might well not be seen.  For example, those little blocks of transparent resin containing photographs of unidentifiable objects you found in the street.   You leave them around like things in the street.  Or you bring them out like little cards, laying them out quickly to see if there is a response (hardly letting one form) and then gathering them up.  You offer them lightly, and the offer itself can go by almost unnoticed amidst other distractions.  There is a kind of mimesis in that gesture, a miming of your object.

S.P. –Of course.  Neither authority nor demand.  I don’t know if its the right thing to do–just barely to pose what’s been made rather than announcing ostentatiously its presence.

C.F. –But there are other ways of thinking about it.  You could seek  a dialectic with other artists and critics by seeking response, in a more concerted way.

S.P. –It’s not that I’m avoiding such a dialectic.  I even think of myself sometimes as existing essentially in a network of exchange, a communitary tissue of sorts.  Each time someone looks at my work and says something, my route takes a turn–either along the lines of what has been suggested to me, or against them.  So my trajectory is shaped by these encounters.  But the “art world” is another matter.  The problem there, ever since the outset, is that my point of departure in the world of written materials continues to be very present and visible. Which means that the things I do continue to have their feet in disparate domains.  That unsettles many people in any given milieu.  So, without achieving an eminent quality in any domain, they touch on several at a time, say the visual and the conceptual.  Even from a formal point of view, these are not really paintings, not really photography, not really sculpture–and a little bit of each.  That unsettles tremendously; above all in the milieu of art.  When galleries have come to look, it’s been clear that they were troubled by the changes in format: by the fact that it starts off from a pictural basis, with colors on a canvas, then passes to a kind of collage with an overlay of writing.  Then photography, and the photography is enframed by lead because there is also radiography (among other reasons).  And then the radiography becomes so transparent that the object detaches from the wall to produce a shadow.  And then it detaches from the wall again to stand up in the midst of a space and there is an additional superposition of colored images.  After, that image becomes absolutely linear, suspended like a shroud.  Even if I or someone close to me can find a unifying discourse for all of this, someone who is to represent the work hardly knows what it is he or she is representing.  Because there’s no signature.  So there are very clear reasons for this position of marginality.  Which is not to say that it’s something I want to claim; there’s nothing to defend in the limitations it brings.  Work doesn’t go on if one can’t pay the rent.  But the fact is, I’ve taken a different route from the one to which I think you’ve alluded.  I live in and by that network of encounters.  That’s what I “represent” in my capacity as artisan, if you will: that community.  But it’s clear that this is a type of choice that presupposes a kind of sobriety and a dogged persistence in everyday work; it presupposes a consciousness in relation to certain things.  It’s important not to have too noisy a relation to what one does.  A practice that is not too humble, but sober.

C.F. –Sober; but there’s also that humorous side.

S.P. –Is it a kind of auto-commiseration?

C.F. –Self-irony, you mean?  I don’t think so.

S.P. –Sure: “Look how they put me in a jar, like a fish in a jar.”  It’s the irony of the pitre chatié.

C.F. –Not at all.  In any case, it’s not the essential.  Let’s take the recent work with resin, since you’ve just alluded to it.  I presume you were referring to those stands holding the resin pieces containing photographic imprints or even things like the skins of fish; they stand about like museum signs, a signalétique, you call them.  I find them enormously parodic.
S.P. –The question I’m working through there has to do with containment, and a kind of signalling.

C.F. –It strikes me as a form of allegory.  But go ahead.

S.P. –Well, just like the mortuary mask (so admired by Döblin in his famous preface to Sander’s volume on photography), the resin is supposed to conserve the appearance, the visible form of something that was living.  It’s close to taxidermy, that desperate attempt on the part of scientists to conserve the form of the appearance a futura memoria, for a future memory of something that is no longer.  I redoubled this procedure by inscribing photography into it, and by englobing the photograph in resin, or by taking the image with the resin.  So, I’m thinking about taxidermy there, “naturalized” animals that are placed in a “living” position.  It’s the question of the museum, of the impossibility of a museum of natural history, of living things.  There is an expression in Naples; they speak of the “third death” of a fish.  The fish dies three times.  The first is when he is caught, the second is when he is consumed (this is the beautiful death where he is prepared and eaten).  The last does not belong to his “biography,” and is actually the second.  In the market, they attach a string to the tail and to the head, drawing it in such a way that the fish appears to be jumping.  Then they encase the fish in ice and remove the string.  That’s how he’s presented, in that simulacrum of life.  They bend him so that he is presented and sold as though he were living.  It’s as though he were a statue of himself, not something to eat.  That’s what I’m doing with the resin, more or less–a parody of what the taxidermists do in a museum.  It’s a matter of representing the third death of the animal.  You notice, by the way, that there is no writing this time. There are two superimposed images of animals.  I’m certain that there is an unconscious relation with what you discuss in your text on Bacon regarding the animal, at the limit of language.

C.F. –Are you seeking something archaic in that process?

S.P. –No, at least not in the sense of a search for an origin.  What’s interesting, as Deleuze says, is neither the beginning nor the end.  It’s the middle, where we are and where things come about.  No, it’s something like an ecce animale.  Look what they did with him.  Look.

C.F. –So there is a great protest, but in the form of an extreme parody.

S.P. –Yes, parody; obviously there’s parody of the whole relation to memory housed in the museum and of certain aspects of the scientific undertaking.

C.F. –But there’s also a more fundamental humour.  There is always humour in your art.  The mobile stèles, for example.  One has to laugh.

S.P. –Yes, they take away even the right to mourning, or they oblige one to carry it with one, instead of leaving it on a column designed for that purpose.  And now I’m a mortician for fish.  You know that you must be careful in the market in Naples.  Since the sign of freshness in fish is red eyes, there are vendors who go so far as to add a little red paint to the eyes.

C.F. –I suspect you’re taking my words in the direction of self- irony again.  There is that side of your work, of course, and sometimes you push it pretty far.  But that’s not the essential in what I’m trying to get at.  I think rather that it’s the arrival of ideas that makes you laugh.  In following the ideas, you laugh.  It’s not irony.  It’s humour in relation to what comes, in relation to the fact that ideas arrive and continue to arrive with each additional step.  Self-irony can be a lapse in relation to the work.  I don’t mean to be presumptuous, but I think that what I am pointing at is very different.
S.P. –No…my hesitation is just that I hadn’t thought of that element.  Perhaps the idea is born in a movement of humour, but…It’s curious because I have always thought that humour was ultimately an incapacity to take a distance from oneself. But I think you have something there.  It’s true that when you look at the wrapped-up works of art [Puglia has been collecting photos of monuments and works of art wrapped for protection during the second world war], you want to laugh a little.

C.F. –It’s not about staying with oneself at all–that’s the whole difference between humour and irony, at least as the French language gives it to us.  In irony, there is always self-relation, even in an abyssal movement of self-negation; in humour it’s more a movement of liberation in relation to the self.

S.P. –And discovery of the other, is that what you mean?

C.F. –Yes, humour is a movement of exposition, of being exposed and assuming exposure.

S.P. –In any case, whether it be humour or….there is an aspect, how shall I say, of….let us say an aspect of tenderness.  Because it seems to me that humour presupposes a form of attendrissement, and thus a pathos (if we think the latter in relation to being moved or touched and not as a sentimentality).  Like the old man who is respectable but already senile.  Like the fish in a ridiculous position, like wrapped-up monuments, or the tiger that has been opened up in an anatomy experiment.  I always sense, there, subjects that have been stolen from themselves, violated, or alienated from themselves.  In fact, I indulge in the third death, this transformation of something dead or forgotten into the simulacrum of something living, indeed all of this work in relation to legacy, almost reluctantly.  I experience almost a regret over the fact that this alchemy, this sea-change, can be done.  And there is no doubt that there is a ludicrous side to the process, at least in the works on the museum, natural history, or the museum that is our life.  But one can also say that what has been forgotten or left aside (hence the necessity of archival work and flea-markets) can also re-suscitate, prompt anew a vitality in those who look.  There is, despite everything, an appeal to the fact that there is a possible.  It is not just a mourning, it is an affirmation.  It’s true that it starts from a respect–the kind of respect one has for a grandfather, old and a little bit out of it.  Respect and proximity.  So one speaks of what is lost, and the fact of naming is a first articulation along the path of a saving–though one can never truly save.  But there is that option offered by saying or naming, sometimes by showing.  Showing can be a bit like a silent discourse in its effect.  One shows what could be.

C.F. –So Derrida was perhaps on the mark in writing about what he called your attempt to save the phenomenon.
But I’m reminded now of the response you’ve given me regarding the motif of crucifixion.  That you feel closer to the pietà, even though you have turned more than once to the crucifixion itself with an image that is clearly pagan.

S.P. –It’s a magnificent invention, that god who allowed himself….But the vertical figure is too direct.  It’s hard to do anything that with that vertical, face to face confrontation.  I prefer the supine figure.  And I think I’m closer to the Stabat Mater, closer to the survivor, the one who has lost someone.  Because at the heart of it, there is the idea of surviving to bear witness.  Not being religious, I don’t see in that image a resurrection to come.  In the pietà, I see what remains.

From: Christopher Fynsk, Infant Figures, Stanford 2000, pp. 147-164

IRWIP (2005)

Comunicazione: “Il test pseudo-isocromatico di Ishihara e la sua variante Puglia”

1.
Nel 1917 il medico militare e futuro decano dell’Università Imperiale di Tokyo, professor Shibaru Ishihara (1879-1963), che era stato allievo di Stock a Jena, di Axenfeld a Freiburg im Breisgau e di von Hess a Monaco di Baviera prima di essere costretto a tornare in patria allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, mise a punto un sistema di riconoscimento del daltonismo che è tuttora praticato, e di cui tutti coloro che hanno passato la tre giorni per il servizio militare sono a conoscenza.
In una serie di dischi colorati con svariati inchiostri (fino a nove diversi) vengono tracciati cerchi e punti di dimensione e luminosità variabile, fatto che rende indistinguibile, se non per il tipo di colore, un determinato segno che si celasse nell’insieme. Ad esempio, un daltonico deuteropatico difficilmente distinguerà un segno rosso su di un fondo a dominante verde.
Il test cosiddetto “pseudo-isocromatico” di Ishihara – la cui versione completa è costituita di 38 tavole – è particolarmente affidabile (al 98%) nell’individuazione delle discromatopsie ereditarie dei protanopi e dei deuteranopi.
Le tavole da 1 a 25 presentano dei numeri arabi. I numeri sono i segni la cui lettura è comune a occidentali e orientali, ed è certo questo il motivo per cui sono stati impiegati nella versione internazionale del test; né le lettere dell’alfabeto latino, né i pittogrammi cinesi, né i geroglifici egizi sarebbero stati altrettanto utilizzabili.
Le tavole da 26 a 38 sono pensati per gli analfabeti o i bambini: vi sono tracciati percorsi sinuosi, che vanno seguiti dall’esaminando con l’uso di una penna o di un dito.

2.
La serie di lavori che qui umilmente propongo formano una variante culturale al test di Ishihara. Essa è applicabile tanto agli illetterati quanto alle persone alfabetizzate di ogni razza e colore: occorre giusto che esaminante e esaminando si intendano nel chiamare le cose con il loro nome.
Per finalizzare la mia umile proposta, ho riadattato una prova per bambini dalla vista offesa, correntemente in uso nei servizi oftalmici degli ospedali francesi: trattasi del test optometrico di R. Rossano e J-B. Weiss-Inserm, che prevede il riconoscimento di alcune icone familiari alla nostra infanzia: autovettura, bicicletta, cane, albero, gallina, falce di luna.
Non è senza una qualche fierezza che propongo l’uso del mio test per le deficienze cromatiche. In quanto pittore e – beninteso – specialista della percezione, della visione e – conseguentemente – del colore, non potevo non rivolgermi con empatia a quell’8% della popolazione mondiale che – in media – non distingue pertinentemente tutta la tavolozza del mondo che ci circonda, e quest’umile sintesi Ishihara-Rossano-Weiss-Inserm-Puglia lo aiuterà meglio a realizzare ciò che si sta perdendo.

Futuro postumo, 2004.

… un immenso deserto lunare …

Per questo mio lavoro di accompagnamento iconografico al testo di Piero Calamandrei ho usato un principio di stratificazione, a partire da tre elementi documentari contemporanei fra di loro, che ho disposto come livelli parzialmente compenetrati. I tre livelli si coprono reciprocamente oppure si leggono l’uno malgrado l’altro. Più che sostegno reciproco, insomma, c’è contraddizione fra i vari strati. Il forte chiaroscuro e una certa rudezza della composizione sottolineano questo principio.
Come sfondo delle illustrazioni a Futuro postumo ho scelto fotografie tratte da un volume, Romantisches Deutschland, pubblicato in quegli stessi anni ‘50 in cui lo scrittore concepiva il suo racconto della fine dell’uomo. Le immagini di questo album fotografico mostrano una Germania del secondo dopoguerra nella quale nulla sembra essere avvenuto. Non vi è alcuna traccia visibile delle distruzioni del conflitto né degli eventi epocali che su quella terra erano occorsi. Una tale descrizione a-temporale e fermata pare appunto denunciare, suo malgrado, quei luoghi dell’occidente come la scena finale della narrazione storica progressiva.
Mi è parso opportuno scegliere un tale sfondo per le mie sovrapposizioni: così come in quelle immagini del dopoguerra non esiste traccia della catastrofe avvenuta, allo stesso modo nel testo di Calamandrei la distruzione avviene senza traccia visibile, se non è l’improvvisa assenza del fattore umano. E nelle immagini di Romantisches Deutschland – nella rinuncia a mostrare un contesto storico – sono proprio i “personaggi” a mancare. Non ci sono uomini in quelle sontuose fotografie, e tanto meno tracce della contemporaneità. Questo aspetto, insieme con quello dell’assenza di ogni approccio al passato che non fosse quello di una sorta di conservazione aprioristica del “patrimonio culturale”, mi ha autorizzato a trasformare quei documenti iconografici: li ho ingranditi fino a sgranarli – rendendoli astratti e fantomatici – e li ho deformati – allungandoli in una sorta di anamorfosi che è un modo di reintrodurre un aspetto di precarietà in un’immagine data una volta per tutte.
A questi fondi ho sovrapposto tavole, fotografie e disegni tratti dalle enciclopedie dell’epoca (in particolare le appendici 1949-1960 dell’Enciclopedia italiana) e illustranti i progressi delle scienze e delle tecniche; fra tutti ho scelto quelli che mi richiamavano le “magnifiche sorti” della tecnologia occidentale. La mia ricerca lessicale si è svolta spuntando il testo di Calamandrei e traendone gli accostamenti forse meno letterali ma più rispondenti a un immaginario fantascientifico di quegli anni: “raggio di azione”, “deserto lunare”, “giroscopio stratosferico”, “matematica sublime”, “disgregazione atomica per risonanza”, “musica atomica”.
Il terzo elemento delle sovrapposizioni è stato fornito dal manoscritto stesso di Piero: ho utilizzato piuttosto l’aspetto grafico della sua scrittura, che allo stesso tempo rivela una sorta di precisa spontaneità e mostra i ripensamenti e le cancellature sui fogli che l’autore si trovava sotto mano. Non c’è corrispondenza descrittiva fra documento e illustrazione; ho usato la grafia riprodotta piuttosto come un leitmotiv. Il riferimento diretto al testo – come si deve in un libro illustrato – è fornito dalla didascalia a stampa che accompagna ogni immagine.

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Ces estampes sont une partie des illustrations au récit fantastique de Piero Calamandrei Futuro postumo, testi inediti 1950, Le Balze, Montepulciano, 2004, où l’écrivain imagine un monde d’où le genre humain – à la suite de la catastrophe nucléaire – serait absent. Elles présentent trois couches superposées: les paysages vides de Romantisches Deutschland, ouvrage photographique paru dans les années ’50; des fragments du manuscrit de Calamandrei, qui date de 1950; des planches techniques d’après des encyclopédies parues en ces mêmes années ou bien issues d’ouvrages anthropologiques (Le geste et la parole d’André Leroi-Gourhan, notamment).

Ex voto 1990-2006

Video Ex voto 2006, Espace Commines

 

Déjà, Group show at the Espace Commines

 

Antiquarium (2004)

Galleria Del Borgo,
Roma, dicembre 2004

Un deposito, un ricettacolo di cose antiche, di frammenti sparsi del passato, è un antiquarium. Tali frammenti della storia possono essere radunati per uno scopo conservativo oppure per essere rimessi in una circolazione che non corrisponde alla loro destinazione originaria. Chi visiti oggi un antiquarium è testimone del futuro postumo degli oggetti costì riuniti.
L’espressione “futuro postumo” è forse un ossimoro (ciò che deve ancora accadere, non è già avvenuto). Pur tuttavia mi pare appropriata per dire il principio soggiacente a questa esposizione presso la galleria Del Borgo: poiché il futuro del mio lavoro d’artista – indipendentemente dal suo grado di qualità – sarà retrospettivo, proietto fin d’ora le mie immagini nel passato.
Più che di pubblicare in vita pagine postume, si tratta qui di essere coerentemente “occasionalista” e fondersi del tutto nel contesto dato, che è quello di una galleria antiquaria con una propria storia e con una propria politica. Nella mostra precedente si scelse il confronto diretto – a partire dalla collezione stessa del gallerista – con la storia dell’arte e con le sue produzioni forse minori ma espressioni di un “saper fare” costitutivo della nostra eredità artistica: nel declinare in varie maniere il tema del panneggio, nel “contemporaneizzare” i disegni antichi usando – quasi a citazione – di tutte le tecniche possibili, creammo uno spazio bianco e in questo spazio facemmo una “installazione”, creammo cioè un luogo artificiale.
In questa nuova occasione il nostro approccio è stato differente. Considerare il proprio lavoro come un reperto d’archeologia o come un oggetto d’antiquariato non è – credo – un atto di presunzione. Si tratta piuttosto di un’ottica di ridimensionamento, di un gesto di misura: così come la sanguigna di un pittore di media levatura della Roma barocca può qui trovarsi fra un armadio toscano del seicento e un cassone rinascimentale, un mio inchiostro potrebbe ben finire anonimamente, fra un secolo o due, accanto a un’Olivetti Lettera 22 e a una radio Blaupunkt del 1966; tutto ciò che avrebbe in comune con questi oggetti sarebbe un simile statuto di merce pregiata. E, ormai distaccato dal corpus della mia opera complessiva, quell’inchiostro avrebbe un valore del tutto suo, del tutto indipendente dalla mia persona e – infine – esatto.
Ci si è applicati, insieme con i curatori della galleria, a un esercizio che è allo stesso tempo mercantile ed estetico. Gli accostamenti e i rimandi fra i miei lavori (scelti fra quelli prodotti nell’arco degli ultimi quindici anni) e gli oggetti d’arte antica rispondono tanto a suggestioni formali quanto a contrasti ricercati: si intende mostrare l’acquisita libertà di ogni singolo elemento e il suo dialogare con gli altri in una storicizzazione datagli dalla natura stessa del luogo in cui si sono trovati.
E se di esercizio storicizzante si tratta, non si fa spazio intorno alle opere, non si fa loro intorno un’aura di parete bianca. Al contrario le si immerge in un horror vacui di specchiere rococò, paesaggi post-poussiniani e lampadari genovesi, per verificare insieme con il cortese pubblico se riescano ad uscirsene.

Ritratto dell’artista da figliuol prodigo (2004)

01.
Espatriato permanente, eterno ritornante, l’artista è colui che ha lasciato una comunità d’origine, rimanendo sul luogo o cambiando di paese.
La comunità è stata lasciata, per seguire una ricerca estetica radicale o un bisogno di allontanamento fisico, quando è stato evidente come una collettività alla ricerca di soluzioni ai problemi concreti spingesse ai margini la creatività individuale. Relegata al ruolo di attività da tempo libero, l’esercizio della creatività prendeva il marchio dell’adolescenza prolungata, assumeva la colpa di chi apparentemente dispone di tutto il proprio tempo. La partenza, l’isolamento, le difficoltà materiali, parevano quindi l’espiazione necessaria. Più che di una scelta, si è trattato del riconoscimento di una condizione. La materia abbastanza impalpabile che si riconosce generalmente come “arte” ha fornito un polo alternativo, un parapetto abbordabile al bisogno immediato di cambiamento. Proprio nel momento di “mettere la testa a posto” ce n’è uno che volta le spalle e prende un cammino solitario. Più tardi c’è stato il bisogno di trasformare la defezione in forma. Questo esperimento può riuscire o meno; questo è uno dei pochi campi in cui non ci sono mezze misure e occorre andare a vedere per saperlo.

02
Nel rigettare la sua origine l’artista ha dunque trovato una nuova posizione. Ma come può accadere che, nata da un’infedeltà a un percorso generazionale, questa divenga una posizione di rappresentanza della comunità?
Senza più testimoni compiacenti né compagni di strada, l’artista giunto a età matura ha bisogno di platea, e la sua platea ideale sarà sempre quella da cui non ha potuto essere seguito. L’artista ha bisogno di sapere cosa è diventato: tornerà sempre alla comunità di origine, per rispecchiarsi in lei, carpirne di nuovo l’affetto e poterla di nuovo abbandonare. In questo movimento di ripresa e di abbandono, di va e di vieni, di traduzione fra il passato personale e il presente pubblico, di trasmissione di un’esperienza nell’altra, è – indipendentemente dalla riuscita creativa e dal riconoscimento sociale – il senso storico della sua figura. Egli viene da un gruppo sociale che, consacratosi all’impegno politico negli anni dell’adolescenza e della formazione universitaria, ne è uscito senza attitudini particolari – salvo una certa capacità di critica e di interpretazione delle cose – pur rimanendo marcato da un senso vago di “dover” essere qualcosa, da un desiderio di “fare la cosa giusta”. Poi c’è stata la vita che si è vissuta; e colui che ha scelto la vita d’artista, la vita difficile, appare a posteriori come il più fedele a quello spirito del “non potere non” essere qualcosa. E’ come se egli – come un figliuol prodigo – non avesse più avuto biografia. In ogni modo la sua biografia è celata dietro le opere che mostra. A volte egli pare la mascotte di questa comunità desueta che fugacemente si rispecchia in lui. Egli ha raccolto qualcosa che è stato dimenticato dagli altri lungo la strada.

03.
Nella ripresa e nel sollevamento delle cose posate e accantonate sta il ruolo, se ce n’è uno, del creatore. Allo stesso tempo egli è colui che prende sulla proprie spalle una parte sacrificata dagli altri e colui che cede agli altri il peso della propria sussistenza (diventando il loro bambino). Ecco perché l’artista è in ogni modo l’artista del villaggio, della classe, della famiglia. Egli è un artefice che produce immagini, memoria ed esperienza estetica per lo stesso ambiente che fronteggia come un eterno espatriato. La comunità che egli rappresenta non è quella dei propri simili, dei propri colleghi creatori (scrittori, compositori, attori), ma quella – svanita e potenziale allo stesso tempo – di coloro che nel corso degli anni hanno fornito il materiale della sua opera. Memorie latenti, discorsi interrotti, forme appena abbozzate, conflitti sedimentati sono la materia di cui fa modello. Ma, più che un facitore, egli è un attore, poiché mette le cose in movimento e poiché la sua attività è inconcepibile al di fuori dello scambio. Tale scambio non è solo quello fra le sue opere e il denaro altrui, ma è quello degli incontri che danno vita a una forma. Dice Nietzsche: “ogni artista non dispone solamente della propria intelligenza, ma anche di quella dei suoi amici”.

04
Dalle osservazioni – pur generiche – che precedono si può inferire quanto sia posticcia l’immagine del pittore o dello scultore solitario e sofferente nel suo studio, e quanto siano attardati gli artisti plastici che ancora vedono se stessi come produttori di immagini compiute, finite in sé, che vengono apposte al muro o appese nello spazio ad attendere il fruitore annunciato. Questa immagine modernista deve quantomeno accompagnarsi a una serie di attività collaterali e disperse. Così come una volta le conversazioni fra artisti giravano intorno ai soliti temi lamentosi, come fare a pagare l’affitto dello studio, come fare a far venire il critico o il gallerista, ora si parla di come trovare una buona borsa su Internet e di come confezionare il dossier per il ministero. E’ cambiato il soggetto dei discorsi, non la loro natura, che è quella di evitare la questione agghiacciante e paurosa: la qualità del proprio lavoro, la riuscita o il fallimento di quella rottura originaria, il ricorrente ritorno della domanda: “ma ne valeva la pena?
Il creatore diventa ubiquo. Raccoglie storie e tratta forme lì dove viaggia, che sia a Hong Kong o alla biblioteca municipale. Adatta e trasforma gli spazi in cui si trova. Affida allo scritto e all’Internet la rappresentanza di se stesso e della rappresentanza stessa fa arte. L’uso del computer ha ridimensionato il problema dello spazio; il volume dello studio non ha tanto più importanza come luogo privilegiato di produzione, quanto come luogo di deposito o di raccoglimento. Per poter sopravvivere, pare obbligatorio trasformarsi in “airport artist”, in concepitore di immagini e istruzioni spedite per via informatica a tecnici che le realizzeranno all’altro capo del mondo. L’artista non vive più nell’attesa del visitatore, diventa visitatore, torna e riappare come visitante.
Diventando ubiquo, diviene anche intercambiabile. La conoscenza istantanea di ciò che si fa intorno, l’omogeneizzazione dell’insegnamento artistico e l’accettazione di tutte le pratiche possibili fanno sì che non si possa più dire da dov’è che viene un certo autore, fanno sì che la sua madrelingua o la sua nazionalità non siano più elementi da tenere in conto. Si prenda un qualunque catalogo di fiera d’arte internazionale, si coprano i nomi sotto le opere e si provi a riempire gli spazi vuoti a fianco delle diciture Nato a… Il… Vive a… Si indovineranno frequentemente gli anni di nascita, raramente i luoghi.

05
Senza più origine, l’artista non è più originale. Sarà forse globale, ma non è più locale.
Occorrerebbe offrirgli parcelle di origine e frammenti di esperienza, tappe di percorso e punti di ristoro intellettuali, perché si “de-internazionalizzi” e “de-specializzi” un poco… Offrirgli la possibilità di posarsi, per un tempo determinato, in un luogo che non cerca né di essere “professionale” né di somigliare a una scatola bianca, ma piuttosto a un trespolo in più su cui posarsi prima di ripartire.
Considerare l’artista come un figliuol prodigo (e non come un enfant prodige), che si accoglie senza nulla domandargli, che si riceve come se lo si riconoscesse, non significa restituirgli un radicamento impossibile quanto una comunità temporanea e una platea benevola da sedurre e da abbandonare (o davanti alla quale “mettersi alla gogna”).
Si dispone di uno spazio, di materiale, di cognizioni tecniche, di forza lavoro: la questione non è tanto “invitare” ad approfittarne, provando così un atteggiamento di omaggio o di condiscendenza verso il “povero” artista che abbisogna di strutture per poter creare e di fondi per poter sopravvivere. Non gli si chiede di esibire il curriculum vitae. Lo si accoglie come se stesse tornando a casa dopo una lunga assenza e riprendesse semplicemente il suo posto fra i familiari. Dare familiarità, se non si può dare origine. Porsi come fornitori e scambiatori d’intelligenza, secondo la formula di Nietzsche sopraccitata.
Proporsi come prestatori di manodopera e trasportatori, perché l’attività artistica non è “ozio creativo” ma sforzo con o senza retribuzione. Lasciarsi usare.

06
Evidentemente, l’artista che qui si ritrae sono io.
Il tema da svolgere, secondo quanto richiestomi dal maestro Donnini, era la possibilità di una “residenza d’artista” a Roma. Spero di avere illustrato il senso possibile di una residenza per gli artisti espatriati di passaggio a casa. E’ il senso che la mia esperienza mi induce a riconoscergli.

Salvatore Puglia
Inverno 2004

bosch

La filosofia nel boudoir (2003)

Vietri sul Mare è una cittadina di quattro o cinquemila abitanti, incastonata su un promontorio erto, all’imbocco della costiera amalfitana.
Fin dai tempi preistorici, grazie a una corrente che scende lungo la costa tirrenica, da nord a sud, e che porta le imbarcazioni verso la Sicilia, i commercianti vietresi potevano esportare il vasellame prodotto con l’argilla scavata a Ogliara, una frazione di Salerno.
Ancora oggi la fabbricazione artigianale e semi-industriale di terraglie e di maioliche è l’attività principale di questa amena località campana. E Vietri ha sempre attirato artisti vagabondi, cui ha offerto possibilità di lavoro e ospitalità. Lo stile stesso della ceramica vietrese, il segno un po’ naif un po’ sincretico che la fa riconoscere immediatamente, è il risultato dell’incontro, negli anni ’20, fra pittori tedeschi di ispirazione modernista e artigiani locali dalle provate capacità.
Tutto ciò che è segno, nelle strade e nelle piazze di Vietri, è in ceramica dipinta: i rivestimenti delle facciate, le insegne dei negozi, i cartelli stradali. I balconi riempiti di vasi, di statuette e di varia animalia, così come le cupole delle chiese coperte di piastrelle verdi e gialle, contribuiscono a fare di questa località un gaio trionfo dell’horror vacui fittile.
Se si ha la fortuna di avere amici che vivono nella cittadina, si può essere accompagnati in un laboratorio ed essere presentati al mastro. Si cerca di spiegare cosa si intende fare. Ma è un amico che vi ha portato, non c’è bisogno di grandi discorsi: vi si prepara il vostro posto, vi si sistema uno sgabello davanti a un tornio, vi si procura una ciotola del colore che avrete scelto, un blu di Delft, per esempio, a imitazione degli azulejos, che a loro volta imitavano la porcellana importata dalla Cina. A lato del vostro sgabello viene sistemato un carrello di piastrelle smaltate, pronte per essere dipinte.
Sotto lo sguardo curioso degli operai, che si chiedono di quali abilità darete prova, vi troverete nella situazione di decidere rapidamente in che maniera coprire di segni queste mattonelle. Avrete deciso di eseguire una parodia di arte popolare, con le sue figurazioni precise e ripetitive, con i suoi proverbi scritti in bella calligrafia. Avrete deciso di apporre a queste superfici un testo filosofico, pur sapendo che quella non è la superficie destinata a ricevere una tale fatica di amanuense. Tirate un libro fuori della tasca, un testo misto di metafisica e di oscenità, un libro scritto in una lingua straniera: non avete voglia che ciò che trascrivete sia leggibile.
Vi mettete all’opra, con una mano malabile che non vi obbedisce. Il pennello va lì dove vuole; lo lasciate fare; in fondo vi conviene, questa redazione in brutta copia di un bel testo. Infine i vostri vicini non ne possono più di vedervi soffrire; ce n’è uno che si alza dal suo posto e viene a dirvi – gentilmente – che non state usando il buon pennello, che quello lì è il pennello sbagliato. Cambiate strumento, ma anche quello buono va lì dove vuole lui. Dopo qualche ora si sono finalmente stancati di divertirsi alle vostre spalle e capiscono che non c’è niente da fare; vi lasciano tranquillo. Siete arrivati alla terza pagina della filosofia nel boudoir, avete calligrafato cinquanta mattonelle e non ne potete più, è adesso che la vostra mano è libera davvero e scrive ciò che vuole, è presto finita la giornata lavorativa, e il bello è là da venire.

