Introduzione ai Feuilleton di SP

Sono testi scritti di getto, in reazione alla lettura abbagliante de I migranti di W. G. Sebald, una notte in treno, fra la Germania e l’Italia. Aggiungere le immagini richiede tempo ma lo farò stvb; mi sembra però che possano essere letti anche senza. Oggi farei delle correzioni, ma non ne cambierei lo stile generale, forse un giorno lo farò.

A seguire, Erranze intrecciate, Feuilleton 01, 02 e 03 (2002-2003).

Erranze intrecciate, feuilleton 01 (2002)

20 novembre 2002. Sono tornato al cimitero dei cani. Con la bussola che mi ero comprato ieri al bazar pakistano ho definito la direzione verso cui guarda l’immagine smaltata di Kiki, scimmietta ammaestrata lì sepolta dal suo anonimo e amoroso proprietario, in una data imprecisata fra il 1890, anno di fondazione del cimitero di Asnières, e il 1996, quando lo visitai per la prima volta e presi in fotografia la lapide che più delle altre mi aveva commosso.

A 105 gradi Est-Sud Est si rivolge lo sguardo di Kiki. Mi è parso opportuno trovarle al più presto un compagno che, forse altrettanto fermato nel tempo, potesse stabilire con lei una muta e –certo- finora inconsapevole comunicazione. Ho lasciato quindi Asnières e, rimontato in sella alla bicicletta leggera e dalle sette marce che Silvie mi ha regalato –previa spesa di riparazione- tre settimane fa, mi sono portato a Maisons-Alfort, che sta oltre Charenton, dall’altro lato del Bois de Vincennes. E’ una di quelle giornate parigine, in cui all’avventuroso ciclista pare di fendere una quinta di pulviscolo vaporoso e caliginoso, che respinge tuttavia il freddo estremo e, dopo la prima salita, si addensa in un ulteriore strato di umidità intorno al corpo, che fa da contrappeso al sudore lanuginoso che già copre l’epidermide e trasforma la bicicletta in una sauna a due ruote.

Se sono andato al Museo di medicina veterinaria di Maisons-Alfort è a causa di W. G. Sebald. Nelle ultime pagine del suo libro, Austerlitz, Sebald erra per queste parti della città di Parigi e dei suoi suburbi, i quartieri del sud e del sud-est, dove grandi trasformazioni edilizie cancellano quella che rimaneva come una enclave proto-industriale lungo il bordo della Senna. E’ in queste pagine che Sebald stende il suo più bel pezzo di furia intellettuale, è qui che inveisce –nel modo più argomentato e con tutte le ragioni del mondo- contro la nuova, Très Grande Bibliothèque.

Ho pedalato sul lungosenna, davanti alle quattro torri morte della biblioteca nazionale, distogliendone lo sguardo per attardarlo invece sulle sobrie arcate del ponte di Tolbiac, sui due silos rimasti sul greto del fiume e sui pochi mucchi di ghiaia che presto nessuna chiatta verrà più a caricare.

Alla Scuola nazionale di veterinaria non ho incontrato, una volta superate le scuderie a forma di ferro di cavallo, il vecchio guardiano con il fez descritto da Jaques Austerlitz, e il biglietto d’ingresso non somigliava a quello che –come racconta Sebald alla pagina 282 dell’edizione italiana- gli viene da costui teso “da sopra il tavolino del bistrò al quale sedevamo, quasi fosse qualcosa di affatto particolare” e che lo scrittore riproduce in fondo alla pagina 281.

Il mio guardiano era un nero corpulento, occupato in una telefonata di carattere palesemente intimo, che si è alzato per accendermi le luci e mi ha poi lasciato solo, dopo avermi messo in mano una guida dattiloscritta, untuosa e slabbrata, dalla quale ho appreso come Honoré Fragonard, dopo avere realizzato insieme con i suoi allievi, fra il 1766 e il 1771, i capolavori di preparazione anatomica che stavo per vedere, venisse cacciato –perché preso per folle o, più probabilmente, per conflitti di potere- dalla scuola stessa, per ricomparire, più di vent’anni dopo, al fianco del suo cugino germano, il pittore Jean-Honoré Fragonard, e del grande David, come membro della commissione artistica della Rivoluzione.

Ed è così che, dopo avere esaminato vari esempi di mostruosità zoologiche compresse in boccali di formalina o stipate in vetrine affastellate, e fra queste vari esemplari di vitelli e scimmie a due teste e una foca a due code, mi sono trovato nell’ultima stanza di fronte a una cadavere mummificato secondo i più moderni procedimenti del XVIII° secolo –fra cui l’iniezione di brandy al posto del flusso sanguigno- che rappresenta un Sansone il quale, brandendo un osso mascellare di provenienza equina, si scaglia contro i Filistei; personaggio questo invero impressionante, grazie all’immaginazione artistico-scientifica di Fragonard che, per farlo più terribile, non esitò a rompergli il setto nasale, oltre che a iniettargli cera fusa nel pene, a farlo orrendamente turgescente. Ma ecco, nella vetrina opposta, il famoso Cavaliere dell’Apocalisse. Non tiene più il morso del cavallo –anch’esso mirabilmente dissezionato e disseccato- con le redini di velluto blu, né più agita lo staffile che l’anatomista gli aveva messo in mano, e una brutta impalcatura di metallo verniciato di bianco tiene insieme cavallo e cavaliere, ma ciononostante la composizione risulta davvero minacciosa. Ho estratto dalla tasca la bussola e mi sono posto con le spalle al cavaliere, guardando nella direzione in cui egli guarda: 300 gradi Ovest-Nord Ovest. Ho annotato questo dato nel mio taccuino e ho lasciato le sale del museo.

Sono tornato al mio studio, il quale si trova all’altro capo della città, presso piazza Clichy e di fronte al cimitero di Montmartre. Avrò pedalato per un’ora, e i pensieri venivano a me, aiutati dallo scorrimento lubrificato della catena sulla corona e dallo scatto morbido delle marce. Se mai avessi avuto la fortuna di avere incontrato W. G. Sebald, gran camminatore e grande scrittore, mi sarei permesso di vantargli l’utilità della bicicletta per la ginnastica mentale. I dieci chilometri che, come racconta nelle ultime pagine di Austerlitz, fece a piedi per raggiungere, dalla cittadina belga di Mechelen, la fortezza di Willebroek –ove, fra gli altri, venne imprigionato e torturato Jean Améry- li avrebbe percorsi nel quarto del tempo, senza per ciò rinunciare alla dimensione contemplativa che dal moto delle gambe scaturisce. Avrei potuto, inoltre, parlargli del rapporto sororale che sempre è stato fra bicicletta e Resistenza.

Me ne sono tornato al mio studio, che è sito all’ultimo piano della Villa des Arts, al 15 di via Hégésippe Moreau ma con accesso dal 17, da quando, trent’anni fa, gli eredi del costruttore Guéret divisero gli appartamenti dagli studi che vi erano annessi e chiusero porte, alzarono tramezzi, separarono ingressi e vendettero buona parte delle parcelle così ricavate.

Il complesso edilizio della Villa des Arts è un vero e proprio labirinto di scale che reincontrano se stesse, di corridoi lunghissimi che finiscono su porte murate, di vasti antri bui che contengono solo vecchi mobili squinternati e, alla fine, di una dozzina di studi da pittore le cui grandi vetrate scendono su sei livelli, come una cascata di vetro e di zinco, fino al limite meridionale del cimitero di Montmartre –ciò che fa che, una volta saliti al proprio studio del sesto e ultimo livello, si è davvero alla presenza dell’assoluto: se si guarda verso l’alto, non vi è che cielo; se si guarda verso il basso, non vi è che terreno e ultraterreno, le tombe coperte di foglie secche e i rami, attualmente spogli, dell’anziano ippocastano che tocca il muro di recinzione-. Questo complesso, dicevo, fu costruito insieme con tutto il quartiere dal suddetto Guéret intorno all’epoca in cui fu innalzata la torre Eiffel e, si dice, con materiali di scarto –o di riserva- della torre stessa. Ed è vero che sono ben portanti e rassicuranti le putrelle imbullonate che incorniciano questa vetrata.

E’ in uno di questi studi ai piani superiori che Paul Signac, abitante della Villa dal 1892 al 1897, finì di dipingere il suo più gran quadro, Au temps d’harmonie (l’âge d’or n’est pas dans le passé, mais dans l’avenir), ambizioso manifesto anarchico di tre metri per quattro che, offerto a Horta per la Maison du Peuple che l’architetto stava completando a Bruxelles, e da costui implicitamente rifiutato (Signac, l’11 novembre 1900: “Le tirelignard de la maison du peuple, Horta, n’ayant pas daigné, en six mois, trouver le temps de faire installer les quatre planches qui devaient servir de cadre à ma décoration, je retire purement et simplement mon offre.”), finì per essere donato dalla vedova del pittore –nel 1938, in tempi di Fronte Popolare- al municipio comunista di Montreuil, dove tuttora si trova.

Au temps d’harmonie pose a Signac problemi cruciali, di ordine concettuale ed etico oltre che estetico. A causa del suo grande formato, la concezione stessa della divisione pura dei colori veniva messa in pericolo. Per poter difatti apprezzare, secondo il principio divisionista, il quadro nella sua interezza, occorreva una distanza che il pittore valutava fra i 12 e i 14 metri, ciò che lo indusse, durante la sua esecuzione, a farlo discendere nello studio, più spazioso, del suo vicino Eugène Carrière, e lì, avendolo visionato da una appropriata distanza, si trovò costretto a sovrapporre i margini dei tocchi di colore l’uno sull’altro e ad esclamarsi: ”Comme c’est difficile d’être honnête!”

Mentre Paul Signac era impegnato nelle difficoltose trattative intorno alla destinazione della sua imponente opera, un altro illustre abitante della Villa, Paul Cézanne, faceva venire il suo mercante, Ambroise Vollard, quasi ogni mattina per tutto l’inverno del 1899, per un totale di centoquindici volte, per tre-tre ore e mezza ogni volta, a posare per il suo ritratto. Vollard, durante tutto quel periodo, non ebbe mai la sensazione di sentirsi più importante di una mela, agli occhi del ritrattista cui aveva commissionato il lavoro. Gli capitava, talvolta, nel corso di quelle interminabili sedute in cui Cézanne si limitava a deporre sulla tela due o tre tocchi di colore e passare il resto del tempo a scrutarlo in viso, gli capitava talvolta di addormentarsi, e allora il pittore si accalorava: “Malheureux! Vous dérangez la pose! Je vous le dis, en vérité, il faut vous tenir comme une pomme! Est-ce que cela remue, une pomme?”

Il mio vicino di studio, Pierre, un valente dipintore di tradizione post-espressionista, sostiene che il ritratto avrebbe potuto essere stato eseguito lì da lui. E’ all’altezza della sua vetrata, difatti, che gli occhi di una persona seduta si trovano, a quella angolazione, sulla stessa linea dei comignoli di terracotta rappresentati nel quadro. E le due strane forme circolari che si vedono al di sopra dei comignoli, e di cui oggi non v’è più traccia, erano verosimilmente due coperchi di camino che sono stati sostituiti da sfiatatoi in Eternit.

E’ vero anche che, scrostando la pittura bianca dello studio di Pierre, appare, proprio in quell’angolo, il colore originario del muro, un ocra-rossastro che corrisponde perfettamente a quello del dipinto. E’ altresì veritiero che, all’epoca, tali colorazioni delle pareti erano estremamente correnti e consuete, così come gli ambienti erano più scuri, essendo ingombri di mobili voluminosi, tappezzerie, briccabracchi di tutti i tipi, stampe giapponesi e fiori di stoffa, e illuminati da cannelli a gas, di cui d’altronde nello studio accanto rimane traccia. Potrò sbagliare, ma non ho memoria di un ritratto ottocentesco il cui sfondo sia bianco.

Bianco era il pettorale della camicia di Vollard, di cui Cézanne, riferisce il mercante nelle sue memorie, non fu completamente scontento. Lasciando il ritratto incompiuto dopo cento e quindici sedute e tornandosene a Aix en Provence, pare avesse concluso: “Je ne suis pas mécontent du devant de la chemise.”

Le cornacchie planano gracchiando sul lucernaio dello studio e, non so perché, la loro voce mi riporta alla targa della strada e al triste destino di Hégésippe Moreau. Portano sfortuna le cornacchie? Non lo so; certo è che costui fu un uomo sfortunato, uno di quegli artisti sfortunati e artefici della propria sfortuna che il secolo Ottocento ha prodotto con una incontestabile prodigalità.

Un paio di giorni prima –ero nel pieno di un periodo di ottusa rassegnazione, ché nessuno mi voleva, nessuno mi chiedeva e perciò non c’era motivazione a niente- Daniel mi aveva tirato fuori dalla solitudine bianca dello studio e mi aveva portato a pranzo al ristorante dietro l’angolo, il café des Arts, dove il proprietario algerino, un nobiluomo sempre sorridente e attento, serve il cuscus in piatti decorati da ideogrammi cinesi, eredità del suo predecessore, fatto questo che ci parla qui di multiculturalismo e ascolto dell’Altro con la A maiuscola che grazie al cielo andandosene ci ha lasciato il servizio buono e financo le sedie in similvelluto rosso ricoperto di plastica trasparente, il cuscus però al café des Arts è buono e perché no, bisogna prendere ciò che dal cielo ci viene, comprese le sedie con gli ideogrammi augurali sullo schienale.

In occasione di quel pasto memorabile Daniel, di fronte al mio palese smarrimento quanto all’eventualità pur remotissima di un qualsivoglia progetto futuro, mi parlò di un testo di Jean Christophe Bailly, pubblicato ventidue anni fa da un editore di Parigi. La XVIIIe dynastie à Berlin racconta di un suo soggiorno nella capitale tedesca, non ancora unificata e divisa in due parti da un lungo e alto muro. In quello che allora era il museo egizio di Berlino-Ovest, in una dimora patrizia situata esattamente di fronte al castello di Charlottenburg, Bailly contempla il busto di Nefertiti, regina d’Egitto: “Sa beauté, mais aussi le persistant sourire de toute l’Egypte ancienne m’ayant poussé à ne plus me contenter de la seule vue des objets, c’est muni d’une connaissance un peu moins vague que je retournai à Berlin, moins de deux ans plus tard, d’ailleurs pour d’autres raisons.”

In questo secondo soggiorno Bailly si porta all’altro lato della città, nella capitale della Repubblica Democratica Tedesca, e lì, visitando le collezioni egizie di Berlino-Est, che erano ospitate nel bel padiglione del Bode Museum, all’estremità dell’isola dei musei, si trova davanti al viso, imprigionato in uno scrigno, di Ankhesenpaaton, la figlia di Nefertiti. Ecco che questi due visi “exilés d’Egypte pour se retrouver de part et d’autre du mur de Berlin”, si guardavano, dice Bailly, da un lato all’altro del muro. Tale almeno era la sua suggestione, che decide di verificare nel corso di una terza stazione a Berlino. Ma i due sguardi, se pure si incrociano, non si incontrano. “Je notai alors ceci –scrive: ‘Les regards ne se croisent donc pas, et il s’en faut de peu. Il me reste, sans le signal, une histoire à raconter. Tout est bien ainsi’.” (4)

Ecco da dove mi viene la piccola illuminazione che, alcuni giorni fa, mi tirò dal materasso su cui mi ero appena accasciato e mi tenne sveglio, nell’attesa impaziente del mattino e dell’ora di apertura del cimitero dei cani.

Dispiego sul tavolino la carta di Parigi. Con matita e righello traccio la linea che, dal punto approssimativo in cui si trova la tomba della scimmietta Kiki, segue la direttrice 105° S-SE la quale, constato, traversa il boulevard périphérique all’altezza della porta di Clichy, taglia il viale delle Batignolles, sfiora la stazione di Saint Lazare e i grandi magazzini Printemps, tocca i giardini del Lussemburgo e il viale Auguste Blanqui, luogo di uno degli ultimi incontri fra W. G. Sebald e Jaques Austerlitz, si perde oltre il Kremlin-Bicêtre e l’ospedale di Villejuif, dove tanti italiani del sud vengono a curarsi il cancro perché non trovano al paese loro un’assistenza sanitaria adeguata.

Il cavaliere di Maisons-Alfort invece guarda, lungo i suoi 300° W-NW, a tutti i siti posti fra la città e la sua periferia orientale: Vincennes, la Porte Dorée, la porta Saint Mandé, Montreuil -dove scavalca la grande Armonia di Signac-, il canale dell’Ourcq e si allontana attraverso la Val d’Oise di Gérald de Nerval.

E -ancora oltre- i globi oculari di vetro soffiato del Cavaliere di Fragonard sono per l’eternità puntati verso la città di Calais e i suoi doganieri inospitali, solcano il canale della Manica e, prima di perdersi nelle brume dei mari del Nord, traversano la regione inglese del Norfolk, dove W. G. Sebald insegnò letteratura tedesca per trent’anni.

Dal canto suo Kiki è condannata a fissare per sempre il suo sguardo di ceramica oltre Villejuif e il suo ospedale dalla segnaletica in italiano e in francese, verso l’Essonne e la Borgogna, oltre la Côte d’Or e il Jura, verso la pianura padana e San Benedetto del Tronto, oltre il mar Adriatico e lo stretto di Otranto tomba di centinaia di immigrati clandestini, attraverso l’arcaico Peloponneso e sul filo dell’estremità occidentale dell’isola di Creta, fin sui deserti d’Egitto, dove né Nefertiti né sua figlia Ankhesanpaaton soggiornano più.

