Costruzione di un paracadute (2000)

I
Manuale di montaggio

Si prenda un paracadute usato, di colore verde o bianco, del diametro di undici metri. Lo si appenda fra gli alberi in un parco, o fra le mura di un cortile, o finanche in una pubblica piazza. Si applichino degli anelli in corrispondenza delle giunture e si tendano fili di nylon fra tali anelli e i rami – o le mura – circostanti. Si ricreerà così, grossomodo, la forma a ombrello del paracadute che scende.
Si sospenda tale struttura a mezzo metro circa dal suolo. Si sollevi un capo della stoffa, di modo che venga abbozzata la forma di un’entrata.
Ci si procuri due divani, tre poltrone, uno scrittoio, una sedia, un frigorifero. Li si ricopra con la tela ritagliata dal paracadute di riserva.
Si disponga una palma in vaso fra il frigorifero e lo scrittoio. Si collochi una piccola libreria fra un divano e una poltrona, e una lampada a stelo a lato della libreria.
Venga disposta questa mobilia in circolo su di un grande tappeto orientale, lasciando vuoto lo spazio centrale. Non si tema di creare uno spazio lussuoso, calmo, voluttuoso.
Si scelgano dodici o quindici volumi, secondo il proprio gusto e le proprie convinzioni, che costituiranno una biblioteca ideale e universale. Li si rivesta della stessa copertina, li si identifichi con un numero latino.
Si scelgano i migliori vini bianchi di Francia d’Italia e di Spagna (i vini bianchi non intorpidiscono lo spirito), se ne riempia il frigorifero, insieme con bibite varie, per la soddisfazione di tutti i gusti.
Si assuma, per la durata dell’evento, una sperimentata hostess; la si abbigli di un’uniforme cucita con gli scampoli del paracadute di riserva.
Si diano istruzioni alla hostess perché chiunque si trovi a passare difronte al paracadute venga invitato ad entrare, e i suoi desideri siano – nei limiti del possibile e del decente – esauditi.
Infine, si avrà cura che all’interno della cupola ci sia una buona aerazione e una temperatura gradevole.

Regole: un “padrone di casa” sarà sempre presente all’interno dello spazio. Non imporrà la conversazione, né chiederà agli ospiti chi essi siano o chi li abbia mandati. Sarà però sempre disponibile al discorso. La disposizione circolare di divani e poltrone farà sì che tutti gli scambi verbali oscillerranno spontaneamente fra la conversazione e la chiaccherata, fra la confidenza e il discorso, in un registro fluttuante fra espressione privata ed estensione pubblica.
Alcune performance, letture, concerti saranno eseguiti secondo un programma affisso ogni mattina; altri verranno improvvisati, seguendo gli incontri e le conversazioni che accadranno ogni giorno in quello spazio.

Nota: un paracadute è per definizione mobile. Non rimarrà quindi nello stesso luogo per più di tre giorni.
II
Istruzioni per l’uso

1.
Il nostro paracadute è uno spazio dimostrativo. E’ un manifesto per la libera circolazione delle persone.
Cos’è un paracadute, se non un attrezzo la cui funzione è quella di rallentare una caduta?
Se un tale attrezzo è in funzione è perché c’è una caduta; c’è, quindi, rischio di vita; c’è emergenza.
Un paracadute non è una tenda: non è ancorato al suolo, ma fluttua in uno spazio fra cielo e terra; finirà per atterrare, ma non si può dire precisamente dove; questo dipende dai venti e dalle correnti d’aria.
Una volta sceso sarà inutile, perché la sua qualità è la leggerezza, qualità non richiesta da chi ha i piedi ben poggiati sulla terra.

2.
Un paracadute non offre ospitalità, offre salvezza.
Se la tenda è lo spazio simbolico dell’ospitalità, il paracadute è quello dell’accoglienza, del rifugio.
Offrire accoglienza a qualcuno non è la stessa cosa che offrire ospitalità. L’ospitalità è un fatto di buone maniere, di etichetta, è l’espressione dello scambio civile che ha luogo in una comunità di pari. L’accoglienza presuppone invece una disparità nella relazione, quella fra chi ha il potere di offrire rifugio e chi si trova in stato di bisogno.
Forse gli ultimi luoghi in cui l’ospitare coincide con l’accogliere sono quelli in cui l’ambiente naturale è fonte di pericolo; solo i beduini, gli eschimesi, i mongoli possono ancora ricevere cosi come facevano Alcinoo nell’isola di Scheria o Lot presso la città di Sodoma.
Ma, nel mondo occidentale, il dare rifugio non ha niente a che vedere con l’esercizio delle buone maniere; il potere che vi si espleta non è quello codificato della cavalleria e della buona educazione. Il fatto è che il riconoscimento, che è il presupposto dialettico dell’ospitalità, non ha nell’accoglienza una funzione altrettanto importante.