2003

Per le relative immagini, andare su: La philosophie dans le boudoir (grazie)

Erranze intrecciate F01 (2002)

Feuilleton 01

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20 novembre 2002. Sono tornato al cimitero dei cani. Con la bussola che mi ero comprato ieri al bazar pakistano ho definito la direzione verso cui guarda l’immagine smaltata di Kiki, scimmietta ammaestrata lì sepolta dal suo anonimo e amoroso proprietario, in una data imprecisata fra il 1890, anno di fondazione del cimitero di Asnières, e il 1996, quando lo visitai per la prima volta e presi in fotografia la lapide che più delle altre mi aveva commosso.
A 105 gradi Est-Sud Est si rivolge lo sguardo di Kiki. Mi è parso opportuno trovarle al più presto un compagno che, forse altrettanto fermato nel tempo, potesse stabilire con lei una muta e –certo- finora inconsapevole comunicazione. Ho lasciato quindi Asnières e, rimontato in sella alla bicicletta leggera e dalle sette marce che Silvie mi ha regalato –previa spesa di riparazione- tre settimane fa, mi sono portato a Maisons-Alfort, che sta oltre Charenton, dall’altro lato del Bois de Vincennes. E’ una di quelle giornate parigine, in cui all’avventuroso ciclista pare di fendere una quinta di pulviscolo vaporoso e caliginoso, che respinge tuttavia il freddo estremo e, dopo la prima salita, si addensa in un ulteriore strato di umidità intorno al corpo, che fa da contrappeso al sudore lanuginoso che già copre l’epidermide e trasforma la bicicletta in una sauna a due ruote.
Se sono andato al Museo di medicina veterinaria di Maisons-Alfort è a causa di W. G. Sebald. Nelle ultime pagine del suo libro, Austerlitz, Sebald erra per queste parti della città di Parigi e dei suoi suburbi, i quartieri del sud e del sud-est, dove grandi trasformazioni edilizie cancellano quella che rimaneva come una enclave proto-industriale lungo il bordo della Senna. E’ in queste pagine che Sebald stende il suo più bel pezzo di furia intellettuale, è qui che inveisce –nel modo più argomentato e con tutte le ragioni del mondo- contro la nuova, Très Grande Bibliothèque.

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Ho pedalato sul Lungosenna, davanti alle quattro torri morte della biblioteca nazionale, distogliendone lo sguardo per attardarlo invece sulle sobrie arcate del ponte di Tolbiac, sui due silos rimasti sul greto del fiume e sui pochi mucchi di ghiaia che presto nessuna chiatta verrà più a caricare.

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Alla Scuola nazionale di veterinaria non ho incontrato, una volta superate le scuderie a forma di ferro di cavallo, il vecchio guardiano con il fez descritto da Jaques Austerlitz, e il biglietto d’ingresso non somigliava a quello che –come racconta Sebald alla pagina 282 dell’edizione italiana- gli viene da costui teso “da sopra il tavolino del bistrò al quale sedevamo, quasi fosse qualcosa di affatto particolare” e che lo scrittore riproduce in fondo alla pagina 281. (1)

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Il mio guardiano era un nero corpulento, occupato in una telefonata di carattere intimo, che si è alzato per accendermi le luci e mi ha poi lasciato solo, dopo avermi messo in mano una guida dattiloscritta, untuosa e slabbrata, dalla quale ho appreso come Honoré Fragonard, dopo avere realizzato insieme con i suoi allievi, fra il 1766 e il 1771, i capolavori di preparazione anatomica che stavo per vedere, venisse cacciato –perché preso per folle o, più probabilmente, per conflitti di potere- dalla scuola stessa, per ricomparire, più di vent’anni dopo, al fianco del suo cugino germano, il pittore Jean-Honoré Fragonard, e del grande David, come membro della commissione artistica della Rivoluzione.
Ed è così che, dopo avere esaminato vari esempi di mostruosità zoologiche compresse in boccali di formalina o stipate in vetrine affastellate, e fra queste vari esemplari di vitelli e scimmie a due teste e una foca a due code, mi sono trovato nell’ultima stanza di fronte a una cadavere mummificato secondo i più moderni procedimenti del XVIII° secolo –fra cui l’iniezione di brandy al posto del flusso sanguigno- che rappresenta un Sansone il quale, brandendo un osso mascellare di provenienza equina, si scaglia contro i Filistei;

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personaggio questo invero impressionante, grazie all’immaginazione artistico-scientifica di Fragonard che, per farlo più terribile, non esitò a rompergli il setto nasale, oltre che a iniettargli cera fusa nel pene, a farlo orrendamente turgescente. Ma ecco, nella vetrina opposta, il famoso Cavaliere dell’Apocalisse. Non tiene più il morso del cavallo –anch’esso mirabilmente dissezionato e disseccato- con le redini di velluto blu, né più agita lo staffile che l’anatomista gli aveva messo in mano, e una brutta impalcatura di metallo verniciato di bianco tiene insieme cavallo e cavaliere, ma ciononostante la composizione risulta davvero minacciosa. Ho estratto dalla tasca la bussola e mi sono posto con le spalle al cavaliere, guardando nella direzione in cui egli guarda: 300 gradi Ovest-Nord Ovest. Ho annotato questo dato nel mio taccuino e ho lasciato le sale del museo.
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Sono tornato al mio studio, il quale si trova all’altro capo della città, presso piazza Clichy e di fronte al cimitero di Montmartre. Avrò pedalato per un’ora, e i pensieri venivano a me, aiutati dallo scorrimento lubrificato della catena sulla corona e dallo scatto morbido delle marce. Se mai avessi avuto la fortuna di avere incontrato W. G. Sebald, gran camminatore e grande scrittore, mi sarei permesso di vantargli l’utilità della bicicletta per la ginnastica mentale. I dieci chilometri che, come racconta nelle ultime pagine di Austerlitz, fece a piedi per raggiungere, dalla cittadina belga di Mechelen, la fortezza di Willebroek –ove, fra gli altri, venne imprigionato e torturato Jean Améry- li avrebbe percorsi nel quarto del tempo, senza per ciò rinunciare alla dimensione contemplativa che dal moto delle gambe scaturisce. Avrei potuto, inoltre, parlargli del rapporto sororale che sempre è stato fra bicicletta e Resistenza.

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Me ne sono tornato al mio studio, che è sito all’ultimo piano della Villa des Arts, al 15 di via Hégésippe Moreau ma con accesso dal 17, da quando, trent’anni fa, gli eredi del costruttore Guéret divisero gli appartamenti dagli studi che vi erano annessi e chiusero porte, alzarono tramezzi, separarono ingressi e vendettero buona parte delle parcelle così ricavate.
Il complesso edilizio della Villa des Arts è un vero e proprio labirinto di scale che reincontrano se stesse, di corridoi lunghissimi che finiscono su porte murate, di vasti antri bui che contengono solo vecchi mobili squinternati e, alla fine, di una dozzina di studi da pittore le cui grandi vetrate scendono su sei livelli, come una cascata di vetro e di zinco, fino al limite meridionale del cimitero di Montmartre –ciò che fa che, una volta saliti al proprio studio del sesto e ultimo livello, si è davvero alla presenza dell’assoluto: se si guarda verso l’alto, non vi è che cielo; se si guarda verso il basso, non vi è che terreno e ultraterreno, le tombe coperte di foglie secche e i rami, attualmente spogli, dell’anziano ippocastano che tocca il muro di recinzione-. Questo complesso, dicevo, fu costruito insieme con tutto il quartiere dal suddetto Guéret intorno all’epoca in cui fu innalzata la torre Eiffel e, si dice, con materiali di scarto –o di riserva- della torre stessa. Ed è vero che sono ben portanti e rassicuranti le putrelle imbullonate che incorniciano questa vetrata.
E’ in uno di questi studi ai piani superiori che Paul Signac, abitante della Villa dal 1892 al 1897, finì di dipingere il suo più gran quadro, Au temps d’harmonie (l’âge d’or n’est pas dans le passé, mais dans l’avenir), ambizioso manifesto anarchico di tre metri per quattro che, offerto a Horta per la Maison du Peuple che l’architetto stava completando a Bruxelles, e da costui implicitamente rifiutato (Signac, l’11 novembre 1900: “Le tirelignard de la maison du peuple, Horta, n’ayant pas daigné, en six mois, trouver le temps de faire installer les quatre planches qui devaient servir de cadre à ma décoration, je retire purement et simplement mon offre.”), finì per essere donato dalla vedova del pittore –nel 1938, in tempi di Fronte Popolare- al municipio comunista di Montreuil, dove tuttora si trova.
Au temps d’harmonie pose a Signac problemi cruciali, di ordine concettuale ed etico oltre che estetico. A causa del suo grande formato, la concezione stessa della divisione pura dei colori veniva messa in pericolo. Per poter difatti apprezzare, secondo il principio divisionista, il quadro nella sua interezza, occorreva una distanza che il pittore valutava fra i 12 e i 14 metri, ciò che lo indusse, durante la sua esecuzione, a farlo discendere nello studio, più spazioso, del suo vicino Eugène Carrière, e lì, avendolo visionato da una appropriata distanza, si trovò costretto a sovrapporre i margini dei tocchi di colore l’uno sull’altro e ad esclamarsi: ”Comme c’est difficile d’être honnête!” (2)

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Mentre Paul Signac era impegnato nelle difficoltose trattative intorno alla destinazione della sua imponente opera, un altro illustre abitante della Villa, Paul Cézanne, faceva venire il suo mercante, Ambroise Vollard, quasi ogni mattina per tutto l’inverno del 1899, per un totale di centoquindici volte, per tre-tre ore e mezza ogni volta, a posare per il suo ritratto. Vollard, durante tutto quel periodo, non ebbe mai la sensazione di sentirsi più importante di una mela, agli occhi del ritrattista cui aveva commissionato il lavoro. Gli capitava, talvolta, nel corso di quelle interminabili sedute in cui Cézanne si limitava a deporre sulla tela due o tre tocchi di colore e passare il resto del tempo a scrutarlo in viso, gli capitava talvolta di addormentarsi, e allora il pittore si accalorava: “Malheureux! Vous dérangez la pose! Je vous le dis, en vérité, il faut vous tenir comme une pomme! Est-ce que cela remue, une pomme?” (3)
Il mio vicino di studio, Pierre, un valente dipintore di tradizione post-espressionista, sostiene che il ritratto avrebbe potuto essere stato eseguito lì da lui. E’ all’altezza della sua vetrata, difatti, che gli occhi di una persona seduta si trovano, a quella angolazione, sulla stessa linea dei comignoli di terracotta rappresentati nel quadro. E le due strane forme circolari che si vedono al di sopra dei comignoli, e di cui oggi non v’è più traccia, erano verosimilmente due coperchi di camino che sono stati sostituiti da sfiatatoi in Eternit.
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E’ vero anche che, scrostando la pittura bianca dello studio di Pierre, appare, proprio in quell’angolo, il colore originario del muro, un ocra-rossastro che corrisponde perfettamente a quello del dipinto. E’ altresì veritiero che, all’epoca, tali colorazioni delle pareti erano estremamente correnti e consuete, così come gli ambienti erano più scuri, essendo ingombri di mobili voluminosi, tappezzerie, briccabracchi di tutti i tipi, stampe giapponesi e fiori di stoffa, e illuminati da cannelli a gas, di cui d’altronde nello studio accanto rimane traccia. Potrò sbagliare, ma non ho memoria di un ritratto ottocentesco il cui sfondo sia bianco.
Bianco era il pettorale della camicia di Vollard, di cui Cézanne, riferisce il mercante nelle sue memorie, non fu completamente scontento. Lasciando il ritratto incompiuto dopo cento e quindici sedute e tornandosene a Aix en Provence, pare avesse concluso: “Je ne suis pas mécontent du devant de la chemise.”
Le cornacchie planano gracchiando sul lucernaio dello studio e, non so perché, la loro voce mi riporta alla targa della strada e al triste destino di Hégésippe Moreau. Portano sfortuna le cornacchie? Non lo so; certo è che costui fu un uomo sfortunato, uno di quegli artisti sfortunati e artefici della propria sfortuna che il secolo Ottocento ha prodotto con una incontestabile prodigalità.
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Un paio di giorni prima –ero nel pieno di un periodo di ottusa rassegnazione, ché nessuno mi voleva, nessuno mi chiedeva e perciò non c’era motivazione a niente- Daniel mi aveva tirato fuori dalla solitudine bianca dello studio e mi aveva portato a pranzo al ristorante dietro l’angolo, il café des Arts, dove il proprietario algerino, un nobiluomo sempre sorridente e attento, serve il cuscus in piatti decorati da ideogrammi cinesi, eredità del suo predecessore, fatto questo che ci parla qui di multiculturalismo e ascolto dell’Altro con la A maiuscola che grazie al cielo andandosene ci ha lasciato il servizio buono e financo le sedie in similvelluto rosso ricoperto di plastica trasparente, il cuscus però al café des Arts è buono e perché no, bisogna prendere ciò che dal cielo ci viene, comprese le sedie con gli ideogrammi augurali sullo schienale.
In occasione di quel pasto memorabile Daniel, di fronte al mio palese smarrimento quanto all’eventualità pur remotissima di un qualsivoglia progetto futuro, mi parlò di un testo di Jean Christophe Bailly, pubblicato ventidue anni fa da un editore di Parigi. La XVIIIe dynastie à Berlin racconta di un suo soggiorno nella capitale tedesca, non ancora unificata e divisa in due parti da un lungo e alto muro. In quello che allora era il museo egizio di Berlino-Ovest, in una dimora patrizia situata esattamente di fronte al castello di Charlottenburg, Bailly contempla il busto di Nefertiti, regina d’Egitto: “Sa beauté, mais aussi le persistant sourire de toute l’Egypte ancienne m’ayant poussé à ne plus me contenter de la seule vue des objets, c’est muni d’une connaissance un peu moins vague que je retournai à Berlin, moins de deux ans plus tard, d’ailleurs pour d’autres raisons.”
In questo secondo soggiorno Bailly si porta all’altro lato della città, nella capitale della Repubblica Democratica Tedesca, e lì, visitando le collezioni egizie di Berlino-Est, che erano ospitate nel bel padiglione del Bode Museum, all’estremità dell’isola dei musei, si trova davanti al viso, imprigionato in uno scrigno, di Ankhesenpaaton, la figlia di Nefertiti. Ecco che questi due visi “exilés d’Egypte pour se retrouver de part et d’autre du mur de Berlin”, si guardavano, dice Bailly, da un lato all’altro del muro. Tale almeno era la sua suggestione, che decide di verificare nel corso di una terza stazione a Berlino. Ma i due sguardi, se pure si incrociano, non si incontrano. “Je notai alors ceci –scrive: ‘Les regards ne se croisent donc pas, et il s’en faut de peu. Il me reste, sans le signal, une histoire à raconter. Tout est bien ainsi’.” (4)

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Ecco da dove mi viene la piccola illuminazione che, alcuni giorni fa, mi tirò dal materasso su cui mi ero appena accasciato e mi tenne sveglio, nell’attesa impaziente del mattino e dell’ora di apertura del cimitero dei cani.
Dispiego sul tavolino la carta di Parigi. Con matita e righello traccio la linea che, dal punto approssimativo in cui si trova la tomba della scimmietta Kiki, segue la direttrice 105° S-SE la quale, constato, traversa il boulevard périphérique all’altezza della porta di Clichy, taglia il viale delle Batignolles, sfiora la stazione di Saint Lazare e i grandi magazzini Printemps, tocca i giardini del Lussemburgo e il viale Auguste Blanqui, luogo di uno degli ultimi incontri fra W. G. Sebald e Jaques Austerlitz, si perde oltre il Kremlin-Bicêtre e l’ospedale di Villejuif, dove tanti italiani del sud vengono a curarsi il cancro perché non trovano al paese loro un’assistenza sanitaria adeguata.
Il cavaliere di Maisons-Alfort invece guarda, lungo i suoi 300° W-NW, a tutti i siti posti fra la città e la sua periferia orientale: Vincennes, la Porte Dorée, la porta Saint Mandé, Montreuil -dove scavalca la grande Armonia di Signac-, il canale dell’Ourcq e si allontana attraverso la Val d’Oise di Gérald de Nerval.
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E -ancora oltre- i globi oculari di vetro soffiato del Cavaliere di Fragonard sono per l’eternità puntati verso la città di Calais e i suoi doganieri inospitali, solcano il canale della Manica e, prima di perdersi nelle brume dei mari del Nord, traversano la regione inglese del Norfolk, dove W. G. Sebald insegnò letteratura tedesca per trent’anni.
Dal canto suo Kiki è condannata a fissare per sempre il suo sguardo di ceramica oltre Villejuif e il suo ospedale dalla segnaletica in italiano e in francese, verso l’Essonne e la Borgogna, oltre la Côte d’Or e il Jura, verso la pianura padana e San Benedetto del Tronto, oltre il mar Adriatico e lo stretto di Otranto tomba di centinaia di immigrati clandestini, attraverso l’arcaico Peloponneso e sul filo dell’estremità occidentale dell’isola di Creta, fin sui deserti d’Egitto, dove né Nefertiti né sua figlia Ankhesanpaaton soggiornano più.
Kiki la scimmietta ammaestrata e il Cavaliere dell’Apocalisse non si incontreranno mai o, se mai si incontreranno, ciò accadrà agli Antipodi, in un punto qualsiasi dell’immensa distesa marina fra la Nuova Zelanda e la Tasmania, e io non sarò lì per raccontarlo.
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Notes

(1) W. G. Sebald, Austerlitz, Milano 2002 (Frankfurt 2001), pp. 281-299.
(2) Signac 1863-1935, catalogue de l’exposition du Grand Palais, Paris, 2001, pp. 241-245.
(3) Cézanne, catalogo de l’exposition du Grand Palais, Paris, 1995, pp. 178-179.
(4) J.-C. Bailly, Le 20 janvier, Paris, 1980, pp. 129 et 134.

Erranze intrecciate F02

Feuilleton 02

Il Museo di sismologia e di magnetismo terrestre è una vera e propria casamatta affondata nel terreno, piantata al centro di aiuole ben rasate e fiancheggiata dagli edifici pesantemente neo-rinascimentali della Kaiser Wilhelm Universität –oggi ribattezzata Università Louis Pasteur. L’ingresso dell’osservatorio sismico, oggi trasformato in museo, fronteggia i cancelli dell’orto botanico e la cupola color antracite dell’osservatorio planetario, fatto edificare, così come l’università guglielmina tutta, dall’imperatore prussiano pochi anni dopo l’annessione dell’Alsazia e della Lorena al secondo Reich.
Erano anni, quelli, in cui la ricerca scientifica, il peso e la misura del mondo, procedeva a uno stesso passo marziale insieme con la sua appropriazione, a differenza dei tempi nostri, che vedono la ragionevolezza la volubilità e l’arte della conversazione dominare lo scacchiere geo-politico mondiale.
Ma allora era la forza che dominava e dettava le regole, e ai soldati vittoriosi seguivano gli alacri muratori, e agli alacri muratori seguivano i sapienti professori, il fior fiore del sangue intellettuale germanico che, fresco ed ambizioso, traversava il nuovo ponte monumentale sul Reno per occupare le solide costruzioni di pietra grigia della nuova università. Era, quello, il tempo dei fondatori.
Lo stesso cammino venne percorso, cinquant’anni dopo, nel senso inverso, quando Strasburgo tornò alla Francia e, a partire dal 1919, la Repubblica vi inviò i migliori fra i suoi giovani ed ambiziosi professori. Fu a quel tempo che il Gran Pendolo venne ad arricchire e coronare la collezione di strumenti dell’osservatorio sismico, e si guadagnò il suo ingombrante posto accanto al Reubert-Ehlert (il progenitore dei sismografi moderni), al Wiechert, al Mainka, al Mintrop, al Galitzin e, per finire, al Vicentini.
Il Grande Pendolo, detto anche affettuosamente “le 19 tonnes”, è un mirabile esempio di collaborazione scientifica involontaria. La sua costruzione fu iniziata dai tedeschi nel 1910 e venne interrotta “in seguito alle vicissitudini della prima guerra mondiale”. Nel dopoguerra i nuovi direttori francesi della stazione decisero di utilizzare gli elementi installati dai loro predecessori per realizzare un apparecchio di “grande massa”, per l’appunto diciannove tonnellate, le quali vennero ottenute recuperando materiale militare quali assi di camion e pezzi di armi dimesse. Questa massa di diciannove tonnellate affondata nei giardini dell’università di Strasburgo, tenuta sospesa da quattro enormi molle e mantenuta sotto il suo centro di gravità da due bracci metallici, ha lo scopo di sostenere e di guidare, grazie a un preciso sistema di pistoni ad aria, il movimento di un semplice, sottilissimo ago il quale registra costantemente, su di un rullo di carta affumicata manualmente, i movimenti della terra sulla quale viviamo. Ed è tale, la precisione di un siffatto strumento, da riportare sul nerofumo lo sforzo nel terreno delle radici dei platani scossi dal vento, sul boulevard de la Victoire, o l’impatto delle onde sulle spiagge del Mare del nord, nei giorni di tempesta, oltre che, naturalmente, un eventuale piccolo terremoto in Grecia o un bombardamento aereo di media intensità in Iraq.
Ed è al cospetto di una tale macchina che ho tirato fuori di tasca la mia bussola di alta precisione ad ago sospeso in bagno d’olio, comprata al bazar pakistano per 1 euro e 52 cent, e ho misurato l’orientamento del rullo tinto di nerofumo, che corrisponde a: 79° E-NE.

Sono tornato, dopo la visita al museo di sismologia, in centro. Ho attraversato l’Ill sul ponte del Corvo, dal quale venivano calate le gabbie contenenti i condannati a morte e, più in particolare, le donne che avevano ucciso i propri figli non voluti, ponte sotto le arcate del quale, si racconta, sbocca una galleria sotterranea collegata direttamente al sottosuolo dell’ospedale medievale, che permetteva di trasportare senza indugio i cadaveri dei condannati dalla gabbia in cui erano stati affogati al tavolo di dissezione dell’anatomista.
Avendo oltrepassato le pont du Corbeau, avendo scantonato nella piazzetta della Grande Boucherie (Gross Metzig), avendo fuggevolmente e per l’ennesima volta ammirato un piccolo affresco da me prediletto, che orna la facciata del ristorante “Zuem Pfifferbriader” e raffigura un giovane pifferaio dal cappello a punta, in vedetta su una roccia sporgente sul flusso continuo di turisti tedeschi giapponesi e italiani che lì intorno vagolano, eccomi mi sono portato, così come faccio ogni volta che torno a Strasburgo, nella cattedrale.
C’è stato un periodo nella mia vita in cui usavo prendere il treno a cuccette Roma-Bruxelles, treno che è stato soppresso, ciò che ora rende necessario -a chi dalla capitale italiana desideri portarsi nel nord-ovest dell’Europa e abbia la sventura di trasportare generi di prima necessità o masserizie quali damigiane d’olio, bottiglioni di vino paesano o, magari, quadri in vetro e ferro- il cambio alla stazione di Milano, una stazione quanto mai fredda e inospite e dall’architettura di un eclettismo fanfarone superato solamente, forse, da quello del Palazzo di Giustizia di Bruxelles.
Il Roma-Bruxelles mi lasciava nel capoluogo alsaziano intorno alle sei e trenta del mattino. Non mancavo mai, allora, nell’attesa di un’ora civile per suonare il campanello degli amici, di entrare nella cattedrale, l’unico luogo aperto a quell’ora e l’unico rifugio dalla bruma umida e penetrante che da novembre a marzo avvolge senza posa l’opulenta città renana.
Non c’è stata una sola volta in cui, trascinando i miei pacchi di vetro e di ferro per le navate oscure e deserte, non vi abbia fatto una qualche scoperta: ora un fregio dai motivi intrecciati, ora una tappezzeria, ora una lampadina solitaria, l’ombra di un cero su una lapide, una statua monca impolverata in una nicchia, un battito inatteso dell’orologio astronomico, seguito da un’oscillazione della falce con cui lo scheletro meccanico segna i quarti d’ora. Anche stavolta, due dicembre 2002, vent’anni dopo la mia prima visita, ho fatto la scoperta di una griglia leggera tesa al disotto della cupola, a protezione dai piccioni che certo hanno trovato il modo di penetrarvi, griglia che diffonde una raggiera di luce velata e impalpabile sul coro e sulla navata centrale, luce che, materializzata in guisa di pulviscolo bianco, invita per una volta il mio intelletto a prendere in considerazione il concetto di sublime.
Sono uscito dalla porta del transetto meridionale, ho esaminato a lungo la figura elegantissima della Sinagoga, la quale è bendata, poiché non è stata in grado di riconoscere e aprire gli occhi alla venuta del Messia. Sull’altro lato del portale, al cui centro troneggia il re Salomone, sta la statua che rappresenta la Chiesa: ella volge verso la rivale sconfitta lo sguardo irato e trionfatore. Ho fatto un paio di foto della Sinagoga. Con la bussola ho calcolato l’orientamento dei suoi occhi celati o, meglio, quello del suo capo reclinato, che guarda a 126° E-SE. Non credo che farò uso di questa misurazione; per ogni evenienza la noto sul taccuino.

Ho attraversato la piazza della cattedrale, riempita da stand di paccottiglia e dallo stomachevole odore del Glühwein, di questa cittadina fiera di essere la “capitale de Noël”, e dove anche gli accattoni si vestono da Babbo Natale, e sono rientrato da Philippe e Sylviane, nella loro casa che odora di parmigiano reggiano e di prosciutto San Daniele, così come quella di Hänsel e Gretel doveva profumare di zucchero filato e pan di spezie ma, per caso, invece che nella casa della strega essi abitano al disopra di Chez Spagna, Comestibles italiens depuis 1957, e va bene così.
Per tutto il pomeriggio Sylviane e Philippe si sono occupati di me, come un vero e proprio Escort Service: quando l’una mi lasciava, l’altro mi riprendeva e cosivvia. Ed è così che l’uno mi ha accompagnato alla libreria antiquaria Gangloff, a rinverdire la mia bio-bibliografia storico-archeologica alsatica, e l’altra mi ha condotto in un quartiere di periferia, dove una giovane donna di nome Jenny ha praticato su di me un corroborante massaggio Shiatzu.
E la sera, mentre, troppo rilassate dal massaggio e dal vino di Borgogna che avevo portato per cena, le palpebre mi si chiudevano davanti a una choucroute all’anatra preparata per l’occasione, Philippe mi ha offerto di venire con me a Berlino, dove avevo appunto annunciato che mi sarei diretto.
La mattina successiva, di buon’ora, montavamo sulla sua Mercedes Benz Break del 1977 color verde oliva, targa 9620YY67, e penetravamo come coltelli nella foschia delle autostrade baden-wurtemberghesi, verso il profondo oriente d’Europa.

L’Isola dei Pavoni si trova all’altro capo di uno stretto braccio d’acqua, è già inverno ma l’Havel non è ancora ghiacciato, non si può traversare a piedi e non se ne parla di andarci a nuoto. C’è un traghetto a motore che fa servizio fino all’ora del tramonto e che, di questa stagione, trasporta solamente la vettura gialla del postino e i furgoncini dei giardinieri. Quando vi vede in attesa sul molo di terraferma il traghettatore viene immancabilmente a prelevarvi e vi sbarca sull’isola, previo pagamento di una semplice moneta che i vostri cari avranno avuto cura di scivolarvi sotto la lingua, al momento di interrarvi.
La Pfaueninsel fu acquisita da Federico Guglielmo II° di Prussia nel 1783 e venne usata inizialmente come riserva di caccia. Prima della fine del XVIII° secolo Brendel, il carpentiere di corte, vi aveva già costruito due edifici in forma di rovine: il castello, la cui facciata rivolta a meridione accoglieva i villeggianti in provenienza da Potsdam e dalla residenza di Sanssouci; e una fattoria dalla sembianza di chiesa gotica, all’altro capo dell’isola. Ho registrato l’orientamento della facciata del castello: 235° W-SW.
Intorno al 1800 vennero introdotte nell’isola diverse specie di animali domestici, allo scopo di fornire al visitatore una gradevole impressione di ambiente pastorale. Nuovi edifici vennero innalzati e radure vennero aperte fra un edificio e l’altro, dimodoché la vista potesse sempre ancorarsi a un grazioso manufatto. La popolazione animale crebbe fino a emulare quella di uno zoo: nuove gabbie si resero necessarie per contenervi le scimmie, i canguri, gli uccelli acquatici e le aquile, le capre selvagge, i lupi, le volpi, i lama e, infine, l’orso che arrivò nel 1826.
In questa specie di Kunstkammer all’aperto neanche gli esseri umani vennero trascurati. Sorgeva a quel tempo un certo interesse per l’antropologia, ciò che dette adito all’introduzione nell’isola di Heinrich Wilhelm Maitey, nato in Oahou nelle isole Sandwich nel 1807 e residente alla Pfaueninsel a partire dal 1830, e dell’africano Karl Ferdinand Theobald Itissa. Un gigante, Karl Friedrich Licht, e due nani, Christian Friedrich e Maria Dorothea Strackon vissero in compagnia del nero e del polinesiano. Mi domando se mai ebbero ad imbattersi nel fantasma di un altro tipo balzano in quei luoghi vissuto, il celebre alchimista Johannes Kunckel, detentore del segreto per la fabbricazione del vetro rubino, per il quale venne costruito un laboratorio all’estremità settentrionale dell’isola, laboratorio che bruciò fino alle fondamenta nel 1689, quattro anni dopo la sua costruzione, e le cui fornaci mai nessun vetro di rubino sfornarono, con somma disgrazia del buon Kunckel presso il Grande Elettore e sua conseguente cacciata.
Tagliamo corto ai prolegomeni e passeggiamo piuttosto per i ben rastrellati viottoli, senza fumare né calpestare l’erba dei prati, Wir bitten Sie, auf den Wegen zu bleiben und das Rauchverbot zu beachten, ammiriamo piuttosto la geometrica rispondenza dei fabbricati seminascosti dalle fronde e velati in lontananza dalle brume, ma pur sempre l’un dall’altro visibili: il tempietto dorico la rovina alessandrina il castello scozzese il Kavalierhaus di Schinkel, la cui torre medievale è un montaggio dei resti di una casa gotica di Danzica.

Usciamo, sì, dal nostro tempo, entriamo nel tempo delle favole e nel regno delle rovine fatte apposta, nel mondo dei castelli di gesso e di legno dipinto, nell’epoca in cui i potenti si dilettavano di giardinaggio e di decorazione d’interni e schizzavano i tempietti e le follie che i loro architetti avrebbero poi disegnato perbenino e come si deve.
Immaginiamo di essere ancora nel tempo, mi dico, di questa Prussia dalle “sconfinate possibilità”, in cui l’affettazione Biedermeier non aveva ancora ceduto il passo al Tempo dei Fondatori. Era allora ancora concepibile l’edificare rovine, mi dico, quando non era ancora rovina tutto ciò che ci circonda, e ci si poteva ancora dilettare con l’idea di uscire dalla storia, in una sorta di extraterritorialità temporale protetta dal servizio diurno del traghetto che unisce il Nikolskoer Weg, a pochi chilometri dal centro di Berlino, al molo dell’Isola dei Pavoni. Il gusto kitsch delle rovine artificiali -ne concludo- è semplicemente una forma di a-storicità, ma non è anodino incontrarlo qui, in questa città. Mi piacerebbe conoscere l’alchimia che ha trasformato questo paesaggio da operetta nell’incubo del ventesimo secolo: non è sulle sponde di queste stesse acque che è stata pianificata la Soluzione Finale?

Accade che ancora ci si accanisca a fabbricare rovine. Quello stesso giorno, dopo la visita all’isola e dopo quella alla casa della Conferenza di Wannsee, ci si è trovati, insieme con Philippe, al centro di Berlino, sulla Schlossplatz, ed ecco ci si è trovati di fronte a un’altra Künstliche Ruine: è un angolo di palazzo in mattoncini rossi. Risulta essere il facsimile di uno degli angoli della Bauakademie di Karl Friedrich Schinkel, edificata fra il 1832 e il 1836, demolita nel 1962, e di cui si richiede la ricostruzione “à l’identique”. Per suffragare tale progetto si è innalzato un siffatto specimen, a testimonio augurale di ciò che potrebbe essere l’intero edificio, una volta ricostruito. La marcia indietro nel tempo sembra essere un’altra diffusa passione odierna, insieme con quella di non voler vedere il tempo passato. Rimodellare la storia come se non si trattasse di una materia compiuta e irrimediabile e propria a se stessa, pensare che qualche centinaio di mattoni disposti a fare un angolo possano dare il vetro rubino della redenzione. Non sai se ridere o piangere.
Del resto, la prima volta in cui venni in questa città, mi imbattei in centinaia di persone intente a fabbricare rovine, ma in un altro spirito ancora. Appena lasciata la Bahnhof Zoo, ove ero arrivato di primo mattino, mi ero perso per i boschetti e i laghetti del Tiergarten quando un impressionante ticchettio metallico mi guidò verso la Potsdamer Platz. Centinaia di persone stavano allineate contro una lunga parete, e avvicinandomi vidi che non erano lavoratori forzati ma che picchettavano tutti spontaneamente, con martelli, cacciaviti, scalpelli e coltellini a serramanico il muro che un mese prima divideva ancora la parte orientale dalla parte occidentale della città. Da questa scalmanata attività ricavavano infinitesimali pezzetti di cemento e di ghiaia, che avrebbero poi spedito a casa o conservato per ricordo. Quello che rimaneva di quel muro smangiato venne poi sollecitamente rimosso, sicché tre mesi dopo non c’era più traccia dell’antica separazione ma invece, lì dove c’erano stati i camminamenti delle ronde, le garitte delle sentinelle e i doppi e triplici filari di filo spinato, erano apparsi giardinetti pubblici, prati, alberelli piantati di fresco e, perché no, i cantieri di nuovi palazzi d’uffici. Oggi infine non rimane che un breve tratto dell’antico muro, lungo forse una cinquantina di metri, sulla Bernauerstrasse. E’ stato isolato in una spianata e circondato da una palizzata e viene regolarmente ridipinto e restaurato, perché questo monumento al negativo non venga più aggredito dai tardivi cacciatori di souvenir, ma rimanga invece ad ammonitrice testimonianza di un passato le cui tracce ci si è indaffarati a cancellare.