Kiki la scimmietta ammaestrata e il Cavaliere dell’Apocalisse non si incontreranno mai o, se mai si incontreranno, ciò accadrà agli Antipodi, in un punto qualsiasi dell’immensa distesa marina fra la Nuova Zelanda e la Tasmania, e io non sarò lì per raccontarlo.

19-21/XI/2002

Nota: aggiungero’ le immagini non appena avro’ tempo (dicembre 2015). Per chi volesse, si trovano nella versione francese del testo: Les errances tressées .

Erranze intrecciate, feuilleton 02 (2002)

Il Museo di sismologia e di magnetismo terrestre è una vera e propria casamatta affondata nel terreno, piantata al centro di aiuole ben rasate e fiancheggiata dagli edifici pesantemente neo-rinascimentali della Kaiser Wilhelm Universität –oggi ribattezzata Università Louis Pasteur. L’ingresso dell’osservatorio sismico, oggi trasformato in museo, fronteggia i cancelli dell’orto botanico e la cupola color antracite dell’osservatorio planetario, fatto edificare, così come l’università guglielmina tutta, dall’imperatore prussiano pochi anni dopo l’annessione dell’Alsazia e della Lorena al secondo Reich.

Erano anni, quelli, in cui la ricerca scientifica, il peso e la misura del mondo, procedeva a uno stesso passo marziale insieme con la sua appropriazione, a differenza dei tempi nostri, che vedono la ragionevolezza la volubilità e l’arte della conversazione dominare lo scacchiere geo-politico mondiale.

Ma allora era la forza che dominava e dettava le regole, e ai soldati vittoriosi seguivano gli alacri muratori, e agli alacri muratori seguivano i sapienti professori, il fior fiore del sangue intellettuale germanico che, fresco ed ambizioso, traversava il nuovo ponte monumentale sul Reno per occupare le solide costruzioni di pietra grigia della nuova università. Era, quello, il tempo dei fondatori.

Lo stesso cammino venne percorso, cinquant’anni dopo, nel senso inverso, quando Strasburgo tornò alla Francia e, a partire dal 1919, la Repubblica vi inviò i migliori fra i suoi giovani ed ambiziosi professori. Fu a quel tempo che il Gran Pendolo venne ad arricchire e coronare la collezione di strumenti dell’osservatorio sismico, e si guadagnò il suo ingombrante posto accanto al Reubert-Ehlert (il progenitore dei sismografi moderni), al Wiechert, al Mainka, al Mintrop, al Galitzin e, per finire, al Vicentini.

Il Grande Pendolo, detto anche affettuosamente “le 19 tonnes”, è un mirabile esempio di collaborazione scientifica involontaria. La sua costruzione fu iniziata dai tedeschi nel 1910 e venne interrotta “in seguito alle vicissitudini della prima guerra mondiale”. Nel dopoguerra i nuovi direttori francesi della stazione decisero di utilizzare gli elementi installati dai loro predecessori per realizzare un apparecchio di “grande massa”, per l’appunto diciannove tonnellate, le quali vennero ottenute recuperando materiale militare quali assi di camion e pezzi di armi dimesse. Questa massa di diciannove tonnellate affondata nei giardini dell’università di Strasburgo, tenuta sospesa da quattro enormi molle e mantenuta sotto il suo centro di gravità da due bracci metallici, ha lo scopo di sostenere e di guidare, grazie a un preciso sistema di pistoni ad aria, il movimento di un semplice, sottilissimo ago il quale registra costantemente, su di un rullo di carta affumicata manualmente, i movimenti della terra sulla quale viviamo. Ed è tale, la precisione di un siffatto strumento, da riportare sul nerofumo lo sforzo nel terreno delle radici dei platani scossi dal vento, sul boulevard de la Victoire, o l’impatto delle onde sulle spiagge del Mare del nord, nei giorni di tempesta, oltre che, naturalmente, un eventuale piccolo terremoto in Grecia o un bombardamento aereo di media intensità in Iraq.

Ed è al cospetto di una tale macchina che ho tirato fuori di tasca la mia bussola di alta precisione ad ago sospeso in bagno d’olio, comprata al bazar pakistano per 1 euro e 52 cent, e ho misurato l’orientamento del rullo tinto di nerofumo, che corrisponde a: 79° E-NE.

Sono tornato, dopo la visita al museo di sismologia, in centro. Ho attraversato l’Ill sul ponte del Corvo, dal quale venivano calate le gabbie contenenti i condannati a morte e, più in particolare, le donne che avevano ucciso i propri figli non voluti, ponte sotto le arcate del quale, si racconta, sbocca una galleria sotterranea collegata direttamente al sottosuolo dell’ospedale medievale, che permetteva di trasportare senza indugio i cadaveri dei condannati dalla gabbia in cui erano stati affogati al tavolo di dissezione dell’anatomista.

Avendo oltrepassato le pont du Corbeau, avendo scantonato nella piazzetta della Grande Boucherie (Gross Metzig), avendo fuggevolmente e per l’ennesima volta ammirato un piccolo affresco da me prediletto, che orna la facciata del ristorante “Zuem Pfifferbriader” e raffigura un giovane pifferaio dal cappello a punta, in vedetta su una roccia sporgente sul flusso continuo di turisti tedeschi giapponesi e italiani che lì intorno vagolano, eccomi mi sono portato, così come faccio ogni volta che torno a Strasburgo, nella cattedrale.

C’è stato un periodo nella mia vita in cui usavo prendere il treno a cuccette Roma-Bruxelles, treno che è stato soppresso, ciò che ora rende necessario -a chi dalla capitale italiana desideri portarsi nel nord-ovest dell’Europa e abbia la sventura di trasportare generi di prima necessità o masserizie quali damigiane d’olio, bottiglioni di vino paesano o, magari, quadri in vetro e ferro- il cambio alla stazione di Milano, una stazione quanto mai fredda e inospite e dall’architettura di un eclettismo fanfarone superato solamente, forse, da quello del Palazzo di Giustizia di Bruxelles.

Il Roma-Bruxelles mi lasciava nel capoluogo alsaziano intorno alle sei e trenta del mattino. Non mancavo mai, allora, nell’attesa di un’ora civile per suonare il campanello degli amici, di entrare nella cattedrale, l’unico luogo aperto a quell’ora e l’unico rifugio dalla bruma umida e penetrante che da novembre a marzo avvolge senza posa l’opulenta città renana.

Non c’è stata una sola volta in cui, trascinando i miei pacchi di vetro e di ferro per le navate oscure e deserte, non vi abbia fatto una qualche scoperta: ora un fregio dai motivi intrecciati, ora una tappezzeria, ora una lampadina solitaria, l’ombra di un cero su una lapide, una statua monca impolverata in una nicchia, un battito inatteso dell’orologio astronomico, seguito da un’oscillazione della falce con cui lo scheletro meccanico segna i quarti d’ora. Anche stavolta, due dicembre 2002, vent’anni dopo la mia prima visita, ho fatto la scoperta di una griglia leggera tesa al disotto della cupola, a protezione dai piccioni che certo hanno trovato il modo di penetrarvi, griglia che diffonde una raggiera di luce velata e impalpabile sul coro e sulla navata centrale, luce che, materializzata in guisa di pulviscolo bianco, invita per una volta il mio intelletto a prendere in considerazione il concetto di sublime.

Sono uscito dalla porta del transetto meridionale, ho esaminato a lungo la figura elegantissima della Sinagoga, la quale è bendata, poiché non è stata in grado di riconoscere e aprire gli occhi alla venuta del Messia. Sull’altro lato del portale, al cui centro troneggia il re Salomone, sta la statua che rappresenta la Chiesa: ella volge verso la rivale sconfitta lo sguardo irato e trionfatore. Ho fatto un paio di foto della Sinagoga. Con la bussola ho calcolato l’orientamento dei suoi occhi celati o, meglio, quello del suo capo reclinato, che guarda a 126° E-SE. Non credo che farò uso di questa misurazione; per ogni evenienza la noto sul taccuino.

Ho attraversato la piazza della cattedrale, riempita da stand di paccottiglia e dallo stomachevole odore del Glühwein, di questa cittadina fiera di essere la “capitale de Noël”, e dove anche gli accattoni si vestono da Babbo Natale, e sono rientrato da Philippe e Sylviane, nella loro casa che odora di parmigiano reggiano e di prosciutto San Daniele, così come quella di Hänsel e Gretel doveva profumare di zucchero filato e pan di spezie ma, per caso, invece che nella casa della strega essi abitano al disopra di Chez Spagna, Comestibles italiens depuis 1957, e va bene così.

Per tutto il pomeriggio Sylviane e Philippe si sono occupati di me, come un vero e proprio Escort Service: quando l’una mi lasciava, l’altro mi riprendeva e cosivvia. Ed è così che l’uno mi ha accompagnato alla libreria antiquaria Gangloff, a rinverdire la mia bio-bibliografia storico-archeologica alsatica, e l’altra mi ha condotto in un quartiere di periferia, dove una giovane donna di nome Jenny ha praticato su di me un corroborante massaggio Shiatzu.

E la sera, mentre, troppo rilassate dal massaggio e dal vino di Borgogna che avevo portato per cena, le palpebre mi si chiudevano davanti a una choucroute all’anatra preparata per l’occasione, Philippe mi ha offerto di venire con me a Berlino, dove avevo appunto annunciato che mi sarei diretto.

La mattina successiva, di buon’ora, montavamo sulla sua Mercedes Benz Break del 1977 color verde oliva, targa 9620YY67, e penetravamo come coltelli nella foschia delle autostrade baden-wurtemberghesi, verso il profondo oriente d’Europa.

L’Isola dei Pavoni si trova all’altro capo di uno stretto braccio d’acqua, è già inverno ma l’Havel non è ancora ghiacciato, non si può traversare a piedi e non se ne parla di andarci a nuoto. C’è un traghetto a motore che fa servizio fino all’ora del tramonto e che, di questa stagione, trasporta solamente la vettura gialla del postino e i furgoncini dei giardinieri. Quando vi vede in attesa sul molo di terraferma il traghettatore viene immancabilmente a prelevarvi e vi sbarca sull’isola, previo pagamento di una semplice moneta che i vostri cari avranno avuto cura di scivolarvi sotto la lingua, al momento di interrarvi.

La Pfaueninsel fu acquisita da Federico Guglielmo II° di Prussia nel 1783 e venne usata inizialmente come riserva di caccia. Prima della fine del XVIII° secolo Brendel, il carpentiere di corte, vi aveva già costruito due edifici in forma di rovine: il castello, la cui facciata rivolta a meridione accoglieva i villeggianti in provenienza da Potsdam e dalla residenza di Sanssouci; e una fattoria dalla sembianza di chiesa gotica, all’altro capo dell’isola. Ho registrato l’orientamento della facciata del castello: 235° W-SW.

Intorno al 1800 vennero introdotte nell’isola diverse specie di animali domestici, allo scopo di fornire al visitatore una gradevole impressione di ambiente pastorale. Nuovi edifici vennero innalzati e radure vennero aperte fra un edificio e l’altro, dimodoché la vista potesse sempre ancorarsi a un grazioso manufatto. La popolazione animale crebbe fino a emulare quella di uno zoo: nuove gabbie si resero necessarie per contenervi le scimmie, i canguri, gli uccelli acquatici e le aquile, le capre selvagge, i lupi, le volpi, i lama e, infine, l’orso che arrivò nel 1826.

In questa specie di Kunstkammer all’aperto neanche gli esseri umani vennero trascurati. Sorgeva a quel tempo un certo interesse per l’antropologia, ciò che dette adito all’introduzione nell’isola di Heinrich Wilhelm Maitey, nato in Oahou nelle isole Sandwich nel 1807 e residente alla Pfaueninsel a partire dal 1830, e dell’africano Karl Ferdinand Theobald Itissa. Un gigante, Karl Friedrich Licht, e due nani, Christian Friedrich e Maria Dorothea Strackon vissero in compagnia del nero e del polinesiano. Mi domando se mai ebbero ad imbattersi nel fantasma di un altro tipo balzano in quei luoghi vissuto, il celebre alchimista Johannes Kunckel, detentore del segreto per la fabbricazione del vetro rubino, per il quale venne costruito un laboratorio all’estremità settentrionale dell’isola, laboratorio che bruciò fino alle fondamenta nel 1689, quattro anni dopo la sua costruzione, e le cui fornaci mai nessun vetro di rubino sfornarono, con somma disgrazia del buon Kunckel presso il Grande Elettore e sua conseguente cacciata.

Tagliamo corto ai prolegomeni e passeggiamo piuttosto per i ben rastrellati viottoli, senza fumare né calpestare l’erba dei prati, Wir bitten Sie, auf den Wegen zu bleiben und das Rauchverbot zu beachten, ammiriamo piuttosto la geometrica rispondenza dei fabbricati seminascosti dalle fronde e velati in lontananza dalle brume, ma pur sempre l’un dall’altro visibili: il tempietto dorico la rovina alessandrina il castello scozzese il Kavalierhaus di Schinkel, la cui torre medievale è un montaggio dei resti di una casa gotica di Danzica.

Usciamo, sì, dal nostro tempo, entriamo nel tempo delle favole e nel regno delle rovine fatte apposta, nel mondo dei castelli di gesso e di legno dipinto, nell’epoca in cui i potenti si dilettavano di giardinaggio e di decorazione d’interni e schizzavano i tempietti e le follie che i loro architetti avrebbero poi disegnato perbenino e come si deve.

Immaginiamo di essere ancora nel tempo, mi dico, di questa Prussia dalle “sconfinate possibilità”, in cui l’affettazione Biedermeier non aveva ancora ceduto il passo al Tempo dei Fondatori. Era allora ancora concepibile l’edificare rovine, mi dico, quando non era ancora rovina tutto ciò che ci circonda, e ci si poteva ancora dilettare con l’idea di uscire dalla storia, in una sorta di extraterritorialità temporale protetta dal servizio diurno del traghetto che unisce il Nikolskoer Weg, a pochi chilometri dal centro di Berlino, al molo dell’Isola dei Pavoni. Il gusto kitsch delle rovine artificiali -ne concludo- è semplicemente una forma di a-storicità, ma non è anodino incontrarlo qui, in questa città. Mi piacerebbe conoscere l’alchimia che ha trasformato questo paesaggio da operetta nell’incubo del ventesimo secolo: non è sulle sponde di queste stesse acque che è stata pianificata la Soluzione Finale?

Accade che ancora ci si accanisca a fabbricare rovine. Quello stesso giorno, dopo la visita all’isola e dopo quella alla casa della Conferenza di Wannsee, ci si è trovati, insieme con Philippe, al centro di Berlino, sulla Schlossplatz, ed ecco ci si è trovati di fronte a un’altra Künstliche Ruine: è un angolo di palazzo in mattoncini rossi. Risulta essere il facsimile di uno degli angoli della Bauakademie di Karl Friedrich Schinkel, edificata fra il 1832 e il 1836, demolita nel 1962, e di cui si richiede la ricostruzione “à l’identique”. Per suffragare tale progetto si è innalzato un siffatto specimen, a testimonio augurale di ciò che potrebbe essere l’intero edificio, una volta ricostruito. La marcia indietro nel tempo sembra essere un’altra diffusa passione odierna, insieme con quella di non voler vedere il tempo passato. Rimodellare la storia come se non si trattasse di una materia compiuta e irrimediabile e propria a se stessa, pensare che qualche centinaio di mattoni disposti a fare un angolo possano dare il vetro rubino della redenzione. Non sai se ridere o piangere.

Del resto, la prima volta in cui venni in questa città, mi imbattei in centinaia di persone intente a fabbricare rovine, ma in un altro spirito ancora. Appena lasciata la Bahnhof Zoo, ove ero arrivato di primo mattino, mi ero perso per i boschetti e i laghetti del Tiergarten quando un impressionante ticchettio metallico mi guidò verso la Potsdamer Platz. Centinaia di persone stavano allineate contro una lunga parete, e avvicinandomi vidi che non erano lavoratori forzati ma che picchettavano tutti spontaneamente, con martelli, cacciaviti, scalpelli e coltellini a serramanico il muro che un mese prima divideva ancora la parte orientale dalla parte occidentale della città. Da questa scalmanata attività ricavavano infinitesimali pezzetti di cemento e di ghiaia, che avrebbero poi spedito a casa o conservato per ricordo. Quello che rimaneva di quel muro smangiato venne poi sollecitamente rimosso, sicché tre mesi dopo non c’era più traccia dell’antica separazione ma invece, lì dove c’erano stati i camminamenti delle ronde, le garitte delle sentinelle e i doppi e triplici filari di filo spinato, erano apparsi giardinetti pubblici, prati, alberelli piantati di fresco e, perché no, i cantieri di nuovi palazzi d’uffici. Oggi infine non rimane che un breve tratto dell’antico muro, lungo forse una cinquantina di metri, sulla Bernauerstrasse. E’ stato isolato in una spianata e circondato da una palizzata e viene regolarmente ridipinto e restaurato, perché questo monumento al negativo non venga più aggredito dai tardivi cacciatori di souvenir, ma rimanga invece ad ammonitrice testimonianza di un passato le cui tracce ci si è indaffarati a cancellare.