3.
Lo stato di bisogno è in sé una forma di riconoscibilità. Questa basica riconoscibilità del richiedente è qualcosa che rende ben difficile un’accoglienza assolutamente incondizionata (come vorrebbe Derrida, che però non distingue, mi pare, fra ospitalità e accoglienza).
Perciò quello di non chiedere “chi sei?” è un esercizio: una tale domanda può forse essere inespressa, ma è implicita nel riconoscimento stesso di uno stato di bisogno. E non c’è situazione di richiesta che non si presenti con un segno; questo segno dice da dove viene, da chi è mandato, quale pericolo rappresenta colui che bussa alla porta.
L’appello a dare rifugio è un appello che viene dal pericolo; chi richiede è in pericolo e porta con sé il pericolo nella dimora dell’ospitante. Chi è che ha veramente voglia di aprire le braccia al pericolo e all’inconosciuto? Solo un irresponsabile o un anarchico.
Per questo il nostro può essere solo un esercizio, una torsione della generosità verso la smoderatezza e un rivolgimento delle buone maniere verso l’eccesso immotivato e disinteressato: a chiunque si presenti alla soglia del paracadute si dia non solo accoglienza senza far domande (in un altro campo, questo sarebbe il “mettere fra parentesi la malattia” praticato da Basaglia), ma si offra il meglio dei nostri averi, si trasformi l’accoglienza in ospitalità lussuosa e priva di uno scopo che non sia il piacere di condividere la presenza altrui, i buoni vini, i buoni libri e la conversazione.

4.
L’anfitrione è il recipiente. E’ l’abitatore e il titolare di uno spazio che è necessariamente delimitato. Tale delimitazione spaziale può essere effettiva, come la porta di una casa; o simbolica, come una tenda o i gradini di una chiesa.
Non si può, generalmente, aprire ad altri ciò che non è proprio. Non c’è protezione senza esercizio di sovranità. Ricevere significa quindi rendere pubblico, per il tempo e nello spazio dell’apertura, un luogo privato o esclusivo.
Si fa entrare l’ospite: un nuovo, più largo spazio conviviale viene creato. Tale trasformazione del privato nel condiviso si attua sulla soglia: è lì che il padrone di casa inviterà, farà strada oppure resisterà all’intrusione.
Non si può aprire ciò che non è proprio, ma si può allargare uno spazio dato che fosse socchiuso. Perciò sarebbe più facile invitare lo straniero a chi fosse già metà straniero,  già metà intruso.

5.
Immaginiamo un paracadute aperto, sospeso a qualche palmo dal suolo, accessibile da tutti i lati e impossibile da chiudere: sarebbe l’emblema di un invito privo di identificazione e privo di giudizio, uno spazio in cui ciò che è proprio e ciò che è comune sarebbero confusi fra di loro.
Una tale indeterminatezza sarebbe possibile solo se l’ospitante non esercitasse un reale potere, ma fosse a sua volta un occupatore abusivo: il suo spazio sarebbe precario e non avrebbe la forza reale di proteggere alcuno. Ma proteggerebbe simbolicamente: sarebbe qualcosa di simile alle zone franche medievali, o a quei giochi d’infanzia in cui non si può essere toccati finché si rimane all’interno di un cerchio magico. Sarebbe uno stato di fatto, né fuori né dentro la legge. Un “ready made assistito” quale un paracadute aperto in una piazza sarebbe al bordo della legalità, perché non si potrà dire che fa occupazione di suolo pubblico.
L’accoglienza assoluta, incondizionata, può avvenire solo intorno a un malinteso o a una riappropriazione. Essendo privo di ogni potere e di ogni proprietà che non fosse temporaneamente preso in prestito, essendo allo stesso tempo ospite e ospitante, l’anfitrione sarebbe responsabile su due lati: tanto nei confronti dello straniero quanto nei confronti dei legittimi proprietari, cioè dell’autorità. Sarebbe una sorta di garante, la cui legittimità verrebbe semplicemente dal fatto di essere arrivato prima del successivo invitato.
Solo un invitato abusivo, che non ha chiesto niente ma semplicemente ha introdotto se stesso, può sfuggire al gioco del riconoscimento e dell’identificazione che è quello del potere e può a sua volta rivolgersi al nuovo venuto senza chiedergli “chi ti manda?”.

Nota: Il Parachute  è stato sperimentato a Maastricht nel maggio 2000. E’ stato chiuso dopo tre giorni di attività, quando la stanchezza dell’anfitrione e la presenza di un ubriaco molesto hanno reso difficoltosa ogni ulteriore convivialità.