In quei giorni invernali del 1990 usavo vagare dal mattino al tramonto per la città sconfinata, trascinando i piedi nei mucchi di foglie secche, gli occhi che scorrevano sulle facciate crivellate e slabbrate dei palazzi d’anteguerra, la mente tenuta all’erta dall’aria fredda e dalla fatica sicché, se mai mi sedevo in un caffè tranquillo e ben riscaldato, come il Cinema café –che tuttora affeziono, nell’Häckerscherplatz, ex Marx-Engelsplatz-, la testa mi ciondolava e mi appisolavo istantaneamente sulla tazza di caffelatte che mi avevano appena servito.
Raccoglievo a quel tempo piccoli oggetti perduti sui marciapiedi e sulle carreggiate: rondelle, guarnizioni, viti arrugginite, biglietti di tram, ramoscelli. Alcuni li incartavo e ne facevo regalo a Christine, quando rientravo la sera. Altri li disponevo su tavole di truciolato e li prendevo in fotografia. Mi piaceva, in tal modo, classificare l’inclassificabile, tanto che classificavo anche me stesso: ero certo l’unico cliente di una vecchia cabina automatica, poggiata e dimenticata in un sottopassaggio pisciazzato di Neukölln; forniva certi foto-ritratti neri d’inchiostro al punto da rendervi irriconoscibile, ciò che in linea di principio non è la funzione precipua di una fotografia d’identità.
Non sono mai riuscito a convincere nessuno dei miei amici berlinesi a farsi fotografare, per puri scopi artistici, da quella macchina. Accettavano solo di darmi le loro vecchie foto da passaporto per la mia collezione di memorabilia. Le foglie morte le mettevo nei naturalia, i bulloni spaccati negli artificialia, i pezzi del muro nei mirabilia. In tutto e per tutto la mia collezione portatile mi riempiva le due tasche superiori del cappotto.
Avevo immaginato, a un certo punto, di scavare una buca circolare nei terreni ancora abbandonati fra le due parti della città. Vi avrei gettato, in forma rituale, così come Romolo, secondo il racconto di Plutarco, aveva fatto alla fondazione di Roma, gli oggetti da me raccolti. “Il mondo è aperto!” avrei gridato ai venti sordi del Meclemburgo e della Pomerania.
Ma sarebbe stata la mia una pigra parodia. Romolo aveva fatto venire d’Etruria i sacerdoti specializzati, “i quali gli nominavano e insegnavano punto per punto tutto il cerimoniale che occorreva osservare secondo le norme divine e i libri sacri, come fosse un mistero o un sacrificio. Fecero dunque, innanzitutto, una fossa rotonda nel luogo che oggi è chiamato Comitium, nella quale misero le primizie di tutte le cose di cui gli uomini usano secondo le norme come buone, e secondo natura come necessarie; poi vi gettarono anche una manciata della terra da cui ciascuno di loro era venuto [i reprobi e i fuggitivi accolti da Romolo nell’Asylum] e mescolarono tutto insieme (chiamano questa fossa, nelle loro cerimonie, il Mundus, che è il nome con il quale i Latini designano l’universo), e intorno a questa fossa tracciarono il contorno della città che intendevano fondare, né più né meno come chi tracciasse un cerchio intorno a un centro”. Ed è una volta che la fossa è ricolma di terra e richiusa che Romolo si esclama: “Mundus patet!” il mondo è aperto!
I dotti ci insegnano come queste fossero pratiche rituali di controllo dell’universo, in cui il calcolo dell’asse sul quale la conca celeste incontrava quella terrena e questa quella ultraterrena eccetera aveva fini propiziatori, scaramantici e propedeutici: “La giustapposizione della “conca terrestre” e di quella “celeste” che la sovrasta, riproduce un cerchio e con questo il simbolo dell’Universo nel suo insieme. La correlazione tra il cerchio geometrico e quello idealmente descritto dal Mundus e dalla volta celeste va letta a due livelli: a) a livello orizzontale, sul piano ove si erge Roma, l’Umbeliculus corrisponde al centro della circonferenza, e colloca per ciò stesso la città eterna al centro del Mondo; b) in sezione verticale le due conche, idealmente unite da un asse (espresso da un punto in sezione orizzontale) – l’asse del mondo – definiscono rispettivamente le realtà celestiali e infernali; il piano di intersezione tra le due semicirconferenze è quello terrestre al cui livello, e al cui centro, viene nuovamente a essere collocata Roma che a buon diritto per questo motivo, può fregiarsi del titolo di Caput Mundi.”

Ma la vera Caput Mundi e il vero centro della terra, posso qui rivelare, non è né il Comitium della Roma antica, né la fossa della “19 tonnes” di Strasburgo, né il terreno ingombro di detriti fra la Stralauerplatz e l’Ostbahnhof. Il centro del mondo è Vaduz, perché tutto intorno a Vaduz ci sono i Tagicchi e gli Usbechi, e tutto intorno tutto intorno gli Afgani e i Nuristani i Punjabi e i Sinti, tutto intorno a Vaduz ci sono i Kazachi e i Manciù, i Masai e i Bakumba, gli Appalacchiani e i Martinichesi, i Canadesi-Francesi e gli Eschimesi polari, tutto intorno tutto intorno a Vaduz.

Nella primavera del 1974 era stato chiesto a Bernard Heidsieck di comporre un poema sonoro per l’inaugurazione di un centro d’arte a Vaduz, capitale del Lichtenstein. Ma che fare su Vaduz? Che poesia si può tirar fuori da Vaduz, capitale del Lichtenstein, si chiese per mesi Heidsieg. Girò in tondo, Bernard Heidsieck, per mesi e settimane, “autour de ce nom de ‘Vaduz’, en quête d’une motivation vraie, justifiant l’entreprise et ce travail. Que faire, sinon tourner à la recherche d’un axe de correspondance. Le justifiant. Rigueur oblige! […] Après avoir décidé de faire de Vaduz, ce maxi-village, Capitale de ce mini-territoire situé au centre de l’Europe, de notre sublime Europe, le Lichtenstein, l’un, sans doute, des plus petits pays au monde, le centre même de notre Globe, de notre fichu Globe terrestre!, il s’est agi alors, de tracer sur une carte du Monde, à partir de Vaduz, des cercles d’égale largeur, s’éloignant en parallèles successives jusqu’à en boucler la surface totale.’’
Su questi cerchi concentrici il poeta trascrisse i nomi delle etnie (“non delle nazioni”) che vi abitano, a partire dalle più prossime al centro e fino alle più estreme. Tale attività egli svolse per tutto il secondo semestre del 1974, nel tempo lasciatogli libero dal suo impiego di vice direttore della Banque française du commerce extérieure.
Ed è così che questo poema, che non venne scritto a tempo dovuto e non è mai stato letto a Vaduz, gira per il mondo insieme con il suo autore, sotto forma di un manoscritto lungo diversi metri, che viene spiegato mano a mano che la lettura procede, e che una banda sonora accompagna e amplifica, fino a crescere in un boato di folla che copre le ultime parole: des Déplacés des Paumés des Laissés pour compte des Emigrés des Fuyards des Désintégrés et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres…

21 dicembre. Sono venuti a svegliarmi nel fondo della notte, urlando il mio nome dal corridoio. Non era il sogno. Quando uno dei miei compagni di cuccetta è riuscito a sbloccare il catenaccio dello scompartimento e il finanziere è entrato accendendo il neon del soffitto, gli ho chiesto: “come mai?”. “Scandaglio”, mi ha risposto, facendo il segno di chi pesca a caso. “Tuttavia”, ho replicato in una lingua che dalle nebbie primordiali del sonno emergeva in forma di patois gallo-romanesco, “ciò mi accade sì di frequente, di essere controllato su questi treni notturni che traversano l’Europa cosiddetta di Schengen e della libera circolazione dei suoi cittadini, che mi domando cosa porti voi benemeriti finanzieri servitori dello Stato a scandagliare sempre proprio me, sarà l’immagine barbuta e torva della mia foto d’identità Made in Neukölln, sarà la menzione ‘artista’ che figura in calce alla dicitura ‘professione’, ma cosa sarà?
Il militare mi ha risposto tacendo e continuando a frugare con dita abili nel mio sacco, tirandone, fuori le mie pillole che assaggiava con la punta della lingua, i miei fogli di carta che esaminava in controluce, il mio tabacco Gauloises extra-légères che annusava come un vero segugio. Poi ha estratto un oggetto metallico: “questa è una bussola, vero?”, e senza neanche aprirla, e come se tale scoperta avesse dato il segnale della mia innocenza, se ne è andato via, lasciandomi a rimettere a posto il mio bagaglio scompaginato.
Ed è così che, dopo una delle notti più interminabili che sia, sono sbarcato intorno all’alba alla stazione di Verona Porta Nuova, ho tranciato grumi di studenti che sul piazzale attendevano il loro autobus accendendosi la prima sigaretta della giornata, e mi sono incamminato verso il centro della città, servendomi del libro di W. G: Sebald, Schwindel, Gefühle, come di una guida.
Una guida in verità davvero poco utile quella di Sebald: Il San Giorgio e la principessa del Pisanello non si trova difatti sul lato sinistro della basilica di Santa Anastasia, al di là di “un tavolato pittato di marrone e ritagliato da una porta, dietro la quale si trova oggi la stanza da soggiorno, se non l’alloggio intero della sagrestana”, e sorvegliato dalla perpetua sospettosa che l’autore descrive. L’affresco si trova oggi al proprio posto, sull’arcone della cappella dei Pellegrini e, datasi l’altezza della sua collocazione e la scarsa illuminazione del transetto di destra, una bella presentazione video dello stesso vi è proposta ad libitum, se solo abbiate cura di applicare il ditino sullo schermo di un maxi-computer piazzato davanti alla cappella (dimenticavo: l’accesso alla chiesa è a pagamento).
Gli è vero che il testo di Sebald descrive un’esperienza del 1980, epoca alla quale il termine “post-moderno” diventava appena di moda e i new media interattivi erano lungi dal venire. Ed è forse per sperimentare, per una volta, una condizione sospesa nel tempo, che mi sono portato, sulle tracce di “All’estero”, che costituisce la parte centrale di Schwindel, Gefühle ma non ne è il suo più bel testo, malgrado contenga mirabolanti pezzi, quali una fantasmagorica descrizione del servizio mattutino al buffet della stazione di Venezia Santa Lucia, che mi sono recato oltre l’Adige e oltre il Ponte Nuovo, al Giardino Giusti.

Ho passato circa un’ora per i sentieri e nei labirinti di bosso sempervirens dei giardini, disinteressandomi del famoso cipresso di Goethe ma battendo la statua sonora della Prosperità con il martello di legno, montando fin sopra il mascherone di marmo che in occasione delle feste barocche vomitava fuoco e fiamme, figurandomi su quale panca W. G. Sebald avesse potuto stendersi, ascoltando “il raschiare tenue del rastrello del giardiniere sui viali di ghiaia”. Da tempo non m’ero sentito così bene, scrive Sebald. Speravo di ritrovare qualcosa del genere nell’atmosfera sospesa dei giardini Giusti. C’era invece silenzio assoluto nei viali deserti e una nebbiolina fredda, la stessa che un paio di settimane prima avvolgeva l’Isola dei Pavoni.

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Note:

p. 9, Helmut Börsch-Supan, Die Pfaueninsel, Berlin 1987

p. 10, Bernt Engelmann, Preußen Land der unbegrenzten Möglichkeiten, München 1979

p. 11, Plutarco, Le vite degli uomini illustri. Romolo

p. 12, Mariano Bizzarri, L’ombelico di Roma, www.zen.it.com/symbol/

p. 12, Bernard Heidsieck, Vaduz, Venezia 1998

p. 13, W. G. Sebald, Schwindel, Gefühle, Frankfurt 1990.

Erranze intrecciate F03

Feuilleton 03

12 dicembre 2002. Sì, è stata una giornata fin troppo adatta a un pellegrinaggio sebaldiano.
Lasciato il sacco al deposito bagagli di Liège-Guillemins, ho atteso un treno locale per Flémalle-Haute. Già sulla pensilina di Liegi scendeva il nevischio. All’uscita della stazione di Flémalle era diventato una pioggia gelida e battente. Ma la mia ricerca, anche se vana (“di Café des Espérances ce ne sono a migliaia in Belgio”, mi avevano detto), andava compiuta e andava compiuta a piedi.

“Già pochi giorni dopo esserci conosciuti nella Salle des pas perdus alla stazione centrale, mi imbattei in lui per la seconda volta in un quartiere operaio alla periferia sud-ovest di Liegi che avevo raggiunto verso sera arrivando a piedi da Saint-Georges-sur Meuse e Flémalle. Il sole squarciò ancora una volta la cortina di nubi blu inchiostro di un imminente temporale, mentre i capannoni e i cortili delle fabbriche, le lunghe file di case operaie, i muri di mattoni nudi, i tetti di ardesia e i vetri delle finestre luccicavano come se un fuoco vi ardesse dentro. Quando per le strade la pioggia incominciò a scrosciare, mi rifugiai in una minuscola taverna che si chiamava, credo, Café des Espérances e dove, con non poca sorpresa da parte mia, trovai Austerlitz curvo sui suoi appunti a un tavolino di laminato plastico. Come sempre da allora, anche in occasione di questo primo nuovo incontro riprendemmo la conversazione senza spendere una sola parola per commentare la stranezza del nostro ritrovarci in un luogo come quello, che nessuna persona ragionevole avrebbe mai frequentato.”

Questo era il passaggio che aveva motivato la mia gita invernale.
La mia intenzione era di scendere alla stazione di Flémalle e di lì rendermi a piedi a Liegi per i circa dieci chilometri della Nazionale 617, percorrendo i quartieri operai ove doveva trovarsi il Café des Espérances e ove Sebald aveva collocato la scena di uno dei suoi incontri casuali con Jaques Austerlitz. Quello era il mio programma, andava quindi seguito. Mi sono calato sulle orecchie il passamontagna, mi sono incamminato lungo la fila di case di mattoni e per i marciapiedi sconnessi che fiancheggiano la Nazionale 617.
Flémalle: fabbriche dimesse, cokerie in corso di demolizione e in attività, memoriale 1946-1996 ai minatori italiani, deposito di autobus, castello con lapide al sindaco resistente e vittima dei nazisti, chiesa gotica in pietra grigia, videoshop, negozio di ferramenta in liquidazione.
Jemappes: Zeeman Textiels Super, Café Le Normand, Superplus Sport, maison à vendre Te Koop, le grand Canyon, Super Partner Plus.
Seraing: Eurorent, cavalcavia dell’autostrada E 25, I.P.E.S.S, deposito di pneumatici, studio à louer 049/467069, Selectcolor peintures émaux vernis, Isotort Isoplast, Aretino spécialités italiennes, Cockerill Sambre.
Tilleul: Le capital tue! Mort au capital! Marichal Ketin, Jupiler Le Corner, Jupiler The Cup, Taverne le Rouge et le Blanc, stadio dello Standard, Marmaris friterie pitas snack sandwich, vêtements de travail et de loisir, ateliers de la Meuse.
E’ il tardo pomeriggio quando mi trovo nella piazza del Generale Leman, alla periferia meridionale di Liegi, sono zuppo di pioggia fino al fondoschiena, dalle scarpe mi sale un vapore purulento, le articolazioni delle ginocchia mi fanno gnecche-gnecche e so già che stasera dovrò munirmi di aghi roventi per bucarmi le bolle, ma un Café des Espérances per la mia via non l’ho incontrato. Ah, la licenza letteraria sebaldiana!
Cerco un luogo ove sedermi, liberarmi del pastrano, andare alle toilette per asciugarmi sommariamente. Ma non c’è un bar ove non mi sentirei notato e scrutato, si vede che questi sono tutti posti da habitué. Cammino ancora. Mi trovo, non lontano dalla riva della Mosa, in un parco pubblico. A lato di un vialetto fangoso e di fronte a un laghetto mezzo asciutto si erge come un monumento mussoliniano, “nella sua necessaria solitudine”, un vespasiano dipinto di blu. C’è un curioso edificio lì davanti, un gazebo dalle dimensioni sproporzionate e, proprio difronte, un padiglione modernista dalle forme curvilinee e puntute. C’è una porta vetrata e, al di sopra della porta, una pubblicità di birra. Si tratta, vedo, di un museo e della sua caffetteria. (1)
Ecco dove troverò riposo e ristoro. Vado al bagno e faccio ciò che avevo previsto di fare, in più ordino alla barista un bel tè. Vedo che ci sono quadri dipinti tutt’intorno alla sala, e anche in un’altra saletta, e vedo che il sottosuolo del locale ospita un Musée de l’Art différencié.
Questa arte differenziata, che si distingue dall’art brut di Jean Dubuffet, è arte prodotta da handicappati mentali, come spiegano i vari opuscoli posti alla disposizione del pubblico. Mi pare di aver capito che la differenza fra questi creatori e quelli raccolti sotto la definizione di “brut” è che questi ultimi sono “personnes obscures, étrangères aux milieux artistiques professionnels” (Dubuffet 1963), mentre per i primi viene rivendicato uno statuto di artista a pieno titolo. Io non trovo quelli meno potenti di questi, ma è certo che ci sono qui belle personalità, come Salvatore Difranco, autore di sensibili opere d’après Modigliani e Magritte, o Luc Wos, che dipinge labirintiche piante di città che nulla hanno da invidiare a un Klee dell’età di mezzo. (2)
Mi sono riscaldato, parzialmente asciugato, ristorato nel fisico e financo nell’intelletto. Sono stato infine capace di protrudere sguardi lunghi e nostalgici verso la vivace barista dai capelli corvini intrecciati alla Rasta, ma non c’è stata reazione no, me ne sono uscito nella desolazione fredda oscura del parco d’Avray, che ho traversato in direzione della stazione ferroviaria, che ho raggiunto in pochi minuti, dove ho atteso il treno che veniva da Colonia e mi riportava al mio studium e alla mia città putativa.
Questo spostamento geografico, questa escursione culturale, fu dunque un buco nell’acqua. Passeranno tre mesi prima che io sia di nuovo capace di mettermi in cammino e di mettermi sulla strada. Nel frattempo c’è stato il devastante incontro con Madeleine.

14 dicembre 2002. A Parigi nessuno mi invita mai a una serata e, se mai qualcuno mi invita, sarà, nella maggior parte dei casi, una serata compassata e costipata, fissata con sei settimane di anticipo, e ove nessuno si prende la briga di presentare i nuovi venuti agli invitati abituali ed è così che, generalmente, finisco per prendere una postura torva di statua del Commendatore, mi acquatto nel primo sgabuzzino che trovo, di lì non mi muovo, nessuno mi accosta e perciò, penso, più nessuno s’azzarda ad invitarmi a una serata parigina.
Invece, mi ricordo, cosa era andare a una serata moscovita. Ci andavo con persone per le quali pareva che tutto, il proprio destino personale e le sorti del mondo, dipendesse da quello che si sarebbe incontrato in cima alle scale buie da cui erano state asportate tutte le lampadine, dietro la porta immensa il cui campanello si trovava a tentoni. Ci si fermava a un chiosco per comprare una bottiglia di vodka o di spumante moldavo e via, ci si avventurava rumorosamente dentro gli ascensori cigolanti e puzzolenti di urina, portando già l’allegria con noi.
Non mi aspettavo dunque una cosa del genere quando, nel tardo pomeriggio del 14 dicembre 2002, mi presentavo, al numero 7 del boulevard Saint Michel, all’appartamento di certe persone che conoscevo appena. Mi dicevo che avevano invitato me non tanto per simpatia ma perché un artista barbuto in un bel party dà sempre un tocco decorativo. Ma i miei ospiti, i signori Broher, erano non solo polacchi ma erano tutto tranne che parigini, e non avevo ancora toccato il campanello che già ero stato adottato, preso in braccio, trasportato da un angolo all’altro del salone, presentato a tutti i presenti senza eccezione, dissetato, nutrito, intrattenuto. Una calma sovrana mi ha pervaso, è crollata la crosta di gesso del Commendatore, ero lì al cento per cento, pronto a tutto accogliere, pronto financo ad andare incontro a qualcheduno. Lì è apparsa Madeleine che mi ha ipnotizzato con la sua voce di contralto e che, quando ha visto che il mio bicchiere era vuoto, si è allontanata da me ed è andata a prepararmi una vodka con spremuta di arancio di cui non avevo alcun desiderio e, non so perché, ho trovato tale gesto così incredibile che già avrei voluto accendere un cero in quel punto esatto del parquet in cui il suo polpaccio aveva compiuto una torsione di 68° e il profilo della sua anca aveva indicato la direzione Est-Nord Est, prima di scomparire oltre la porta della cucina. L’attesa sospesa che ha seguito quel movimento mi fu deliziosa. Quando lei è tornata e mi ha teso il bicchiere con la bevanda, l’ho bevuta in ottemperanza della mia condanna definitiva. L’ammirazione è sempre la prima tappa della caduta.

Mi rimarrà, dei successivi incontri tanto brevi da parere videoclip oppure apologhi neo-testamentari, una serie di immagini frammentarie e di impressioni aptiche registrate quando la sensibilità si affievoliva e potevo ricordarmi di ricordare, sapendo che a quelle immagini e a quelle impressioni rimemorate sarei ricorso nelle notti solitarie che senza dubbio sarebbero rivenute. Così è stato.

22 gennaio 2003. E’ stato certo il giorno più bello della mia vita. Non è accaduto niente, quel giorno. Come al solito l’ho trascorso fra lo studio e le vie del quartiere. Ma il colore del mio ozio operoso è stato fondamentalmente diverso da quello che ho conosciuto per il novantanove per cento dei miei giorni, negli ultimi quindici anni. Il 22 gennaio 2003 il mio ozio e la mia operosità sono stati sovrani e ne avevo coscienza, mentre infine abbandonavo il trascorrimento nello spazio e mi spostavo dentro il tempo. A sera sarebbe venuta Maddalena.

4 aprile 2003. Ho ripreso la mia vita di artista a quattro ruote. A Vietri sul Mare ho ritirato dagli Scotto le due cassette di maioliche che avevo dipinto in gennaio (cosa fare di quella su cui ho scritto “celle-ci est pour Maddalena?”), trascrivendo col blu di Delft la sesta pagina di La philosophie dans le boudoir. Si aggiungevano, quelle venticinque piastrelle 20×20, ai tre metri quadri di Sade che avevo già trascritto e che formeranno il pavimento leggibile di un vero e proprio boudoir ricostruito che somiglierà in verità piuttosto a una cella di clausura e che sarà visitabile presso lo spazio 3A, in vicolo Sforza Cesarini 3a a Roma, dal sabato 12 alla domenica 13 aprile 2003. 4
Caricato il cofano dell’auto con il metro quadro di Sade (questa è l’ultima volta, giuro, che lavoro con la ceramica; pesa troppo, è troppo fragile e non vedo proprio quale collezionista possa anelare al possesso di una siffatta stanza da bagno) ho tempo da perdere e da far passare ma anche lavoro da fare. Dovrò ben mostrare qualcosa, al 3A, oltre al pavimento sadiano, dovrò! Riprenderò le anatomie dipinte e le dissezioni disegnate che feci cucire a mia madre col filo rosso sulle tele di garza alte tre metri, bei sudari barocchi trasparenti che spaccio per opera mia quando mi sono invece limitato a fornire il tracciato a mia madre e farla lavorare di fretta e di notte, perché dovevo tornarmene a Parigi per farle vedere a una esposizione. Allo stesso modo ora ho fretta, e la mia crisi creativa assortita di leggera depressione che dura ormai da qualche anno (un effetto post-thòrunniano, più in là mi spiegherò) va combattuta in stato d’emergenza e sotto mostra, con una trovatina come questa: attingere al proprio repertorio e prodursi in una variazione sul tema, allungandosi nella direzione di una radicalità che, se non potrà essere estetica, sarà almeno tematica.
Queste dissezioni verranno quindi riprodotte al tratto, con pittura trasparente color rosso sangue, dipinte su due vetri sovrapposti, uno dei quali rivoltato, in modo da avere un disegno sdoppiato e una doppia ombra, pure rossa, al muro.
Metto in moto e guido verso Raito, che sovrasta Vietri Cerco un posto dove parcheggiare, un bel posto panoramico. Lo trovo sotto Villa Guariglia, che è il museo della ceramica. Parcheggio fra due pulman da cui sono scese le scolaresche in gita, ma mi sento osservato dagli autisti che si fumano le sigarette, riavvio l’automobile e la porto su di un piazzaletto sterrato, fermo le ruote proprio sul bordo del dirupo, davanti a me c’è tutto il golfo di Salerno. Armeggio nel cofano, tiro fuori le lastre comprate alla Vetreria S. Ciro di Vico Equense, i colori, i pennelli. Trovo una bottiglietta vuota di Coca Cola, ne ritaglio il fondo col coltello a seghetto che tengo sempre in macchina e che uso in genere per fare la cicoria durante le mie soste presso le aiuole delle autostrade, in tal modo mi faccio una ciotolina che riempio di acqua Ferrarelle e che userò per pulire i pennelli. Mi seggo al posto accanto a quello di guida, pulisco i vetri con lo sputo e un fazzolettino di carta. Il fazzolettino di carta lo butto fuori del finestrino, ce ne sono già tanti a terra, questo deve essere un luogo di appuntamenti notturni e furtivi, io non ho appuntamento con nessuno ma vedi, i miei fazzolettini li ho anch’io e li getto fuori dal finestrino così sporchi di rosso come sono, in mezzo a tutti gli altri.
Chino come sto su qualcosa affaccendato, chiuso dentro l’auto, gli autisti dei pulman scolastici che – vedo nello specchietto retrovisore – mi guardano di lontano, penseranno certo che mi sto facendo le pere. Lavoro di tratteggio con la pittura purpurea per un paio d’ore; mano a mano poggio le lastre ad asciugare sui sedili e poi sul ripiano del finestrino posteriore. Lavoro senza voglia ma con stolida diligenza; stavolta sono io quello che dà l’ordine ma anche colui che esegue. Ho riempito tutto lo spazio disponibile nell’automobile, mi rimetto al posto di guida, esco in retromarcia dalla piazzola, mi immetto nella S. S. 163 della Costiera Amalfitana, ridiscendo a Vietri, traverso la piazza, esco dal paese, imbocco l’autostrada A3 in direzione nord.

6 aprile 2003. Il Museo campano di Capua è uno di quei tesori poco noti o noti solo a qualche fanatico storico dell’arte tedesco od inglese, che esistono solo in Italia meridionale. Ma forse sono ingiusto, non so, forse schiere di e stuoli di semplici cittadini si pressano alle porte del palazzo principesco dei San Cipriano per avere visione dei bassorilievi e delle steli raccolte da Theodor Mommsen nel lapidario o, nella pinacoteca, della Deposizione di Bartolomeo Vivarini, oppure delle teste colossali salvate dalla demolizione della porta federiciana, oppure della raccolta di antichità italiote, romane, greche, fra cui alcuni vasi a figure rosse poggiati su mensole come voi poggereste una tour Eiffel di latta dorata, ma questo pubblico colto e civile io il 6 aprile nel polveroso museo campano di Capua non l’ho visto, c’erano, è vero, alcuni studiosi occhialuti nelle sale della biblioteca annessa al museo, che è ricca di 50.000 fra pergamene carte geografiche e volumi vari, in-folio, in-ottavo, in-quarto e financo in-sedicesimo, ma quel pubblico che il museo di Capua meriterebbe doveva trovarsi in visita a una qualche pappa fatta tipo “Tutti i Caravaggi sintetici” o “I ninnoli di Picasso dalla collezione East-Southampton di Levallois-Perret”.
Nel 1845 il signor Patturelli, proprietario di un terreno in località Petraia, presso la via Appia, aveva ordinato di sterrarlo per edificarvi un muro di cinta. Vennero fuori dalla terra fregi e sculture antiche. Immediatamente il Patturelli fece ricoprire i reperti, per evitare noie e perché non gli venisse bloccata la costruzione del muro. In questa circostanza vari pezzi vennero danneggiati o asportati per essere rivenduti, e la voce della scoperta iniziò a circolare. E’ quindi probabilmente alle enclosure borghesi dell’Ottocento che dobbiamo le Matres.
Nel 1873 iniziarono degli scavi un po’ disordinati, regolarizzati solo qualche anno più tardi. Rividero la luce più di centosessanta statue lavorate nella pietra locale, il tufo. Rappresentano tutte donne sedute con in braccio uno o più neonati in fasce (fino a ventisei, ma in media ce ne sono sette o otto) e sono state eseguite nell’arco di forse mille anni, dal neolitico fino all’epoca imperiale, e traversano tutti gli stili e le tecniche plastiche dell’antichità; vi si intrecciano le influenze osche, etrusche, greche, latine ed ellenistiche. Si tratta delle Matres Matutae, monumentali offerte votive per ringraziamento di un parto riuscito o per propiziazione della fertilità familiare e insieme mostra della ricchezza acquisita. Per mille anni tutta una città si è avvicendata sul luogo di culto della Mater italica, depositando doni e lasciando la più meravigliosa collezione di variazioni sul tema della fecondità, dalle appena sbozzate forme geometrizzanti alle opime figure “tozze e mostruose sì che sembrano rospi” (Mancini, cit.) ai morbidi panneggi e ai volti ovali dell’ultimo secolo prima di Cristo.
Scelgo proprio la più antica madre, quella che il guardiano chiama ironicamente “picassiana” e – del resto – è ben autorizzato all’ironia, visto chom la guida a stampa del museo reciti “Gli errori nella costruzione della persona sono tanto singolari da rendere l’immagine particolarmente attraente”. Misuro dove guarda e annoto che guarda a nord, a 27° N-NE per essere precisi. Buono a sapersi.