In quei giorni invernali del 1990 usavo vagare dal mattino al tramonto per la città sconfinata, trascinando i piedi nei mucchi di foglie secche, gli occhi che scorrevano sulle facciate crivellate e slabbrate dei palazzi d’anteguerra, la mente tenuta all’erta dall’aria fredda e dalla fatica sicché, se mai mi sedevo in un caffè tranquillo e ben riscaldato, come il Cinema café –che tuttora affeziono, nell’Häckerscherplatz, ex Marx-Engelsplatz-, la testa mi ciondolava e mi appisolavo istantaneamente sulla tazza di caffelatte che mi avevano appena servito.

Raccoglievo a quel tempo piccoli oggetti perduti sui marciapiedi e sulle carreggiate: rondelle, guarnizioni, viti arrugginite, biglietti di tram, ramoscelli. Alcuni li incartavo e ne facevo regalo a Christine, quando rientravo la sera. Altri li disponevo su tavole di truciolato e li prendevo in fotografia. Mi piaceva, in tal modo, classificare l’inclassificabile, tanto che classificavo anche me stesso: ero certo l’unico cliente di una vecchia cabina automatica, poggiata e dimenticata in un sottopassaggio pisciazzato di Neukölln; forniva certi foto-ritratti neri d’inchiostro al punto da rendervi irriconoscibile, ciò che in linea di principio non è la funzione precipua di una fotografia d’identità.

Non sono mai riuscito a convincere nessuno dei miei amici berlinesi a farsi fotografare, per puri scopi artistici, da quella macchina. Accettavano solo di darmi le loro vecchie foto da passaporto per la mia collezione di memorabilia. Le foglie morte le mettevo nei naturalia, i bulloni spaccati negli artificialia, i pezzi del muro nei mirabilia. In tutto e per tutto la mia collezione portatile mi riempiva le due tasche superiori del cappotto.

Avevo immaginato, a un certo punto, di scavare una buca circolare nei terreni ancora abbandonati fra le due parti della città. Vi avrei gettato, in forma rituale, così come Romolo, secondo il racconto di Plutarco, aveva fatto alla fondazione di Roma, gli oggetti da me raccolti. “Il mondo è aperto!” avrei gridato ai venti sordi del Meclemburgo e della Pomerania.

Ma sarebbe stata la mia una pigra parodia. Romolo aveva fatto venire d’Etruria i sacerdoti specializzati, “i quali gli nominavano e insegnavano punto per punto tutto il cerimoniale che occorreva osservare secondo le norme divine e i libri sacri, come fosse un mistero o un sacrificio. Fecero dunque, innanzitutto, una fossa rotonda nel luogo che oggi è chiamato Comitium, nella quale misero le primizie di tutte le cose di cui gli uomini usano secondo le norme come buone, e secondo natura come necessarie; poi vi gettarono anche una manciata della terra da cui ciascuno di loro era venuto [i reprobi e i fuggitivi accolti da Romolo nell’Asylum] e mescolarono tutto insieme (chiamano questa fossa, nelle loro cerimonie, il Mundus, che è il nome con il quale i Latini designano l’universo), e intorno a questa fossa tracciarono il contorno della città che intendevano fondare, né più né meno come chi tracciasse un cerchio intorno a un centro”. Ed è una volta che la fossa è ricolma di terra e richiusa che Romolo si esclama: “Mundus patet!” il mondo è aperto!

I dotti ci insegnano come queste fossero pratiche rituali di controllo dell’universo, in cui il calcolo dell’asse sul quale la conca celeste incontrava quella terrena e questa quella ultraterrena eccetera aveva fini propiziatori, scaramantici e propedeutici: “La giustapposizione della “conca terrestre” e di quella “celeste” che la sovrasta, riproduce un cerchio e con questo il simbolo dell’Universo nel suo insieme. La correlazione tra il cerchio geometrico e quello idealmente descritto dal Mundus e dalla volta celeste va letta a due livelli: a) a livello orizzontale, sul piano ove si erge Roma, l’Umbeliculus corrisponde al centro della circonferenza, e colloca per ciò stesso la città eterna al centro del Mondo; b) in sezione verticale le due conche, idealmente unite da un asse (espresso da un punto in sezione orizzontale) – l’asse del mondo – definiscono rispettivamente le realtà celestiali e infernali; il piano di intersezione tra le due semicirconferenze è quello terrestre al cui livello, e al cui centro, viene nuovamente a essere collocata Roma che a buon diritto per questo motivo, può fregiarsi del titolo di Caput Mundi.”

Ma la vera Caput Mundi e il vero centro della terra, posso qui rivelare, non è né il Comitium della Roma antica, né la fossa della “19 tonnes” di Strasburgo, né il terreno ingombro di detriti fra la Stralauerplatz e l’Ostbahnhof. Il centro del mondo è Vaduz, perché tutto intorno a Vaduz ci sono i Tagicchi e gli Usbechi, e tutto intorno tutto intorno gli Afgani e i Nuristani i Punjabi e i Sinti, tutto intorno a Vaduz ci sono i Kazachi e i Manciù, i Masai e i Bakumba, gli Appalacchiani e i Martinichesi, i Canadesi-Francesi e gli Eschimesi polari, tutto intorno tutto intorno a Vaduz.

Nella primavera del 1974 era stato chiesto a Bernard Heidsieck di comporre un poema sonoro per l’inaugurazione di un centro d’arte a Vaduz, capitale del Lichtenstein. Ma che fare su Vaduz? Che poesia si può tirar fuori da Vaduz, capitale del Lichtenstein, si chiese per mesi Heidsieg. Girò in tondo, Bernard Heidsieck, per mesi e settimane, “autour de ce nom de ‘Vaduz’, en quête d’une motivation vraie, justifiant l’entreprise et ce travail. Que faire, sinon tourner à la recherche d’un axe de correspondance. Le justifiant. Rigueur oblige! […] Après avoir décidé de faire de Vaduz, ce maxi-village, Capitale de ce mini-territoire situé au centre de l’Europe, de notre sublime Europe, le Lichtenstein, l’un, sans doute, des plus petits pays au monde, le centre même de notre Globe, de notre fichu Globe terrestre!, il s’est agi alors, de tracer sur une carte du Monde, à partir de Vaduz, des cercles d’égale largeur, s’éloignant en parallèles successives jusqu’à en boucler la surface totale.’’

Su questi cerchi concentrici il poeta trascrisse i nomi delle etnie (“non delle nazioni”) che vi abitano, a partire dalle più prossime al centro e fino alle più estreme. Tale attività egli svolse per tutto il secondo semestre del 1974, nel tempo lasciatogli libero dal suo impiego di vice direttore della Banque française du commerce extérieure.

Ed è così che questo poema, che non venne scritto a tempo dovuto e non è mai stato letto a Vaduz, gira per il mondo insieme con il suo autore, sotto forma di un manoscritto lungo diversi metri, che viene spiegato mano a mano che la lettura procede, e che una banda sonora accompagna e amplifica, fino a crescere in un boato di folla che copre le ultime parole: des Déplacés des Paumés des Laissés pour compte des Emigrés des Fuyards des Désintégrés et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres…

21 dicembre. Sono venuti a svegliarmi nel fondo della notte, urlando il mio nome dal corridoio. Non era il sogno. Quando uno dei miei compagni di cuccetta è riuscito a sbloccare il catenaccio dello scompartimento e il finanziere è entrato accendendo il neon del soffitto, gli ho chiesto: “come mai?”. “Scandaglio”, mi ha risposto, facendo il segno di chi pesca a caso. “Tuttavia”, ho replicato in una lingua che dalle nebbie primordiali del sonno emergeva in forma di patois gallo-romanesco, “ciò mi accade sì di frequente, di essere controllato su questi treni notturni che traversano l’Europa cosiddetta di Schengen e della libera circolazione dei suoi cittadini, che mi domando cosa porti voi benemeriti finanzieri servitori dello Stato a scandagliare sempre proprio me, sarà l’immagine barbuta e torva della mia foto d’identità Made in Neukölln, sarà la menzione ‘artista’ che figura in calce alla dicitura ‘professione’, ma cosa sarà?

Il militare mi ha risposto tacendo e continuando a frugare con dita abili nel mio sacco, tirandone, fuori le mie pillole che assaggiava con la punta della lingua, i miei fogli di carta che esaminava in controluce, il mio tabacco Gauloises extra-légères che annusava come un vero segugio. Poi ha estratto un oggetto metallico: “questa è una bussola, vero?”, e senza neanche aprirla, e come se tale scoperta avesse dato il segnale della mia innocenza, se ne è andato via, lasciandomi a rimettere a posto il mio bagaglio scompaginato.

Ed è così che, dopo una delle notti più interminabili che sia, sono sbarcato intorno all’alba alla stazione di Verona Porta Nuova, ho tranciato grumi di studenti che sul piazzale attendevano il loro autobus accendendosi la prima sigaretta della giornata, e mi sono incamminato verso il centro della città, servendomi del libro di W. G: Sebald, Schwindel, Gefühle, come di una guida.

Una guida in verità davvero poco utile quella di Sebald: Il San Giorgio e la principessa del Pisanello non si trova difatti sul lato sinistro della basilica di Santa Anastasia, al di là di “un tavolato pittato di marrone e ritagliato da una porta, dietro la quale si trova oggi la stanza da soggiorno, se non l’alloggio intero della sagrestana”, e sorvegliato dalla perpetua sospettosa che l’autore descrive. L’affresco si trova oggi al proprio posto, sull’arcone della cappella dei Pellegrini e, datasi l’altezza della sua collocazione e la scarsa illuminazione del transetto di destra, una bella presentazione video dello stesso vi è proposta ad libitum, se solo abbiate cura di applicare il ditino sullo schermo di un maxi-computer piazzato davanti alla cappella (dimenticavo: l’accesso alla chiesa è a pagamento).

Gli è vero che il testo di Sebald descrive un’esperienza del 1980, epoca alla quale il termine “post-moderno” diventava appena di moda e i new media interattivi erano lungi dal venire. Ed è forse per sperimentare, per una volta, una condizione sospesa nel tempo, che mi sono portato, sulle tracce di “All’estero”, che costituisce la parte centrale di Schwindel, Gefühle ma non ne è il suo più bel testo, malgrado contenga mirabolanti pezzi, quali una fantasmagorica descrizione del servizio mattutino al buffet della stazione di Venezia Santa Lucia, che mi sono recato oltre l’Adige e oltre il Ponte Nuovo, al Giardino Giusti.

Ho passato circa un’ora per i sentieri e nei labirinti di bosso sempervirens dei giardini, disinteressandomi del famoso cipresso di Goethe ma battendo la statua sonora della Prosperità con il martello di legno, montando fin sopra il mascherone di marmo che in occasione delle feste barocche vomitava fuoco e fiamme, figurandomi su quale panca W. G. Sebald avesse potuto stendersi, ascoltando “il raschiare tenue del rastrello del giardiniere sui viali di ghiaia”. Da tempo non m’ero sentito così bene, scrive Sebald. Speravo di ritrovare qualcosa del genere nell’atmosfera sospesa dei giardini Giusti. C’era invece silenzio assoluto nei viali deserti e una nebbiolina umida non dissimile da quella che un paio di settimane prima avvolgeva l’Isola dei Pavoni.

Mi sono appoggiato alla balaustra sovrastante il mascherone, ho aperto il taccuino e ho scritto: “Negli ultimi mesi il corpo di mia madre si era enfiato fino a che il suo volume non le rese impossibile l’alzarsi, il sedersi o il camminare da sola. Perché potesse andare in bagno e avervi una qualche privatezza smontammo la porta del bagnetto di servizio, in modo che i suoi fianchi, debordanti dalla sedia a rotelle, potessero passarvi. Ma ragione di grande umiliazione era, per lei che sempre era stata di una pulizia da micio, il non poter più raggiungere con le mani le sue parti intime. Fu d’uopo che mio padre se ne occupasse, e sono sicuro che mai fra loro sia stata una tale prossimità, venata dall’irascibilità vergognosa di mia madre e dalla pazienza ovina di mio padre.

Fu infine giocoforza portare Pierina all’ospedale. Si coprì il viso con uno scialle, perché non voleva incontrare la compassione delle vicine al vederla in quello stato, e la portammo di peso giù per le scale, fino all’auto parcheggiata nel garage. Di fronte al pronto soccorso, mentre mio padre correva a prendere una lettiga e io la estraevo piano piano e pezzo a pezzo dalla portiera della macchina, si lasciò scappare: ‘c’ho paura’. ‘E’ normale’, le risposi, non sapendo cos’altro dire.”

 09-23/XII/2002

 Nota: aggiungerò note e immagini non appena avrò tempo.

Erranze intrecciate, feuilleton 03 (2003)

12 dicembre 2002. Sì, è stata una giornata fin troppo adatta a un pellegrinaggio sebaldiano.

Lasciato il sacco al deposito bagagli di Liège-Guillemins, ho atteso un treno locale per Flémalle-Haute. Già sulla pensilina di Liegi scendeva il nevischio. All’uscita della stazione di Flémalle era diventato una pioggia gelida e battente. Ma la mia ricerca, anche se vana (“di Café des Espérances ce ne sono a migliaia in Belgio”, mi avevano detto), andava compiuta e andava compiuta a piedi.

“Già pochi giorni dopo esserci conosciuti nella Salle des pas perdus alla stazione centrale, mi imbattei in lui per la seconda volta in un quartiere operaio alla periferia sud-ovest di Liegi che avevo raggiunto verso sera arrivando a piedi da Saint-Georges-sur Meuse e Flémalle. Il sole squarciò ancora una volta la cortina di nubi blu inchiostro di un imminente temporale, mentre i capannoni e i cortili delle fabbriche, le lunghe file di case operaie, i muri di mattoni nudi, i tetti di ardesia e i vetri delle finestre luccicavano come se un fuoco vi ardesse dentro. Quando per le strade la pioggia incominciò a scrosciare, mi rifugiai in una minuscola taverna che si chiamava, credo, Café des Espérances e dove, con non poca sorpresa da parte mia, trovai Austerlitz curvo sui suoi appunti a un tavolino di laminato plastico. Come sempre da allora, anche in occasione di questo primo nuovo incontro riprendemmo la conversazione senza spendere una sola parola per commentare la stranezza del nostro ritrovarci in un luogo come quello, che nessuna persona ragionevole avrebbe mai frequentato.”

Questo era il passaggio che aveva motivato la mia gita invernale.

La mia intenzione era di scendere alla stazione di Flémalle e di lì rendermi a piedi a Liegi per i circa dieci chilometri della Nazionale 617, percorrendo i quartieri operai ove doveva trovarsi il Café des Espérances e ove Sebald aveva collocato la scena di uno dei suoi incontri casuali con Jaques Austerlitz. Quello era il mio programma, andava quindi seguito. Mi sono calato sulle orecchie il passamontagna, mi sono incamminato lungo la fila di case di mattoni e per i marciapiedi sconnessi che fiancheggiano la Nazionale 617.

Flémalle: fabbriche dimesse, cokerie in corso di demolizione e in attività, memoriale 1946-1996 ai minatori italiani, deposito di autobus, castello con lapide al sindaco resistente e vittima dei nazisti, chiesa gotica in pietra grigia, videoshop, negozio di ferramenta in liquidazione.

Jemappes: Zeeman Textiels Super, Café Le Normand, Superplus Sport, maison à vendre Te Koop, le grand Canyon, Super Partner Plus.

Seraing: Eurorent, cavalcavia dell’autostrada E 25, I.P.E.S.S, deposito di pneumatici, studio à louer 049/467069, Selectcolor peintures émaux vernis, Isotort Isoplast, Aretino spécialités italiennes, Cockerill Sambre.

Tilleul: Le capital tue! Mort au capital! Marichal Ketin, Jupiler Le Corner, Jupiler The Cup, Taverne le Rouge et le Blanc, stadio dello Standard, Marmaris friterie pitas snack sandwich, vêtements de travail et de loisir, ateliers de la Meuse.

E’ il tardo pomeriggio quando mi trovo nella piazza del Generale Leman, alla periferia meridionale di Liegi, sono zuppo di pioggia fino al fondoschiena, dalle scarpe mi sale un vapore purulento, le articolazioni delle ginocchia mi fanno gnecche-gnecche e so già che stasera dovrò munirmi di aghi roventi per bucarmi le bolle, ma un Café des Espérances per la mia via non l’ho incontrato. Ah, la licenza letteraria sebaldiana!

Cerco un luogo ove sedermi, liberarmi del pastrano, andare alle toilette per asciugarmi sommariamente. Ma non c’è un bar ove non mi sentirei notato e scrutato, si vede che questi sono tutti posti da habitué. Cammino ancora. Mi trovo, non lontano dalla riva della Mosa, in un parco pubblico. A lato di un vialetto fangoso e di fronte a un laghetto mezzo asciutto si erge come un monumento mussoliniano, “nella sua necessaria solitudine”, un vespasiano dipinto di blu. C’è un curioso edificio lì davanti, un gazebo dalle dimensioni sproporzionate e, proprio difronte, un padiglione modernista dalle forme curvilinee e puntute. C’è una porta vetrata e, al di sopra della porta, una pubblicità di birra. Si tratta, vedo, di un museo e della sua caffetteria.