23 aprile 2003. Sulla S. S. 1 Aurelia, in direzione Europa. Quante volte avrò percorso questa strada, diecimila, ventimila, non so. Potrei chiudere gli occhi e dire a quale chilometro ci troviamo, secondo l’odore dei campi fertilizzati o delle centrali termoelettriche o del mare sugli scogli, secondo l’ampiezza di una curva o la ramificazione delle crepe nell’asfalto, secondo il frinire delle cicale o quello dei cavi dell’alta tensione.
La vetturetta che guido è stracolma: i miei archivi personali, i taccuini, gli scritti battuti e ribattuti, le foto di famiglia, quelle di mio fratello, rotoli e pacchi di lavori incompiuti, senza presente né futuro. Tutto ciò che mi appartiene o mi definisce viaggia oggi insieme con me: se avessi ora un incidente e questa auto bruciasse insieme con il suo contenuto, di me non resterebbe che qualche quadro appeso in appartamenti di amici che non si conoscono fra di loro e un paio di articoli in diverse lingue, pubblicati qui e là in riviste a diffusione confidenziale.
Sto re-trasmigrando a Parigi, città ove ho vissuto per quasi quindici anni. Eppure ho la sensazione di andare in esilio. Per le mie carte avrei ben volentieri trovato un bel rifugio rurale: una casupola di collina con vista sul mare Mediterraneo, per esempio. Ma quello che mi è capitato è uno studio a Parigi: noi accettiamo, accogliamo ciò che viene, che sia Madeleine che si fa conoscere a mezzanotte o Xavier che mi offre un atelier in mezzo alle chiacchiere di un vernissage, ed ecco sto sulla statale Aurelia per la ventimillesima volta, ma non vado stavolta a insegnare ai bambini di Torrimpietra, non vado a pescare anfore romane al largo del porticciolo di Tarquinia Lido, non vado con la ragazza nell’appartamento vuoto umido d’inverno a Porto Ercole, non vado a imparare il mestiere di falegname a Genova nel sestiere di Pré, non vado a ridipingere una casa a Hyères, dormendo in un capannone sulla spiaggia insieme con mio fratello. No, me ne vado a Parigi con il mio fottuto archivio personale e qualche capo di vestiario inzeppato dentro il cofano.
Quando guido non ho fretta ma ho ansia e non ho voglia di fermarmi. Se lo faccio, è solo per svuotare la vescica e riempire il serbatoio. Del resto non appena metto i piedi a terra le gambe mi tremano a causa delle vibrazioni e solo quando mi riseggo in auto il tremore passa. Siamo un tutt’uno io e la mia Fiat Uno.
E’ quasi il tramonto quando, dalle parti di Basilea, mi fermo per fare benzina. Non vendono birra alla stazione di servizio, e questa è l’ora in cui ho bisogno d’un petit remontant, quoi! E perciò mi trovo costretto ad aprire il vano del cruscotto, tirarne fuori una bottiglia sigillata di Jameson e tirarne tre belle sorsate. Dopo di ciò la strada è più sgombra e il motore più brillante, sorpasso tutti cantando a squarciagola e mentre affondo nel bel tramonto color pastello mi si schiarisce la testa e mi vengono finanche nella mente quelle idee che mi sono mancate per tutto il mio soggiorno in Italia, paese che è per me quello degli affetti (oh, affetti, oh, affetti cari, come vorrei fondermi in voi e nell’alcol e smettere alfine di essere inafferrabile dai più!) ma non quello dell’intelligenza.

23 maggio 2003. Ecco, sono di nuovo fuggito. Questo è il mio movimento, non appena manco di movimento. Passo una giornata normale come di più non si puote, cerco materiali in giro per i bazar, srotolo stoffe di organza e poliestere al Marché St. Pierre, mi costruisco una porta scorrevole fra bagnetto e corridoio, raccolgo con le dita le scagliette di vecchia pittura cadute sul piancito dello studio, mi faccio venire in mente un lavoro di grosse dimensioni, che potrebbe portare per titolo, diciamo, Quattro tesi sul fascismo, faccio bollire quattro patate e due uova che depongo in un sacchetto di plastica, metto il sacchetto in una borsa e prendo una metropolitana per la stazione del Nord.
Ecco sono arrivato di mattino presto, come al solito, alla stazione Zoo e sto per iniziare una delle giornate più insulse della mia vita. Ho lasciato la borsa in una cassetta del deposito automatico, ecco sono uscito sulla Hardenbergerstrasse pulito e leggero come fossi anch’io un berlinese. Mi dirigo innanzitutto verso la Bauhaus su Kurfürstendamm, è una lunga camminata ma voglio vedere che materiali e attrezzi vari vendono lì. Alla Bauhaus mi carico di una decina di tubi di silicone solo perché costano una trentina di centesimi meno che a Parigi.
Sono di nuovo nella strada, di nuovo carico di peso materiale e morale ma senza assolutamente nulla da fare e senza alcuna voglia particolare. Sulla Westphälischestrasse c’è mercato, una decina di camioncini aperti su un lato per un pubblico che, come sempre in questa città vuota spaziosa silenziosa, è ben rado.
Senza perdere tempo mi compro un bockwurst, anelavo a ritrovare la sensazione della pelle che resiste e poi cede sotto la pressione degli incisivi che affondano nella carne molle e rosea della salsiccia, ed inizio con questa esperienza mattutina una vera e propria tournée di analisi comparata. E’ vero, difatti, che nel bockwurst della Westphälischestrasse la pelle scrocchia bene sotto i denti, ma la polpa è, non so, direi, come granulosa. Al mercato di Wittenbergplatz il Wurst è forse meno caldo, ma il gusto del maiale è più delicato. Alla fine mi servirei piuttosto al chiosco sulla Savignyplatz: buona resistenza al morso, affondamento graduale nella ciccia, ottima temperatura di servizio, soddisfacente persistenza nel palato.
E dopo queste coscienziose prove ho avuto voglia di birra e mi sono messo alla ricerca, ma non potevo accontentarmi di una lattina comprata al supermercato no, cercavo un buon bar ma a forza di camminare mi sono trovato nella parte più vuota di questa città vuota, dalle parti del Tiergarten e della Lützowplatz. Non ci caffè né chioschi né pizzerie qui. Mi sono deciso a entrare in un hotel, perché grandi alberghi chiese cattoliche e biblioteche pubbliche sono gli ostelli dei vagabondi come me, in tali luoghi infatti nessuno ti fa domande se entri e vaghi qui e lì e una poltrona o un sedile gratuito nessuno te li nega, provare per credere.
L’Hotel Berlin sulla Lützowplatz non fa eccezione a questa basica regola. Il cortese groom mi ha messo sulla buona direzione per il bar ma la hall e i corridoi sono ingombri di banchetti e stand fieristici illuminati da spot e proiettori, guardati da uomini rubicondi dalle cravatte fantasia, seduti dietro mostre di apparecchi cromati, bisturi e trapani di tutte le taglie e dimensioni, calchi di chiostre dentarie, dentiere vere e finte, protesi in ceramica vetroresina oro platinato e platino placcato, braccetti telescopici e motorini stroboscopici e strumenti speciali per odontotecnici mancini, mi sono trovato nel bel mezzo dell’ottavo simposio internazionale di impiantistica odontoiatrica, mi districo infine fra espositori e materiali umani e disumani, seggo a uno sgabello del bar, bevo le mie due birre ascoltando di sottecchi un giapponese e un polacco che discutono a segni della maniera migliore di ricostruire al laser un secondo canino inferiore destro distrutto -insieme con tutto il resto di una dentatura alla Presidente del Consiglio- da un colpo di ferro da stiro marca “Optimus”.
E’ ancora l’inizio del pomeriggio quando, gonfio di birra e di salsiccia e più stolido che mai, mi trovo sulla riva del Landwehrkanal e mi appoggio alla ringhiera a guardar passare i gai battelli che trasportano le gite aziendali. Mentre la pioggia inizia a scendere più fitta ne passa uno piano piano: una trentina di uomini e due donne, tutti con occhiali da vista dalla montatura di tartaruga, ballano al suono di “Mamma mia” degli Abba. Seguo la schiuma del battello allontanarsi verso il Möckernbrücke e mi distacco dalla ringhiera, mi affretto verso la biblioteca nazionale, nell’androne c’è una bella fila di poltroncine comode allineate lungo la vetrata sul Kulturforum, basta poggiare la testa sullo schienale e ci si addormenta all’istante.
Mi risveglio dopo mezz’ora, non so, adesso ho bisogno di caffè e sigaretta. C’è un chiosco proprio difronte all’ingresso principale della biblioteca, ha una pergola che protegge dalla pioggia, seggo a un banco, sonnecchio oppure guardo la gente che aspetta l’autobus alla fermata del 148. Mi salva l’ora che passa, è quasi sera ed è tempo di ritrovare gli amici.

26 maggio 2003. Al centro della città di Potsdam, proprio a ridosso della chiesa cattolica di San Pietro e Paolo, c’è un piccolo cimitero che raccoglie i corpi di 372 soldati sovietici caduti nell’ultima guerra mondiale. Mesi fa capitai in questo luogo per caso, una volta in cui, vagando per un quartiere olandese tutto ripulito e occupato da antiquari e centri di abbronzamento, venni attirato verso la piazza del mercato dall’odore del Potsdamerwurst e, mentre ne addentavo uno, scorsi la cima di una piramide scura fra le fronde dei tigli limitrofi alla piazza. So che la piramide, simbolo di resurrezione, è frequente nei monumenti funerari sovietici. In Russia avevo spesso visitato cimiteri le cui lapidi erano semplici tralicci di ferro a forma di guglia o di obelisco, dipinti di grigio e sormontati talvolta da una stella rossa. Ero solo sorpreso che un tale memoriale si trovasse nel pieno centro di una città barocca ben preservata, per quanto parzialmente danneggiata dai bombardamenti alleati del 1945.
Passato il cancello del cimitero e percorsi in cerchio i vialetti, esaminai da vicino il monumento che avevo scorto dalla piazza e vidi come, dei quattro soldati di bronzo in pose eroiche che decoravano la base della piramide, uno solo era senza movimento e in postura di saluto sull’attenti ed era quello che guardava verso l’est, “verso la madrepatria”, pensai, sicché il suo sguardo, ulteriormente ripreso dalla linea di mattoni sul suolo del parco antistante, guardava diritto, oltre il Brandenburgo, la Slesia, la Galizia e la Bielorussia, in direzione di Mosca, e alle sue spalle la punta dell’obelisco addirittura copriva, se guardata da posizione frontale, la cuspide della chiesa retrostante, il cui abside, come spesso nell’architettura religiosa, era rivolto a oriente, al sole levante e alla resurrezione dei corpi che di lì verrà annunciata. Insomma lo scultore Brams, che aveva disegnato il monumento nel 1949, lo aveva allineato sulla St. Peter und Paul Kirche e, al di là di quella, sull’asse est-ovest di questa pianificata città di guarnigione e capitale estiva dei re-soldati prussiani, affermando in tal modo un sincretismo, non so quanto consapevole, fra fede nella resurrezione cattolica, culto socialista dei morti e razionalismo militar-prussiano. Una bella riuscita, pensai, che dovrò degnamente ricordare con un cartello apposto avanti al cimitero, cartello clandestino o autorizzato che sia, ma che, in ogni modo, porti una firma al mio pensiero.
Ho il cartello con me, l’ho preparato prima di partire, il testo me lo sono fatto tradurre in tedesco da Andreas, l’ho riprodotto su acetato trasparente, è protetto da scotch e plexiglas, ho solo dimenticato le cordicelle per appenderlo alla griglia metallica. Non fa niente, aspetto che non ci sia più passaggio fra la Bassinplatz e il mercato, i giardinieri lavorano lontano e non mi guardano né mi vedono, poggio il cartello sulla ringhiera presso il cancelletto, lo contemplo un attimo e scivolo via verso la stazione.

(2002-03)

Note

p. 1: W. G. Sebald, Austerlitz, Milano 2002, pp. 35-36, traduzione di Ada Vigliani.
p. 6: Amministrazione Provinciale di Caserta, Il Museo Campano di Capua. Guida per i visitatori, Capua 1998
p. 6: L. M. F., Il santuario del fondo Patturelli, http://www.cib.na.cnr.it/capua/testi/patt.html.

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Asylum (2001)

I

Nel corso della seconda guerra mondiale Napoli soffrì l’occupazione nazista solamente per venti giorni, prima che la rivolta popolare e l’avanzata degli Alleati inducessero le truppe tedesche ad abbandonare la città. Non ci fu quindi il tempo di organizzare una sistematica persecuzione della popolazione ebrea e “solo” quattordici ebrei napoletani, catturati in altre regioni d’Italia, morirono nel quadro del progetto di sterminio razziale.
Occuparsi della Shoah a Napoli significa, di conseguenza, appellarsi, nella speranza che sia condivisa, a una coscienza universale, piuttosto che a una comune e riconosciuta esperienza storica.
In riferimento a quanto detto e tenuto conto della particolare situazione in cui sono stato chiamato a intervenire, la mia esperienza napoletana non può essere presa come un exemplum di allestimento storiografico e museografico ma, piuttosto, come un’esperienza da raccontare.

L’evento in questione ebbe luogo nel gennaio 2001 all’Albergo dei Poveri di Napoli, edificato a partire dalla metà del Settecento dal re Carlo III, su progetto di Ferdinando Fuga e sul modello di simili istituzioni europee dell’età barocca. Si tratta di una costruzione incompiuta: solo tre delle cinque ali previste vennero innalzate, e monconi di mura a cielo aperto testimoniano della chiesa cruciforme prevista nel cortile centrale. Nonostante l’interruzione dei lavori, troppo costosi per essere sostenuti più a lungo dalla monarchia borbonica, il “Palazzo Fuga” rimane uno dei più grandi edifici d’Europa e presenta apparentemente la più lunga facciata che esista. La sua tipologia architettonica, descritta a suo tempo da Michel Foucault come il modello della fabbrica e del penitenziario allo stesso tempo, è espressione di una utopia autoritaria che costituisce uno degli aspetti dell’epoca illuministica. Questi luoghi di segregazione erano intesi come strumenti di pulizia sociale del territorio: invalidi, mendicanti, orfani, prostitute, anziani, giovani delinquenti, “zitelle” di tutto il regno venivano raccolti e concentrati qui, tanto per essere sottratti alla pubblica vista che per essere trasformati in mano d’opera di modico costo.
L’Albergo dei Poveri napoletano avrebbe dovuto nei progetti iniziali ospitare fino a ottomila persone (a tanto era stimato lo strato più marginale della popolazione) ma non arrivò ad accoglierne che quattromila allo stesso tempo, presentando comunque, prima di essere progressivamente svuotato, il carattere di una cittadella autonoma, con le proprie amministrazioni, cucine, manifatture e l’annesso cimitero dalle 365 fosse. Nel 1980, infine, il terremoto causò la parziale distruzione di un’ala e la morte di undici anziani lì ricoverati e ciò segnò di fatto la chiusura dell’edificio in quanto asilo per i poveri; vi rimasero però alcuni uffici amministrativi e le sedi di diverse attività “informali”. Fra il 1980 e il 1990 il palazzo fu letteralmente saccheggiato di arredi e mobilia e l’aspetto che presenta ora è quello di una magnifica e labirintica rovina. Recentemente, con finanziamenti pubblici ricavati dal gioco del lotto, sono iniziati lavori di consolidamento statico, e si attende la definizione di un piano di recupero e di utilizzazione di questo immenso edificio, che appartiene al Comune di Napoli.

Questo era dunque il sito in cui si era previsto di organizzare un evento di commemorazione dell’Olocausto. Va ora menzionato il momento epocale in cui un tale evento ha luogo.
Schematizzando grossolanamente, si può dire che ci sono state tre fasi del riconoscimento storico della Shoah. La prima, fra la fine della seconda Guerra mondiale e la metà degli anni Settanta, è stata segnata da un relativo silenzio intorno alla persecuzione degli ebrei; si ebbero, certo, momenti di intenso dibattito, in particolare in occasione del processo Eichmann, e importanti libri vennero pubblicati (Levi, Wiesel, Hilberg). Una seconda fase, negli anni Settanta e Ottanta, vide una diffusione della consapevolezza di quanto accadde, in concomitanza con gli opposti fenomeni del revisionismo storico e di una produzione visiva –e soprattutto televisiva, come la serie americana Holocaust- che toccò un largo pubblico (è interessante notare come le più diffuse denominazioni per ciò che accadde agli ebrei europei nel corso dell’ultima Guerra vengano da film: oggi viene considerato più corretto usare il “lanzmaniano” termine Shoah). Nella terza fase, che stiamo traversando oggi, assistiamo da un lato alla istituzionalizzazione della memoria, insieme con una sorta di saturazione di questa che porta, fra l’altro, a fenomeni quali il sorgere di voci che dicono come gli ebrei stiano “esagerando” con questa storia.1

Nel gennaio 2000 quarantacinque nazioni avevano inviato i loro rappresentanti a Stoccolma, a una conferenza in cui venne presa la decisione di commemorare, ogni 27 gennaio, giorno anniversario della liberazione di Auschwitz, lo sterminio degli ebrei europei. Il parlamento italiano legiferò a questo proposito nel luglio successivo, e la legge dello Stato n. 211 consacrò la Giornata della Memoria come avvenimento istituzionale, con particolare menzione delle istituzioni scolastiche.
Gli animatori di un organismo sportivo attivo già da trent’anni nei locali dell’ex Albergo dei Poveri e impegnato nel recupero sociale dei giovani del quartiere circostante ebbero notizia dell’approvazione della legge e associarono immediatamente il luogo del loro impegno alla prevista ricorrenza: l’Albergo, difatti, era stato per più di due secoli un luogo di reclusione e di sofferenza, le cui tracce erano ancora visibili sui suoi muri scrostati e in tutta la sua struttura cadente. Si trattava, dunque, di un sito “ideale” per una tale commemorazione. “Troppo ideale”, pensai io, quando, interpellato da un amico che aveva fatto da agente nella loro ricerca di un artista, andai a Napoli a visitare l’edificio. E mi domandavo perché era necessario un artista, per animare la commemorazione di una “giornata della memoria”. La risposta che mi detti fu che, di fronte a un avvenimento razionalmente inesplicabile ed emotivamente intollerabile, si tende a fare appello all’inesplicabile ed emozionale fatto della creazione artistica.
Accade ciò: un luogo che appartiene solo a se stesso e alla propria memoria incontra un tempo della memoria che ha le proprie ragioni di essere. Ma dai due termini composti insieme, in un movimento che, a partire dall’empatia, tende all’identificazione, può facilmente scaturire un avvenimento altamente kitsch. E cosa è il kitsch, se non una rappresentazione che rimane, a partire dall’emozione e dal buon sentimento, sempre legata e subordinata al proprio soggetto e non raggiunge mai una forma autonoma e liberata? E l’Albergo dei Poveri non era, nel suo magnifico e oppressivo disfacimento, appunto il luogo “ideale” per una ulteriore kitschificazione dello sterminio degli ebrei?
La difficoltà, per qualcuno chiamato a curare un evento in un tale luogo e a proposito di un tale soggetto era proprio il fatto che alcune analogie formali, pur nella fondamentale incomparabilità dei due fatti storici, erano riconoscibili: l’attitudine igienica e paranoica verso le identità marginali e differenti, una certa “manifatturizzazione” del loro trattamento, la pratica di separazione e di segregazione. Ma appunto l’amalgama delle diverse persecuzioni e sofferenze andava evitato; allo stesso tempo andavano eluse tanto la litania commemorativa quanto la mera presentazione di documenti.
Ammetto che ero forse più interessato al luogo che al soggetto. In quel periodo mi stavo occupando di concetti quali rifugio, riparo, accoglienza e, avendo montato, nel maggio precedente, nei Paesi Bassi, un “paracadute” che era stato un esercizio fallito di ospitalità incondizionata, mi domandavo come immaginare un rifugio che non fosse allo stesso tempo una prigione. D’altro canto non volevo “fare arte su” un soggetto così definitivo che, oltretutto, non era solo uno fra i tanti orrori del passato e del presente. Un tale fatto doveva essere lasciato, pensavo, alla propria storicità o al proprio interrogativo sulla storia stessa e non trattato come un soggetto “artistico”. Una “messa in forma”, tuttavia, era necessaria, che la si chiamasse “cura”, “design” o “installazione”: la questione era quella di dare, alla lettera, una cornice alla ri-presentazione della catastrofe. Come si sa, la cornice è l’elemento intermedio che stabilisce la comunicazione fra il quadro e lo spazio in cui viene posto.

Giunsi a Napoli, quindi,avendo in mente un paio di riferimenti. Innanzitutto un articolo di Gianni Vattimo, “L’impossible oubli”, pubblicato negli atti del convegno di Royaumont sugli Usages de l’oubli, gli usi dell’oblio (Paris 1988). A partire dal testo di Nietzsche su “l’utilità e il danno della storia” Vattimo suggerisce come, in un periodo quale l’attuale, che vede una autentica “febbre storica”, un tale eccesso andrebbe non solo riconosciuto ma anche estremizzato, piuttosto che rifugiarsi nella dimenticanza attraverso o la religione o l’arte vista come opera “unica, istantanea, classica”. L’idea di una creazione smemorata, debitrice di una estetica dell’utopia, non può ormai più essere proposta.
Il secondo testo che portavo con me era un recente articolo di Régine Robin, “La mémoire saturée”, la memoria satura, pubblicato in L’inactuel del settembre 1998. Régine Robin è una ricercatrice francese che ha lavorato estensivamente sulla relazione fra memoria e invenzione; nell’articolo che ho menzionato, ad esempio, ricorda come, alla liberazione dei campi, alcune immagini fotografiche furono il risultato di una messa in scena. La posizione di Robin riguardo alla rappresentazione della Shoah è che si dovrebbero stabilire spazi di meditazione e riflessione, piuttosto che tentare di ricreare l’esperienza traumatica. Ciò che blocca la trasmissione, nelle istituzioni ufficiali della memoria quali il Washington Holocaust Memorial Museum, è “l’eccesso di immagini e di spiegazioni”. Si dovrebbe, piuttosto, aprire un terzo spazio, uno spazio “spettrale”, che potrebbe introdurre sia all’accettazione dell’eredità che alla sua trasmissione.
Infine, avevo con me il testo che conteneva le parole più celebri e più citate a proposito della possibilità di un’arte dopo l’Olocausto: Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben ist barbarisch, “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbarico”, scriveva nel 1949 in “Kulturkritik und Gesellschaft”2 Theodor Wiesengrund Adorno. “Attraverso il principio estetico della stilizzazione… un fato inimmaginabile appare di nuovo come se avesse un senso e, nella rimozione di una parte dell’orrore, viene trasfigurato”, riaffermava in una trasmissione radiofonica del 1962, pubblicata tre anni dopo3. Non mi dilungherò sul dibattito intorno a queste righe4, ma vorrei rammentare la poco menzionata revisione del filosofo tedesco. Ecco quanto afferma, in uno dei suoi ultimi scritti: “Il dolore incessante ha tanto diritto ad esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia. Invece non è falsa la questione meno culturale, se dopo Auschwitz si possa ancora vivere…”5. E, più in là: “Dopo Auschwitz non c’è parola che venga dall’alto, neanche una parola teologica, che sia nel suo diritto, a meno che non incorra in una qualche trasformazione”6. Nel disegnare le linee dell’installazione napoletana del 27 gennaio mi sono lasciato autorizzare da questo spiraglio aperto intorno al concetto di trasformazione, a questo singolo aggettivo, verwandelt, che ho parafrasato in modo così prolisso.

Quando arrivai all’Albergo dei Poveri capii come quella “chiamata” cui avevo risposto era nato da un malinteso linguistico, da una traduzione scorretta. Mi fu evidente che lì si diceva “artista” all’antica. Così come mia madre chiamava artista un cantante d’opera o un attore di cinema, a Napoli si intendeva per artista una persona della scena, un uomo di spettacolo. Diverse discussioni e controversie nacquero da questo malinteso, che ora non rimpiango, perché capii che, se si vuole “rastrellare largo” occorre in parte rinunciare alle proprie radicalità estetiche o ideologiche. Una parte performativa della Giornata ci fu, ma limitata all’inaugurazione della mostra, e non si ebbero, come mi era stato prospettato all’inizio, bande di giovani del quartiere vestiti a strisce che bloccavano gemendo il traffico di piazza Carlo III, in una performance certo suggestiva, ma che avrebbe espresso tutto quell’approccio mimetico che intendevo evitare.
Scegliemmo di non montare niente che avrebbe espresso un atteggiamento di compassione o di commozione, precisamente perché questo atteggiamento porta a solidarizzare di volta in volta con la vittima di turno, dimenticando la specificità del fatto storico -e accadde di fatto che gli avvenimenti in Israele e in Palestina mettessero in pericolo la tenuta stessa della Giornata sulla Shoah. Per la serata inaugurale decidemmo di lasciare il sito nello stato in cui lo avevamo trovato e di dargli una diversa vita per alcune ore, con la diffusione di voci registrate nella strada e scene simili a tableaux vivants che, invece di insistere sulla ricorrenza o cercare verosimiglianza, producessero un mancamento di senso, uno spiazzamento del visitatore; questi avrebbe dovuto trovarsi, piuttosto, di fronte a una “presenza dell’assenza”, a un riconoscimento della perdita e a una consapevolezza della fragilità delle tracce. Cercavamo un approccio allegorico, nella volontà però di evitare l’assoluta presa di distanza cui l’allegoria può indurre; occorreva che si sentisse una poiesis, un lavoro in corso.
L’esposizione permanente fu montata in un contesto meno rumoroso. Non facemmo “allestimenti” di sala, non ridipingemmo i muri né vi appendemmo pannelli. Quanto alle suppellettili, usammo quelle che trovammo nell’edificio stesso, rimanenze delle sue precedenti funzioni. Insieme con i giovani che ci aiutavano nell’installazione penetrammo nei locali abbandonati dell’Albergo, camminammo su tappeti di carte d’archivio gettate al suolo perché non avevano interessato i saccheggiatori e ci impadronimmo di quello che ci avevano lasciato: lavagne, banchi di scuola, poltrone di cinema, tavolacci, scaffalature. Portammo i mobili negli spazi della mostra e vi riponemmo il materiale documentario raccolto fino ad allora. Pulimmo sommariamente le sale e installammo computer, stampanti, videoproiettori. I locali rimasero così come li avevamo trovati, nudi, trasparenti verso la storia. Installammo una collezione: raccogliemmo e rendemmo accessibili fotocopie di documenti originali, film, libri, gli originali delle leggi razziali, e raccolte di dati e connessioni internet. Il risultato fu che molti visitatori furono offesi o delusi dalla “mostra”, perché non c’era “niente da vedere”, mentre altri, pochi, tornarono giorno dopo giorno, servendosi degli strumenti che erano stati messi a disposizione.
Pensavamo che, invece di riproporre la ninna nanna consolatoria del dovere di memoria, avremmo dovuto dare un struttura al lavoro anamnestico. Il principio della mostra permanente era un principio di relazione. Non c’era nulla da vedere, se la gente non voleva vedere nulla. C’era da usare il luogo e le suppellettili, era possibile prendere un libro e fotocopiarlo, prendere una cassetta video e visionarla, o usare i computer per visitare in Internet i siti dedicati alla Shoah. Avremmo offerto strumenti di ricerca e di educazione invece che agnizione emotiva. Per ciò fare, soggetto della mostra sarebbe stata, invece che il genocidio degli ebrei in quanto tale, la sua rappresentazione in letteratura, musica, cinema, teatro, arte visiva, nelle sue differenti forme. Avremmo posto la questione della rappresentabilità senza proporre una soluzione, ma avremmo reso disponibile tutto il materiale che era stato prodotto in Italia fra il 1945 e il 2000, lasciando il visitatore libero di consultare e utilizzare questo materiale. Confidavamo nel fatto che la cornice stessa della mostra, il cui principio ci pareva abbastanza trasparente, sarebbe stato preso come un invito all’interpretazione. Invece di gridare allo scandalo della storia, avremmo tenuto conto di tutti i depositi, le stratificazioni, i residui e i lavori che la storia ci aveva lasciato.
Lo scopo dell’evento napoletano non era quello di “preservare” la memoria –continuo a pensare che ogni tentativo di preservare ha necessariamente un rapporto con la contraffazione ed è quindi uno dei territori del kitsch, e considero ancora il kitsch come una forma di cattiva arte. Quell’installazione non intendeva neanche “toccare” emotivamente –per quanto creda che non ci sia nulla di riprovevole nel voler “toccare”, sia nella disciplina artistica che in quella storica.
Il nostro compito non era quello di indicare modelli etici –diciamo, erigere un monumento-, né quello di raccogliere prove e dimostrazioni –diciamo, costruire un museo. Ciò che veniva raccolto e collocato negli spazi dell’Albergo dei Poveri era un insieme di documenti scelti della rappresentazione, di prodotti scritti o visivi che avevano a che fare con lo specifico soggetto della Shoah in Italia. Nel corso di questo procedimento di reperimento, raccolta e messa a disposizione in un particolare quadro, gli oggetti venivano visti come strumenti di un potenziale confronto intellettuale. Quello che alla fine venne presentato era una “collezione installata”, un montaggio o una meccanica di documenti, era una proiezione della storia.

II

Ma cosa ha a che fare tutto ciò con la mia pratica di artista, e cosa mi decide a parlare in questo luogo del mio proprio lavoro artistico? Un solo elemento è comune a tutte le installazioni e le azioni che ho menzionato e che menzionerò: il fatto di lavorare, secondo una pratica di appropriazione e metamorfosi, su un soggetto storicamente definito.
Ma è possibile confrontarsi allo stesso tempo “esteticamente” e “veracemente” con la storia? E’ dato un approccio che sia allo stesso tempo logico e lirico e che, al di là della estetizzazione della memoria e al di là della mera testimonianza, passi per un uso, necessariamente irrispettoso, dei sedimenti rimastici?
O dovremmo invece tenerci al rispetto dei nostri antenati –siano stati essi vittime, esecutori o “solo” spettatori- e alla conservazione di quello che ci hanno lasciato? Dovremmo costruire altri musei? Oppure dovremmo ancora edificare memoriali ammonitori e opere d’arte responsabili? O monumenti sopra i monumenti, come parodie di quelle opere d’arte coperte dai sacchi di sabbia durante l’ultima guerra?
I monumenti sono cose che puntano il dito verso una qualche direzione, esprimono la fiducia nel fatto che si possa puntare il dito, che ci siano lezioni da dare e insegnamenti da ricevere, ed esempi storici da additare a condanna o emulazione. Esprimono, anche, la convinzione che il corpo sociale possa essere modellato dal richiamo alla memoria. Così come i musei, i monumenti sono invenzioni utopistiche oltre che nazionalistiche. Per parafrasare il Leopardi dello Zibaldone, un monumento è sempre speranzoso e ottimistico, nel suo indirizzarsi a un futuro che si considera delineato e che è incarnato nell’icona dell’identità collettiva. Un monumento è sempre a qualcosa. Un monumento che fosse con qualcosa sarebbe disinteressato al punto di divenire invisibile. Questo è il monumento che immagino. Mi domando se non è una sorta di essere “con” che mi interessa nella “ripresa” del passato. Non si tratta solamente dell’uso di materiali e di strumenti originali; si tratterebbe di un tale uso che, dalla saturazione stessa e dall’inconoscibilità delle memorie farebbe emergere frammenti di anamnesi e creerebbe una nuova forma fatta dei fantasmi di quel materiale. Potrebbe questo essere un fruttuoso tradimento, se potesse metterci in contatto con il passato, al di là del ricordo e al di là della rappresentazione?

Ma a cosa potrebbe somigliare un monumento non assertivo e non identitario?
Avendo posto questa domanda a me stesso, mi trovai a essere invitato a partecipare a una mostra di gruppo dal titolo Models of Resistance, mostra che ebbe luogo a Copenhagen, l’anno scorso. Quella città era stata il teatro, alcuni anni prima, di mie esperienze. Non appena ritornatovi uscii nottetempo e segnai i punti di cui mi ricordavo. Qualcosa lì era accaduto: vi applicai il simbolo dei monumenti protetti dalle Nazioni Unite, il Blue Shield, che è per le opere d’arte ciò che la Croce Rossa è per gli esseri viventi. Percorrendo le vie alla ricerca dei luoghi del passato marcavo la segnaletica di una anamnesi personale che non era più degna di attenzione di qualunque altra.
Più che un gesto artistico, era il mio un esperimento: i simboli dell’Unesco si trovarono mescolati a tutti i segni che, in un ambiente urbano, indicano locazioni, zone, funzioni, reminiscenze. Avrebbero forse provocato la curiosità di qualche passante. Si trattava di un’attitudine da intruso, di un’appropriazione di prerogative appartenenti ad altri enti. Al contrario del gesto avanguardistico che innalza allo statuto di arte ciò che all’origine non lo è, questa diffusione di tracce era una chiamata retorica alla democratizzazione della memoria, che non può essere rappresentata da un iconico, significante, sublimante memoriale. Non è un caso se il dossier che inviai all’Unesco, con una documentazione fotografica e la richiesta di includere i miei monumenti personali nel patrimonio mondiale, non ottenne risposta.

“Non c’è un kitsch che finisca con una domanda. Ogni kitsch finisce con un’affermazione.”7 Concordo con questa asserzione di Saul Friedländer, ma penso anche che non si dovrebbe aver paura del kitsch. Lo si potrebbe, ad esempio, prendere come uno degli elementi di un lavoro, insieme con altri, così come successive riproduzioni di un oggetto si allontanano dal loro modello al punto di divenire un altro originale. E potrei immaginare, anche, un’opera così assolutamente kitsch da divenire un pezzo d’arte, o una interrogazione sulla natura dell’arte.
Pochi musei sono concepiti in modo tale che la circolazione al loro interno susciti interrogativi invece che convinzioni, e dia anche spazio a quella ambivalenza che, secondo Vittorio Foa, è un buon terreno per un processo di interpretazione8. Fino a una quindicina di anni fa la maggior parte dei musei storici era pensata come luogo di conservazione o di narrativa unificante; negli ultimi tempi è invece vincente la tendenza che li concepisce come imprese di intrattenimento culturale, in cui la peggior cosa che possa accadere a un visitatore sarebbe quella di annoiarsi.
Ma, conservativo o ludico che sia, un museo che non sia discorsivo non può interessarci. L’unico museo accettabile è quello che preserva, più che l’integrità degli oggetti del passato, l’immaginazione dello spettatore. Un tale museo sarebbe capace di interpellare la propria funzione, considerando il visitatore stesso come “un soggetto storico”9 e rispettando la sua libertà intellettuale. Un tale museo prenderebbe se stesso come un oggetto storicamente determinato e potrebbe accettare anche la propria estinzione. La questione è, quindi, quella del grado di democrazia all’interno del museo; questo grado è davvero basso, se vi andiamo come in pellegrinaggio e dobbiamo seguire percorsi guidati e strutture processionarie che non consentono erranza né deviazione.
Mi chiedo perché mi piace usare questo aggettivo, kitsch, a riguardo della maggior parte dei musei: è perché si schierano per una visione derivativa e progressiva dei fatti storici, o perché sviluppano la narrativa stessa che giustifica la loro esistenza? Oppure si tratta della fittizia relazione fra oggetti che hanno perso il loro valore d’uso e una sede ricostruita, relazione inventata che interrompe il prolungamento di questi oggetti nel tempo? Un archivio, invece, non può essere kitsch: un archivio è il deposito “naturale” dei documenti morti, è un luogo di funzione, non di rappresentazione. Un archivio, in quanto tale, non si può mostrare: non sarebbe leggibile, e come opera somiglierebbe al massimo a una installazione di arte contemporanea. Si potrebbero mostrare, forse, i depositi, le riserve del museo. Se ogni museo è il frutto di una narrativa utopistica e l’espressione di una finzione ricostruttiva, l’esibizione della sua riserva può svelare il negativo di quella narrativa e di quella finzione?

L’ultimo episodio che vorrei menzionare qui è un museo di due giorni, una installazione recente presso la Société Industrielle di Sainte Marie aux Mines, in Francia. La sede della Società, fondata fra il XIX° e il XX° secolo, in piena epoca positivista e durante l’età d’oro dell’industria tessile, ospitava una serie di interessanti collezioni archeologiche, naturalistiche e geologiche, che con spirito illuministico erano state donate dai capitani d’impresa locali. Con il declino dell’industria tessile e la chiusura di molte fabbriche la regione entrò in un periodo di decadenza, nel quale si trova tuttora, e le collezioni finirono, semi-dimenticate, nelle soffitte dell’edificio. Lì le ritrovammo quando fummo invitati a intervenire in quello spazio. Da questo deposito decidemmo di tirar fuori una collezione, e di presentarla come un Kunstkabinett: come è noto, gli oggetti raccolti in un gabinetto di curiosità sono esposti senza rispondere a una gerarchia interna e senza rispettare un metodo sistematico di classificazione.
In francese la parola latina museum indica solo un museo di storia naturale. Questa è la ragione per cui intitolai la mia installazione Museum d’histoire industrielle: come una promessa che doveva essere disillusa –poiché non c’era storia industriale da vedere in quegli spazi- ma anche come un’allegoria di ciò che la vita trascorsa di quel luogo era divenuta. Un segno finanche troppo leggibile di questo approccio era un circolo di animali impagliati disposto nell’unica sala ancora utilizzata, la sala riunioni. Al centro di un altro ambiente sistemai in cerchio, su altrettante sedie, i ritratti degli ex presidenti della Società. In uno spazio al pianoterra, che era un cantiere, collocai un anello di sedie e tavoli in formica, pronti per una eventuale riunione. Stavo tentando, in qualche maniera, di mescolare i tempi fra di loro e con i luoghi. Mescolai anche rimanenze del mio proprio lavoro con i reperti archeologici ordinati nelle vetrine: qualcuno sarebbe stato attento al punto di chiedersi cosa fosse “vero” e cosa “falso”?
Spostavo oggetti da uno spazio all’altro in fretta e improvvisando. Stavo movendo e ricomponendo in diverso ordine materie originali “di una certa epoca”. Sapevo che stavo sistemando segni che non erano destinati a una qualche spiegazione. Agivo da invitato, così come ero stato a Napoli e a Copenhagen: essendo estraneo a una tradizione locale e volutamente ignaro delle sue regole, ero libero di agire nel malinteso. E dal malinteso nasceva una nuova materia.

ps: le nove note previste nel testo arriveranno in un secondo tempo.

Monumenti personali (2000)

Il breve testo che segue rappresenta una scrittura parallela a due lavori concepiti nel 2000, nell’ambito di una residenza alla Jan Van Eyck Academie di Maastricht, uno solo dei quali è stato realizzato. Più che come un’illustrazione di tali lavori, le due parti del seguente testo vanno intese come altrettante allegorie.

I. Lo scudo blu

Il linguaggio dei simboli dovrebbe essere compreso da tutti, si suppone, anche dagli analfabeti o da chi parla una lingua straniera. Per questo hanno inventato le segnalazioni stradali, quelle navali, e tutta una fitta simbolica, all’interno della quale mi interessa quella che designa un oggetto o un luogo che, secondo convenzioni internazionali, deve rimanere protetto.
E’ questo il caso della Croce Rossa, che è universalmente riconosciuta come il simbolo sotto la cui protezione si collocano ospedali da campo, ambulanze, barellieri, medici e infermieri. Si dà per inteso che tali luoghi e individui non vengano coinvolti nelle guerre in corso, per un condiviso rispetto che si porta ai feriti e alle loro possibilità di cura e di guarigione.

Un analogo simbolo esiste, a partire dal 1954, per i monumenti artistici e il patrimonio culturale in generale: il Blue Shield. Una lista di siti da proteggere fu redatta alla Convenzione de L’Aia del 1954 e poi perfezionata in un secondo protocollo, nel maggio 1999. Tale lista comprende, oltre alle opere d’arte, biblioteche, archivi, chiese e moschee.
L’esempio forse più celebre di sito culturale protetto dall’Unesco è l’intera città vecchia di Dubrovnik, copiosamente bombardata dai Serbi durante la guerra in ex-Jugoslavia. Si dice che i Serbi si accanissero in particolare, durante quella guerra, contro i simboli della cultura avversaria; si dice d’altro canto che l’esercito croato allogasse depositi di armi e munizioni nei siti contrassegnati dal Blue Shield.
Il protocollo del 1999, di conseguenza, ha perfezionato quello del 1954, stabilendo in quali occasioni “imperative necessità militari” possano giustificare l’attacco a siti culturali, così come regolando il comportamento delle truppe occupanti e prevedendo l’estradizione per i più gravi crimini commessi contro i monumenti.

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La questione della protezione dei monumenti mi ha sempre interessato. Mi è capitato di studiare il modo in cui, durante il fascismo (e, certo, sotto ogni regime che ne fa delle icone di nazionalità) i monumenti storici venissero sottratti al loro contesto urbano, ripuliti da ogni sovrapposizione successiva e resi integralmente visibili, poiché essi dovevano “giganteggiare nella loro necessaria solitudine”, secondo la formula mussoliniana.
Certo, venne la guerra, e con quella la necessità di sottrarli alla vista e ai rischi di bombardamento, coprendoli sotto impalcature, muri di cemento e di mattoni, sacchetti di sabbia e materassi imbottiti. Per cinque anni, dal 1940 al 1945, il paesaggio urbano italiano è stato disseminato di tali forme misteriose e incongrue; l’arte c’era, ma non si vedeva.
La convenzione de L’Aia del 1954 ha, da questo punto di vista, segnato un grosso progresso: non più sacchetti di sabbia, del resto scarsamente efficaci contro gli armamenti moderni, ma un semplice scudo dipinto di bianco e di blu.

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Nel maggio del 2000 mi trovavo a Copenhagen, capitale di una di quelle nazioni nordiche in cui la protezione è una sorta di ideologia; protezione sociale, dell’infanzia, dell’ambiente naturale, dei giovani artisti. Il ruolo protettivo dello Stato è lì tale da apparire come la realizzazione degli ideali socialisti di inizio secolo, ma ha aspetti talmente soffocanti che certi artisti, proprio perché così dipendenti dal loro rapporto con le istituzioni, si domandano come si può resistere a tale sistema (ma anche in un paese come l’Italia, in cui le reti familiari e amicali assumono il ruolo che nei paesi nordici è dello Stato, le forme di resistenza più valide sono quelle che si praticano all’interno delle istituzioni: perché quelli sono i luoghi del caos).
Mi trovavo, dicevo, a Copenhagen, essendo stato invitato a partecipare a una mostra sul tema Modelli di resistenza.
Per tradurre in pratica il mio impegno e la mia solidarietà ho partecipato al montaggio della mostra, trasportando pesanti lastre di vetro e imbiancando le pareti degli stand. Ma, più che come operaio, ciò che non sono, mi sono rivelato, da buon italiano, più utile come cuoco. Era più utile che i veri operai si nutrissero bene, e rinunciassero per un giorno o due ai loro salsicciotti in favore di un buona minestra calda.

Prima però che la mostra aprisse ho voluto anch’io fare la mia parte di arte. Ero già stato, cinque anni prima, a Copenhagen, dove avevo vissuto una breve ed intensa storia personale. Ho riprodotto dunque su plastica autoadesiva il simbolo dell’Unesco sopramenzionato, il Blue Shield, e una mattina all’alba sono uscito nella città ancora deserta, alla ricerca dei luoghi in cui avevo vissuto certi avvenimenti. Tali luoghi comprendevano, oltre al teatro dell’Opera reale, una libreria antiquaria, un caffè, un chiosco di hot-dog, un ponte, un albergo. Ho applicato dodici di questi simboli sulle facciate o le pareti di questi personali “luoghi di memoria”.
Compilato un inventario di tale opera di marcatura e accompagnatolo con apposita documentazione fotografica, ho mostrato ciò alla galleria Overgaden. Copia del dossier, con lettera acclusa, è stato spedito all’Icomos, l’organizzazione internazionale, con sede a Parigi, che gestisce il programma Blue Shield.
Nella lettera spiegavo come, ritenendo che la memoria storica sia fatta di una somma infinita di conoscenze e memorie individuali, intendevo aggiungere formalmente a tale somma almeno una parte delle mie, e chiedevo che, come è giusto, venisse considerata patrimonio culturale dell’umanità e, in quanto tale, protetta dalla Convenzione de L’Aia, in caso di guerra o altra catastrofe naturale.
Ponevo in questione, anche, la gerarchizzazione del concetto di patrimonio culturale. Perché, domandavo, la cattedrale medievale dovrebbe essere protetta più del Souvenir Shop che le sta difronte? Perché, se è vero che il Souvenir Shop non può esistere senza la cattedrale, si ritiene che la cattedrale possa vivere senza le sue cartoline postali? Non essendo alla ricerca di un confronto critico-filosofico, non mi dilungavo ulteriormente; ma avrei potuto, certo, disquisire sulla questione dell’originale e della copia, dell’arte e del kitsch, della cultura popolare o di élite, eccetera.

Dall’Icomos non ho ricevuto alcuna risposta. Gli abitanti di Copenhagen, invece, sembrano essere stati più comprensivi. Dei dodici simboli piazzati accanto ai miei monumenti personali, solo alcuni sono stati rimossi. E’ capitato anche che uno venisse tolto e rimesso un poco più in là, perché il muro su cui stava doveva essere ridipinto. La mia supposizione è che abbiano preso quel simbolo per un segnalino delle condutture dell’acqua o del gas, ciò che dimostrerebbe l’imperfezione della segnaletica internazionale.
Ma dimostrerebbe anche il lato creativo del malinteso. In un sistema di segnalizzazione come questo sperimentato nella capitale danese, che non è né logico né sistematico, il simbolo è presentato come un indizio, ma non è l’evidenza del suo eventuale prolungamento, non ha un rapporto riconoscibile con l’oggetto simboleggiato, non indica niente di riconducibile a un percorso originario e ricostruibile. Crea piuttosto un percorso autonomo, con riferimenti da interpretare se lo si vuole o, se si preferisce, solo da leggere.
E’ una forma di traduzione “spostata”. Una tale traduzione e permessa da una vulnerabilità originaria del suo soggetto; la traduzione, in generale, e permessa da una trasparenza originaria, che porta in se  la possibilità di traduzione. La trasparenza va in una sola direzione. Non si puo rendere trasparente qualcosa che all’origine e opaco, ma si puo moltiplicare e aprire ulteriormente una trasparenza che e gia nell’oggetto iniziale. La trasparenza e forse la qualità prima dell’opera d’arte; tale opera e un’opera di traduzione.
Se il kitsch (come vedremo più in là) nella sua mancanza di distanza dal suo modello permette solo un movimento da A a B e indietro da B a A e così via, la trasparenza e quella che permette alla traduzione il suo passaggio da A a B e da B a C e così via.
Tale movimento di passaggio e destinato, evidentemente, a interrompersi. Nel capitolo che segue tenterò di spiegare perché non potevo rendere ulteriormente trasparente un oggetto che aveva già subito una trasformazione in opera d’arte.

II. Il gommone

Per tutta l’estate del 2000, così come era accaduto per tutta quella del 1999, sono continuati a sbarcare sulle coste italiane migliaia di immigrati clandestini. Provenivano per lo più dai porti albanesi, distanti poche ore di navigazione. Venivano trasportati in grossi gommoni condotti da marinai senza scrupoli, che non esitavano a gettare in mare il loro carico umano, se si vedevano avvistati o inseguiti dai battelli della guardia costiera italiana.
L’immagine del gommone era quotidianamente presente sugli schermi televisivi, in tutti i telegiornali. E’ forse questa che ha ispirato un nuovo atteggiamento dei manifestanti contro i centri di detenzione per gli immigrati clandestini. A partire dal gennaio 2000 la polizia si è trovata di fronte a folle che dimostravano intorno a questi centri, chiedendone la chiusura, e i cui componenti erano abbigliati nel seguente modo: tre o quattro strati di maglioni pesanti indosso, giubbotti di salvataggio, imbottiture di gommapiuma fissate alle spalle con il nastro da pacchi, salvastinchi di plastica, scolapasta o casco da minatore in testa. Inoltre le prime file dei dimostranti spingevano avanti a loro uno strano apparecchio: una sorta di serpentone formato da diverse camere d’aria di camion, imballate in fogli di plastica e fissate a pannelli di polistirolo, su cui rimbalzavano i manganelli e i candelotti lacrimogeni1. Il nome dell’attrezzo venne spontaneo: il Gommone.
Molti manifestanti avanzavano verso la polizia a braccia alzate, in segno di pace. “Nessuno deve farsi male”, era la loro intenzione. Rivendicavano nello stesso tempo, con il diritto di manifestare, quello di proteggersi. Non manifestavano con violenza, ma alla violenza opponevano un’istanza di legittima difesa.
Usavano, alla lettera, un salvagente; l’attrezzo inteso a salvare la vita di chi cade in mare era allo stesso tempo immagine simbolica e strumento di difesa. Il diritto di resistenza si identificava con il diritto all’esistenza, in questa semplice opposizione del proprio corpo protetto da una imbottitura individuale e collettiva.
Trovo che questa invenzione abbia una grande forza iconica: una materia elastica, un muro di gomma su cui rimbalzano i calci di fucile e dietro cui si riparano i corpi.
In quelle prime occasioni la polizia, impreparata a questa nuova tattica, cedette, e i manifestanti di Milano, dopo molte ore di confronto, furono ammessi all’interno del centro di detenzione di cui rivendicavano la chiusura (29 gennaio 2000). Evidentemente, alla manifestazione successiva i poliziotti arrivarono armati di taglierini.

Questa che vado a dire è forse una banalità: la protezione intesa come “resistenza” va di pari passo con un riconoscimento di fragilità e di inadeguatezza. Una protezione totale, assoluta, non solo non è possibile ma coinciderebbe con il soffocamento della resistenza stessa e della sua dialettica. Un aspetto allegorico è sempre necessario all’azione di resistenza, proprio per sottrarre quest’azione alla sua impossibile e inauspicabile letterarietà, all’affermazione di un antagonismo stolido e all’iteratività incantatoria delle formule.
L’uso delle grandi camere d’aria da parte dei manifestanti nasce da un’immagine significativa e ne è il suo spostamento semantico: l’attrezzo che veicola l’immigrazione clandestina diventa il simbolo (e il dispositivo di difesa) di chi manifesta contro l’immigrazione concepita e trattata come un crimine (anche sul piano istituzionale i centri di detenzione italiani sono illegali, non essendo l’immigrazione un reato contemplato dal codice penale).

Penso che il Gommone sia un’opera d’arte. E’ in quanto riappropriazione che lo vedo come un’arte: nell’affermazione di una sua autonomia e di una sorta di disinvestimento rispetto alla sua fonte ma, anche, nel fatto che se ne faccia un altro uso.
Se io invece carezzassi l’idea di fare del Gommone (o dei gommoni degli immigrati) un’opera d’arte, mi avvierei a produrre un’opera kitsch. L’opera kitsch rimane sempre interessata, rimane sempre subordinata al suo modello; al richiamo alla sua funzione originaria, se è un oggetto; o all’intenzione, se intende essere opera d’arte. E quando nell’opera l’intenzione è trasparente, allora l’opera è mancata.
Se io volessi fare arte a partire dall’immagine del gommone applicherei quello che, secondo Gillo Dorfles2, è il segno distintivo della mentalità kitsch, e cioè il semplice spostamento, di scala o di contesto, dell’opera originale (ad esempio: la torre Eiffel trasformata in soprammobile e poggiata su un televisore; un’anfora romana ripescata dal mare e usata come portalampade; ma anche, aggiungo io, il frutto di una facile associazione: l’adesivo con il nome di un ristorante che casualmente è quello di un amico, che gli lasciamo sul frigorifero). Che in un modo o nell’altro il kitsch, in questa sua pratica di de-contestualizzazione e spostamento, abbia a che fare con la riproduzione meccanica o digitale, questo è sicuro.
Il kitsch ha allora a che fare anche con la traduzione? In parte e fino a un certo punto. Il mio sarebbe un tentativo di traduzione, un movimento verso la traduzione, ma non una traduzione compiuta. La mia sarebbe un’illustrazione, perché non creerebbe alcun straniamento semantico. La traduzione sarebbe la suprema forma del kitsch, se non praticasse un’alterazione profonda della lingua originale stessa e se, insieme con lo straniamento, non introducesse una radicale differenza3.
Rimane, però, la consapevolezza di una contiguità fra traduzione e kitsch. In altre parole: nella sua dipendenza da un originale (reale o ideale che sia), in questa sua qualità di prolungamento (con tutti i suoi inevitabili snaturamenti e malintesi), nel suo inevitabile carattere imitativo, e anche in un suo certo carattere mostruoso, il kitsch appare come una forma abortita di traduzione. Che noi lo pratichiamo tutti i giorni, in misura più o meno larga e in modo più o meno consapevole, non fa che confermare questa sua natura di multiforme ma incompiuta forma della traduzione.
Mentre il kitsch rappresenta, la traduzione ri-presenta, ed è per questo che il Gommone è allo stesso tempo una traduzione e un’opera d’arte. Molteplici sono le forme della traduzione, ed essa prende a volte forma di arte. Ciò accade quando, di un soggetto già alienato, già spostato e sottratto al suo mondo, già “kitschificato”, si arriva a fare un soggetto nuovamente possibile, autonomo, “puro segno di sé” (Jean-Luc Nancy, Corpus). La perdita di un’originalità acquisita diventa, in questa traduzione, un’altra originalità, un altro possibile. Questa “ripresa” sarebbe lo spiazzamento di uno spiazzamento, lo svelamento di un’originalità nascosta che non deve attendere l’effetto de-kitschificante del tempo che passa o delle catastrofi storiche.
Penso qui a un altro riscatto possibile del kitsch, che deriva dalla sua stessa de-contestualizzazione storica; è il caso di certe opere rimaste come testimonianze dell’arte antica: quelli che probabilmente erano episodi provinciali e imitativi, che un critico contemporaneo avrebbe certo considerato “kitsch”, come le pitture murali di Pompei o i ritratti funebri di El Fayum, sono visti da noi come mere opere d’arte4. Il lavoro del tempo ha conferito loro una singolarità che prima non possedevano e una qualità che da relativa è divenuta assoluta.
E’ il tempo che in questi casi opera la trasformazione semantica di un oggetto che diviene, secondo una consunta espressione, “altro da sé”; che viene quindi proiettato nel mondo della differenza, proprio quel mondo che il kitsch tende a ignorare.

E’ difficile negare che il post-modernismo in architettura prima e le pratiche artistiche degli anni Ottanta poi abbiano portato a una rivalutazione concettuale del kitsch, e proprio in quegli aspetti che ancora negli anni intorno alla seconda guerra mondiale erano considerati al meglio espressione di insensibilità estetica (vedi: Clement Greenberg, “Avanguardia e kitsch”, del 1939) e al peggio di diabolicità etica (Hermann Broch, “Note sul problema del kitsch”, conferenza pronunciata all’università di Yale nel 1950): l’ispirazione, l’impressione, l’imitazione, la riproduzione, il richiamo alla tradizione.
E se c’è una “colpa” del kitsch, è proprio quella di supporre che una tradizione esista, che ci siano riferimenti e modelli da riprendere, che le forme siano moltiplicabili all’infinito, che ci sia una possibilità di rassicurazione estetica e di protezione emotiva.
Il kitsch, che è nella sua pratica sostitutiva una continua affermazione di cordoglio, non sta mai in lutto; ancor meno sta in lutto per ciò che è straniero. Nel kitsch, apparentemente, c’è spazio solo per la familiarità e l’identificazione.
Essere in lutto per lo straniero, rimpiangere colui che mai incontreremo, è l’opposto del kitsch: significa fare atto di riconoscimento e andare oltre il riconoscimento, fare atto di memoria e andare oltre la memoria, accomiatarsi dalla tradizione senza adottarne un’altra posticcia, rimanere nel regno del possibile.
Dell’altro “peccato” del kitsch, quello stigmatizzato da Broch e ricordato negli anni Ottanta da autori quali Lyotard e Vattimo5, e cioè la tensione verso il bello, l’arte contemporanea ci ha ormai fatto grazia. Dire a un artista che la sua opera è bella equivale oggi a insultarlo. E il motivo di questo è il fatto che l’arte di oggi, appunto, non intende tanto fare opera, quanto “fare mondo”6.
E’ qui che torna il Gommone, e il fatto che si tratti di arte, di “art’s work”. Questo statuto gli è dato appunto dall’abdicazione dell’arte alla sua iconicità e alla sua unicità. Arte non è un gesto unico, è un gesto ripetuto. E la ripetizione, lo diceva anche Aristotele, “genera una natura”.

Autunno 2000

ps: le note di fondo pagina arriveranno un giorno.

Emergenza del prosseno (2000)

1. Asylum

Il 21 aprile del 753 avanti Cristo Romolo tracciò con un aratro, tirato da due buoi, il solco che delimitava e allo stesso tempo fondava la città di Roma. Seguendo la linea del solco vennero innalzate le mura della città. Quella linea designava uno spazio inviolabile; per averla saltata in segno di sfida Remo, il fratello gemello di Romolo, fu da questi ucciso.
Lì dove, invece, Romolo aveva sollevato il vomere, interrompendo la continuità del solco, si stabilirono le porte della città; attraverso quelle aperture le cose –pure e impure- erano autorizzate a passare. Compiuto il rito, Romolo dichiarò: “Mundus patet”, il mondo è aperto.
Questo accadeva sul colle Palatino. In quella stessa circostanza Romolo ebbe cura di creare, in un bosco sacro sul Campidoglio, un asylum. Gli storici antichi dicono che lo scopo della creazione di tale area era quello di attirare tutti quegli uomini isolati e sbandati che potevano contribuire allo sviluppo demografico di Roma.
Ma la costituzione di una tale zona franca -in cui criminali inseguiti dalla legge del loro paese, schiavi fuggiti dai loro padroni e fuorilegge di tutti i tipi potevano rifugiarsi senza che venissero interrogati sulla loro origine e sul loro passato- era un fatto comune ai tempi antichi. Se ne ha testimonianza presso i greci, gli ebrei, i germani.
L’asylum (dal greco a-sylon, senza violenza, senza esproprio) era un luogo sacro, entro i cui confini i cani non inseguivano le prede e i lupi vivevano in pace e in buona armonia con i cervi. All’origine di una tale credenza era la convinzione che la santità di un luogo (o di un oggetto) si comunicasse per contatto. Chi avesse messo le mani su di un fuggitivo all’interno di quello spazio avrebbe compiuto un gesto sacrilego. Si racconta come, nell’Atene del 7  o del 6  secolo, i superstiti della congiura di Cilone si fossero rifugiati nel tempio di Minerva; e, essendosi infine decisi ad uscirne, avessero srotolato uno spago che li manteneva in contatto con la statua della dea; ma lo spago si ruppe, per accidente o per malignità, e i ciloniani vennero massacrati.
La funzione del diritto d’asilo pare fosse, innanzitutto, quella di temperare la vendetta di sangue. All’assassino che fuggiva la vendetta dei parenti dell’ucciso, o allo schiavo che fuggiva i maltrattamenti del padrone, veniva concesso grazie all’asilo una sorta di appello e comunque un temporeggiamento, una dilazione della pena.

2. Hospitium

L’hospitium (per i greci: xenia) era l’insieme di rituali che regolava i rapporti di obbligo e cortesia fra due stranieri che fra di loro stringessero un patto. Tali rapporti costituivano, prima della fondazione della polis, una diffusa rete di alleanze. Coloro che ne erano partecipi beneficiavano generalmente di un simile status sociale, certo fra i più elevati. L’Oxford Classical Dictionary ritiene che tale “amicizia ritualizzata può essere vista come uno strumento per perpetuare le distinzioni di classe”.
Fra gli obblighi degli hospites erano quelli di reciproca accoglienza e sostegno, così come quello di fare da padrini ai figli rispettivi. Il symbolon era l’oggetto che indicava il patto di amicizia; funzionava anche da identificazione perché chi lo portasse fosse protetto nei territori stranieri: Era spesso la metà combaciante di una tessera spezzata in due parti.
Un’istituzione corrispondeva sul piano pubblico, soprattutto in Grecia, al patto privato fra due stranieri: la prossenia.
Si trattava di un contratto fra uno Stato straniero e il cittadino di una polis. Costui, scelto fra le più influenti e facoltose personalità della città, aveva un ruolo di padrino di quello Stato e dei suoi cittadini. Accoglieva a proprie spese i viaggiatori e a volte gli ambasciatori che da quel paese venivano; ne tutelava gli interessi, li rappresentava nelle cerimonie religiose e nelle relazioni commerciali. In cambio aveva onori e privilegi, più che altro simbolici, presso quello Stato con cui aveva firmato un patto. Non dipendendo dalle autorità cittadine, più che un funzionario era considerato un benefattore.
Il titolo di prosseno (pro-xenos: colui che ospita lo straniero) era conferito a vita ed era ereditario, così come a vita ed ereditaria era la relazione privata fra uno xenos (hospes) e l’altro.
In quanto “ospite pubblico” e a causa certo della sua provata capacità di mediazione il prosseno era spesso chiamato ad arbitrare conflitti fra città o partiti in lotta.

3. Proxenia

Da queste brevi note si vede come la differenza fra asylum e hospitium sia grande. Se intendiamo, quindi, rispettare il significato di questi termini nelle loro accezioni moderne, non possiamo parlare indifferentemente di ospitalità e di accoglienza. Perché tanto la prima dipende da alleanze ed esprime rapporti di potere, quanto la seconda è disegnata da forme di sovranità e implica decisioni di vita o di morte.
Esiste, tuttavia, una forma dell’asylia i cui bordi sconfinano nella pratica dell’ospitalità: si tratta dell privilegio accordato, più che ai luoghi sacri, alle persone. Lo straniero che veniva dichiarato asylos poteva considerarsi al riparo dalla ostilità e dalle vessazioni da parte degli abitanti, anche in caso di guerra con il paese da cui egli proveniva. Gli ambasciatori, per esempio, erano protetti dall’asylia e –molto frequentemente- i prosseni. Ci piacerebbe che i rifugiati di oggi venissero considerati, quali sono, messaggeri, e per questo protetti.
Ci piacerebbe anche prendere una figura dell’hospitium, quella del prosseno, e portarla nel campo dell’asylum. Perché non potrebbe esserci un garante e un rappresentante dello Stato dei fuggitivi e dei supplici? Perché non potrebbe esserci qualcuno che, pur non essendo un funzionario e non rappresentando quindi lo Stato di accoglienza, di quello sarebbe cittadino e avrebbe il riconoscimento implicito di entrambe le parti?
Nel caso del diritto d’asilo lo Stato è una parte e non un arbitro, proprio perché i rifugiati sono dei forestieri. In certo senso, non sta a lui accogliere lo straniero ma a privati cittadini, che siano associati o che agiscano come individui. Penso che non nuocerebbe un riconoscimento formale di tali figure di mediazione e di tutela.
Del resto anche il meteco abbisognava, per essere ammesso nella città, di un prostatès, un padrino, che di lui garantisse. Ma, una volta accettato, era –come diceva Aristofane- tanto inseparabile dagli altri cittadini quanto la crusca dalla farina. Per separarle occorre una tecnologia che gli antichi greci ancora non possedevano.

Appendice: una breve lista di testi recenti sull’ospitalità e l‘asilo

J. Derrida, „Le mot d’accueil“, in Adieu à Emmanuel Lévinas, Paris 1997.

J. Derrida, De l’hospitalité, Paris 1997.

J. Derrida, Cosmopolites de tous les pays, encore un effort!, Paris 1997.

K. Heilbronner, Immigration and asylum law and policy of the European Union, The Hague London Boston 2000

E. Jabès, Le livre de l’hospitalité, Paris 1991

D. Joly, Haven or hell? Asylum policies and refugees in Europe, Warwick 1996

E. Lévinas, „Les villes-refuges“, in L’Au-delà du verset, Paris 1982.

F. Nicholson, Refugee rights and realities: evolving international concepts and regimes, Cambridge UK 1999

C. Pohl, Making room: recovering hospitality as a Christian tradition, Grand Rapids-Cambridge 1999.

S. Ravanel-Aboudrar, Responsabilité et aléa dans les villes de refuge bibliques, Paris 1996

S. Reece, The stranger’s welcome: oral theory and the aesthetics of the Homeric hospitality scene, Ann Arbor 1993.

K.J. Rigsby, Asylia: territorial inviolability in the Hellenistic world, Berkeley 1996

R. Scherer, Zeus hospitalier: éloge de l’hospitalité. Essai philosophique, Paris 1993.

P. Ségur, J.L. Gazzaniga, La crise du droit d’asile, Paris 1998

Altri studi storici e filolologici

A. Ducloux, Ad ecclesiam confugere: naissance du droit d’asile dans les églises, Paris 1994

P. Gauthier, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cités greques, Nancy 1972

O. Henssler, Formen des Asylrechts, Frankfurt 1954 (presso i Germani)

G. Herman, Ritualised Friendship and the Greek city, Cambridge-New York 1987

C. Marek, Die Proxenie, Frankfurt a M.-New York 1984

W. Ziegler, Symbolai und Asylia, Bonn 1975

Costruzione di un paracadute (2000)

I
Manuale di montaggio

Si prenda un paracadute usato, di colore verde o bianco, del diametro di undici metri. Lo si appenda fra gli alberi in un parco, o fra le mura di un cortile, o finanche in una pubblica piazza. Si applichino degli anelli in corrispondenza delle giunture e si tendano fili di nylon fra tali anelli e i rami – o le mura – circostanti. Si ricreerà così, grossomodo, la forma a ombrello del paracadute che scende.
Si sospenda tale struttura a mezzo metro circa dal suolo. Si sollevi un capo della stoffa, di modo che venga abbozzata la forma di un’entrata.
Ci si procuri due divani, tre poltrone, uno scrittoio, una sedia, un frigorifero. Li si ricopra con la tela ritagliata dal paracadute di riserva.
Si disponga una palma in vaso fra il frigorifero e lo scrittoio. Si collochi una piccola libreria fra un divano e una poltrona, e una lampada a stelo a lato della libreria.
Venga disposta questa mobilia in circolo su di un grande tappeto orientale, lasciando vuoto lo spazio centrale. Non si tema di creare uno spazio lussuoso, calmo, voluttuoso.
Si scelgano dodici o quindici volumi, secondo il proprio gusto e le proprie convinzioni, che costituiranno una biblioteca ideale e universale. Li si rivesta della stessa copertina, li si identifichi con un numero latino.
Si scelgano i migliori vini bianchi di Francia d’Italia e di Spagna (i vini bianchi non intorpidiscono lo spirito), se ne riempia il frigorifero, insieme con bibite varie, per la soddisfazione di tutti i gusti.
Si assuma, per la durata dell’evento, una sperimentata hostess; la si abbigli di un’uniforme cucita con gli scampoli del paracadute di riserva.
Si diano istruzioni alla hostess perché chiunque si trovi a passare difronte al paracadute venga invitato ad entrare, e i suoi desideri siano – nei limiti del possibile e del decente – esauditi.
Infine, si avrà cura che all’interno della cupola ci sia una buona aerazione e una temperatura gradevole.