Ecco dove troverò riposo e ristoro. Vado al bagno e faccio ciò che avevo previsto di fare, in più ordino alla barista un bel tè. Vedo che ci sono quadri dipinti tutt’intorno alla sala, e anche in un’altra saletta, e vedo che il sottosuolo del locale ospita un Musée de l’Art différencié.

Questa arte differenziata, che si distingue dall’art brut di Jean Dubuffet, è arte prodotta da handicappati mentali, come spiegano i vari opuscoli posti alla disposizione del pubblico. Mi pare di aver capito che la differenza fra questi creatori e quelli raccolti sotto la definizione di “brut” è che questi ultimi sono “personnes obscures, étrangères aux milieux artistiques professionnels” (Dubuffet 1963), mentre per i primi viene rivendicato uno statuto di artista a pieno titolo. Io non trovo quelli meno potenti di questi, ma è certo che ci sono qui belle personalità, come Salvatore Difranco, autore di sensibili opere d’après Modigliani e Magritte, o Luc Wos, che dipinge labirintiche piante di città che nulla hanno da invidiare a un Klee dell’età di mezzo.

Mi sono riscaldato, parzialmente asciugato, ristorato nel fisico e financo nell’intelletto. Sono stato infine capace di protrudere sguardi lunghi e nostalgici verso la vivace barista dai capelli corvini intrecciati alla Rasta, ma non c’è stata reazione no, me ne sono uscito nella desolazione fredda oscura del parco d’Avray, che ho traversato in direzione della stazione ferroviaria, che ho raggiunto in pochi minuti, dove ho atteso il treno che veniva da Colonia e mi riportava al mio studium e alla mia città putativa.

Questo spostamento geografico, questa escursione culturale, fu dunque un buco nell’acqua. Passeranno tre mesi prima che io sia di nuovo capace di mettermi in cammino e di mettermi sulla strada. Nel frattempo c’è stato il devastante incontro con Madeleine.

14 dicembre 2002. A Parigi nessuno mi invita mai a una serata e, se mai qualcuno mi invita, sarà, nella maggior parte dei casi, una serata compassata e costipata, fissata con sei settimane di anticipo, e ove nessuno si prende la briga di presentare i nuovi venuti agli invitati abituali ed è così che, generalmente, finisco per prendere una postura torva di statua del Commendatore, mi acquatto nel primo sgabuzzino che trovo, di lì non mi muovo, nessuno mi accosta e perciò, penso, più nessuno s’azzarda ad invitarmi a una serata parigina.

Invece, mi ricordo, cosa era andare a una serata moscovita. Ci andavo con persone per le quali pareva che tutto, il proprio destino personale e le sorti del mondo, dipendesse da quello che si sarebbe incontrato in cima alle scale buie da cui erano state asportate tutte le lampadine, dietro la porta immensa il cui campanello si trovava a tentoni. Ci si fermava a un chiosco per comprare una bottiglia di vodka o di spumante moldavo e via, ci si avventurava rumorosamente dentro gli ascensori cigolanti e puzzolenti di urina, portando già l’allegria con noi.

Non mi aspettavo dunque una cosa del genere quando, nel tardo pomeriggio del 14 dicembre 2002, mi presentavo, al numero 7 del boulevard Saint Michel, all’appartamento di certe persone che conoscevo appena. Mi dicevo che avevano invitato me non tanto per simpatia ma perché un artista barbuto in un bel party dà sempre un tocco decorativo. Ma i miei ospiti, i signori Broher, erano non solo polacchi ma erano tutto tranne che parigini, e non avevo ancora toccato il campanello che già ero stato adottato, preso in braccio, trasportato da un angolo all’altro del salone, presentato a tutti i presenti senza eccezione, dissetato, nutrito, intrattenuto. Una calma sovrana mi ha pervaso, è crollata la crosta di gesso del Commendatore, ero lì al cento per cento, pronto a tutto accogliere, pronto financo ad andare incontro a qualcheduno. Lì è apparsa Madeleine che mi ha ipnotizzato con la sua voce di contralto e che, quando ha visto che il mio bicchiere era vuoto, si è allontanata da me ed è andata a prepararmi una vodka con spremuta di arancio di cui non avevo alcun desiderio e, non so perché, ho trovato tale gesto così incredibile che già avrei voluto accendere un cero in quel punto esatto del parquet in cui il suo polpaccio aveva compiuto una torsione di 68° e il profilo della sua anca aveva indicato la direzione Est-Nord Est, prima di scomparire oltre la porta della cucina. L’attesa sospesa che ha seguito quel movimento mi fu deliziosa. Quando lei è tornata e mi ha teso il bicchiere con la bevanda, l’ho bevuta in ottemperanza della mia condanna definitiva. L’ammirazione è sempre la prima tappa della caduta.

Mi rimarrà, dei successivi incontri tanto brevi da parere videoclip oppure apologhi neo-testamentari, una serie di immagini frammentarie e di impressioni aptiche registrate quando la sensibilità si affievoliva e potevo ricordarmi di ricordare, sapendo che a quelle immagini e a quelle impressioni rimemorate sarei ricorso nelle notti solitarie che senza dubbio sarebbero rivenute. Così è stato.

22 gennaio 2003. E’ stato certo il giorno più bello della mia vita. Non è accaduto niente, quel giorno. Come al solito l’ho trascorso fra lo studio e le vie del quartiere. Ma il colore del mio ozio operoso è stato fondamentalmente diverso da quello che ho conosciuto per il novantanove per cento dei miei giorni, negli ultimi quindici anni. Il 22 gennaio 2003 il mio ozio e la mia operosità sono stati sovrani e ne avevo coscienza, mentre infine abbandonavo il trascorrimento nello spazio e mi spostavo dentro il tempo. A sera sarebbe venuta Maddalena.

4 aprile 2003. Ho ripreso la mia vita di artista a quattro ruote. A Vietri sul Mare ho ritirato dagli Scotto le due cassette di maioliche che avevo dipinto in gennaio (cosa fare di quella su cui ho scritto “celle-ci est pour Maddalena?”), trascrivendo col blu di Delft la sesta pagina di La philosophie dans le boudoir. Si aggiungevano, quelle venticinque piastrelle 20×20, ai tre metri quadri di Sade che avevo già trascritto e che formeranno il pavimento leggibile di un vero e proprio boudoir ricostruito che somiglierà in verità piuttosto a una cella di clausura e che sarà visitabile presso lo spazio 3A, in vicolo Sforza Cesarini 3a a Roma, dal sabato 12 alla domenica 13 aprile 2003. 4

Caricato il cofano dell’auto con il metro quadro di Sade (questa è l’ultima volta, giuro, che lavoro con la ceramica; pesa troppo, è troppo fragile e non vedo proprio quale collezionista possa anelare al possesso di una siffatta stanza da bagno) ho tempo da perdere e da far passare ma anche lavoro da fare. Dovrò ben mostrare qualcosa, al 3A, oltre al pavimento sadiano, dovrò! Riprenderò le anatomie dipinte e le dissezioni disegnate che feci cucire a mia madre col filo rosso sulle tele di garza alte tre metri, bei sudari barocchi trasparenti che spaccio per opera mia quando mi sono invece limitato a fornire il tracciato a mia madre e farla lavorare di fretta e di notte, perché dovevo tornarmene a Parigi per farle vedere a una esposizione. Allo stesso modo ora ho fretta, e la mia crisi creativa assortita di leggera depressione che dura ormai da qualche anno (un effetto post-thòrunniano, più in là mi spiegherò) va combattuta in stato d’emergenza e sotto mostra, con una trovatina come questa: attingere al proprio repertorio e prodursi in una variazione sul tema, allungandosi nella direzione di una radicalità che, se non potrà essere estetica, sarà almeno tematica.

Queste dissezioni verranno quindi riprodotte al tratto, con pittura trasparente color rosso sangue, dipinte su due vetri sovrapposti, uno dei quali rivoltato, in modo da avere un disegno sdoppiato e una doppia ombra, pure rossa, al muro.

Metto in moto e guido verso Raito, che sovrasta Vietri Cerco un posto dove parcheggiare, un bel posto panoramico. Lo trovo sotto Villa Guariglia, che è il museo della ceramica. Parcheggio fra due pulman da cui sono scese le scolaresche in gita, ma mi sento osservato dagli autisti che si fumano le sigarette, riavvio l’automobile e la porto su di un piazzaletto sterrato, fermo le ruote proprio sul bordo del dirupo, davanti a me c’è tutto il golfo di Salerno. Armeggio nel cofano, tiro fuori le lastre comprate alla Vetreria S. Ciro di Vico Equense, i colori, i pennelli. Trovo una bottiglietta vuota di Coca Cola, ne ritaglio il fondo col coltello a seghetto che tengo sempre in macchina e che uso in genere per fare la cicoria durante le mie soste presso le aiuole delle autostrade, in tal modo mi faccio una ciotolina che riempio di acqua Ferrarelle e che userò per pulire i pennelli. Mi seggo al posto accanto a quello di guida, pulisco i vetri con lo sputo e un fazzolettino di carta. Il fazzolettino di carta lo butto fuori del finestrino, ce ne sono già tanti a terra, questo deve essere un luogo di appuntamenti notturni e furtivi, io non ho appuntamento con nessuno ma vedi, i miei fazzolettini li ho anch’io e li getto fuori dal finestrino così sporchi di rosso come sono, in mezzo a tutti gli altri.

Chino come sto su qualcosa affaccendato, chiuso dentro l’auto, gli autisti dei pulman scolastici che – vedo nello specchietto retrovisore – mi guardano di lontano, penseranno certo che mi sto facendo le pere. Lavoro di tratteggio con la pittura purpurea per un paio d’ore; mano a mano poggio le lastre ad asciugare sui sedili e poi sul ripiano del finestrino posteriore. Lavoro senza voglia ma con stolida diligenza; stavolta sono io quello che dà l’ordine ma anche colui che esegue. Ho riempito tutto lo spazio disponibile nell’automobile, mi rimetto al posto di guida, esco in retromarcia dalla piazzola, mi immetto nella S. S. 163 della Costiera Amalfitana, ridiscendo a Vietri, traverso la piazza, esco dal paese, imbocco l’autostrada A3 in direzione nord.

6 aprile 2003. Il Museo campano di Capua è uno di quei tesori poco noti o noti solo a qualche fanatico storico dell’arte tedesco od inglese, che esistono solo in Italia meridionale. Ma forse sono ingiusto, non so, forse schiere di e stuoli di semplici cittadini si pressano alle porte del palazzo principesco dei San Cipriano per avere visione dei bassorilievi e delle steli raccolte da Theodor Mommsen nel lapidario o, nella pinacoteca, della Deposizione di Bartolomeo Vivarini, oppure delle teste colossali salvate dalla demolizione della porta federiciana, oppure della raccolta di antichità italiote, romane, greche, fra cui alcuni vasi a figure rosse poggiati su mensole come voi poggereste una tour Eiffel di latta dorata, ma questo pubblico colto e civile io il 6 aprile nel polveroso museo campano di Capua non l’ho visto, c’erano, è vero, alcuni studiosi occhialuti nelle sale della biblioteca annessa al museo, che è ricca di 50.000 fra pergamene carte geografiche e volumi vari, in-folio, in-ottavo, in-quarto e financo in-sedicesimo, ma quel pubblico che il museo di Capua meriterebbe doveva trovarsi in visita a una qualche pappa fatta tipo “Tutti i Caravaggi sintetici” o “I ninnoli di Picasso dalla collezione East-Southampton di Levallois-Perret”.

Nel 1845 il signor Patturelli, proprietario di un terreno in località Petraia, presso la via Appia, aveva ordinato di sterrarlo per edificarvi un muro di cinta. Vennero fuori dalla terra fregi e sculture antiche. Immediatamente il Patturelli fece ricoprire i reperti, per evitare noie e perché non gli venisse bloccata la costruzione del muro. In questa circostanza vari pezzi vennero danneggiati o asportati per essere rivenduti, e la voce della scoperta iniziò a circolare. E’ quindi probabilmente alle enclosure borghesi dell’Ottocento che dobbiamo le Matres.

Nel 1873 iniziarono degli scavi un po’ disordinati, regolarizzati solo qualche anno più tardi. Rividero la luce più di centosessanta statue lavorate nella pietra locale, il tufo. Rappresentano tutte donne sedute con in braccio uno o più neonati in fasce (fino a ventisei, ma in media ce ne sono sette o otto) e sono state eseguite nell’arco di forse mille anni, dal neolitico fino all’epoca imperiale, e traversano tutti gli stili e le tecniche plastiche dell’antichità; vi si intrecciano le influenze osche, etrusche, greche, latine ed ellenistiche. Si tratta delle Matres Matutae, monumentali offerte votive per ringraziamento di un parto riuscito o per propiziazione della fertilità familiare e insieme mostra della ricchezza acquisita. Per mille anni tutta una città si è avvicendata sul luogo di culto della Mater italica, depositando doni e lasciando la più meravigliosa collezione di variazioni sul tema della fecondità, dalle appena sbozzate forme geometrizzanti alle opime figure “tozze e mostruose sì che sembrano rospi” (Mancini, cit.) ai morbidi panneggi e ai volti ovali dell’ultimo secolo prima di Cristo.

Scelgo proprio la più antica madre, quella che il guardiano chiama ironicamente “picassiana” e – del resto – è ben autorizzato all’ironia, visto chom la guida a stampa del museo reciti “Gli errori nella costruzione della persona sono tanto singolari da rendere l’immagine particolarmente attraente”. Misuro dove guarda e annoto che guarda a nord, a 27° N-NE per essere precisi. Buono a sapersi.

23 aprile 2003. Sulla S. S. 1 Aurelia, in direzione Europa. Quante volte avrò percorso questa strada, diecimila, ventimila, non so. Potrei chiudere gli occhi e dire a quale chilometro ci troviamo, secondo l’odore dei campi fertilizzati o delle centrali termoelettriche o del mare sugli scogli, secondo l’ampiezza di una curva o la ramificazione delle crepe nell’asfalto, secondo il frinire delle cicale o quello dei cavi dell’alta tensione.

La vetturetta che guido è stracolma: i miei archivi personali, i taccuini, gli scritti battuti e ribattuti, le foto di famiglia, quelle di mio fratello, rotoli e pacchi di lavori incompiuti, senza presente né futuro. Tutto ciò che mi appartiene o mi definisce viaggia oggi insieme con me: se avessi ora un incidente e questa auto bruciasse insieme con il suo contenuto, di me non resterebbe che qualche quadro appeso in appartamenti di amici che non si conoscono fra di loro e un paio di articoli in diverse lingue, pubblicati qui e là in riviste a diffusione confidenziale.

Sto re-trasmigrando a Parigi, città ove ho vissuto per quasi quindici anni. Eppure ho la sensazione di andare in esilio. Per le mie carte avrei ben volentieri trovato un bel rifugio rurale: una casupola di collina con vista sul mare Mediterraneo, per esempio. Ma quello che mi è capitato è uno studio a Parigi: noi accettiamo, accogliamo ciò che viene, che sia Madeleine che si fa conoscere a mezzanotte o Xavier che mi offre un atelier in mezzo alle chiacchiere di un vernissage, ed ecco sto sulla statale Aurelia per la ventimillesima volta, ma non vado stavolta a insegnare ai bambini di Torrimpietra, non vado a pescare anfore romane al largo del porticciolo di Tarquinia Lido, non vado con la ragazza nell’appartamento vuoto umido d’inverno a Porto Ercole, non vado a imparare il mestiere di falegname a Genova nel sestiere di Pré, non vado a ridipingere una casa a Hyères, dormendo in un capannone sulla spiaggia insieme con mio fratello. No, me ne vado a Parigi con il mio fottuto archivio personale e qualche capo di vestiario inzeppato dentro il cofano.

Quando guido non ho fretta ma ho ansia e non ho voglia di fermarmi. Se lo faccio, è solo per svuotare la vescica e riempire il serbatoio. Del resto non appena metto i piedi a terra le gambe mi tremano a causa delle vibrazioni e solo quando mi riseggo in auto il tremore passa. Siamo un tutt’uno io e la mia Fiat Uno.

E’ quasi il tramonto quando, dalle parti di Basilea, mi fermo per fare benzina. Non vendono birra alla stazione di servizio, e questa è l’ora in cui ho bisogno d’un petit remontant, quoi! E perciò mi trovo costretto ad aprire il vano del cruscotto, tirarne fuori una bottiglia sigillata di Jameson e tirarne tre belle sorsate. Dopo di ciò la strada è più sgombra e il motore più brillante, sorpasso tutti cantando a squarciagola e mentre affondo nel bel tramonto color pastello mi si schiarisce la testa e mi vengono finanche nella mente quelle idee che mi sono mancate per tutto il mio soggiorno in Italia, paese che è per me quello degli affetti (oh, affetti, oh, affetti cari, come vorrei fondermi in voi e nell’alcol e smettere alfine di essere inafferrabile dai più!) ma non quello dell’intelligenza.