Regole: un “padrone di casa” sarà sempre presente all’interno dello spazio. Non imporrà la conversazione, né chiederà agli ospiti chi essi siano o chi li abbia mandati. Sarà però sempre disponibile al discorso. La disposizione circolare di divani e poltrone farà sì che tutti gli scambi verbali oscillerranno spontaneamente fra la conversazione e la chiaccherata, fra la confidenza e il discorso, in un registro fluttuante fra espressione privata ed estensione pubblica.
Alcune performance, letture, concerti saranno eseguiti secondo un programma affisso ogni mattina; altri verranno improvvisati, seguendo gli incontri e le conversazioni che accadranno ogni giorno in quello spazio.

Nota: un paracadute è per definizione mobile. Non rimarrà quindi nello stesso luogo per più di tre giorni.
II
Istruzioni per l’uso

1.
Il nostro paracadute è uno spazio dimostrativo. E’ un manifesto per la libera circolazione delle persone.
Cos’è un paracadute, se non un attrezzo la cui funzione è quella di rallentare una caduta?
Se un tale attrezzo è in funzione è perché c’è una caduta; c’è, quindi, rischio di vita; c’è emergenza.
Un paracadute non è una tenda: non è ancorato al suolo, ma fluttua in uno spazio fra cielo e terra; finirà per atterrare, ma non si può dire precisamente dove; questo dipende dai venti e dalle correnti d’aria.
Una volta sceso sarà inutile, perché la sua qualità è la leggerezza, qualità non richiesta da chi ha i piedi ben poggiati sulla terra.

2.
Un paracadute non offre ospitalità, offre salvezza.
Se la tenda è lo spazio simbolico dell’ospitalità, il paracadute è quello dell’accoglienza, del rifugio.
Offrire accoglienza a qualcuno non è la stessa cosa che offrire ospitalità. L’ospitalità è un fatto di buone maniere, di etichetta, è l’espressione dello scambio civile che ha luogo in una comunità di pari. L’accoglienza presuppone invece una disparità nella relazione, quella fra chi ha il potere di offrire rifugio e chi si trova in stato di bisogno.
Forse gli ultimi luoghi in cui l’ospitare coincide con l’accogliere sono quelli in cui l’ambiente naturale è fonte di pericolo; solo i beduini, gli eschimesi, i mongoli possono ancora ricevere cosi come facevano Alcinoo nell’isola di Scheria o Lot presso la città di Sodoma.
Ma, nel mondo occidentale, il dare rifugio non ha niente a che vedere con l’esercizio delle buone maniere; il potere che vi si espleta non è quello codificato della cavalleria e della buona educazione. Il fatto è che il riconoscimento, che è il presupposto dialettico dell’ospitalità, non ha nell’accoglienza una funzione altrettanto importante.

3.
Lo stato di bisogno è in sé una forma di riconoscibilità. Questa basica riconoscibilità del richiedente è qualcosa che rende ben difficile un’accoglienza assolutamente incondizionata (come vorrebbe Derrida, che però non distingue, mi pare, fra ospitalità e accoglienza).
Perciò quello di non chiedere “chi sei?” è un esercizio: una tale domanda può forse essere inespressa, ma è implicita nel riconoscimento stesso di uno stato di bisogno. E non c’è situazione di richiesta che non si presenti con un segno; questo segno dice da dove viene, da chi è mandato, quale pericolo rappresenta colui che bussa alla porta.
L’appello a dare rifugio è un appello che viene dal pericolo; chi richiede è in pericolo e porta con sé il pericolo nella dimora dell’ospitante. Chi è che ha veramente voglia di aprire le braccia al pericolo e all’inconosciuto? Solo un irresponsabile o un anarchico.
Per questo il nostro può essere solo un esercizio, una torsione della generosità verso la smoderatezza e un rivolgimento delle buone maniere verso l’eccesso immotivato e disinteressato: a chiunque si presenti alla soglia del paracadute si dia non solo accoglienza senza far domande (in un altro campo, questo sarebbe il “mettere fra parentesi la malattia” praticato da Basaglia), ma si offra il meglio dei nostri averi, si trasformi l’accoglienza in ospitalità lussuosa e priva di uno scopo che non sia il piacere di condividere la presenza altrui, i buoni vini, i buoni libri e la conversazione.

4.
L’anfitrione è il recipiente. E’ l’abitatore e il titolare di uno spazio che è necessariamente delimitato. Tale delimitazione spaziale può essere effettiva, come la porta di una casa; o simbolica, come una tenda o i gradini di una chiesa.
Non si può, generalmente, aprire ad altri ciò che non è proprio. Non c’è protezione senza esercizio di sovranità. Ricevere significa quindi rendere pubblico, per il tempo e nello spazio dell’apertura, un luogo privato o esclusivo.
Si fa entrare l’ospite: un nuovo, più largo spazio conviviale viene creato. Tale trasformazione del privato nel condiviso si attua sulla soglia: è lì che il padrone di casa inviterà, farà strada oppure resisterà all’intrusione.
Non si può aprire ciò che non è proprio, ma si può allargare uno spazio dato che fosse socchiuso. Perciò sarebbe più facile invitare lo straniero a chi fosse già metà straniero,  già metà intruso.

5.
Immaginiamo un paracadute aperto, sospeso a qualche palmo dal suolo, accessibile da tutti i lati e impossibile da chiudere: sarebbe l’emblema di un invito privo di identificazione e privo di giudizio, uno spazio in cui ciò che è proprio e ciò che è comune sarebbero confusi fra di loro.
Una tale indeterminatezza sarebbe possibile solo se l’ospitante non esercitasse un reale potere, ma fosse a sua volta un occupatore abusivo: il suo spazio sarebbe precario e non avrebbe la forza reale di proteggere alcuno. Ma proteggerebbe simbolicamente: sarebbe qualcosa di simile alle zone franche medievali, o a quei giochi d’infanzia in cui non si può essere toccati finché si rimane all’interno di un cerchio magico. Sarebbe uno stato di fatto, né fuori né dentro la legge. Un “ready made assistito” quale un paracadute aperto in una piazza sarebbe al bordo della legalità, perché non si potrà dire che fa occupazione di suolo pubblico.
L’accoglienza assoluta, incondizionata, può avvenire solo intorno a un malinteso o a una riappropriazione. Essendo privo di ogni potere e di ogni proprietà che non fosse temporaneamente preso in prestito, essendo allo stesso tempo ospite e ospitante, l’anfitrione sarebbe responsabile su due lati: tanto nei confronti dello straniero quanto nei confronti dei legittimi proprietari, cioè dell’autorità. Sarebbe una sorta di garante, la cui legittimità verrebbe semplicemente dal fatto di essere arrivato prima del successivo invitato.
Solo un invitato abusivo, che non ha chiesto niente ma semplicemente ha introdotto se stesso, può sfuggire al gioco del riconoscimento e dell’identificazione che è quello del potere e può a sua volta rivolgersi al nuovo venuto senza chiedergli “chi ti manda?”.

Nota: Il Parachute  è stato sperimentato a Maastricht nel maggio 2000. E’ stato chiuso dopo tre giorni di attività, quando la stanchezza dell’anfitrione e la presenza di un ubriaco molesto hanno reso difficoltosa ogni ulteriore convivialità.

Digressioni della resistenza (2000)

I
In questo momento sono all’avanguardia.
Le lettere che dovevo scrivere sono state scritte, le faccende di casa sono state spicciate, non ho più che da concentrarmi sul mio soggetto, ho un solo obiettivo e quello è avanti a me, debbo arrivare alla fine dell’articolo sulla resistenza che mi è stato richiesto per la manifestazione di Copenhagen.
Il terreno è sgombro, libero alla vista, davanti a me c’è solo il paesaggio aperto. Sono l’avanguardia di me stesso.
Sono seguito, a pochi centimetri di distanza, forse venti, dalla retroguardia di me stesso; solo lo spessore della carne separa ciò che di me è in posizione avanzata e ciò che, semplicemente, segue. Ma questi pochi decimetri fanno una grande differenza.
Ricordo come, nei racconti di guerra che leggevo da adolescente, essere colpiti alle spalle era il più grande disonore: significava che si stava fuggendo di fronte al nemico. Allo stesso modo, la fucilazione alla schiena era la condanna del traditore. E il partigiano, nella retorica dei fascisti e dei loro collaboratori, veniva rappresentato nell’atto di colpire al buio e alla schiena.
Ma le opposte retoriche della collaborazione e della resistenza1, così come quelle dell’avanguardia e della retroguardia, paiono oggi svuotate del loro essenziale significato, precisamente perché non sono più visibili i segni di un’opposizione frontale. E’ precisamente lo spazio fra rectus e versus, il taglio del foglio, la sua terza dimensione, che sembra oggi smisuratamente allargato. Resta, tuttavia, visibile solo concettualmente.
Se quello di resistenza pare un concetto pressoché impraticabile è perché si vive in una dispersione e frammentazione dei ruoli sociali; si mette mano tutti, nelle società dell’occidente, a una stessa materia; si impasta una stessa pasta. Come vuoi resistere a chi ti paga? Come un artista può resistere a chi gli dà da vivere?
Ma, senza paragonare le società del benessere all’occupante nazista (ciò che fa, a proposito del progresso tecnologico, Paul Virilio)2, non si può non notare come lo spazio fra collaborazione e resistenza è allo stesso tempo concettualmente enorme e fisicamente esiguo, come una sottilissima linea che passiamo e ripassiamo dieci volte il dì.
La ragione di questo è nell’idea stessa di resistenza. La resistenza – e qui l’esempio dell’ultima guerra mondiale, se estremo, è anche eloquente – si muove per definizione nello stesso terreno del suo avversario, condivide lo stesso spazio fisico, le stesse armi (le armi “prese al nemico”) simboliche e, parzialmente, gli stessi apparati concettuali. “Ogni resistenza è ambigua, lo dice il nome stesso”3; essa implica un coinvolgimento in un sistema imposto, una comprensione della mentalità dell’avversario, una costante sequenza di compromessi, una guerra di guerriglia in cui non ci sono attacchi e difese frontali ma corte avanzate e brevi ritirate, aggiramenti, spostamenti, deviazioni.
In questo senso la resistenza sembra essere un’attività di disturbo, simile a quella di una retroguardia che agisse nelle retrovie e rallentasse l’avanzata dell’esercito nemico. In questo après-coup è il senso della retroguardia: nell’agire secondo osservazione e riflessione, nell’agire in reazione a uno stimolo o un attacco (o un’eccitazione, come il reiz freudiano). E’ qui dove la retroguardia sembra tanto più interessante dell’avanguardia; essere all’avanguardia è ai nostri occhi essere nella pura creazione, avanzare su un terreno vergine, esplorare i nuovi terreni formali. Ma oggi la tecnologia sarà sempre più avanti di ogni avanguardia artistica; correrle dietro non ha molto senso. Gli inventori dei programmi informatici sono oggi l’avanguardia artistica; e gli artisti che quei programmi usano sono tutt’al più una para-avanguardia. E’ forse più interessante prendere e perdere tempo, attardarsi, fuori e contro tutte le mode, sull’ “appena passato”, far dire all’appena passato tutto quello che ancora può.
In questo atteggiamento di attenzione e riflessione è tutto il senso del “porsi alla retroguardia”. A questo atteggiamento corrisponde, mi pare, la predilezione per i momenti della storia che si situano appena prima, o appena dopo, l’evento: la stasi nel tempo che introduce alla consapevolezza che niente più sarà come prima, ma in cui c’è ancora un prolungamento dell’altro tempo.

II
Rallentamento e ritardamento dell’azione nemica sono i compiti comuni a retroguardia e resistenza4. Se vogliamo vedere l’artista come resistente, dobbiamo definire il suo nemico. Una volta l’artista era il cliente di un nobiluomo o di una confraternita; poi è stato un imprenditore in un mondo di imprenditori; oggi è un compilatore di dossier, indirizzati alle istituzioni. E’ l’istituzione il nemico dell’artista? Non si può dimenticare che gli artisti sono qui per disturbare5; perciò la relazione fra artista e istituzione non può essere basata che sul malinteso; costante malinteso e reciproco uso: non c’è alternativa a questo tipo di rapporto.
L’istituzione ha bisogno del suo contrario: l’istituzione, nel suo costante lavorio di auto-legittimazione, ha bisogno di gente che disturba6; ha bisogno soprattutto di selezionare e proteggere la fascia più creativa di coloro che disturbano, la fascia di coloro che disturbano con mezzi “estetici” e non caotici o privi di scopo. In questo senso l’arte è una forma di ricomposizione; non a caso esiste l’arte-terapia, così come i graffiti e il rap sono comunque preferibili ai negozi sfondati, e trovano quindi larghe forme di circolazione e sostegno sia istituzionali che commerciali.7
Ma, a vedere le cose da un altro punto di vista, come sciogliere questa contraddizione del fare resistenza a ciò da cui si dipende materialmente: i ministeri della cultura, le fondazioni, le accademie, i collezionisti, le gallerie, i musei?
La maggioranza degli artisti la risolve nel seguente modo: competere in uno spazio e in condizioni che sono date, ciò che significa: farsi guerra l’un l’altro. Perché no? Perché non farsi, anche, guerra l’un l’altro; perché non farsi contatti, e crearsi reti, e partecipare a gruppi e a volte a clientele. Ma lo sbaglio, penso, è quello di mancare di autonomia, è quello di spostare i propri pezzi in una scacchiera che è già disegnata, senza tentare di ridisegnarla.
La sola forma di resistenza che posso immaginare oggi è quella di aprire nuovi spazi di discorso e di relazione all’interno dei luoghi tradizionali. Perché, così come l’utopia politica, anche la resistenza non ha più i suoi luoghi propri.

III
Ripenso alla mia personale esperienza dell’“eterotopia”. E` stato intorno ai primi mesi del 1977, in Italia: Era finita l’epoca dei gruppi politici “istituzionali”, con le loro strutture piramidali di “simpatizzanti”, “candidati”, “militanti”, etc. e il loro continuo contarsi per vedere chi si ingrandiva e chi si rimpiccioliva; e non era ancora il momento in cui i gruppi dell’Autonomia avrebbero sequestrato e violentato un movimento di massa che ancora esisteva e che stava cercando nuove forme di presenza8. Già allora, nell’inverno fra il 1976 e il 1977, c’erano coloro che facevano irruzione nei negozi chic per “espropriare” proletariamente non pane ma salmone affumicato, dimostrando così tutta la loro subordinazione ai cliché del lusso borghese; ma, allo stesso tempo, c’era un enorme desiderio di essere presenti a nuove forme di socialità e di occupare uno spazio nuovo, un desiderio che era quasi privo di oggetto.
A quel tempo si scendeva in piazza perché il biglietto del cinema fosse meno caro; a pensarci ora era una rivendicazione ridicola, e ridicolo pensare di occupare piazze e strade intere, a migliaia e migliaia, solo per pagare qualche centinaio di lire in meno la visione di un film di Hollywood, in un cinema appartenente a qualche multinazionale, nella quasi completa assenza di spazi alternativi. Ma lo spazio alternativo, in quei giorni, erano le piazze e le strade stesse: si decideva di un appuntamento a una riunione fra poche persone, ci si andava qualche giorno dopo e ci si trovava in mezzo a un folla, si iniziava a camminare e c’erano diecimila persone dietro di te, che chiacchieravano fra di loro e ogni tanto gridavano slogan quali “Andreotti vacce te a pagar duemila e tre”, Andreotti essendo il Presidente del Consiglio, credo, e il biglietto del cinema non costando duemila e trecento ma forse tremila, che però non faceva rima. Si faceva il giro dei cinema della capitale, un piccolo gruppo entrava, mentre i diecimila aspettavano fuori, faceva interrompere lo spettacolo e accendere le luci in sala, uno del gruppo saliva sulla scena e improvvisava un breve comizio sul fatto che il prezzo del biglietto era troppo caro, poi usciva e si ripartiva verso un altro cinema.
Tutto questo non aveva strettamente alcun senso. O, piuttosto, il senso di tutto questo era: I) costituire una comunità del tutto immaginaria, utopica se si vuole, priva di una propria sede e di un proprio spazio, costretta ad appropriarsi solo momentaneamente di spazi pubblici destinati ad altro scopo, le piazze, le strade, le sale cinematografiche; II) attraverso un obiettivo pretestuoso (nessuno era veramente interessato ad assistere, nemmeno gratis, alla proiezione di un film comico italiano o di una commedia americana) e obliquo, mostrare l’esistenza di un potere e la resistenza a questo potere, nelle forme che non sono necessariamente quelle del confronto in fabbrica fra operai e padroni, ma che possono anche essere quelle della rivendicazione di un semplice piacere, di un semplice diritto di scelta che viene sottratto.
Lo scopo di questo movimento di breve durata (se un movimento può avere uno scopo) non era implicitamente quello di cambiare le regole della società, né quello di esprimere un mero diritto individuale. Era quello di rivendicare come pubblici i luoghi dell’intrattenimento, di sottrarre l’intrattenimento alla sfera privata e confondere i limiti fra il piacere privato e il diritto pubblico. Rivendicare un diritto allo spettacolo senza veramente curarsi dello spettacolo era una maniera di allargare i limiti stessi del politico, mostrando l’esistenza di forze che, nell’evitare di essere etichettate come organiche controparti “politiche”, eludevano anche la politica come espressione di professionalismo e serietà. In una tale situazione, non occupi le strade “in quanto” artista o studente o lavoratore, non stai a rappresentare te stesso, se non nella parte di te stesso che, in un particolare luogo e in un particolare momento, rappresenta un particolare diritto collettivo.
Ecco perché, più che al non-luogo, posso ora credere alla creazione di luoghi necessariamente temporanei e provvisori, di scambio di incontro e di esposizione, sia interni che esterni alle istituzioni. A condizione che, per definizione, siano aperti. Ma non aperti in maniera indifferenziata. Mi trovavo una volta in un palazzo occupato, al centro di Roma, e arrivò uno che nessuno conosceva; disse che veniva da lontano e cercava da dormire, chiedeva ospitalità. “D’accordo, ma prima conosciamoci”, gli disse quello che stava alla porta.
Era quella una nuova forma di spazio pubblico? Forse sì, e proprio per la sua condizione di luogo temporaneo. Difatti quelle case occupate erano beni immobili, che appartenevano a qualcuno, e difatti prima o poi la polizia veniva a sgomberarli (così come oggi, in Italia, i Centri sociali). Uno spazio che sia pubblico e alternativo allo stesso tempo non può essere che temporaneo. E’ nel suo carattere di “possibile”, da un lato, e “passato”, dall’altro, che trova il suo senso; recipiente di una comunità immaginaria, e ricettacolo di una comunità che sarebbe stata possibile; di una comunità che non esiste se non nella tensione verso di essa, e nella nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere, ma che non è stata e non può essere. E solo il carattere provvisorio di tali spazi può permettere loro di sfuggire all’auto-marginalizzazione che è l’inevitabile condizione di tanti luoghi di “eterotopia”.
Designare altrimenti i luoghi dati, ribattezzarli, facendo intravedere gli altri usi ipotetici di un luogo, praticare un dirottamento dei segni, confondere il proprio gesto artistico con i segni sparsi della comunicazione urbana, diluire, dissipare, spargere il gesto, lasciare in giro segni che possono o non possono essere notati, che possono o non possono essere “artistici”9, sottrarsi ai luoghi consacrati della comunicazione e dell’esposizione; queste mi paiono forme possibili di resistenza. Ma su ciò tornerò più in là.
La rinuncia alla costanza dell’atto artistico, al volere sempre e comunque essere creatori, mi pare un’altra forma di resistenza. Penso a una situazione estrema: due pittori che vivevano nella stessa città occupata, in tempi di guerra; uno, Picasso, non smette per un giorno di dipingere; l’altro, Bram van Velde, che sopravvive grazie alle mense popolari, non tocca il pennello per cinque anni. Interrogato sul perché della sua inattività, non trova da rispondere altro che, in certe situazioni, non ci si può mettere a lavorare10.

IV
Torniamo alla resistenza. Mi pare, dopo questa digressione, che possa essere definita come un movimento di reazione, risposta e ritorsione, che si sviluppa nello stesso spazio fisico di ciò che contesta e che partecipa, in forme diverse, allo spazio linguistico del proprio avversario; allo stesso tempo crea, all’interno di quegli spazi e di quella lingua, i propri luoghi e i propri segni. Più che un non-luogo, crea un luogo sovrapposto e intersecato, una retrovia o un maquis, che ha una scala e forme di diffusione diverse da quelle dominanti. Penso a tutti i supporti grafici, più o meno ingegnosi, più o meno improvvisati inventati dalla Resistenza: i documenti falsi, i manifestini, i giornali ciclostilati, le scritte murali11, che possono essere paragonati alle fanzine, alle poesie stampate in proprio, ai giornalini scolastici o di caserma, alle riviste fotocopiate dell’era pre-Internet (sarebbe interessante seguire in una mostra una storicizzazione di queste forme di comunicazione, dalle calaveras messicane alle “musiche sulle ossa” russe12).
A vedere retrospettivamente, si vede come il “privately printed” era tutto tranne la mera espressione di una sfera privata; esso presupponeva, perché legato a materiali e a tecniche manuali, una serie di intermediazioni personali che l’Internet esclude, e si motivava in una diffusione “di mano in mano”; ma c’era, in questa limitazione di scala dello stampato a conto d’autore, l’idea di una circolazione allo stesso tempo casuale e orientata; un volantino o un giornale, che passavano di mano in mano potevano essere letti da due o da cento persone. Chi oggi lancia il suo sito sul web parla a tutti e a nessuno, parla, in fin dei conti, a sé stesso. Questo tipo di comunicazione è spesso privo di un oggetto che non sia la comunicazione stessa; è quindi una comunità illusoria. Le distanze non sono abolite dall’Internet, perché niente può sostituire la presenza fisica, il contatto e il tatto (con questo non voglio misconoscere il ruolo che Internet e telefoni cellulari hanno avuto nell’organizzare la resistenza all’ascesa al potere del partito di Haider, in Austria).
Se l’Internet appare, oggi, come lo spazio comune per eccellenza, è perché è quello in cui si muovono resistenti, dominanti e collaboratori, e dove i ruoli sono più facilmente e rapidamente interscambiabili. Esso ci mostra l’impossibilità di contrapposizioni frontali, così come l’impraticabilità delle formule ideologiche, delle scorciatoie hegeliane; in questo senso il nostro fine secolo non può essere paragonato al rapporto fra resistenti e occupanti che era quello dell’ultima guerra. Forse si può dire che oggi c’è una parte di occupante in ogni resistente, e viceversa; ciò non toglie che si è piuttosto resistenti o piuttosto occupanti. Forse si può dire che la resistenza più efficace è quella che sta in un costante movimento fra l’interno e l’esterno del potere, fra l’interno e l’esterno dell’istituzione.

V
Non si possono perdere di vista le infinite variazioni e intersezioni del potere, anche nelle situazioni di più estrema oppressione. A leggere il libro di Robert Antelme sulla deportazione13, si è indotti a seguire le molteplici variazioni di segni che differenziano progressivamente il corpo dei prigionieri, differenziandoli da un capo all’altro nella relazione con chi ha su di loro potere di vita e di morte. Questa differenziazione è allo stesso tempo strumento del dominio e affermazione di singolarità che sfuggono al dominio, ma che certo articolano altri piani di potere e di contropotere.14
In questa differenziazione interna al corpo dei prigionieri si creavano nuovi occupanti e nuovi resistenti; nella moltiplicazione dei livelli di potere si creava un caos che era perlopiù un’ulteriore forma di dominio, cui i resistenti opponevano una lotta per la legalità. Legalità in una tale situazione significa: stesse opportunità di vita e di morte per tutti.
Il potere è qualcosa che ha variabili e diversi livelli di intensità; anche il colore del potere è soggetto a variabilità; la padronanza della lingua, ad esempio, è un potere il cui colore è variabile. A più riprese Antelme analizza, nel suo unico libro, il ruolo nodale della traduzione15. Il potere del traduttore può essere, in tali situazioni estreme che citiamo per il loro valore paradigmatico, quello di alimentare il caos o quello di ristabilire una legalità. Legalità significa, in questo caso, mero diritto di circolazione e di comunicazione. La legalità, vista sotto questo angolo, si situa in un dirottamento della legge; chi lotta per essa non sente, sente male, “fa il sordo”, coltiva il malinteso nella trasmissione verticale del dominio. Il potere del traduttore è quello di allargare o di ridurre gli spazi della sopravvivenza, quando traduce “a modo suo”.
In una realtà infinitamente meno oppressiva, come quella delle società occidentali, si può dire che il nostro potere di traduzione è quello di una riappropriazione della lingua ufficiale, e di un suo dirottamento che consiste nel designare altrimenti i luoghi dello scambio sociale. La resistenza è, anche, un designare altrimenti: un edificio scolastico dismesso diventa “casa occupata”; un bollettino ciclostilato è un “giornale”, una collezione di francobolli un “museo”, eccetera.
La resistenza è, in questo senso, semplicemente la rivendicazione di un’altra sfera pubblica i cui confini non coincidono con quelli fissati dalla legge.
Prima dell’ultima guerra, quando non la si intendeva come una proprietà fisica dei materiali, per resistenza si intendeva solo “resistenza all’autorità”, punita in virtù dell’articolo 337 del codice penale italiano (“nella r. il privato insorge contro la volontà dell’autorità”) e assimilata al delitto di “violenza pubblica” (art. 336; il privato impone la propria volontà su quella dei rappresentanti dell’ordine). Chi commetteva tale delitto poteva essere solo un “privato” che, nell’opporsi ai rappresentanti del “pubblico”, esce dai confini della legge e della sfera pubblica.
Con l’ultima guerra mondiale e l’opposizione all’occupazione nazista in Europa (e al dominio nazionalsocialista in Germania) si è avuto allo stesso tempo un allargamento e un traviamento del termine di resistenza. Coloro che resistevano opponevano un diverso concetto di legalità e un diverso concetto di rappresentanza del “pubblico”. Perciò i fascisti dovettero trovare un nuovo attributo che li escludesse simbolicamente: i partigiani non potevano essere definiti, sulla stampa e alla radio, altrimenti che come “banditi” (etimologicamente: proscritti, esiliati, fuorilegge).
Queste fluttuazioni di significato delle parole sono esemplari: nella seconda metà del XIX secolo un resistente era per definizione qualcuno che si opponeva al progresso; nella seconda metà del XX secolo uno stato nazionale quale la Repubblica italiana trova la sua legittimità nella Resistenza come valore costituente.16
E` per questo che nessuno oggi rifiuterebbe di definirsi “resistente”. Forse la cosa più difficile è definire a cosa, di volta in volta e in modi diversi, intendiamo resistere.

Primavera 2000

ps: aggiungero’ le note di piè di pagina non appena possibile;

Inventarium 1989-2005

Video 3′ 17”



Salvatore Puglia – Oeuvres Sélection

Traduzioni trasparenti (1999-2000)

I

Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati,1 Primo Levi racconta di un incidente di traduzione, capitatogli in occasione della pubblicazione in tedesco di Se questo è un uomo.2
In un dialogo fra Gounan, un ebreo francese di origine polacca, e l’ungherese Kraus, il primo si rivolge al secondo con un’espressione che pare strana e inaccettabile al traduttore tedesco: “Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?”. Primo Levi, che aveva trascritto la frase così come gli pareva di averla udita, accettò, dopo una prolungata discussione epistolare, la versione proposta dal traduttore: “Langsam, du blöder Heini …“, Heini essendo il diminutivo di Heinrich.
Fu solamente una ventina di anni dopo che, leggendo un’opera sullo jiddish, Levi scoprì che si trattava difatti di una tipica forma di quella lingua: “Khamoyer du eyner!”, “Asino tu uno!”. “La memoria meccanica aveva funzionato correttamente”, commenta lo scrittore.
Nel 1959 la Fischer Bücherei aveva acquistato i diritti per la traduzione tedesca del suo libro su Auschwitz (che, apparso nel 1947, aveva conosciuto una diffusione confidenziale, prima di essere riedito da Einaudi nel 1958). Levi reagì con un sentimento di trionfo che svelò a lui stesso i “destinatari veri” di Se questo è un uomo. Scritto in italiano e per italiani, quell’opera parlava difatti a “quelli”, contro cui si puntava come un’arma.
“Ora l’arma era carica”, e Levi si apprestava a sorvegliare da presso il lavoro dell’editore e del traduttore tedeschi. Esige un controllo costante dell’iter editoriale, diffida dal modificare una sola parola del testo originale: “volevo controllarne la fedeltà, non solo lessicale ma intima”.3 Solo quando riceve una lunga lettera del traduttore capisce che di lui può fidarsi: disertore dell’esercito nazista, nel settembre 1943 Heinz Riedt (che Levi, curiosamente, non nomina mai) si era unito alle formazioni partigiane italiane e aveva combattuto contro i suoi compatrioti. Stabilitosi a Berlino dopo la guerra, si guadagnava da vivere come traduttore, per amore dell’indipendenza e per la difficoltà a trovare un impiego, in quanto ex disertore; italianista, Riedt era specialista dei dialetti del Veneto, la regione in cui aveva combattuto. Tradurre Se questo è un uomo era per lui un modo di continuare la sua battaglia politica. Non c’era di che sospettarne politicamente; ma c’era ancora il sospetto linguistico.
Il tedesco di Levi, imparato sui manuali di chimica prima e nei campi poi, era una lingua rozza e abbrutita, un “gergo degradato” che era stato un mero, e decisivo, strumento di sopravvivenza (a più riprese egli mostra come debba la vita all’aver intuito a tempo la necessità della traduzione quando, nei primi giorni ad Auschwitz, barattò pane in cambio di lezioni di lingua); Riedt, d’altro canto, “uomo di lettere e di raffinata educazione”, ignorava le peculiarità linguistiche del tedesco da campo di concentramento, che solo in parte derivava da quello da caserma.
Come si è visto, l’estraneità linguistica si ripercuoteva, oltre che fra le lingue straniere, all’interno stesso della lingua, fra le sue varianti: il traduttore, oltre che ignorante della versione concentrazionaria della Lingua Tertii Imperii, lo era anche di un dialetto tedesco quale lo jiddish. Levi, d’altro canto, era e rimase un cattivo conoscitore dell’alto-tedesco.
La collaborazione fra autore e traduttore fu lunga e faticosa: entrambi, per motivi simili e diversi, perfezionisti, spesero mesi in uno scambio epistolare di proposte e controproposte linguistiche.
“Lo schema era generale: io gli indicavo una tesi, quella che mi suggeriva la memoria acustica cui ho accennato a suo luogo; lui mi opponeva l’antitesi, ‘questo non è buon tedesco, i lettori di oggi non lo capirebbero’; io obiettavo che ‘laggiù si diceva proprio così; si arrivava infine alla sintesi, cioè al compromesso. L’esperienza mi ha poi insegnato che traduzione e compromesso sono sinonimi”.4
Questa asserzione mi pare piena di quel buon senso laico che era tipico di Levi e che, probabilmente, gli aveva salvato la vita. Ed è, certo, nella sua schematicità hegeliana, condivisibile, se ci limitiamo a considerare la traduzione come strumento di passaggio, un ponte d’assi fra una forma linguistica e l’altra.
Mi sembra, però, che in un paio di occasioni e forse inconsapevolmente Levi apra, almeno su un lato, questa sua sintesi, e ci porga così una passerella per un sentiero secondario, che vorremmo qui percorrere.
Vorrei richiamare l’attenzione su due passaggi. Il primo è incarnato nella singolarità di questa traduzione: scritto in italiano, il libro si “svolge” in realtà in tedesco; la sua lingua madre, se così si può dire, è il tedesco, ed è il tedesco particolare dei campi; si tratta di un linguaggio che è straniero anche agli intellettuali germanici di cui parla Améry; è solo con estrema reticenza che essi riescono, e non sempre riescono, a pronunciarlo.5
Ma, ugualmente, per Levi il principio di autenticità, di originalità, è decisivo: “In certo modo, non si trattava di una traduzione ma piuttosto di un restauro: la sua [del traduttore] era, o io volevo che fosse, una restitutio in pristinum, una retroversione alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano. Doveva essere, più che un libro, un nastro di magnetofono”6.
Doveva essere, vuol dire Levi, voce, suono, come se la riproduzione sonora dell’esperienza fosse ciò che più vicino potesse essere alla natura dell’esperienza. Levi si considera, certo, un testimone auricolare (si ricordi, nella pagina precedente, l’affermazione sull’esattezza della sua memoria acustica); ma c’è qui di più, quando si dice che si cerca nella traduzione una retroversione, un ritorno all’avvenimento che non può altrimenti essere rappresentato. Un libro è un oggetto cartaceo che arriva al termine di molteplici successive mediazioni, e la cui natura è ormai troppo lontana da quella dell’avvenimento che lo ha originato. Quel libro non doveva essere neanche un film, non doveva essere un montaggio o una sequenza di immagini, doveva essere un nastro di magnetofono. Doveva essere cioè la forma di riproduzione meccanica più fedele possibile. Quando parla della sua propria memoria “meccanica”, Levi la intende senza dubbio come uno strumento non soggettivo, quasi indipendente dalla sua persona e certo più affidabile della sua stessa volontà di testimonianza. La sola maniera di rappresentare l’esperienza sarebbe riprodurla, e ciò è ovviamente impossibile; la registrazione meccanica non è neanche disponibile, e non c’è altra scelta che essere il primo traduttore, nel linguaggio più accessibile, quello scritto, dei suoni registrati dalla memoria.
Di qui si vede come l’esigenza di “tornare” a una lingua in cui egli peraltro non aveva scritto contraddice la semplice idea di traduzione come processo di spostamento di un materiale linguistico, processo che esige tuttavia un “compromesso”. Levi sa bene che non si tratta qui di un mero trasporto, come indica l’accezione italiana della parola “traduzione”, che è quella con cui si descrive il trasferimento di un detenuto da un carcere all’altro, così come “tradotta” è il treno che trasporta le truppe in tempo di guerra.
Il secondo punto del suo testo, su cui vorrei attirare lo sguardo, perché è in contraddizione con l’idea di “retroversione” all’originale, è il passaggio in cui cita la lettera che scrisse al traduttore tedesco, nel maggio 1960, per ringraziarlo del suo lavoro. Levi usa una curiosa espressione: “Capisce, è il solo libro che io abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco….”7. C’è tutto tranne il parallelismo di un mero trasporto linguistico, in questo “trapiantare”. Fa pensare piuttosto a qualcosa di chirurgico, all’innesto di un organo estraneo in un corpo proprio; non si può non pensare a un trapianto senza immaginare un’operazione traumatica e pericolosa, su cui sempre incombe il rischio del rigetto. Certo, questo libro è “un’arma carica”, ed è chiaro come Levi la volesse dirompente per l’animo dei suoi lettori tedeschi, e non in ultimo luogo grazie alla riproduzione esatta di una lingua che diceva Fressen (divorare) invece che Essen (mangiare), Stücke (pezzi) invece che Männern (uomini) o Leiche (cadaveri). Ma trapiantare un testo, per definizione straniero, nel corpo di una lingua, significa sottoporre quella lingua a mutazione, contribuire alla sua trasformazione in un’altra forma. Si è lontani qui, di nuovo, dall’idea della traduzione come compromesso inevitabile. Questo intruso nella casa della lingua ne forza le barriere, per quanto Levi non a ciò si dicesse interessato, ma al mero fatto di “fare udire la mia voce al popolo tedesco”.
L’aspetto sovversivo del trapianto è, inoltre, precisamente nel fatto che, operandosi a partire da necessarie compatibilità, come quella del gruppo sanguigno, introduce un elemento “proprio” dell’umano in cui certe differenze non contano più: non solo quelle di “facies”, ma le più radicali, come quelle di razza o di sesso. Il cuore di una donna africana può funzionare nel corpo di un uomo europeo, una volta che le difese immunitarie di questo siano state abbassate.8
Diciamo, per portare oltre la metafora, che le compatibilità sono i limiti linguistici stessi della traducibilità, che permettono all’estraneità di introdursi e, senza fondersi, “combinarsi” nel corpo che la ospita, mettendone alla prova i limiti e mettendo il corpo stesso in pericolo. Questo è forse ciò che il traduttore di Primo Levi ha realizzato: un’applicazione di quello che Benjamin diceva fosse il compito del traduttore, allargare, cioè, i confini della propria lingua. Quanto al fatto di “restaurare” la lingua in cui le cose erano avvenute, ciò era semplicemente impossibile: il libro di Levi non era una registrazione, ma un’opera d’arte. Poteva essere tradotto solo in un’altra opera d’arte; poteva, in fin dei conti, solamente essere mutato.

II

Die Wahre Übersetzung ist durchscheinend. “La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua”.1

Come può una traduzione essere trasparente?
La lingua scritta è essa stessa, l’abbiamo visto nel caso di Primo Levi, una traduzione. E’ il mezzo attraverso cui esprimere la necessaria testimonianza; è una mediazione, quindi, che è lì a rappresentare l’autenticità dell’esperienza.
Se la trasparenza può essere un attributo della traduzione, è per una comune proprietà di mediazione. La trasparenza, difatti, non rende visibile un oggetto, ne permette però la visibilità. In quanto medium, mette in rapporto o lega insieme due termini. Ma non è sinonimo di fedeltà all’uno dei due, non è riproduzione. Al contrario, è sempre presente nell’idea di trasparenza un concetto di contaminazione, di deformazione o d’inganno. La materia trasparente non si vede, perché si vede attraverso di essa, ma c’è, e l’immagine, o la sensazione, non può non venirne modificata. In informatica, l’espressione “interamente trasparente per l’utente” indica un’operazione che, mentre si svolge, è a questi ignota, non si fa percepire. Ciò che se ne vede è solo l’effetto. Qualcosa che si vede in trasparenza e qualcosa che si può vedere solo “a traverso”.
D’altro canto per trasparenza, soprattutto nelle lingue anglosassoni, si intende la sovrapposizione di elementi diversi, che siano materie, segni, tracciati; questa sovrapposizione dà luogo a intrecci che sono per definizione modifiche di materie, segni e tracciati originari, e molteplicità di elementi che si combinano insieme. La trasparenza, intesa in tal modo, appare dunque in contraddizione con l’idea di visibilità; dalla compresenza di testi disparati, che vengono in certo modo mutilati e ridotti a tracce, emerge una materia nuova, inizialmente oscura alla vista e alla leggibilità. Si può affermare che è in un certo “coprimento” che la trasparenza scopre le sue possibilità. Più precisamente, queste possibilità sono date, più che da una “luce” linguisticamente comune, dalle sovrapposizioni fra i bordi degli elementi dissimili. Lo svanire dei margini nell’intreccio dei testi, l’accavallamento delle forme distinte, è ciò che apre a una nuova forma.
Se c’è una metafora per questo concetto di trasparenza, è quella del missaggio. Il missaggio era, tecnicamente, in musica, l’incisione su un’unica banda di elementi sonori (strumentali, vocali) registrati separatamente, appartenenti a uno stesso brano. Ma con l’hip-hop e, poi, con la musica techno, il missaggio è diventato, in una dilatazione e un rivolgimento di senso, la forma stessa di un brano aperto all’infinito, senza limiti di tempo lineare né di scelta nella campionatura.
Il D.J., che è l’artefice di questo processo, ha una posizione che non coincide con quella di autore: il materiale estetico esiste già, si tratta di combinarlo insieme, di scegliere citazioni, sequenze, tempi, cesure, sovrapposizioni. Molto spesso del D.J. si conosce solo uno pseudonimo, e quasi mai se ne vede il volto; la traccia che del suo lavoro rimane è di solito anonima, priva di copyright. Mi pare che queste siano tutte analogie con la figura del traduttore, e in particolare con quella di un traduttore “trasparente”, colui che, non visto, lascia vedere attraverso di sé.
Poiché trasparente è ciò che si lascia attraversare: una materia traversata dalla luce, che lascia vedere ciò che le sta oltre; un corpo traversato dai raggi X, che svela, in segni tutti da decifrare, ciò che gli sta dentro. Condizione dell’attraversamento è quindi una forma di resistenza; sia nel senso letterale che in quello simbolico, il corpo trasparente è un ostacolo.
Ciò che appare è qualcosa che è dietro, sotto o dentro un corpo (lat. Trans-parere, apparire attraverso), non è certo il corpo stesso, che rimane per definizione nascosto al tipo di vista, o di esperienza, che consente; allo stesso tempo è esperibile, invece, al tipo di vista o di esperienza cui è di ostacolo (la durezza del vetro, l’involucro del corpo umano). Una traduzione trasparente sarebbe quindi una traduzione invisibile, che lascia vedere, e che, invece di proiettare ombra sul suo soggetto, ne apre, nelle combinazioni dei nuovi testi, le letture che, anche nella lingua originaria, erano contenute allo stato latente.
Torniamo alle metafore musicali. L’interprete (parola che in latino indicava il sensale, l’intermediario di bestiame o di beni immobili) è colui che, non possedendo nulla di proprio se non precisamente le sue qualità di interpretazione, dispiega, dipana, svolge, risolve un materiale che gli è stato affidato. Dalla qualità della sua prestazione dipende il fatto che essa “faccia” opera o sia, invece, mera comunicazione.
In un dialogo intorno alla musica techno,2 Jean-Luc Nancy sembra stabilire una differenza di qualità fra un lavoro che sarebbe una mera giustapposizione di elementi musicali diversi, una sorta di collage, capace al più di esprimere l’instabilità, l’invecchiamento di una data forma, e un mixage capace di produrre, a partire da identità sonore eterogenee, una forma nuova. D’altronde egli allarga all’estremo il concetto di mixage, in quanto concepisce la forma come qualcosa di permanente e di mutevole allo stesso tempo: “Ciò può necessitare di molto tempo, così come le diverse lingue latine che sono per noi il francese, lo spagnolo, il rumeno e l’italiano sono scaturite da lunghe operazioni di scomposizione del latino e di ricomposizione per missaggio con altre lingue, in processi che sono durati secoli. Allora appaiono le forme…. Ciò che intendo dire, è che esiste una vera questione della forma, così come c’è una vera questione dell’opera. Non per mero gusto delle forme, non per dire: ‘ci occorre una nuova forma, ma perché, malgrado tutto, la forma, lo si può dire nello stile di un certo Nietzsche, è anche ciò che ci protegge dall’abisso del fondo, dal ‘fondo senza fondo’”.3
Non posso non pensare qui, per riprendere il filo della traduzione, all’ultima pagina del saggio di Benjamin, dove, a proposito delle traduzioni holderliniane da Sofocle, si dice come “in esse il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo”4. E’ a questo stesso proposito che George Steiner parla, ne Le Antigoni, di traduzione come appropriazione e metamorfosi5.
Appropriazione e metamorfosi sono gli attributi del missaggio: si tratta di scegliere brani preesistenti (e qui andrebbe aperta la questione dei criteri di scelta e di campionatura), sottrarli al loro contesto, sovrapporli ad altri brani ridotti ugualmente a frammenti, scomporli in pezzi, ricomporre i pezzi in altri provvisori ordini, mutarne la durata, il volume, la massa sonora. In questa pratica che può essere chiamata di ri-presentazione ciò che si rappresenta è la perdita di originalità e di autonomia di un’opera ridotta a oggetto da manipolare, a simulacro di sé. Si può dire che è proprio nella mancanza di rispetto per l’originale che si pongono le condizioni della metamorfosi. E’ il caso delle traduzioni holderliniane, in cui la comprensione non è la chiave del livello eccelso di trasfigurazione raggiunto dal poeta tedesco. A volte un errore di grammatica, compiuto “forse per ignoranza, forse per trascuratezza o per fretta” conduce a soluzioni linguistiche luminose6. In questo senso la traduzione non è meno metamorfica del missaggio. In una tale ri-presentazione si trova un’altra originalità, un’altra autenticità. Allo stesso modo l’alienazione ripetuta e molteplice di un’opera appare come un ritrovamento, una restituzione o una “retroversione”, per usare la parola di Primo Levi, a un originale precedente l’opera stessa, a una sfera del possibile.
Questo movimento all’indietro, di “ripresa”, è particolarmente evidente nella musica hip-hop, anche in un’altra sua caratteristica, l’anacronismo. Nel momento in cui, alla metà degli anni ottanta, la tecnica digitale ha prodotto i laser-discs, che hanno rapidamente occupato il mercato musicale, rendendo obsoleti i dischi vinilici in quanto strumenti di riproduzione, questi sono stati ripresi come mero materiale sonoro, come materia prima di opere effimere e mutevoli. Dell’incisione su vinile sono stati esaltati appunto i difetti, come la cedevolezza all’impressione della puntina; lo stesso carattere desueto dello strumento, che è tornato a essere un “grammofono”, è diventato una qualità. La tecnica dello scratching, che è certo legata a quella pittorica dei graffiti7, esprime acusticamente, con le sue battute di arresto, gli scricchiolii, i tremolii, i tempi accelerati o rallentati, questo movimento di “contrattempo”.
La trasparenza, intesa come stratificazione e compenetrazione, è il metodo stesso di questa musica grafica. L’italiano “graffio” ne designa, in maniera quasi etimologica, lo strumento espressivo. L’analogia con i graffiti, in particolare con quelli preistorici, è evidente: anche lì i contorni delle figure si sovrapponevano, coesistendo simultaneamente, non nascosti ma intrecciati ad altri, in disegni di dettagli minuti o in linee sommariamente tracciate8.
Ciò che nel missaggio pare inaccessibile, o difficoltoso, alla percezione, è l’identità stessa del materiale originario. La riconoscibilità rimane quella di elementi singoli, emergenti per scelta o per caso dalla nuova forma che li ha adottati.
Questi elementi riconoscibili appaiono, come si dice in gergo fotografico, “scontornati”; sono isolati cioè da quello che avevano intorno e presentati come un nuovo testo. Il loro rapporto con gli elementi contigui è un’estremizzazione estetica dell’appoggiatura: un elemento si appoggia al successivo, occupando una parte della sua durata o del suo spazio. Nella musica classica l’appoggiatura era un abbellimento, in cui una nota era messa in rilievo da quella che la precedeva, a un intervallo di seconda superiore o inferiore. Nella ripresa e manipolazione di questo intervallo si articola il missaggio.
Negli interstizi delle sovrapposizioni fra le note (o fra le proposizioni, o fra le immagini) è la difficoltà di percezione. Qui è tutto l’interesse della trasparenza; esso risiede nel rapporto di questa con il “malvisibile”. Nello sforzo che si richiede ai sensi e nei mancamenti della vista e dell’udito è la chiave di una conoscenza non immediata e non intenzionale. Ciò vale anche per un altro tipo di missaggio, e cioè quello fra diverse strutture linguistiche: la scrittura e l’immagine, ad esempio. “Appoggiandosi” gli uni agli altri, sovrapponendosi pur rimanendo distinti, gli elementi diversi operano la presa di distanza da se stessi e degli altri da se stessi. E’ il caso di ogni forma di testo, che sia descrittivo o meno, appoggiato a un’immagine. Semplicemente, non possono essere letti insieme9.
Una certa inadeguatezza dei sensi, l’impossibilità di cogliere, afferrare, selezionare, accompagna un’opera che va nel senso della complessità piuttosto che in quello della semplificazione. Questa complessità ha la figura di una stratigrafia, le cui componenti non sono discernibili a prima vista. Una ulteriore mediazione della vista, un tempo approfondito dell’ascolto si rendono necessari.
La penetrabilità di una tale opera, che sia visiva, letteraria o musicale richiede un atteggiamento analogo da parte dello spettatore, del lettore, dell’ascoltatore. Non è un fatto di “messa a fuoco” del soggetto, né di schiarimento diffuso della percezione; piuttosto è un fatto di intensità variabile dell’attenzione, di interruzioni e di intervalli della presenza, di distrazioni rivelanti, di ascolti discontinui, di spostamenti dello sguardo, di sguardi sbiechi, indiretti. La trasparenza, abbiamo visto, è ciò che fa che le cose appaiano solo “di traverso”.

III

“E’ questa pena riflessa che intendo porre in rilievo e, per quant’è possibile, rendere evidente in alcuni ritratti. Li chiamerò ‘silhouettes’ sia per subito ricordare con questa denominazione che è dal lato oscuro della vita che li traggo, sia perché, cosiccome delle silhouettes, non sono immediatamente visibili. Se prendo tra le mani una silhouette, non ne ricavo nessuna impressione, non me ne posso fare nessuna vera rappresentazione, e solo quando la alzo verso la parete, e dunque non bado all’immagine immediata ma a quella che sulla parete si mostra, solo allora la vedo”1.

Per seguire quest’immagine, è necessario ricordare come la traduzione letterale del danese Skyggerids sarebbe piuttosto “contorno ombroso” o, meglio, “tracciato d’ombra”. Difatti occorre sapere come le silhouettes di cui è questione qui non erano solo i profili ritagliati sulla carta nera e incollati su un foglio bianco, in voga soprattutto nella seconda metà del settecento. L’immagine, al tempo di Kierkegaard, poteva essere tagliata sul bianco o traforata a giorno sulla carta. Ciò che si guardava era quindi la proiezione, sulla parete o su uno schermo, dei contorni traforati o ritagliati. Si leggeva, cioè, l’ombra. Era la creazione dell’ombra tramite la luce che, in una sorta di skia-graphia, permetteva una visione altrimenti impossibile, se fosse rimasta “immediata”.
Ma seguiremo in un’altra circostanza il percorso di queste ombre. Invece ci attarderemo su un’altra accezione della trasparenza cui ci introduce il testo di Kierkegaard.
“Se guardo un foglio di carta, all’osservazione immediate esso può forse risultare di nessun interesse, ma solo tenendolo alzato alla luce del giorno e penetrandolo con lo sguardo, insomma, guardandolo in trasparenza, ne scopro la sottile immagine interiore, che, per così dire, è troppo psichica per esser vista immediatamente”2.
Tutta la metafora di Kierkegaard è legata al rapporto fra il dubbio e la pena riflessa, che non si lascia rappresentare, perché è, oltre che rivolta all’interno, costantemente in divenire e in disaccordo con se stessa. “Solo un osservatore attento ne presente la scomparsa”; la pena riflessa, cioè, si lascia percepire solo nel momento e nel movimento della sua scomparsa.
“… così il pescatore se ne sta a dirigere il suo sguardo fisso sul fiume, ma non è il fiume che gli interessa, quanto i movimenti sul fondo. L’esterno ha perciò importanza per noi, certo, ma non come espressione dell’interno, quanto come un’informazione telegrafica del fatto che giù in fondo si nasconde qualcosa. Quando si studia a lungo e attentamente un volto, può capitare di scoprirne per così dire un altro entro a quello che si vede”3.
Ciò che può capitare di scoprire è, più che una verità oggettuale più vera di quella immediata, l’inquietante riflesso di un’immagine interiore all’osservatore stesso. Allo stesso modo ciò che si rivela al traduttore sono le nuove forme della propria lingua.
Torniamo al termine Skyggerids. Incidere, tracciare con l’ombra. Il verbo ridse è il to scratch inglese, che mantiene tutte le valenze del greco graphein. E il significato originario di questo verbo era quello di un attrezzo comune a diverse espressioni linguistiche: “Durante I secoli che definiamo come “oscuri”, cioè, grossomodo, dal XII° all’VIII° prima della nostra era, la Grecia che –per tutto questo periodo, lo sapete- ignora la scrittura, non conosce neanche, a propria mente dire, un arsenale di immagini, e tanto meno mette in opera un sistema di rappresentazione figurativa. La stessa parola, graphein, occorre notare, viene usata per la scrittura, il disegno e la pittura”.4
A questa citazione vorrei appoggiarne una ripresa da Rudolf Pannowitz, nel saggio benjaminiano: “L’errore fondamentale del traduttore è di attenersi allo stadio contingente della propria lingua invece di lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera. Egli deve, specie quando traduce da una lingua molto remota, risalire agli ultimi elementi della lingua stessa, dove parola, immagine e suono si confondono”5.
Se ci si accosta a questa accezione, in qualche modo “primitiva”, di graphein, non si può non pensare come la questione della traduzione da una lingua scritta a un’altra passa, come su un ponte, per quella della traduzione fra diverse forme di percezione e di esperienza acustica, iconica, grafica, tutte legate al contesto biografico e autobiografico del traduttore. Su queste egli deve innestare gli elementi intrusivi che gli si presentano, trasformandoli e trasformando con quelli la propria lingua.
“Accogliere lo straniero, significa anche subire la sua intrusione. Raramente lo si vuole ammettere: il soggetto dell’intruso è di per se stesso un’intrusione nella nostra correzione morale (è anche un esempio notevole del politicamente corretto). E tuttavia è indissociabile dalla verità dello straniero”6.
Un’opera in cui una verità dell’estraneità rimanga preservata può solamente essere un missaggio, poiché lì solamente si opera una trasformazione che va al di là della semplice testimonianza di diversità. Farò l’esempio di una forma antica di missaggio, il centone, che spesso si è considerato come una produzione artistica di second’ordine. Si trattava di un testo composto mettendo insieme versi e frasi appartenenti a testi altrui; estratti dal loro corpo originario, quelli erano snaturati nel momento stesso in cui venivano messi in valore.
Il centone (dal latino cento – centonis, abito fatto di pezze di diversa origine; patchwork, diremmo oggi) è un componimento letterario tipico dei tempi considerati di decadenza, dei tempi cioè in cui si è consumata una rottura della tradizione, e valori prima considerati evidenti hanno perso di significato. Era frequente nel tardo impero romano, benché si conoscano centoni omerici o virgiliani del secondo secolo dopo Cristo.
Ma anche nell’arte figurativa che oggi, da profani, chiameremmo “classica”, si usava questa tecnica. L’arco di Costantino a Roma ne è un esempio significativo. Tutto il monumento è un vero e proprio riciclaggio di elementi architettonici (cornici, capitelli, colonne), ma anche di rilievi e di sculture – detti dagli archeologi spoglie – provenienti da monumenti più antichi. Per gli studiosi è oggi difficile ricostruire, ammesso che ciò abbia senso, cosa è di epoca costantiniana e cosa è invece del tempo di Adriano o di Traiano. In certi rilievi le teste degli imperatori del II secolo sono state scalpellate e rimpiazzate con altrettanti ritratti di Costantino; che ciò fosse stato fatto per motivi di ideologia o di economia non è chiaro, ma ciò che interessa qui è il processo di spiazzamento e spostamento di un’iconografia, che di quella cambia il significato. Il fraintendimento, intenzionale o meno, pare dunque essere il cuore di questo procedimento.
Il fraintendimento pare inevitabile anche a causa del metodo stesso di costruzione di un’opera con i frammenti ricavati da opere preesistenti. Il metodo è quello della saggiatura, del prelievo, della giustapposizione. Esso si esprime, nella sua presa di libertà nei confronti del suo soggetto, indipendentemente dalla tradizione e contro la tradizione. Esso non copre con un velo di contemporaneità il materiale originario, così come farebbe un procedimento di estetizzazione. La saggiatura, il carotaggio, l’estrazione dell’elemento singolo preludono alla creazione di un’opera nuova. Questa non può passare che per un cambiamento di significato della precedente. Si tratta di un esercizio di violenza. Violenza dell’estrazione, violenza del trapianto. Così come nel missaggio musicale, nel centone la citazione è allo stesso tempo trasformazione del citato.
Il centone è una traduzione e allo stesso tempo non lo è. O, se lo è, è solo nella mancanza di rispetto, che è anche compassione, per il suo soggetto. Nello svelare le fattezze del soggetto, le traveste; nel ridurre la statua a troncone ne rivela le immagini latenti; nell’appoggiare l’una all’altra le forme diverse le riapre al regno delle possibilità.

PS: questo testo presenta 23 note a piè di pagina, che copiero’/incollero’ non appena avro’ imparato come fare.

Per un’arte della storia (1999)

Il rapporto fra l’arte e la storia può essere visto da diversi punti di vista. Dirò qui, molto concisamente, almeno tre dei modi in cui l’artista può guardare alla storia.
1. Come presenza, persistenza e continuità del passato, al cui capo estremo ci si trova. Di lì un’arte di citazione e di rappresentanza.
2. Come contesto, ambiente temporalmente definito nel quale si vive e si opera. Di lì l’arte politica, o impegnata che sia.
3. Come eredità riconosciuta, oggetto di riflessione e di ri-presentazione. Questo dà l’arte di storia.
Tutti questi modi necessariamente si intersecano e nell’operare si fondono, ma io ne isolerei piuttosto uno, che trovo più interessante e fecondo: l’ultimo, quello che appare come la forma attuale della “pittura di storia” e quello che più degli altri avvicina la pratica artistica a una funzione di interpretazione del mondo, a un “dire il non detto”.
Come punto di partenza, una visione ermeneutica dell’arte ha tutti i suoi limiti, certo, che si situano nella possibilità stessa dell’interpretazione di ciò che abbiamo intorno e dentro di noi. Ma, se ci si è autodefiniti “artisti”, se si è scelta l’arte come forma di vita, è perché ci si è trovati, all’origine, precisamente di fronte alla questione del significato, cui non si è saputo dare altra risposta che questa: né semplicemente registrare, né semplicemente esprimere, ma trasformare quello che è dato. In altre parole, attraversare e lasciarsi alle spalle l’interpretazione, e fare dell’opera d’arte un’opera di traduzione, di “appropriazione metamorfosante”, secondo la definizione che ne dà Georges Steiner.
Una pratica metamorfica del lavoro artistico ha, almeno, l’interesse di non lasciare questo alla pura affermazione di sé; dà forma comunque al tentativo, cui l’etica ci condanna, di ritessere, di ricucire, di rincollare i pezzi, senza posa e senza fine, in trame e in orditi diversi da quelli che, senza avervi ambito, abbiamo ereditato e di cui portiamo testimonianza. E questo senza la pretesa di poter ri-creare qualcosa, ma solo con quella di dire ciò che resta, che equivale a dire ciò che è perduto.
Un tale lavoro di appropriazione e di traduzione può, e anche deve, rimanere oscuro e anche inconsapevole nel suo farsi, essendo necessaria, al trascendere dell’oggetto scelto, una certa perdita di memoria da parte di colui che quell’oggetto ha scelto.

Un’arte che si interessa all’eredità storica non è, necessariamente, un’arte della memoria né, tanto meno, un’arte politica. Se ha qualità di arte, è politica. Quanto è facile celare l’insufficienza estetica dietro l’appello alla memoria come valore in sé positivo e comunque consolatorio, dietro la petizione di principio e la buona volontà riparatrice; mentre rimane  intera, e decisiva, la questione della qualità del lavoro artistico, che sola giustifica la ripresa e la trasformazione delle immagini-storia, e restituisce all’artista una posizione di artefice. Altrimenti, il kitsch, che non trasforma ma solamente sposta, è dietro l’angolo.

Se è arte, non è storiografia. Non è lì per dire: “guardate, vi dico come è andata”. Non è neanche lì per dire che “avrebbe potuto andare in un altro modo” o per dare insegnamenti su come potrebbe andare. Per fortuna, anche fra gli storici si pensa ora diversamente. Che, allora, l’arte abbia una funzione di trasmissione di una verità più vera di quella che riuscirebbero ad avere le altre discipline? Non è neanche questo. Forse, però,  più di altri un’arte della storia può dire il possibile, e questo proprio grazie alla sua vocazione “parassitaria”, di cui vogliamo rendere conto in questo piccolo volume.
Parassitaria, un’arte della storia lo è: essa dipende direttamente dal suo documento. La fonte storica viene vista generalmente in due modi: o come mera e veritiera testimonianza, o come un testo “suggestivo”, “evocativo”. Si cerca qui un altro modo di trattarlo, che metta al centro la sua eventuale trasformazione: essa può avvenire solo attraverso un processo allo stesso tempo interpretativo e metamorfico.

La storia venga dunque sottoposta all’arte, a condizione che si traccino – ed è per questo che il nostro discorso ruota intorno alla posizione del documento – le frontiere  rispettive: da un lato le scorie, le spoglie, i reperti; dall’altro l’attenzione, la scelta, la metamorfosi.
Ed è primaria la questione dell’inclusione e dell’esclusione, la questione della scelta, quando si tratta, come qui si tratta, della ripresa di un materiale dato. Si torna, infatti, al primo interrogativo di questa raccolta: cosa è che viene designato come documento, perché viene scelto e attraverso quali percorsi diviene materia di una possibile opera?  Nella scelta, nella ripresa, c’è evidentemente la riduzione del possibile a un disegno formato da tutte le condizioni di una soggettività e di un’epoca data. Ma, in taluni casi, scelta e ripresa spaziano proprio nel campo delle infinite possibilità.
Inverno 1998-1999

Tradurre o imitare (1990)

  1. Traduzioni

Nel 1835, all’età di cinquantadue anni, il console francese a Civitavecchia decise di dedicarsi alla ricostruzione scritta della  sua vita, per combattere, come dichiarava, l’ozio e la noia in cui era immerso e per “darsi il piacere di guardare indietro un istante”. Questo scavo nella memoria, così minuzioso che nei tre grossi volumi che riuscì a  riempire lo Stendhal non arrivò a rievocare che i suoi primi diciassette anni, doveva procurargli un immenso piacere. Questo salta agli occhi quando vedono gli schizzi e le piantine con cui fin dalle prime pagine lo scrittore interrompeva e infarciva il suo manoscritto, rivisitazioni gioiose dei suoi luoghi d’infanzia.
Il libro, che rimase incompiuto, era destinato a essere pubblicato. Non sappiamo se i disegni sarebbero stati compresi nel testo oppure no. Un precedente c’era, ben conosciuto e amato da Stendhal, il Tristram  Shandy del pastore Laurence Sterne, pubblicato settantacinque anni prima. Come si sa la fittizia autobiografia di Shandy scava talmente all’indietro che dell’eroe non si vedrà mai la nascita. Simboli, disegni, schemi grafici sono spar si qui e là a intercalare la narrazione scritta, a testimoniare l’audacia inventiva di Sterne, l’intrusione e l’integrazione nel testo di codici impropri.
A un amatore di pittura potrebbe presentarsi, difronte a questi due libri, una sfida: utilizzare il procedimento anamnesico di Stendhal e Sterne ma invertirne i termini. Usare il mezzo pittorico, la presentazione visiva, agitandolo e stravolgendolo con l’incursione della scrittura. E’ una sfida che si pone immediatamente come un problema di traduzione, e di traduzione intesa come rifiuto di un approccio specialistico.
Praticare una contaminazione delle forme, porsi come traduttore (il traduttore è colui che sposta, è quindi per definizione estraneo all’originalità), significa fare proprio un atteggiamento da amatore. Da un lato è andare contro il primato della tecnica e dell’abilità e contro un certo appiattimento dell’individuo che la specializzazione comporta; dall’altro è scegliere, con la leggerezza, la possibilità continua di scelta che l’amatorialismo (dico amatorialismo e non dilettantismo) permette. C’è poi la considerazione determinante: che resta poco da dire oggi, in arte, è vero, e che, per quanto ognuno possa parlare all’infinito, e rappresentare sè stesso all’infinito, non ha, come dice Fitzgerald, che una o due idee originali e proprie da dire, una o due fissazioni, e passa la vita a dirle meglio che può e in tutti modi che può, ma rimane che sono sempre quelle,una o due. Percio’ non è necessario produrre e produrre, non è necessario. E’ meglio dare piuttosto il tempo all’attesa, caricare l’attesa, di esperienza e di sguardo, per tradurla, se capita, nell’opera.
C’è da aggiungere che essere amatori non è privo di rischio, perché il rischio non è nell’impegno prometeico e totalizzante, ma proprio nel vuoto e nell’attesa. Vuoto e attesa che non significano forzatamente concentrazione o contemplazione. Potrebbero incarnarsi, meglio, in una sorta di attenzione distratta, in un guardare di sbieco.
Non è l’intenzione che è interessante e ancor meno l’esecuzione che a quella segue, l’interessante è la sorpresa; non è l’artista che sorprende l’opera ma, al contrario, è l’opera che sorprende e cambia l’artista nei suoi momenti di negligenza, nella sua parte di cecità che quando c’è arriva come un dono.
Guardare di sbieco, parlare di sbieco. Non nominare, non prendere possesso, ma chiamare la cosa e lasciarla a sé.
C’è da confessare qui tra due capitoli una simulazione: che non si sia vista nessuna pittura di questo secolo, che si sia vergini davanti ai libri e che quindi la traduzione sia a senso unico, dagli scrittori cioè ai pittori.