23 maggio 2003. Ecco, sono di nuovo fuggito. Questo è il mio movimento, non appena manco di movimento. Passo una giornata normale come di più non si puote, cerco materiali in giro per i bazar, srotolo stoffe di organza e poliestere al Marché St. Pierre, mi costruisco una porta scorrevole fra bagnetto e corridoio, raccolgo con le dita le scagliette di vecchia pittura cadute sul piancito dello studio, mi faccio venire in mente un lavoro di grosse dimensioni, che potrebbe portare per titolo, diciamo, Quattro tesi sul fascismo, faccio bollire quattro patate e due uova che depongo in un sacchetto di plastica, metto il sacchetto in una borsa e prendo una metropolitana per la stazione del Nord.

Ecco sono arrivato di mattino presto, come al solito, alla stazione Zoo e sto per iniziare una delle giornate più insulse della mia vita. Ho lasciato la borsa in una cassetta del deposito automatico, ecco sono uscito sulla Hardenbergerstrasse pulito e leggero come fossi anch’io un berlinese. Mi dirigo innanzitutto verso la Bauhaus su Kurfürstendamm, è una lunga camminata ma voglio vedere che materiali e attrezzi vari vendono lì. Alla Bauhaus mi carico di una decina di tubi di silicone solo perché costano una trentina di centesimi meno che a Parigi.

Sono di nuovo nella strada, di nuovo carico di peso materiale e morale ma senza assolutamente nulla da fare e senza alcuna voglia particolare. Sulla Westphälischestrasse c’è mercato, una decina di camioncini aperti su un lato per un pubblico che, come sempre in questa città vuota spaziosa silenziosa, è ben rado.

Senza perdere tempo mi compro un bockwurst, anelavo a ritrovare la sensazione della pelle che resiste e poi cede sotto la pressione degli incisivi che affondano nella carne molle e rosea della salsiccia, ed inizio con questa esperienza mattutina una vera e propria tournée di analisi comparata. E’ vero, difatti, che nel bockwurst della Westphälischestrasse la pelle scrocchia bene sotto i denti, ma la polpa è, non so, direi, come granulosa. Al mercato di Wittenbergplatz il Wurst è forse meno caldo, ma il gusto del maiale è più delicato. Alla fine mi servirei piuttosto al chiosco sulla Savignyplatz: buona resistenza al morso, affondamento graduale nella ciccia, ottima temperatura di servizio, soddisfacente persistenza nel palato.

E dopo queste coscienziose prove ho avuto voglia di birra e mi sono messo alla ricerca, ma non potevo accontentarmi di una lattina comprata al supermercato no, cercavo un buon bar ma a forza di camminare mi sono trovato nella parte più vuota di questa città vuota, dalle parti del Tiergarten e della Lützowplatz. Non ci caffè né chioschi né pizzerie qui. Mi sono deciso a entrare in un hotel, perché grandi alberghi chiese cattoliche e biblioteche pubbliche sono gli ostelli dei vagabondi come me, in tali luoghi infatti nessuno ti fa domande se entri e vaghi qui e lì e una poltrona o un sedile gratuito nessuno te li nega, provare per credere.

L’Hotel Berlin sulla Lützowplatz non fa eccezione a questa basica regola. Il cortese groom mi ha messo sulla buona direzione per il bar ma la hall e i corridoi sono ingombri di banchetti e stand fieristici illuminati da spot e proiettori, guardati da uomini rubicondi dalle cravatte fantasia, seduti dietro mostre di apparecchi cromati, bisturi e trapani di tutte le taglie e dimensioni, calchi di chiostre dentarie, dentiere vere e finte, protesi in ceramica vetroresina oro platinato e platino placcato, braccetti telescopici e motorini stroboscopici e strumenti speciali per odontotecnici mancini, mi sono trovato nel bel mezzo dell’ottavo simposio internazionale di impiantistica odontoiatrica, mi districo infine fra espositori e materiali umani e disumani, seggo a uno sgabello del bar, bevo le mie due birre ascoltando di sottecchi un giapponese e un polacco che discutono a segni della maniera migliore di ricostruire al laser un secondo canino inferiore destro distrutto -insieme con tutto il resto di una dentatura alla Presidente del Consiglio- da un colpo di ferro da stiro marca “Optimus”.

E’ ancora l’inizio del pomeriggio quando, gonfio di birra e di salsiccia e più stolido che mai, mi trovo sulla riva del Landwehrkanal e mi appoggio alla ringhiera a guardar passare i gai battelli che trasportano le gite aziendali. Mentre la pioggia inizia a scendere più fitta ne passa uno piano piano: una trentina di uomini e due donne, tutti con occhiali da vista dalla montatura di tartaruga, ballano al suono di “Mamma mia” degli Abba. Seguo la schiuma del battello allontanarsi verso il Möckernbrücke e mi distacco dalla ringhiera, mi affretto verso la biblioteca nazionale, nell’androne c’è una bella fila di poltroncine comode allineate lungo la vetrata sul Kulturforum, basta poggiare la testa sullo schienale e ci si addormenta all’istante.

Mi risveglio dopo mezz’ora, non so, adesso ho bisogno di caffè e sigaretta. C’è un chiosco proprio difronte all’ingresso principale della biblioteca, ha una pergola che protegge dalla pioggia, seggo a un banco, sonnecchio oppure guardo la gente che aspetta l’autobus alla fermata del 148. Mi salva l’ora che passa, è quasi sera ed è tempo di ritrovare gli amici.

26 maggio 2003. Al centro della città di Potsdam, proprio a ridosso della chiesa cattolica di San Pietro e Paolo, c’è un piccolo cimitero che raccoglie i corpi di 372 soldati sovietici caduti nell’ultima guerra mondiale. Mesi fa capitai in questo luogo per caso, una volta in cui, vagando per un quartiere olandese tutto ripulito e occupato da antiquari e centri di abbronzamento, venni attirato verso la piazza del mercato dall’odore del Potsdamerwurst e, mentre ne addentavo uno, scorsi la cima di una piramide scura fra le fronde dei tigli limitrofi alla piazza. So che la piramide, simbolo di resurrezione, è frequente nei monumenti funerari sovietici. In Russia avevo spesso visitato cimiteri le cui lapidi erano semplici tralicci di ferro a forma di guglia o di obelisco, dipinti di grigio e sormontati talvolta da una stella rossa. Ero solo sorpreso che un tale memoriale si trovasse nel pieno centro di una città barocca ben preservata, per quanto parzialmente danneggiata dai bombardamenti alleati del 1945.

Passato il cancello del cimitero e percorsi in cerchio i vialetti, esaminai da vicino il monumento che avevo scorto dalla piazza e vidi come, dei quattro soldati di bronzo in pose eroiche che decoravano la base della piramide, uno solo era senza movimento e in postura di saluto sull’attenti ed era quello che guardava verso l’est, “verso la madrepatria”, pensai, sicché il suo sguardo, ulteriormente ripreso dalla linea di mattoni sul suolo del parco antistante, guardava diritto, oltre il Brandenburgo, la Slesia, la Galizia e la Bielorussia, in direzione di Mosca, e alle sue spalle la punta dell’obelisco addirittura copriva, se guardata da posizione frontale, la cuspide della chiesa retrostante, il cui abside, come spesso nell’architettura religiosa, era rivolto a oriente, al sole levante e alla resurrezione dei corpi che di lì verrà annunciata. Insomma lo scultore Brams, che aveva disegnato il monumento nel 1949, lo aveva allineato sulla St. Peter und Paul Kirche e, al di là di quella, sull’asse est-ovest di questa pianificata città di guarnigione e capitale estiva dei re-soldati prussiani, affermando in tal modo un sincretismo, non so quanto consapevole, fra fede nella resurrezione cattolica, culto socialista dei morti e razionalismo militar-prussiano. Una bella riuscita, pensai, che dovrò degnamente ricordare con un cartello apposto avanti al cimitero, cartello clandestino o autorizzato che sia, ma che, in ogni modo, porti una firma al mio pensiero.

Ho il cartello con me, l’ho preparato prima di partire, il testo me lo sono fatto tradurre in tedesco da Andreas, l’ho riprodotto su acetato trasparente, è protetto da scotch e plexiglas, ho solo dimenticato le cordicelle per appenderlo alla griglia metallica. Non fa niente, aspetto che non ci sia più passaggio fra la Bassinplatz e il mercato, i giardinieri lavorano lontano e non mi guardano né mi vedono, poggio il cartello sulla ringhiera presso il cancelletto, lo contemplo un attimo e scivolo via verso la stazione.

(2002-03)

 Note:

  1. 1: W. G. Sebald, Austerlitz, Milano 2002, pp. 35-36, traduzione di Ada Vigliani.
  2. 6: Amministrazione Provinciale di Caserta, Il Museo Campano di Capua. Guida per i visitatori, Capua 1998
  3. 6: L. M. F., Il santuario del fondo Patturelli, http://www.cib.na.cnr.it/capua/testi/patt.html.

PS: quanto alle immagini, me ne occuperò al più presto (dicembre 2015)

Introduzione ai Prontuari di SP

Trattasi di brevi scritti redatti a tempo perso negli anni ’90. Nel tirarli fuori dal cassetto, mi rendo conto che meritano una buona strigliata, ma anche che mi fanno scappare qualche risata. Pian piano mi occupero’ della strigliata. Per ora riconosco il primo, Litania dell’ignavo (1991), e il secondo, Manuale dell’accidioso (1992). Il terzo è La signorina Doremifasol (1993). A seguire Prontuario del protervo (1994) e indi un incompiuto Lamento dell’avaro (1993-1994).
L’idea soggiacente a questo programma era quella di illustrare in modo più che laico i sette peccati capitali. Quindi mi mancherebbe da concepire la Lussuria e l’Ira (associo la Protervia alla Superbia, l’Ignavia all’Invidia, mentre la Signorina Doremifasol descrive la Gola.
Infine, una captatio benevolentiae: almeno due di questi testi narrativi sono stati scritti al momento dell’ascesa di Silvio Berlusconi e del suo primo governo, avvenimenti che furono per me traumatici prima di tutto sul piano linguistico.

 

Litania dell’ignavo (1991) prima parte

Ma cos’è questo, cos’è ciò io non lo so io. Sono sempre stupito davanti alla vita io, sono come un eterno bambino, sono io, sono sempre in stupore davanti al mondo, ma questo non mi piace vederlo no, non mi piace no, non mi stupisce ma mi affligge solamente ciò, mi affliggono davvero queste manifestazioni di intolleranza, questi casi patologici di violenza reciproca, questi gesti inconsulti, ecco per esempio chissà cos’ha quello da prendere quell’altro e da sbattergli la testa contro la persiana, chissà cos’ha, chissà, la quale persiana risuona seccamente all’urto, risuona nella via assolata, isolata, che sale a perdita di vista, ma cosa vuoi che ne sappia io, di ciò che quei due si tengono in sospeso, cosa vuoi che ne sappia, io, dei loro affari, e se mi allontano per la mia via, se per i fatti miei me ne vado, non è certo per ignavia ma solo per discrezione, se lo capite questo non so, fatto è che.
Fatto è che.  Che, ma sì, sulla via del ritorno verso casa, sul ritorno dalla mia passeggiatina, mi trovo ad assistere a un’altra scena edificante ed esemplare, perché questa è la situazione, oggi come oggi, e già perché qui se ne vedono di tutti i colori se ne vedono, e dato che la mia che concepisco in questo istante si vuole una cronaca fedele, bisogna che ne faccia menzione bisogna proprio così eh, già, e la scena cui mi trovo ad assistere e che mi darà modo di svelarvi una cosa interessante, di cui non poco vado fiero, di cui vado fiero non poco, di cui vado non poco fiero, e la scena è la seguente ed è che sulla via del ritorno mi trovo dal panettiere e chiedo un pane, il quale pane non è pronto, perché sta ancora nel forno, nel forno sta ancora e c’è da aspettare cinque, ma che dico, tutt’al più sei minuti sei, e dico allora al panettiere che aspetterò, aspetterò lì fuori e così è,  anche lui esce sul marciapiede che, lo si vede, non ha di meglio da fare, il panettiere, e il negozio vuoto è. Si sta lì fuori, lui sta appoggiato al palo del semaforo, io sto vicino alla vetrina, e cosa dirgli non so, non lo so. Trova lui da dire qualcosa, quando scendono la via tre donne, tre donne che manco a dirlo non sono della sua razza, tre donne come tante, che scendono la via ridendo e scherzando ed è una bella immagine questa di tolleranza libertà e convivenza di genti disparate su uno stesso marciapiede e, cosa vuoi, le guardo costoro e le seguo con lo sguardo e anche il panettiere le osserva o meglio le scruta e quando quelle passano dice loro parole lubriche che certo quelle non intendono e cui non reagiscono, lui invece è contento di sé e mi sbircia, cerca la mia approvazione o cerca di vedere se sono per caso delle parti sue, e d’altronde questo potrebbe essere perché io assomiglio a chiunque e a chicchessia, fatto è che costui, il panettiere, dice a quelle donne slurp e gnamm e io lo capisco, quello che dice, lo capisco perché io conosco e capisco tutte le lingue o quasi e questo non è un mistero né un segreto, con un metodo speciale sono pervenuto a questo risultato, apprendendo cioè centoventi parole ogni giorno ho imparato tutte le lingue, e ciò grazie a questa brillante ed efficace tecnica mnemotecnica accompagnata, ciò va detto, a un costante esercizio della volontà, giorno dopo giorno, – e in quarant’anni di giorni ce ne sono eh, se ce ne sono – tutte le lingue ho imparato. Cento e venti parole al giorno, giorno dopo giorno, tale è il mio metodo ed è così che conosco tutte le lingue, tutte le lingue, almeno, che val la pena di imparare, questo va detto, questo, e perciò va detto e infatti qui lo dico.
E così ho preso il mio pane e me ne sono andato, non ho detto niente al panettiere, a cosa vuoi che serva, e poi davanti a tali manifestazioni di intolleranza mi cadono le braccia mi, e rimango così di stucco, anzi torno a casa, perché l’impiego no, ma la casa sì, quella l’ho, la casa che mi ha lasciato la mia mamma, la casa dove vivo io e i gatti, che di seguito vi vado a presentare.

I gatti mi aspettano sempre dietro la porta, stazionano tutti dietro la porta, lo sanno che arrivo, lo sentono, e stanno tutti lì, ad aspettare me e la pappa, tutti tranne i quattro nuovi che ancora non escono dalla scatola di cartone. cosa dire di questi animali, di questi amici dell’uomo, non è che non li ami certo, che ciò non sia detto, ma a volte vorrei non dover camminare su questo pavimento animato e impellicciato, vorrei non dover essere il cuoco e il cameriere di quest’orda, ma l’ho giurato alla mamma sul letto di morte, l’ho giurato che non li avrei abbandonati, non li avrei, l’ho giurato sul suo letto di morte, eravamo io e i gatti intorno a lei e se pure non li ami più di tanto questi venti o trenta animali, cosa vuoi, eravamo lì insieme intorno alla mamma e una qualche cosa l’abbiamo condivisa, una qualche, intorno al letto, intorno al letto di morte della mamma, quando parlava ancora e mi faceva tante raccomandazioni e anche dopo, quando non ha più parlato ed è durata quattordici giorni prima di andarsene davvero, chi l’avrebbe mai creduto ma così è stato ed è andata così e così sia.
E così rientro in casa e mi porto in cucina, mi porto in cucina e apro le scatole con l’apriscatole elettrico che la mamma aveva comprato quando poteva ancora uscire, e impiegava una mezz’ora almeno a raggiungere il negozio di elettrodomestici che sta sul viale, e il viale sta a non più di sessanta metri dal portone di casa, ma piegata com’era a novanta gradi, e con un passo che non poteva essere più lungo della lunghezza di un piede, questo era il tempo che le occorreva, e poi lei si fermava a studiare i cestini della spazzatura o a discutere col macellaio equino e così è che quando usciva per una compera tornava dopo mezza giornata, ma ciò nonostante non voleva farsi accompagnare no non voleva, voleva andarsene da sola a comprare i suoi giocattoli elettrici, era proprio quella la sua passione, sì, quella era la sua passione. Cosa c’è in questa casa di materiale elettrico non so se riuscirò a elencarlo, vedremo.
Me ne torno dunque a casa, mi porto in cucina, come ho già detto, apro le scatole con l’apriscatole elettrico, le vuoto nei piatti che coprono quasi tutta la superficie del pavimento, che più non si può camminare in cucina più non si può, più, e così ottengo un’ora di pace. Vengo nel salone, scosto di un filo la tenda rossa, di colore rosso vino, colore saturnino mi hanno detto ma è quello che mi piace cosa vuoi, scosto di un filo la tenda rossa per avere un filo di luce sullo scrittoio, lo scrittoio della mamma, dove la mamma faceva le sue parole incrociate e dove io ho impilato i miei vocabolari, e dove il dizionario magiaro è aperto alla pagina 721 e così è che mi ci chino sopra con impegno e diligenza, in questo periodo lavoro bene, con buona applicazione, e in due mesi o giù di lì ho raggiunto la lettera g.
Siamo ancora nella maledetta estate, anzi siamo proprio in mezzo all’estate e debbo accendere il ventilatore, non posso certo aprire le finestre con tutto quello che ne viene come suoni come odori e come immagini, con tutto quello che, e debbo mettere in funzione il ventilatore che sta sulla consolle, anche se so che l’aria fredda mi darà il torcicollo, mi darà, ma che vuoi, così è, cosa vuoi farci.
Me ne sto seduto allo scrittoio, me ne sto applicato al mio vocabolario, me ne sto dietro la tenda rossa, di colore rosso vino, che fa nella stanza una luce rossastra, ma che ora sta un pò scostata, per farmi quel raggio che mi occorre sullo scrittoio, me ne sto in applicazione e non voglio saperne niente, soprattutto non voglio vedere fuori, non mi importa quello che succede nella strada, non mi importa e lo sottolineo, tuttavia ho di tanto in tanto, di rado però, qualche momento di debolezza o di stanchezza o un vuoto momentaneo nella testa e allora mi alzo e faccio il giro dello scrittoio, attento a non urtare con la spalla le pile di vocabolari e manuali vari, i miei utensili linguistici, e un minutino fuori ci guardo, ma un minutino appena. Quasi sempre c’è l’uomo col braccio al collo, alto com’è e coi suoi tatuaggi sul collo e sulle spalle, non si può non vederlo, quello. Se almeno un giorno gli togliessero il gesso potrei confonderlo con altri come lui, della sua razza e categoria, ma deve trovarsi in cassa malattia, per via del braccio senza dubbio, senza ombra di dubbio, e non ha di meglio da fare che oziare fuori del cancello del palazzo di fronte, fuori di questa immensa casa popolare che mi hanno costruito davanti alle finestre, questo immenso edificio dove tutte le razze e tutti i colori convivono e alla mattina, quando tutti escono per andare chi alla scuola e chi al lavoro, dio che cafarnao, dio che torre di babele sfila sotto i miei poveri occhi, fatto è che, non ha di meglio da fare l’uomo col braccio al collo che oziare fuori del cancello e davanti alle mie finestre, davanti alla mia vista. Me ne torno allo scrittoio, me ne torno alla lettera g.
Me ne sto sulla lettera g e in particolare sulla parola gerendapárkány, che significa architrave, quando suona il telefono, squilla la soneria dell’apparecchio telefonico e chi è, è una donna a nome Antonia detta Antonina per via di, non so perché, ma un giorno o l’altro glielo chiedo e questo è. Telefona Antonina e dice quant’è che non ci si vede vediamoci stasera vediamoci vieni da me stasera che ti faccio da mangiare che ti faccio la pappa buona che piace tanto a te. Cosa vuoi dire quando ti dicono così, bene, dico, vengo e verrò da te stasera, e a sera verrò e riattacco il telefono e già mi preparo, vado in bagno e mi faccio la barba con uno dei rasoi elettrici che la mamma m’aveva comprato, mi faccio ben bene la barba e mi sciacquo sotto le ascelle, mi faccio presentabile insomma, e poi non so, mi lavo il pisellino o non me lo lavo, ma sì laviamolo poiché non si sa mai, non che io abbia celate intenzioni per carità di dio no, non lo sanno queste donne che sono io il parsifal moderno, dov’è che l’ho letta questa, ma è per un fatto di correttezza in senso generale, di inappuntabilità direi addirittura simbolica, è per questo è, solo per questo e per ciò, sì.
Sono pronto o quasi, scelgo una bella cravatta a righe rosse e nere e me la metto, passando il collo sotto l’annodatrice elettrica, uno degli ultimi regali della mamma. Passo le scarpe sotto la lucidascarpe elettrica e sono pronto, me ne esco. Me ne esco nella via e proprio sotto il portone c’è da scansare questi cinque, a quattro contro uno ci si sono messi così non vale, e l’hanno messo quello con la schiena al muro, colla schiena al muro l’hanno messo c’è poco da discutere e a calci e a pugni lo scendono a terra, certo quello sì che è un buon incassatore, scende giù davvero pian pianino.
Ma già sto in fondo alla via, già corro dietro al 67 e con una bella progressione lo raggiungo alla fermata. Antonina non ha ancora finito di cucinare quando arrivo, c’è da aspettare ma non me ne irrito no, non me ne dispiaccio né me ne dolgo, mi limito ad alzare la fiamma sotto i tegami quando lei per un motivo o per l’altro va di là, d’altronde quando lei torna la riabbassa e peraltro quando lei si allontana la rialzo, la fiamma, e così via facendo finché il cibo non è pronto. E poi, per farla corta, si passa di là e si consuma il pasto, e il pasto è consumato e poi non mi muovo dal mio posto, cosa aspetto non so, mi pare che lei sia stanca, vista la sua improvvisa laconicità e la disattenzione al mio dire, è vero certo che parlo un pò a forza, che spingo avanti le parole e quelle non mi vogliono lasciare, se ne vanno a malincuore ma Antonina le raccoglie con ancora meno cuore. E’ confusa la mia testa, cosa vuoi, notte e giorno a faticar e il vino Antonina è finanche finito, tieni qui quello che resta, bevi tu il fondo del mio bicchier. Lei s’avvicina e beve in piedi a me difronte, tiene il bicchiere a due mani come fosse una coppa di fiele o, se per caso esagero, come una tazza di tisana, come volete voi. Rimango seduto e, per non guardarla negli occhi, che in questo quadro si trovano proprio all’altezza dei miei, fisso con ostinazione, con tenacia, un punto fisso sul tavolo, gli è che percepisco qualcosa, cosa c’è, c’è che lei posa il bicchiere e m’abbraccia ma che fa, per la precisione mi mette le braccia intorno alle spalle e mi preme il viso sulla fronte, rimane così in piedi, va bene non è che sia contrario a tutto ciò, ma vogliamo essere precisi e chiari oppure no? E le faccio un bel discorso le faccio, le dico che no, qui non rimango perché il giorno dopo poi, il quadro non è tondo, e il giorno dopo si sa come è, sai com’è ma devo essere sincero devo essere corretto non gli è che possa promettere niente non sia mai non sia e non posso approfittare così no non posso no, non siamo mica qui, mi pare, nel quadro di un giorno dopo migliore. E glielo dico e glielo ripeto che sto per andare via, ma cosa vuoi è come una febbre come una malattia e lei è lì che non muove bocca e invece muove mano, e si sa che dove stanno le parole lì non c’è posto per le mani, e viceversa, dove stanno le mani non c’è posto per le parole e cosi è, però glielo dico che va bene accada pure ciò ma che sia per una sola volta, una volta sola e mai più, ma è certo ormai che qui e ora e in flagrante delicto ormai ci si trova a essere e cosa vuoi quando ti si conduce su un divano e ti si estrae dal pantalone quello che ti si estrae (e fortuna che, quanto a igiene e pulizia, ero stato previdente), quando ti si estrae quello che ti si estrae e gli si fa quello che gli si fa, cosa vuoi, la carne è carne e anche la carne ha la sua anima e che dire, rimango, mi trattengo, ma non più di quanto sia necessario all’atto, e quando lei si distende, si rilassa, dico che vado, cosa vuole, non vorrà certo che stia lì tutta la notte, e il mattino poi, come vuoi che sia presente al mattino, con le necessarie operazioni che ne conseguono, come vuoi che ti veda nella luce del mattino, cerca di capire, e poi ho da pensare ai gatti, cosa vuoi, ho le mie responsabilità io, e sono anche loro esseri umani, pardon, viventi, cerca di capire, cerca, e così dicendo non dico più altro perché se si fa posto alle mani, non ce n’è più per le parole, e poi mi rivesto e la saluto dalla porta, cosa ci posso far è come una febbre come una malattia, mi è sempre piaciuto chiudermi le porte alle spalle ed essere l’ultimo, e lei resta sul letto e mi guarda uscire, mi guarda con occhi proprio fissi e io esco poi ritorno perché ho scordato la cravatta, poi riesco e torno a casa a piedi dacché è tardi gli autobus non passano più, in un’ora torno a casa è un tragitto senza storia, sotto il portone di casa sta disteso quello di prima, il buon incassatore di cui prima, se ne sta lì da solo e disteso, non è in grado di ricevere un invito a bere qualcosa, me ne risalgo in casa, c’è da dar da mangiare ai gatti e da provvedere a ciò. Dopo posso accendere le candele sullo scrittoio e rimettermi al lavoro, che già mi avvicino alla lettera h, il cui studio sarà di maggior durata, perché conta tale lettera maggior numero di vocaboli che non la lettera g su cui sto attualmente chino e così il tempo passa, passa bene, Felicita mi viene sulle ginocchia, vi si addormenta e mi impedisce così di alzarmi, perché non posso certo disturbarla, ed è bene è bene così.
Ma non rimango al vocabolario che un quarto d’ora perché il telefono suona, squilla il telefono e mi alzo per rispondere e come mi aspettavo c’è un silenzio, sempre così fa lei, mi lascia questi cinque secondi di attesa prima di dire “sono io”, mi dà questi secondi, utili per riprendersi e prepararsi e dirla una bella frase pronta, una bella frase pronta per Wilhelmine che telefona e domanda dove sono stato finora, ché è tutta la notte che chiama, tutta la notte no, dico io, ché non è ancora finita, la notte, come dimostra il colore del cielo e il silenzio nella via, tutta la notte no, ché non è ancora passata, e quella che è passata l’ho passata a camminare, lo sai bene che la marcia e il tabacco sono le mie uniche consolazioni, sono.
No, fa lei, eri con una donna, lo so, perché non dirlo, perché non dirlo orsù, gli è giusto per sapere  ché, per me, puoi andare a letto coi tuoi gatti, gli è giusto per sapere. No ti dico le dico io, ero fuori a camminare cos’altro vuoi che faccia e poi una volta te l’ho detto e pensavo fosse abbastanza, te l’ho detto una volta per tutte che io non mento mai, mai non mento ad amici ed amanti. Se è così, dice lei, allora sia, ma non so, dice, se prendere un tassì e venire a chiaccherare lì da te, forse lo faccio, forse vengo e per ora ti saluto.
Verrà non verrà chissà. Vediamo, calcoliamo, diamole il tempo di prepararsi chiamare il tassì arrivare fin qui, le occorrerà un’ora un’ora e un quarto tutt’al più, ho il  tempo ancora di imparare una ventina di parole e sistemarmi un pò, magari faccio finanche una doccia perché non si sa mai, mai si sa come le cose vanno a finire. Passa un’ora e sono pulito lavato e vestito, mi seggo allo scrittoio e sfoglio un dizionario, mi ripasso un poco di polacco, che ultimamente ho forse tralasciato, sì a ripensarci debbo dire che ultimamente il polacco l’ho un poco trascurato. La via è silenziosa, e del resto è l’ora che è. Un’automobile si ferma e parcheggia ma non è un tassì, i tassì si riconoscono all’udito, per via del motore diesel che va a gasolio e perciò, fa quel tipico rumore caratteristico, quel tipico borbottìo dei motori diesel che vanno a gasolio. E a un certo punto lo intendo, che indugia all’altezza del portone, no, scosto la tenda, la tenda rossa di cui sopra, no, la scosto e guardo giù, no, guardo giù e giù non c’è lei, non c’è lei ma c’è solo qualcuno che viene spinto fuori dalla portiera, viene spinto fuori e quando il tassì se ne riparte quello se ne rimane così, come quello di prima, il buon incassatore, così anche lui allungato e senza moto, accosto al marciapiede.