2. Aurora

I quadri devono essere silenziosi. Ma i silenzi non sono tutti uguali. Il difficile è trovare una buona qualità, un buon tono del silenzio. Il tono del silenzio è importante: è la restituzione di possibilità.
Il silenzio più profondo non è quello del vuoto ma quello del pieno; non è nell’assenza ma nella presenza. Il tempo passato contiene in sé il silenzio più profondo.
Come affondare nel tempo dentro a un quadro: tramite il movimento, che lega spazio e tempo; cercando il movimento, è l’unica cosa che valga la pena ricercare. La difficoltà è trovarlo con i colori, che sono i mezzi dell’amatore in pittura. Il verde e il rosso ad esempio, che malagevolmente vanno bene insieme, la lentezza di un verde e la velocità di un rosso.
Occorrerà affidarsi alla smemoratezza. Il quadro sarà il mare della dimenticanza, da cui riemergeranno i frammenti anamnesici. Visto che l’artista, l’amatore, è un traduttore, o un macinino, o un alambicco, o un crogiolo, i frammenti verranno a galla in modo arbitrario, a caso. Si può solo sperare che una qualche “mano di ferro della necessità scuota il bossolo del caso” (Deleuze).
L’artista sarebbe un nomade, che prende qui e là, confidando di essere strumento di qualcosa. Sarebbe un assemblatore, ma incompleto, perché lavora nel silenzio e il silenzio, visto che siamo in un mondo di umani, non presenta sé stesso ma il non detto, l’omissione sarà sempre lì quindi, e la frustrazione. Certo la felicità non è quella dell’oblio ma quella di poter ricordare tutto, di possedere dunque, siano solo i propri ricordi, ma è raro che  i ricordi dicano: “abbiamo bisogno di te”.
Si tende sempre a una qualche origine, in questo cammino a ritroso, forse quella di quando “sulla terra crescevano in gran numero delle teste senza collo, erravano delle braccia isolate e prive di spalle e vagavano degli occhi cos’ com’erano, che nessuna fronte li arricchiva” (Empedocle).
Tra i diritti che si arroga il nostro artista c’è quello di far convivere a forza sopravvivenze o scarti di campi semantici e di epoche diverse. Come se fosse un povero si interessa ai dettagli e ai rifiuti dello scambio sociale.

3. Muri

Vorrei indicare un percorso tra il mare della smemoratezza e il muro del tempo storico. Più che la scena della memoria, dicevamo, o l’alba del big bang), ciò che interessa è qualcosa che giri intorno all’origine, da qualche parte che non sia più preistoria e non ancora storia, non ancora burocrazia. Sarebbe una breccia in un punto indeterminato del tempo circolare, sul cerchio del tempo (si suppone che il tempo dell’artista sia antimoderno). Si suppone che l’artista mescoli passato e futuro, è lui che opera sotto questo emblema: Strach e touha, paura e desiderio-nostalgia.
La paura, che è il sentimento che domina i momenti più rischiosi e decisivi dell’operare e dello stare, quei momenti in cui dalla distrazione e dalla sventatezza prende corpo la chiara presenza, e in cui una sospensione dell’essere apre il varco all’incontro della coscienza e del rapimento.
Il desiderio-nostalgia, tensione dolente verso qualcosa che non si ha o non si ha più, che in tante lingue si esprime con una stessa parola, come touha in céco; si vagheggia il passato con la stessa  parola con cui si vagheggia il futuro. Tutto è buono tranne il presente. Del resto il sentimento vero e irrimediabile di qualcosa o di qualcuno è quello che si origina con la perdita, quando non c’è più, quando non è più presente. E anche, forse, quando non c’è ancora, e il tesoro è tutto nell’immagine: fare un figlio, cambiare continente, compiendo un gesto non diverso da quello “che sempre ci tenta: prendere un animale in casa, cane, gatto, uccello, tartaruga o criceto, attratti da un impulso profondo, subito da esso distratti” (Ramondino).

4. Corpi

I muri si incidono, i corpi anche.
Coi quadri si lotta corpo a corpo, si danno e si ricevono colpi dolorosi. Come dice Nietzsche, quasi tutti possono sopportare il dolore, dato che si ha poca scelta; arduo è trovare la forza di arrecarli i dolori. Ma si tratta di una restituzione, ché si dipinge o si scrive per pagare i propri debiti e siccome gli artisti sono rancorosi i loro sono risarcimenti avvelenati. Mordono l’opera con dente avvelenato.
Non c’è corpo senz’anima, non c’è niente da fare. L’anima è il segno, probabilmente, e nello stesso tempo porta il peso. Il corpo è il corpo e nel segno si disintegra. Questo è ciò che appare nella tortura etrusca descritta da Aristotele (via Cicerone): “Noi subiamo un supplizio simile a quello patito da coloro che in altri tempi, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, venivano uccisi con una crudeltà ricercata: i corpi vivi di costoro erano legati assieme a dei  morti con la massima precisione, dopo che la parte anteriore di ogni vivo era stata adattata alla parte anteriore di un morto. E come quei vivi erano congiunti con i morti, così le nostre anime sono strettamente legate ai corpi”.
5. Cifre

Poco rimane da dire ma rimane il primato della lingua. I segni, le cifre, ne sono il richiamo, i testimoni. Non si distinguono dal quadro, vi affondano.La pittura sarebbe solo una messa in pagina.
Ma la scrittura in questione, quella di un quadro siffatto, che sia greve di cifre galleggianti sul mare della smemoratezza o incise qui e là sui muri labirintici, dovrebbe imitare quella di un’orchestra. Sarebbe però un’orchestra che non esprime ancora niente di armonico, o solo a  tratti, a caso; sarebbe fermata in quel momento, “falsamente banale, spesso turbante che precede il concerto, e in cui si accorda, cioè si assembla.” (Burger)
Le cifre sono testimoni e non simboli; sono come elementi naturali, bastoncini o pietre, quasi ma non ancora lettere di alfabeto, perché non significano niente; sono dunque bozzoli del linguaggio, che stazionano nell’anticamera della grammatica e della sintassi, e non superano la porta dell’arti colazione. Corteggiano l’utopia della lingua inarticolata e del soffio nel deserto, dicono che “se il mondo ha un futuro, è un futuro ascetico” (Chatwin). In fondo sta l’immagine dell’immobilità geologica, dell’identità con la natura allo stato minerale, sgombro il campo dei residui del desiderio.

Inverno 1990

Works 1982-1994

Salvatore Puglia, Vie de HB, 1985S.t, 1982.

1983 Vie de HB bdVie de H.B., 1983.

Salvatore Puglia 1984 Spirale 25x29

Spirale, 1984, 25×29.

 

intus-ubique-1986Intus ubique, 1986.

 

1-constellation1986Constellation, 1986.

 

2-zeitgeist-1987Zeitgeist, 1987.

 

tersan-1987Tersan, 1987.

 

4-orto-petroso-1988Orto petroso, 1988.

 

3-rosso-1990Rosso, 1990

Fragments A, 1990.

Fragments B, 1990.

5-lecons-de-calligraphie19Leçons de calligraphie, 1990-1992.

 

stele-mobileStèle mobile, 1992.

 

stele-mobile-detailStèle mobile, 1992, détail.

 

steles-mobiles1Stèles mobiles, 1992.

 

7-aschenglorie-1992Aschenglorie, 1990-1992 (Installation 200×600 cm).

 

6-aschenglorie-detailAschenglorie, detail 70×50 cm.

 

9-ueber-die-schaedelnervenÜber die Schädelnerven, 1993.

 

10-historiettes-1993Historiettes, 1993.

 

11-as-i-lay-dying-1994As I lay dying, 1994.

 

12-les-larmes-deros-1994-c

13-les-larmes-deros-1994-a

14-les-larmes-deros-1994-bLes larmes d’Eros, 1994.

 

 

Une photographie de l’histoire (2009)

Depuis une vingtaine d’années, je mène un travail d’artiste dont le sujet est notre héritage historique. Je m’efforce d’élaborer une iconographie qui prolonge et désoriente le regard que nous portons sur “nos” portraits de famille. Pour ce faire, j’ai rassemblé des actes d’archives, des diagrammes scientifiques, des écritures administratives, ainsi que des clichés signalétiques d’identification judiciaire et des planches d’ouvrages d’anthropologiques. Ce matériau m’a servi à élaborer des nouvelles images.
Après avoir pratiqué pendant quelques années le collage de documents écrits et utilisé des documents originaux mélangés à la peinture, j’ai été naturellement amené à la tentative de cerner une “photographie de l’histoire”.
Me limitant à considérer la photographie dans sa plus stricte fonction reproductrice, je l’ai utilisé comme pièce à conviction fragmentaire, dans de grands ensembles à la structure équarrie, qui ne prétendaient pas reconstruire un sens mais qui prétendaient questionner notre manière de regarder le passé. Les images que je montrais étaient le plus souvent mutilées, réduites à des fragments qui ne permettaient pas d’imaginer une unité qui les prolongerait; elles étaient parfois rendues illisibles par des couches superposées de documents graphiques ou iconographiques.
Les radiographies découpées, que j’utilisais comme des écrans ou des filtres, formaient sur ces images un jeu d’ombre et de lumière, de transparence et d’opacité. La radiographie, à la fois reproduction abstraite et négatif de ce qui est caché à l’intérieur du corps, est une forme d’écriture du corps lui même, une écriture qu’il faut déchiffrer et interpréter. La transparence du corps radiographié ouvrait une réflexion sur l’impossible perméabilité de l’image photographique. Comment percer et déstabiliser ses formes si saturées et si définitives?
J’ai donc reproduit “nos” photographies sur des supports transparents, de simples feuilles d’acétate Je les ai superposées à d’autres photographies – qui “n’ont rien à voir” – ou à des anciens travaux personnels, découpés et repeints. J’ai agrandi des détails jusqu’à les rendre abstraits. J’ai caché ces images sous des grilles métalliques, qui renvoyaient à des signes pré-grammaticaux. Je les ai montées entre deux verres, dans des structures qui les écartaient du mur et qui permettaient à une quelconque source de lumière de les transformer en ombres. Ces ombres étaient déformées ou déformables, suivant l’inclinaison de la lumière et la rotation du cadre.
Avec l’ombre, je retrouvais le premier stade de la reproduction. Avec l’utilisation de supports de production industrielle et typiques de notre époque, comme les rhodoïds, les films transparents, les gélatines, les couleurs fluorescentes, je voulais ôter sa solennité, son aura, à l’icône originaire, pour ne présenter que des simulacres.
De plus, ces matériaux permettent de “sublimer” un sujet trivial, ou de banaliser un sujet prétentieux. Pourrait-on trouver, par là, une manière de contourner la question qui tracasse tout artiste visuel: la défaillance du sujet?
Si la reproduction fonctionne comme un outil de conservation, cela va nécessairement de paire avec de la perte. L’image originaire étant de toute manière perdue, il reste les infinies possibilités de la recréer dans notre imaginaire.

A-museum (2001)

“Could it be that technical means from a distant period, when used at the present time to recreate certain events, touch us even more than the awareness of the events themselves?” (1)
This is the last sentence of Philippe Poirier’s introduction to his performance Leaving Pictures. It points at what is at stake for me in the few reflections that I am going to submit to you. Is it possible to deal with the past “truly” and also “aesthetically”? Is there an ethical necessity, for the researchers and the artists that we are, to be fairly unfaithful to “our” past, beyond being the witnesses and the representatives of a history that is, as such, “our own”? Is there an aesthetical approach which, going beyond the due witnessing, and being both surgical and lyrical, could take us to a fertile destruction of the past, far away from the aesthetisation of memory?
Or should we pay respect to our ancestors –be they victims, persecutors or spectators – and to their feelings and deeds, committing ourselves to the collection and the preservation of what has been left to us? Should we, again, build museums and museums of museums, or should we erect warning memorials and sensible pieces of art? Should we, perhaps, produce monuments out of monuments, like parodies of these protected works of art during the last war?

1.
I already mentioned in a previous talk that last year I was asked to organise an event in Naples, that was to be housed in the building of the ex Asylum for the Poor and that was meant to celebrate the first “Day of the Memory” of the Holocaust. The call that came to me was based on a linguistic misunderstanding and on an incorrect translation. The person who invited me did not register that, when they said “find us an artist”, the people who were running the ex Asylum meant –as  is common by the older generations and in Southern Italy- a performing artist, a man of the scene, an actor, a theatre director. Only after accepting the job did I realise that I was possibly not the man they were looking for, a fact which led to several discussions and confrontations and eventually to indispensable compromises, because we all had to give up our respective aesthetical radicalities. A performative part remained in the final event, but this was limited to the opening and I tried to make it as meaningless as possible. Voices recorded in the streets and arbitrary tableaux vivants were the main elements of this evening.
The permanent exhibition was set up, instead, in a less noisy environment. We didn’t make up the spaces, we didn’t paint a walls and didn’t drive a nails into them. As furniture, we used what was left in the same building from its previous functions. The place stayed  as it was; bare, naked, transparent through history. We arranged a collection: gathering and displaying documents, films, books, internet connections, data bases – with the result that many visitors complained that there was nothing “to see”, while a few came almost every other day.
I do not suggest that this setting wasn’t an aesthetic choice -we always deal aesthetically with the past, if we are not just observers of it-. But our choice was anti-representational. Place and documents, context and text, should speak for themselves, once put into the conditions of speaking. Our assignment was the one of establishing these conditions, being aware that they were precisely determined by the encounter of a particular container with a specific material, where both would be transformed.
Our task wasn’t one of pointing at ethical models -let’s say erecting a monument- nor one of showing evidences and proofs –let’s say building a museum. We weren’t putting together an archive either: while a museum is a place intended to put on view original traces of the past, an archive is an accumulation of original traces kept for a possible upcoming use, with the aspiration to be comprehensive. What was collected in the spaces of the Asylum were representational items, second-degree objects that dealt with the definite subject of the Shoah. Within this process of choosing, gathering and making available, these objects were seen as tools of a potential intellectual engagement. What was being presented was an installation, or a mechanics of documents, or a projection of history.
The aim of this installation was not to “preserve” memory – I still believe that preservation has a strong relation with falsity and therefore is a practice of kitsch – and I still take kitsch to refer to any kind of bad art. Neither did this installation aim at “touching” emotionally –even though there is nothing bad in wanting to “touch”, in art as well as in historiography-. This installed collection offered equipments for thought: rather than proposing aims, it was providing means.

2.
I still ask myself why an artist was needed, to animate the commemoration of a specific historical event like the Holocaust. The answer that I give myself is that to such an emotionally overwhelming and rationally non-understandable occurrence people feel like being able to oppose only the emotional and non-understandable fact of artistic creation. This is the reason why people commit monuments to artists.
Monuments are things that point in some direction with their fingers, they express ultimately the confidence that something can be pointed at, that there are lessons to give and teachings to take, and historical examples to condemn or emulate. They assume that the social body can be moulded by the call to remembrance. Monuments, like museums, are nationalistic inventions. A monument, like Leopardi said, is always optimistic, always addresses itself to a future that is taken for granted, that is embodied in the icon of a collective identity, and inevitably states for its sake a positive message. A monument is always “to” something. A monument that would be “with” something would be either self-erasing or withdrawn; this is the kind of monument that I would like to see. I wonder if it is this being “with” that engages me before Poirier’s performance, not only for its use of the original materials and devices, but for such a use that, while destroying them, creates and projects in the air a new sound which is made of their ghosts. That would be a fruitful betrayal, if it could allow us to touch the past, beyond memory and beyond evidence. Or would this be another idealistic wish?
But what would these non-assertive, these non-identitarian monuments look like?
Having asked myself this question, I made an experiment last year, when I was invited to take part in the Models of Resistance show in Copenhagen. As this city had been, a few years ago, the theatre of a personal experience, I went out overnight and marked the locations of this past experience with the symbol of the monuments protected by the United Nations. Roaming the town in order to find again the places where I had been, I somehow placed the landmarks of a biographical anamnesis that was no more noteworthy than any other.
Rather than as a piece of art, I consider what I made as an exercise, and not only because it was not taking place in an environment devoted to art. These UNESCO signs were mixed up with all the signs that in an urban topography indicate locations, zones, functions, memories; they would hopefully provoke the questioning of some passer-by. What was being applied was an outsider attitude, the appropriation of a procedure and a signalisation that one was not entitled to. At the opposite of the Avant-Garde gesture that raises to the status of art what is originally not art, this spreading the traces of a passage was a rhetorical call to the democratisation of recollection. Instead of an iconic, significant, sublimating sculpture, a fragmentary, mobile, non-systematic tracing out.

3.
“There is no kitsch that ends with a question. All kitsch ends with a statement.” (2)

I agree with Saul Friedländer’s statement, but I also think that one shouldn’t be afraid of kitsch. For instance it could be taken and used as one element of a work, among others; just as successive reproductions can lead so far away from their model as to create another original matter. And I could imagine, as well, a work so absolutely kitschy that it would become a pure art piece, a mere questioning in process.
Very few museums today are built in such a way that the circulation inside their spaces arouses thought and also lays down ambiguities: ambiguity is a good detonator for a process of interpretation. Most historical museums are either mere places of conservation, perhaps with an educational section, or sites for cultural entertainment, where the last thing that should happen to a visitor should be to induce him into boredom. For instance, the young stewards of the new Jewish Museum in Berlin are instructed to say “enjoy” when they check your ticket, and actually once inside you find a number of drawers to open and buttons to push. At the end of the visit you know what you knew already, so to say, that German Jews were also Germans. This is what Friedländer would call “to end with a statement”.
Either conservative or entertaining, a museum that would not be discursive could not be of interest. The only acceptable museum is the one that preserves what doesn’t exist yet, the one that preserves the imaginary of the viewer, the one which really takes its visitor as “a historical subject” (3), the one which would eventually take itself as a historically determined object and would accept its own disintegration.

I wonder why I like to use this adjective “kitschy” in regard to most museums. Is it because they stand for a linear, derivative vision of the historical facts, and mostly portray a narrative which is the one that justifies their own existence? Or simply because of the “inauthentic” relation between the objects and their unoriginal background, and the interrupted prolongation of these objects into time? Archives, actually, cannot be kitschy; they are the “natural” place for dead documents. They do not represent, they stay. Why  can’t we show them as they are? Not only because they wouldn’t be readable, but because there is nothing to stage with a storage room. That would look like a piece of art à la Boltansky or à la Kabakov, but not like something to be used for anything else than aesthetical appreciation or nostalgic longing.

The storage room, perhaps, can be presented as a museum. Anyhow every museum is a fiction. What makes the difference is the degree of intellectual freedom that is allowed to the viewer, the degree, so to say, of democracy within the museum.
Places where everything means something are unbearable (by the way, it is the same with people and with books). This is probably the reason why, being a historian and feeling embodied myself in history, I grew tired of a historiography practised as a demonstrative explanation of signs. The intensity of my relation to history, also in connection with my personal biography, forced me to leave my fellow historians and become something else, as well. What was to be given up was the attempt of making sense of our past, of looking for more or less linear consequences and causes, of trying to renew an “objective” approach to what has been. I would, instead, understand history without understanding. I would instead become an artist.

The last work I would like to mention here is a two-days museum, a recent installation at the Society of the Industrials of Sainte Marie aux Mines, in France. This building housed an interesting collection of naturalistic and archaeological items, put together, at the turn of the 19th Century, during the golden and positivistic age of textile manufacturing. Yet with the decline of this industry and the disappearance of its main figures most of the collections ended up in cellars and attics, where we found them. I decided to make a collection out of the storage room and to present it like a Kunstkabinett: as you know, things in a curiosity cabinet are displayed without any inner hierarchy and with no evolutionary method or respect for the differences between the genres and the fields of knowledge.
In French, the Latin word “museum” can only mean a museum of natural history. This is why I named my installation “Museum of Industrial History”: as a promise that had to be disillusioned -because there was no industrial history to be seen in those spaces-, but also as an allegory of what the heritage of a past life had become. An ever too readable sign of this becoming was a circle of stuffed animals set in the only space still in use, the meeting room. On the walls of the opposite room I hung framed photographs of the meeting room as it was just before my dislocations, and in the middle of the space I “reanimated” an encounter of the ex-members of the Society. I was trying somehow to mix up the times, present tense with past tense with future tense: a conference setting in the demolition site, a ghostly reunion in the depot, old preys in the meeting room. I also combined pieces from my own past work with the leftover collections: would somebody be patient enough to try to recognise what was ”true” and what was not?
I wasn’t fully aware of what I was factually undertaking, I was moving things from one place to another with haste and improvisation. Like in Poirier’s performance in Rome, I was displacing and recomposing original matters “from a distant period”. I knew that I was arranging signs that were not meant for any explanation. I think that I acted like the invited foreigner that I was, as I had been in Naples and Copenhagen: a stranger to a local tradition and largely unaware of its rules, I felt free to misunderstand them. Not having status nor symbol to preserve, I had no discourse to give, but I had the liberty of being one pole of a discourse, as I am here today.

2001

(1)  “Poirier’s Sampling“, in S. Puglia ed., Leaving Pictures. Towards an Art of History, Salerno 1999, p. 65.

(2)  Saul Friedlander, Reflections on Nazism: An Essay on Kitsch and Death, New York 1984, p. 97.

(3)  Michael Fehr, “A Museum and its Memory: the Art of Recovering History”, in S. A. Crane Ed., Museums and Memory, Stanford 2000, p. 59.

Asylum (2001)

During World War II Naples suffered for only twenty days from the Nazi occupation, before a popular uprising and the advance of the Allies pushed the German Army out of the city. There was therefore no time for the organization of a systematic persecution of the Jewish population and  “only” fourteen Neapolitan Jews died as a consequence of racial persecution, having been apprehended in other regions of Italy.
To work on the issue of Shoah in Naples means, though, to appeal to a universal, hopefully common, consciousness, rather than to recall a shared historical experience.
With regard to that, and to the peculiar surroundings in which I have been asked to work, the situation of Naples is far too particular to be taken as an example of a historiographic and museographic installation. It can be proposed, then, as a story.

The event took place in the Albergo dei poveri (or the “Poor’s Hostel”). Its construction began around 1750 on the instruction of the Bourbon king Charles III and was meant to emulate similar initiatives in Europe of that age. These buildings are of the type Foucault describes as the models both of the penitentiary and the factory. They express an authoritarian utopia that represents one of the many sides of the Enlightenment epoch. Such places were meant as a tool for the cleaning up of the nation: beggars, invalids, orphans, prostitutes, elderly or disabled people were taken out of the street and concentrated in such places, either to be just segregated from the public life or to be put to work.
The Neapolitan Albergo dei poveri was supposed to host up to eight thousand inmates (the whole of the estimated marginal layer of the population), but its conception was so megalomaniacal that it was never finished and only three of the original five wings were completed (although, this building remains one of the biggest in Europe). At the beginning of the Nineteenth Century its construction was eventually stalled, and since then it presents the aspect of a huge ruin, half inhabited and half abandoned. It housed, though, up to four thousand people before being progressively emptied. In 1980 an earthquake finally caused the death of eleven elderly residents and this de facto was the end of its use as an asylum. In the following years the palace was looted of almost all the remaining furniture and only in recent years has a project of renovation started. In the meantime social workers took possession of a wing of the Albergo, which as a whole is the property of Naples Municipality.

This then was the site of the proposed event that related to the Holocaust. There is, then, the question of the time period in which such an event could take place.
We have witnessed three phases in the historical recognition of the Shoah. The first one, extending from the end of the War to the mid-Seventies, is characterized by a relative silence about the persecution of the Jews; there have been, though, moments of debate and polemics (in particular around the Eichmann trial in Jerusalem) and the publication of some capital books (Wiesel, Levi, Hilberg). A second phase saw a wide enlargement of the knowledge of what happened, and also the revisionist phenomenon, along with a visual production that reached a large public, like the television series Holocaust (it is interesting to see how the widely accepted denominations for the extermination of the European Jews came from fiction –or documentary- films: today it is considered more correct to employ the term Shoah, that is still the title of a movie). A third phase, which we are living through today, sees the institutionalization and a sort of saturation of memory, where there are rising voices that Jews are “doing too much” (See the foreword to the new edition of Nicole Lapierre, Le silence de la mémoire, Paris 2000).

In January 2000 forty-five States sent their representatives to a conference in Stockholm, where it was decided to hold, in every country, a day of the memory. Such a day should be the 27th of January, the anniversary of the liberation of the Auschwitz camp. Among the national institutions that complied with the indications of the Stockholm conference, was the Italian Parliament. In July 2000 a law declared the institution of the Day of Memory.
The social workers of the Albergo dei poveri, active for thirty years now with hundreds of boys from the slums that surround the building, hearing on news of the law, found that theirs was the “ideal” place to celebrate such a date. The Albergo, in fact, had been for Centuries a place of suffering, and the traces of such suffering were somehow still visible on its damaged walls and its decaying architecture. A more pertinent place to remember suffering and confinement could not be found. The children themselves could be involved, playing the role of the deported Jews in a sort of mimetic performance.
As you can see, then, a place that is just itself meets a time of remembering that is not in itself necessarily a moment of kitsch. But the two things together, through a procedure that, moving from compassion, creates identification, can easily originate a highly kitschy event. The problem, for somebody called to create an event in such a place and about such a subject, was: how, recognizing some historical analogies (the hygienic and paranoiac relation to the marginal and the different, the choice of their concentration in a separated space), to avoid a mimetic, sentimental approach without limiting oneself to a mere presentation of documents that have been seen hundreds of times.
I confess that I was more interested in the place than the subject. At that moment I was making works about the concept of shelter, refuge, hospitality and, after having built –last May, in Maastricht- a “parachute” that was meant as an exercise of unconditional hosting, I was wondering how to put the question of a shelter that would not be at the same time a prison. On the other hand, I did not want to make art “on” such an extreme subject. Such an event should be left, I thought, to its historicity and not be dealt with in terms of “art”. A form of aesthetic approach to an historical event is, though, unavoidable; even if you call it “design” or “installation”, there is a problem of setting a frame, of giving a shape to the re-presentation of catastrophe.

I came to Naples, then, with a couple of references in my head. First, an article by Gianni Vattimo called “L’impossible oubli” and published in the acts of the Royaumont symposium on Usages de l’oubli, “Usages of the oblivion” (Paris 1988). Starting from an early Nietzsche text on “the utility and damage of the history”, Vattimo points out how, in a time period that sees a “historical fever” and an excess of memory, one should recognize and extremisize such an excess, instead of taking refuge in the oblivion through religion or art as a ”unique, instantaneous, classical” work. The idea of a forgetful creation is, in fact, dependant on a “aesthetic of utopia”, which cannot be proposed anymore.
The second was a recent article by Régine Robin, “La mémoire saturée” (“The saturated memory”), published in L’inactuel in September 1998. Régine Robin is a French scholar who has been working extensively on the relationship between memory and fiction; in the text I am mentioning, for example, she states how at the liberation of the camps, some photographs were staged, as was the famous one of the US marines planting a flag on the mount Suribachi in the Iwo-Jima island. Robin’s position is that in facing the representation of the Shoah one should set spaces of meditation, rather than trying to re-create a trauma. What blocks the transmission in such official institutions as the Washington Holocaust Memorial Museum, “is the excess of images and explanations”. One should rather open a third space, a “spectral” one, that could allow both the heritage and the transmission.
Finally, a third text containing perhaps the most famous lines on the possibility of art after the Holocaust, that I will, after all, quote: “Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben ist barbarisch”, “After Auschwitz to write a poem is barbarian… Through the aesthetic principle of stylization… an unimaginable fate still seems as if it had some meaning; it becomes transfigured, with something of the horror removed”; this statement, already expressed in 1949 (“Kulturkritik und Gesellschaft”) was reaffirmed by T. W. Adorno in a 1962 radio broadcast, to be published in Frankfurt in 1965 (“Engagement”, Note zur Litteratur, 2). I am not going to linger on that issue (I would rather refer you to John Felstiner’s “Translating Paul Celan’s ‘Todesfuge’: Rhythm and Repetion as Metaphor” in Saul Friedlander, ed., Probing the Limits of Representation: Nazism and the “Final Solution”, Cambridge Mass. 1992, pp. 240-258), but I would like to cite a possible update of Adorno’s famous lines: in one of his last texts, the German philosopher states: «After Auschwitz… there is no word … not even a theological one, that has any right unless it underwent a transformation» (Negative Dialectics, New York 1983, p. 367). I would like to say that I took a credit from this correction, if it is one, to draw the lines of the Naples installation.

I decided that I would not build anything that would express an empathetic or emotional approach, precisely because this is the most common approach that is undertaken in dealing, in art or in educational programs, with the Shoah. And what is Kitsch, if not a form of representation that remains subordinated, forever linked, to its subject, and does not reach an autonomous form? And wasn’t the Hostel for the Poor, in its actual state of overwhelming and beautiful decadence, precisely the “ideal” place for another kitschification of the historical event of the Jewish extermination?
I decided, therefore, to leave the place in the state of abandonment in which I found it in, and to make it live again for a few hours, with sounds and short actions that, instead of just filling the space, would displace the visitor, who would find himself –if I may say so- in the presence of “absence”, faced with the recognition of loss and the fragility of the trace. An allegorical approach had to be defined, avoiding, though, the absolute distanciation that allegory can present. People should still feel that a poiesis was taking a place.
On the other hand, I thought that instead of proposing again the consolatory lullaby of the duty of memory, we should give a structure to the anamnesic work. Along with some local youngsters we entered the emptied alleys of the Albergo, where tons of archive papers, that did not appeal to the looters, laid on the floor, and found shelves and tables that we transported to the exhibition rooms and summarily repaired. We did not paint the walls but left them like they were. We just cleaned the floor and installed computers, printers, scanners, video projectors and bookshelves.
The principle of the exhibition, apart from the performances, which took place on the evening of the 27th, was a relational one. There was nothing to see, if people did not want to (most of the visitors were actually disappointed, precisely because there was, instead of a show of Holocaust art, “nothing to see”); but if people so wished, they could take and read a book, take and watch a movie, or use the computers to navigate the Internet sites devoted to the Shoah. We would offer research and educational tools instead of emotional recognition. The subject of the exhibition would not be the Jewish genocide as such, but rather the different forms of its representation in literature, music, performing arts, documentary and fiction cinema. We would set therefore the question of representability without proposing a solution, but rather present all the material that had been produced in Italy from 1945 to 2000 and leave the visitors the freedom of envisaging and utilizing this material. We were confident that the framework of the exhibition itself, whose principles seemed rather transparent, would be taken as a form of interpretation. Instead of crying to the scandal of history, we would take into account all the deposits, stratifications and works that history has presented us with.
Instead of “showing’ or “representing”, we would “project” history.

Naples 2001