Ma c’è ancora tempo, perché cosa vuoi lei è fatta così, ché ama farsi attendere, ah ma quando verrà la stupirò. Mi porto nel bagno e mi colloco davanti allo specchio, mi sottolineo le palpebre con la matita nera e, perché no, mi metto un filo di rossetto sulle labbra e mi riguardo nello specchio e non mi trovo poi così male no. Un’altra mezz’ora è passata, un rumore di motore diesel che va a gasolio viene dal fondo della via, scosto la tenda per vedere, è solo un camioncino che passa oltre e neanche l’uomo disteso c’è più non c’è proprio più nessuno no, non c’è nessuno. Torno nel bagno, ora le farò vedere, le farò, lei non sa chi sono io, no, è chiaro che non lo sa ma lo saprà. Mi metto davanti allo specchio, mi sfilo la camicia, prendo dalla mensola un rasoio e con quello mi colpisco il petto, il petto mi martirizzo ma no niente paura è un rasoio usa e getta questo, non fa tanto male e il manico si piega e si spezza, ecco è già fatto, ah, se avessi posseduto uno di quei rasoi come si usava un tempo, uno di quelli che si affilavano sulla striscia di cuoio ma no, invece no, dispongo solo dei rasoi elettrici che la mamma mi aveva regalato e di due o tre di questi usa e getta, molto usati e mai gettati, con cui uso depilare Felicita e Lotte ed Esterina e non è che faccino più granché, un bruciore, un pizzicore appena, tutto qui. Ma qualcosa pure ne viene, lo vedo quando rimetto la camicia e una macchia rossa appare e s’allarga all’altezza del cor, tutto sommato ne viene una bella macchia, la si nota a prima vista, questa gliela farò vedere gliela, e se non viene, gliela spedisco a casa, domani gliela spedisco, sì, domani, così vede che uomo è quello che perde, così lo vede tanto peggio per lei, domani gliela metto in un pacchetto e gliela spedisco a casa, perché ormai non viene, il tempo io glielo avevo dato e non l’ha voluto e peggio per lei sì peggio è per lei.
E già viene il giorno, e pian pianino il cielo si fa grigio, viene quel lucore, quel lucore mattutino, viene un altro giorno, e anche in questo giorno dovrò fare un fioretto, una buona azione, anche oggi dovrò, anche oggi mi aspetta un bel pezzo di lavoro.
Mi tolgo questo nero dagli occhi, bagno un pezzo di ovatta e me lo passo sulle palpebre, sfrega stropiccia e strofina rimane sempre come un alone scuro non fa niente uscirò con gli occhiali da sole e difatti infilo gli occhiali e me ne esco. L’ora è ancora mattutina, difatti il lattaio non è ancora  non è ancora passato e i negozi sono ancora chiusi ma, ma al mercato i banchi sono già allestiti, frutta e verdure sono già in bell’ordine esposti e alcuni cartelli coi prezzi sono già appesi, segno questo che si può comprare e si può vendere, e già nell’aria ancora frescolina indugiano davanti ai banchi i primi clienti, con le sporte e con i carrelli, e fra questi primi clienti una donna vestita di lamé che compra una mela golden una e neanche l’ha pagata e già l’addenta e cosa vuoi, già mi pongo all’inseguimento, questa donna si avvia e già io la seguo, la seguo lì dove va lei, e dove va lei, lei va alla stazione della metropolitana, accanto a lei attendo il primo treno. Il primo treno si fa attendere si fa, cos’altro fare se non guardare la bella nuca e anche i due che si parlano da una banchina all’altra, così, davanti a tutti si parlano dei fatti loro, certo non sanno che non tutti possono capirli ma io sì, io che conosco non tutte le lingue ma quasi tutte, e la loro fra quelle. C’è lì il lancio del pacchetto, uno dei due chiede una sigaretta all’altro dei due e costui gli lancia tutto un pacchetto, quello lo afferra con buona elevazione, sfila una sigaretta e rilancia il pacchetto ma questi non ha altrettanto stacco e la sofisticata confezione rotola sul rude asfalto e questa è una bella immagine del contatto fra le cose differenti e questo è bello a vedersi.
Il treno arriva e ci si entra, me ne sto a distanza dalla donna ma, certo, non la perdo di vista e quando la vedo scendere scendo anch’io, e ci si porta entrambi ad un’altra banchina, dove ci aspetta un altro treno che corre in un’altra direzione. Qui ho modo di assistere a un episodio veramente esemplare e davvero degno di menzione.
Sul marciapiede difronte accade un episodio, e cioè si pone in atto, anzi si mette in essere, il pestaggio di una persona da parte di altre tre, trattasi di due tipi vestiti tutti di cuoio che tengono fermo un vecchietto, senza sforzo alcuno e si direbbe financo con una certa dolcezza e capacità di persuasione, e lo tengono seduto su di un banco, mentre un terzo tipo lo prende a calci, il vecchietto, nella pancia, senza passione né accanimento e, come dire, si direbbe addirittura che ci pensi su, fra un colpo e l’altro, che ci rifletta con coscienza e amor di precisione, perché si guarda intorno e guarda al cielo, cerca l’approvazione degli astanti o quella di dio non si sa, ma ecco che già si decide, prende un plastico slancio e colpisce di nuovo il vecchio, che all’urto si solleva e sobbalza, non è che lo tenessero poi così per bene i due telamoni, ma cosa accade qui così ex abrupto inopinatamente, accade qui che qualcuno dal mio marciapiede si mette a urlare, è una donna ed è proprio la mia donna, questa donna dai capelli ossigenati e dall’abito di lamé, questa donna che non è ancora andata a dormire, che torna a casa stanca dopo una notte di lavoro e cosa fa, interviene inopinatamente e urla basta così smettetela basta così e si direbbe che quello vestito di cuoio non attendesse altro che questo, si volta tutto contento verso di noi che siamo sull’altro lato dei binari e chi è dice chi è, e la donna gli ripete basta così adesso smettetela e quello gesticola e sbraita e fa il gesto aspetta che ora ti faccio vedere io ti faccio e fa il gesto di scendere calarsi dal marciapiede e attraversare i binari poi ci ripensa e va alle scale per venire qui ed eccolo appare sulle scale di questa banchina e si avvicina ma cosa accade, cose mai viste, accade che tutta la gente che stava qui ad attendere e a guardare, tutta questa massa di alienati depravati e indifferenti si muove e si stringe, senza che parola sia profferita, e l’uomo si trova dinanzi a questo muro di persone che lo separa dalla bionda platinata e cosa vuoi che faccia, se ne torna indietro, e poi il treno arriva e ci si sale dentro, ed è il momento buono per parlare a questa donna, mi avvicino dunque e le faccio presente quanto sia ammirativo e come avrei voluto imitarla ma sa com’è signora mia siamo diventati tutti così vigliacchi, così ignavi, dico io, così apatici e accidiosi, così abulici e astenici, astinenti anzi vorrei dire ma non lo dico perché lei mi interrompe e mi dice che quando è troppo è troppo e il troppo stroppia e certo dico io, facendo mia quest’espressione desueta e forse provinciale, è proprio così, è proprio il caso di dirlo che era troppo e che quello lo stroppiava ah ah, e ci facciamo una risata sopra, come si dice e si dice così.
Dopodiché viene tutto naturale, la invito al bar, ma non dopo essermi presentato e difatti lei permette che mi presenti e mi presento e l’invito al bar, ma non subito, stasera invece, che ora subito mi trovo a essere impegnato, e su ciò e su un preciso appuntamento si scende dal vagone e ci si accomiata e io cambio marciapiede e prendo il treno nell’altro senso, me ne torno a casa ché oggi un bel pezzo di lavoro già l’ho fatto.
Me ne torno a casa, ma prima di tornare compro le scatole per i gatti, altrimenti chi li sente, quelli, cosa volete, questa è la mia schiavitù. Dal salumiere in fondo alla via compro le scatolette, facendo attenzione a evitare quelle di coniglio, che ai miei gatti non piacciono, cosa vuoi che ci faccia.
Torno in casa, nutro gli animali, ah cosa farebbero senza di me, nutro dunque gli animali e me ne vengo allo scrittoio, allo scrittoio me ne vengo e alle ultime colonne della lettera g del, se si ricorda bene, dizionario magiaro. Accosto ben benino le tende, accendo il ventilatore e perché no, mi preparo il caffè con la caffettiera, manco a dirlo, elettrica della mamma. Verso il caffè in una tazza africana che poso su un piattino cinese che porto sullo scrittoio art déco e non posso non rimarcare questo incontro di culture composite e diverse, di cui detto fra di noi non sono responsabile, poiché è la mamma, non io, che ha portato in casa tutto ciò che vi si trova e che io, rispettoso come sono, non rimuovo e, se vi dico che la mamma era una grande accumulatrice potete credermi non lo dico tanto per dire, armadi a muro e ripostigli rigurgitano di pezze scampoli e ritagli di stoffe multicolor, debordano di giornali vecchi e scarpe scalcagnate, straripano di fili elettrici e cacciaviti spuntati, traboccano di lampadine fulminate e fili di ferro arrugginiti, perché per la mamma tutto era prezioso e tutto era da conservare tutto era santo e tutto era sacro ed era peccato buttare checchessia, cosa vuoi, ci sono dei tipi così, ramassano e accumulano ed è meglio non uscire a passeggio con loro perché ogni due minuti si fermano a raccogliere e intascare una vite spanata, con la scusa che porta fortuna, un pezzo di spago scamuffo, per il motivo che quando devi fare un regalo poi ti trovi senza nastro per il pacco e così via dicendo, e sarà questa mania un oscuro retaggio di questa gente venuta dalla campagna, chissà, o sarà che questa gente, questa generazione della mamma, ha fatto la guerra e si sa che al tempo della guerra i tempi erano quello che erano.
Me ne vengo in fin dei conti allo scrittoio dove ho poggiato la tazza col caffè, Esterina mi viene sulle ginocchia e mi accingo, mi accingo dico a una bella mattinata di studio ma. Ma qualcosa mi disturba e interrompe prima ancora che io abbia iniziato e cos’è è il telefono che squilla, è il telefono che suona, e quando alfine rispondo ci sono lì quei secondi di silenzio, ma sì è lei, è la mia torturatrice, è la mia croce e il mio cilicio, è Wilhelmine che chiama, che vuole sapere dove sono stato sinora, ché mi chiama da due ore mi, cosa vuoi le dico, sono uscito a camminare, lo sai bene che il sigaro e la passeggiata sono le mie uniche consolazioni sono, lo sai, e del resto cosa vuoi, non è che non ti abbia atteso fino al mattino e venuta non sei, mi sembra che tu non sia venuta. Sì lo so, dice lei, lo so che non sono venuta, è che avevo qualcosa da fare, avevo da scrivere una lettera e il tempo è passato e non me ne sono accorta, cosa vuoi. Se è così allora, le dico. E’ così, è così, mi dice. Se è così allora, allora sia, passiamo ad altro, sì passiamo a noi fa lei a noi veniamo dobbiamo davvero vederci passare un tempo assieme, vediamoci non so, quest’oggi, vediamoci in un posto diverso, un posto nuovo e strano, non mi porti mai in posti nuovi strani e diversi e pure sai che bisogno ho io di vivere, di vivere e vedere e per ciò sono pronta a tutto, ma solo per tutto vivere e tutto vedere. E sia e sia le dico non mi costa sforzo capirti per quanto cosa vuoi io sono differente io non sono così, bastano a me poche cose due o tre per essere contento e soddisfatto, bastano a me le parche occupazioni, lo scambio d’affetto con i gatti, ché anche loro sono esseri viventi, e il cibo condiviso, e gli oggetti intorno a noi, non so, una penna spezzata e rimessa insieme con lo spago, un insetto che si dibatte nel suo annaffiatoio, non ad altro anelo, non ad altro che a queste cose semplici, che bastano a sé stesse e nello stesso tempo informano il nostro mondo sensibile. Ma se è questo che vuoi, Wilhelmine, se vuoi qualcosa di strano, qualcosa di diverso, non pensare che io non abbia i miei mezzi e le mie conoscenze. Se è questo che vuoi, ti ci porterò, Wilhelmine, in un posto strano e in un posto diverso.
Ti porterò, Wilhelmine, in un certo posto, e prima ti attenderò in una certa piazza a una certa ora davanti a una certa fontana, quella dall’acqua colorata di rosso, di rosso dico e non di blu, e questo all’ora che tu vuoi ma che sia quella, ché come sai non tollero i ritardi, ah niente è più incorretto che essere in ritardo, te l’ho detto mille volte. Sì sì ho capito l’ho capito dice lei me l’hai detto mille volte veniamo al dunque al nostro appuntamento, ci vedremo dunque alla tale ora nel tale luogo e qui ti dico arrivederci e qui ti dico arrivederci e forse addio, ti dico addio e forse arrivederci. E su tali battute Wilhelmine si congeda, così come mi congedo io da lei.
Su questo tratto me ne torno allo scrittoio, ché non dimentico di essere rimasto stazionario, fin da ieri, intorno a gerendapárkány, che significa architrave e, se non ricordo male, lì sono rimasto fin da ieri ma, prima di mettermi al lavoro l’abitudine mi spinge alla finestra, mi fa scostare la tenda e mi fa dare un’occhiatina fuori e mi fa rivedere l’uomo col braccio al collo, che ha le sue abitudini anche lui, eccolo lì appoggiato al cancello, eccolo che guarda chi entra e chi esce, e di gente che entra e di gente che esce ce n’è, è un palazzo quello immenso e come il labirinto, che solamente fra scale e cortili ne avrà centotré. Una casa popolare come questa è proprio un termitaio e ne contiene di tipi umani, ne raccoglie di esemplari di varia umanità e qualcuno ve ne mostrerò. Ma quello che vorrei ora è tornare al mio studio, rivenire alla mia applicazione, e vorrei che distrazione stata non vi fosse, perché ridendo e scherzando abbiamo fatto mezzogiorno e le mie centoventi parole se ne vanno a farsi benedire se ne vanno, mentre io ozio indugio m’attardo e temporeggio. Su, su, bando alle ciance veniamo ai fatti, veniamo allo scrittoio e imprimiamoci bene in mente queste dieci dozzine di parole, poi facciamoci belli, mettiamoci una camicia indosso e non se ne parli più, usciamo nella città.
Usciamo nella città e dirigiamoci dove abbiamo dato e preso appuntamento e andiamoci di fretta perché si è fatto tardi e sì mi affretto, mi spiccio, mi sbrigo e come dio vuole arrivo, arrivo davanti alla fontana colorata e ne faccio il giro, ci giro intorno e nessuno sta in attesa, neanche Wilhelmine, e passa mezz’ora e lei non compare, e passa un’ora e lei non viene, e passa un’ora e mezza e lei non si presenta, ah ormai non potrò più dirle alla buon’ora! come avevo pensato, no, non mi rimane altro che andarmene e me ne vado davvero mi allontano ma passato l’angolo ci ripenso e torno lì, ma solo per un breve passaggio compiuto il quale vado via davvero.
Vado via davvero e dove vado, vado nel posto che avevo previsto, che conosco bene perché è quella l’accademia dei perdigiorno, è quello il mio territorio di caccia preferito, se posso esprimermi così, ed è lì che trovo quasi tutte le mie vittime, se posso chiamarle così, e si può dire che quello era il mio salotto e il mio burò, prima che la mamma mi accogliesse, prima che mi lasciasse la casa e i gatti e prima che anch’io infine avessi una vita regolare come tutti i cristiani con tutti i crismi e come tutte le persone che si rispettano. Lì mi recai e mi recavo e mi sono recato e mi reco ancora non perché il posto sia inusuale e strano, ma proprio per le belle conoscenze che vi si fanno, come ho già detto e come vi sarà qui infallibilmente mostrato. No, non sono persone straordinarie no, non sono tipi singolari quelli cui m’interesso nel parco delle attrazioni, non è il nano senza braccia e senza gambe, che scrive a macchina con la forza del pensiero, non è la contorsionista svizzera, che passa attraverso una scatola di fiammiferi svedesi no, le mie conoscenze immancabili sono le sartine e le pasticciere o come le vuoi chiamare, comunque quelle giovani donne che escono con le amiche, per svagarsi un pò, per distrarsi un pò dopo una giornata di duro lavoro. Ed è così che mi trovo a vagare fra un baraccone e l’altro, adocchiando e qui e là, finché non viene una buona occasione, l’occasione che viene a piovere e questo non era stato previsto no, nessuno ha previsto come ripararsi dalle intemperie. Rapido come un fulmine io, che sono uomo di mille risorse, esco dal parco, traverso la via, entro in un negozio di penne e valigie e compro un ombrello, un ombrello da pochi soldi, un modello davvero economico perché non c’è ragione di sprecare il proprio denaro e a casa ne ho uno della mamma che si apre e si richiude, inutile dirlo ma lo dico, elettricamente.
Torno nel parco e detto fatto ecco le mie due sartine, o pasticciere che dir si voglia, o fossero pure studentesse, che indugiano al riparo di un gazebo e non si decidono a uscire all’aperto, ma questo è proprio un giuoco da ragazzi, non ho che da avvicinarmi e offrire la protezione del mio ombrello e, quando questa è accettata, il resto è, come dire, un gioco da ragazzi, ci si prende la libertà di offrire un gelato alle signorine e poi non ve la faccio lunga, fatto sta che domani incontrerò le mie nuove conoscenze alle ore sedici in punto davanti al cinema Metropole.
Ma ora debbo accomiatarmi dalle due giovani, perché fatto è che ho un altro appuntamento, un appuntamento che è anche di lavoro, ed è contro la mia etica, che è etica dell’impegno e del lavoro, arrivare in ritardo a un appuntamento di lavoro. Ritrovo Salomé in un bar poco lontano, Salomé è la donna bionda di stamane, quella che urlava nella metropolitana e a cui mi sono in seguito accostato, la ritrovo in un bar, è già lì che aspetta, che aspetta e fuma una sigaretta, mentre mi avvicino con un bel sorriso. La conversazione nel bar è di breve durata e di insignificante contenuto e non vale la pena qui riportarla qui e non lo farò. Verrò piuttosto ai fatti, e i fatti sono che ci si è alzati e si è usciti dal locale e ci si è diretti all’abitazione di Salomé e qui giunti ella mi ha fatto accomodare su un divano e ha preparato qualcosa da bere, ha preparato una bevanda di sua confezione, che mi ha servito in certi bicchierini  grandi come ditali, per poi sedermisi accanto e bella questa camicia hawaiana ha detto e ha iniziato a sbottonarla e poi siccome mi passava la mano sul petto, sotto la camicia hawaiana, ha sentito delle asperità e ha voluto vedere ha voluto guardare e cosa sono queste cosa sono questi segni ancora freschi che cosa ti sei fatto, ah sì ho risposto sono stati i gatti, anzi è stato il gatto che mi è salito sul petto per raggiungere un moscone ma il moscone è scappato via e voilà, non è menzogna. Più che di gatto paionmi queste tracce di tigre, dice lei, ma disinfettato ti sei, ti sei messo qualcosa lì sopra che cazzo che pare tutto infettato? Beh sì ho risposto io nervoso, perché divento sempre nervoso quando ci si prende troppa cura di me, troppa pena per me si prende, mi fa pensare alla mamma ciò mi fa e mi vien da piangere mi vien, beh sì ho risposto io, ci ho passato l’allume quello che usi quando ti tagli col rasoio non so se lo conosci, brucia un pò ma efficace è. L’allume ma cosa mi dici mai ma cosa mi tocca di sentire dio me ne scampi e liberi ma senti questa questa è buona per davvero ora ci penso io. Se ne va nel bagno e torna con qualcosa, io sbuffo e protesto ma lei mi mette a tacere con un bacio e mi disinfetta il petto, me lo fa diventare tutto rosso ma cosa è questo dico io, non è niente è solo tintura di iodio, ah se è così allora. E adesso veniamo alle cose serie dice lei dopo aver riposto le sue boccettine le sue ampolle e le sue ovatte, veniamo alle cose serie dice lei e io le faccio ma lo sai che ciò accadrà una sola volta, mai più di una  questa è una regola per me. Come tu vuoi risponde, non è affar mio questo, chi paga sei tu. Anche questo è vero dico io, sfilandomi la cinta, e veniamo al dunque che non sto qui a raccontarvi perché anche da soli potete immaginare, e dopo mi rivesto e anche questa è fatta e di Salomé qui non si sentirà più dire.
Torno a casa, torno a casa e più non se ne parli, dò da mangiare ai gatti, mi metto allo scrittoio, ché io a dire il vero sono un tipo contemplativo, altro non sono a dire il vero che un tipo contemplatore, e ho bisogno di calma e solitudine, questo è. Me ne torno a casa mia, nutro i gatti miei, mi seggo allo scrittoio, me ne sto coi miei vocabolari, non venite a dirmi altro, basta.
Non mi venite a dire che chiamerà Wilhelmine, ah troppo facile sarebbe, ma sì invece, Wilhelmine chiama e dice ma cos’hai fatto perché non sei venuto, come non sono venuto dico io, ma se sono ancora tutto invelenito per causa dell’infeconda di te attesa, se sono ancora, ma se ti ho atteso per due ore e più, davanti alla fontana rossa, la fontana rossa, fa lei, ma quale fontana rossa, ma se mi hai detto ci vediamo alla tale ora davanti alla fontana blu, non sono mica cretina non sono, ah no faccio io, ma quale blu, era la rossa ti dico e ti ridico, ma ormai quel che è stato è stato, non stiamo a sottilizzare, insomma, per non farvela lunga c’era stato un equivoco, un malinteso, un qui pro quo e ciascheduno aveva atteso in un posto diverso, sì peccato dai non fa niente è andata così cosa vuoi non piangiamo sul latte versato, non buttiamo il bambino insieme con l’acqua sporca, restauriamo piuttosto questa nostra relazione che si è così consunta e logorata in un eterno gioco del dare e dell’avere, del concedersi e del sottrarsi, sì sì dice lei, sì anche tu mi manchi lo sai ma chissà che non sia troppo tardi dice lei, come troppo tardi dico io, sì troppo tardi, dice lei, vista la situazione nella quale mi trovo, come quale situazione, dico io, cosa intendi dire, e palpitar il cor mi sento. Vieni qui, dice lei per tutta risposta, vieni qui presto prima che. Prima che, cosa, mi allarmo io. Prima che, non so, mi sto per addormentare. Come, mi chiami e ti appelli a me solo per dirmi che vai a dormire, dico io poi capisco e le dico aspetta aspetta che arrivo aspetta solo mezz’ora. Riattacco il telefono e già sono fuori di casa, già sono in istrada e già corro alla stazione dei tassì, già sono nel tassì e dico all’autista di affrettarsi, di precipitarsi, di correre insomma e in meno di venti minuti mi trovo all’indirizzo richiesto. Salgo di corsa i sei piani, arrivo con l’affanno che si immagina davanti alla porta di Wilhelmine e sulla porta trovo appuntato un biglietto: stanca di attenderti, sono andata in un bar, in buona compagnia. Forse questo messaggio riguarda qualcun altro, l’ha dimenticato sulla porta, suono e risuono il campanello, non c’è risposta, non c’è movimento all’interno,  qui bisogna cervello adoprar, cosa far, introduciamoci nei luoghi. Vediamo se fra le mie chiavi c’è quella buona, sì c’è. La porta si apre, penetro nell’oscurità ambiente, mi avanzo nell’abitazione. Accendo le luci nelle stanze, in casa non c’è nessuno. In salone non mi avventuro, i dischi e le copertine di dischi tutti sparsi coprono il pavimento, coprono tutto, sarebbe difficile non calpestarli, ma che confusione, ma che disordine, e i posacenere pieni di cenere, e i piatti non sparecchiati, lasciati così sul tavolo con tutti gli avanzi dentro, vedo bene che due persone hanno qui desinato, ma quando, chissà. E nel bagno, tutta questa polvere sulle mensole, e la spazzola con le ciocche ammatassate, e l’accappatoio lasciato in terra, no non sarò io a mettere ordine qui dentro, e in cucina, il barattolo di minestra precotta, consumata a metà, lasciata sul tavolino a coprirsi di muffa, e i piatti nell’acquaio, staranno lì da un mese, ma cos’è questo io mi domando e dico, e in camera da letto, meglio non parlarne, meglio rispegnere le luci, uscire e chiudersi la porta dietro, dietro le spalle, e tornare nella città.

 

Qui la seconda parte

Litania dell’ignavo seconda parte

Torno a piedi in città, come ho già detto sono un buon camminatore, capace di percorrere molti chilometri uno dopo l’altro, capace di attraversare la città da un capo all’altro, città che piccola non è no. Torno a piedi in città e ci vuole il tempo che ci vuole, quando risalgo in casa saranno le quattro del mattino e le ho fatte o no le mie centoventi parole ieri, mi par di no, no. E così mi metto allo scrittoio e ci passo un paio di ore, finché i felini non si risvegliano e non iniziano a vagare per la casa e a chiedere da mangiare, venghino signori venghino apro per loro una diecina di scatolette, queste bestie mi costano quello che mi costano mi, ma per fortuna la mamma non aveva al mondo altri che me, e per maggior fortuna era una così accurata risparmiatrice e una sì accanita accumulatrice, come in parte ho riferito, e una così parca spenditrice, se si eccettua la sua passione per gli oggetti elettrici, di cui anche ho fatto menzione, che mi ha lasciato di che nutrire queste fiere per qualche decennio ancora, chissà se ci saremo ancora, e per massima fortuna aveva la mamma una tale avversione per banche e istituzioni pubbliche in generale che conservava in casa tutto il suo denaro, in ripostigli vari vecchie borse barattoli di zucchero doppi fondi materassi e chi più ne ha più ne metta.
Era proprio incredibile, la mamma. Cosa vuoi, era fatta così, quando si tagliava le unghie si vedeva che  ne gettava via i residui a malincuore, e li lasciava difatti sul comò per giorni e giorni, se mai le fosse venuta in mente una maniera di riutilizzarli. E poi, invece, e poi invece questa mania strana che la spingeva a comprarsi lo stuzzicadenti elettrico, quando di denti lei non aveva più da vent’anni, e non s’era certo permessa la spesa di una dentiera, sia pure di silicone, ma se gliel’avessi trovata elettrica, la dentiera, stai pur sicuro che quella se la sarebbe comprata. Cosa sarà stato, chissà, forse ciò che amava era il ronzio dei motorini, o l’aspetto clinico e igienico di quegli articoli, chissà, o sarà stato che il suo ultimo marito, che era impiegato alle poste e telecomunicazioni, le avrà sempre ripetuto che nell’elettricità stava il futuro, nell’elettricità ti dico, non so, chissà, io non l’ho mai conosciuto, lui.
Fatto sta. Fatto sta che. Cosa vuoi, siamo passeggeri, qui, siamo passeggeri di questo mondo. E la vita continua, su, scuotiti, lascia le tue fantasticherie, trattasi ora di uscire di casa, una volta compiute, certo, come dire, le operazioni mattinali. Scosto la tenda, dò uno sguardo fuori della finestra, lo dò per vedere che tempo fa, per vedere se prendere l’ombrello oppure no, ma la miseria, quello c’è già, quello col braccio al collo, ma quando glielo toglieranno quel benedetto gesso, chissà. Io non mento mai, non mento quasi mai, e vi dirò che quell’uomo mi rende nervoso, e me, per innervosirmi, ce ne vuole. Ma guarda chi esce dal cancello della casa popolare, guarda chi esce con il suo cagnolino, col suo cagnolino al guinzaglio, esce una certa donna, esce la donna della scala B interno 18, questa donna, come si dice, ancora giovane, ancora piacente, che è sempre vestita di nero, che mi aveva interessato una volta e poi, com’è stato, mi è passata di mente, ad altri fugaci incontri mi sono dedicato. Dove è che se ne andrà, se ne andrà di certo ai giardini pubblici, i bei giardini di questa bella città, è lì intorno che tanta gente porta a spasso i cani. Mi occorre un pretesto, mi occorre perché, se pur di vista ci si conosce, ciò non giustifica di per sé l’approccio. Un guinzaglio, dove è che l’ho visto in questa casa, in quale ripostiglio la mamma metteva i guinzagli, certo insieme con gli spaghi e i fili elettrici, per analogia formale, e difatti lì ne trovo uno, lo metto al collo di Felicita, che detto en passant sarà grossa il doppio del chihuahua della signora, ed esco con Felicita al guinzaglio.
Ecco la donna in cima alla via, ecco che costeggia i giardini, la seguo da lontano e quando mi pare che stia per tornare indietro mi fermo e mi appoggio alla cancellata, lascio Felicita vagare intorno a un albero, tenendola al guinzaglio, e quando il cagnolino arriva lì vicino, come no, inizia ad abbaiare e lei a soffiare e non si sa chi dei due ha più paura e chi meno, chi graffierà e chi morderà, c’è da tenerli fermi e sgridarli e così una parola tira l’altra, non so se rendo l’idea, e si fa la conversazione, e anche questa è fatta o quasi, basterà ripassare per di qui domani.
Prendo dunque congedo dalla donna, riporto a casa il gatto, torno nella strada, faccio due o tre acquisti ma poi non ho voglia di tornare su, compro il giornale, vado a sedermi in un caffè, ché non ho di meglio da fare, ma vediamo un poco la gazzetta. No, non faccio in tempo ad aprire il giornale, non faccio a tempo che carissimo signore mi interpella il mio vicino di tavolo, caro signore non pare anche a lei, che come vedo si mantiene informato e per ciò stesso prende una sua posizione propria nel mondo e nella nostra tormentata società, non pare anche a lei signore caro che qui si è passato il limite, il limite di cosa chiedo allo sconosciuto, ma come di cosa signore mio non vede che cosa succede non si rende conto, dove è che vive lei mi fa questo vicino occasionale, quest’uomo ben vestito e bene in carne, quest’uomo che soffre di pressione alta lo vedo con il mio occhio clinico io, non vede cosa accade insiste costui, tutte queste violenze, tutte queste intolleranze, beh sì dico io, ma non vede insiste lui che così non si può più andare avanti, non si è più padroni in casa propria, e tutti questi tartari, questi ugro-finnici ed altaici, non li vede, sono questi il pericolo, glielo dico io, questi, mica quegli altri, i nostri pellirossa, con quegli altri in fondo ci si può intendere, si può ragionare, ma con questi no, questi sono proprio un’altra amministrazione, un’altra lingua, cosa ne dice lei. Ma cosa vuole che le dica, non lo so, non so cosa dirle, e del resto questi discorsi non voglio sentirli, non voglio proprio ascoltarli e quindi la saluto caro signore, e ciò detto mi alzo ed esco, perché certi discorsi non si possono proprio sentire, non si possono.
Me ne vado, me ne vado a passeggio, cammino per un’ora, ma cosa succede, oggi non succede proprio niente, mi fa specie di questa città, mi fa, che cosa ci sono venuto a fare, allora, in questa città dove ne succede una ogni giorno. Ma no, ma sì, eccolo l’episodio, eccolo qui. Mi si accosta uno sul marciapiede, uno che viene dall’altra direzione, mi si accosta, mi ferma e mi fa buongiorno, come sta, bene dico io e lei, bene dice lui e, poi, non mi potrebbe dare del denaro, sa com’è, del denaro per pranzare, sa com’è, sto sempre a pensare pensare pensare e non ho tempo per lavorare. Male, dico io, male. Lei dovrebbe sapere che fa male il troppo pensare, e poi cosa è questo, cosa è ciò, questo fatto che non si lavora perché si ha da pensare, ah no, questa non me la faccia sentire, non me la faccia, e cosa dovrei dire io allora, crede che non potrei passare il tempo a pensare, se volessi, io che in fondo sono un ereditiere e non lo dico con superbia né con arroganza di tempo ne avrei a bizzeffe per non lavorare, e invece io lavoro invece di pensare, mentre lei, lei che è ancora giovane e in buona salute, a quanto pare, quanto è che avrà, neanche cinquant’anni, e le gambe le ha per camminare ed le braccia anche, ah se la mamma fosse viva si rivolterebbe nella tomba a vedere questo, e allora, cosa vuole che le dica, e così dicendo l’ho lasciato e mi sono allontanato, che neanche gli ho dato il tempo di rispondermi ma, certo gliene ho date di che pensare. Ma cosa credono questi che mi fermano così per la strada, questi che mi parlano nei bar, cosa credono, che io non abbia i miei pensieri? Non lo sanno forse quante ne ho viste di cose, come è che non vedono scritte nei miei occhi, incise sulla mia fronte, quante ne ho viste, quante ne ho passate, debbo forse mettermi un cartello al collo, debbo forse, debbo? Non so, ditemi voi, io non so.
Io non so, dovrò pur le mie pene consolar, non so, dovrò pure cercare consolazione. E l’occasione si presenta, nella via affollata, nella via trafficata che da un’ora percorro in su e in giù. Esce una signorina da un negozio, esce con un acquisto che ripone nella borsa, scende la via senza fretta, si vede che è contenta di stare nella via, lo si vede da come indugia davanti alle vetrine. Non è bella questo no ma non è questo il punto anzi, io le ragazze belle non le posso guardare non le posso vedere no, cosa vuoi mi fanno male mi fanno troppo dolor, è una vista quella che mi fa male al cuor, cosa ci posso far. Ma cosa è che guarda questa signorina, guarda le vetrine degli ottici, si interessa agli occhiali da sole, si ferma persino davanti al banchetto di un venditore ambulante, si fa dare uno specchietto e prova due o tre modelli ma non è mai contenta, posa lo specchietto, ringrazia e prosegue, va oltre e io, che sono uomo di mille risorse, ho una bella idea, non ho che da sfilarmi i miei, di occhiali da sole, che sono di buona marca e di bella fattura, tanto che la signorina non potrà non apprezzarli, ed è così che, quando la vedo attardarsi davanti a una nuova vetrina, mi avvicino e le porgo i miei occhiali, glieli porgo con un bel sorriso e lei è invece si direbbe come spaventata, prenda questi le dico con bella galanteria, senza dubbio le doneranno, ma come reagisce la signorina, non reagisce bene, ma cosa vuole mi dice mi lasci in pace, e mi scarta e se ne va ma cosa le ha preso, non capisco, non vedeva sul mio viso l’immagine stessa della buona intenzione, ma che dico, della mancanza d’intenzione, non vedeva come fosse la mancanza di intenzione stessa che si faceva incontro a lei, che a lei si offriva e che lei, ignara e ingrata, ha disdegnato, tanto peggio per lei, se è così allora me ne vado vado oltre e altrove e così è.
Così è, e dove mi dirigo, non so. Vado ai giardini pubblici, non so, qualcosa vi potrebbe accadere, qualche incontro forse, non so. D’altro canto, sento già la nostalgia delle mie centoventi parole, e i gatti, chissà cosa staranno facendo, e se Wilhelmine  telefonasse? Forse torno a casa sì, forse ripasso per casa, anzi ci vado davvero, ma giunto che lì sono, i gatti se ne stanno tranquilli sulle poltrone e sui divani, i quattro neonati dormono nella loro scatola, Esterina se ne sta sul davanzale a spiare i piccioni, cosa fare, ciondolo da una stanza all’altra, mi metto allo scrittoio ma sono svogliato, vado alla finestra c’è sempre l’uomo col braccio al collo, vado in cucina a bere un bicchier d’acqua, i gatti mi seguono e già rivogliono mangiare, apro per loro qualche scatoletta ed è inutile dire che il telefono intanto non ha squillato. Ma cosa succede fuori nella via, cosa sono questi cozzi, queste urla, vado alla finestra, scosto la tenda, ah sono sempre le solite storie, questi che si picchiano, che si prendono a pugni e chissà perché poi, questi qui fra di loro non si distinguono, non hanno neanche le magliette di colore diverso, si prendono a calci e a pugni, c’è uno cui è caduto tutto in terra, borsello, occhiali da sole, portafogli, e un altro sta piegato in due, si tiene la pancia con le mani, e poi una delle due squadre si sgancia corre via e fugge e quegli altri dietro, strillando acchiappali acchiappali e indicandoli col dito ai passanti che non è che si muovano più di tanto, si sente poi uno sbattere di portiere, uno stridio di gomme e come no, uno sgasare di motore, sono quelli della prima squadra che se ne vanno via e quelli dell’altra, cosa vuoi che facciano, si guardano intorno, ma loro la macchina non l’hanno, rimangono a fissare nostalgici il fondo della via, dove i fuggitivi sono scomparsi, casomai il tempo tornasse indietro e quegli altri con quello. Riaccosto bene la tenda, me ne torno in cucina, mi apro una scatoletta, ma cosa pensate, una scatoletta di tonno mi apro, dio mio che cosa ci tocca vedere, dio mio quante ne ho viste, quante ne hanno viste i miei poveri occhi, non lo sa questo forse Wilhelmine, sì o no, eppure dovrebbe saperlo dovrebbe, non è da poco che mi frequenta, e quello nella via, quello che era triste perché pensava sempre e non aveva il tempo per lavorare, ora che ci penso ci ripenso sono forse stato un poco scortese un poco brusco e spiccio, l’ho congedato, se non erro, con una certa freddezza ed alterigia, spero che non me ne vorrà, non me ne, e non serberà di me cattivo ricordo, il quale ancor più triste renderlo potrebbe.
E ciò detto detto ciò me ne esco, non ho ragione di restare in casa, metto in atto appena una veloce toletta ed esco, ché lo so che Wilhelmine più non chiamerà, lo so perché lo sento, me lo sento, lo sento e lo so che non chiamerà, e non vorrà certo che lo faccia io, chiamare dico, ah no, questo no, che non sia mai, ed è così che prendo, prendo ed esco, riesco di nuovo. Del resto fra non molto avrò appuntamento, cosa si crede qui, che io non abbia niente di meglio da fare, che io non abbia?
Ed è così che, è così che me ne esco, ché ho da far passare tre o quattro ore, e vedrai che passeranno, perché a questo mondo tutto passa e, per ben principiare questa nuova passeggiata,  la propizio con un obolo a questo mendicante, a questo ubriacone, a questo pezzente, capita bene costui, che se ne sta steso contro il muro del palazzo e tiene un barattolo vuoto posato vicino, vicino alla bottiglia, gliela faccio l’elemosina, perché ai segni io sto attento e questo povero con il suo bussolotto sta lì proprio a dire che delle buone azioni un giorno, forse anche oggi stesso, ci sarà reso merito. E poi, umana cosa è l’avere compassione degli afflitti, e non mi si potrà qui ridire, non si potrà certo dire che, che io compassionevole non sono.
Ah questo non sia mai, questo non sia mai detto né soprattutto ridetto, ah no non vi sarà facile trovare macchia o fallo che dir si voglia nel mio comportamento, non lo vedete quanta cura ci metto, non lo si vede come levigato sia tutto il mio agire e come nulla al caso sia lasciato? E così è, non faccio qui questione di principi, trattasi qui di gentilezza e di compassione, trattasi di semplici e schiette qualità umane, e ne ho da vendere, io, dell’una e dell’altra, che mi trovi a praticare gli umani e che gli animali, quando trattisi degli uni e quando degli altri. E, d’altronde, non stanno forse scritte anche per strada, talune di queste qualità umani ed animali, sotto forma di raccomandazioni, a cura della nostra benemerita Amministrazione comunale?
Ma torniamo alla nostra passeggiata, torniamo alle sirene, alle sirene della polizia delle ambulanze dei pompieri, ma cos’è che succede, che cosa accade, ma io sto lì nel crocchio come lui, non lo vede questo, questo signore, che lo riconosco è quello del bar, non lo vede questo signore, perché allora lo chiede proprio a me? Non so arrivo adesso anch’io gli dico e lo metto a posto, ché d’altronde come vede, se gli occhi ce li ha, e non dico se ce li ha buoni, dico solo se gli occhi li ha anche lui, e mi pare che per averli li abbia, lo vede bene che portano qualcuno fuori da un portone, lo portano fuori in mezzo a due poliziotti, i quali sulla soglia lo trattengono costui un attimo perché, non si sa, né si sa chi si sia colui, fatto è che la folla antistante deve essere grata dello spettacolo perché si mette ad applaudire, cosa avrà da applaudire non si sa, ma per non essere da meno applaudo anch’io, non si sa perché non si sa, vedremo poi sui giornali, per l’intanto applaudo anch’io poi vedremo, una cosa alla volta per favore, e il signore di prima mi domanda che cosa succede, ma non lo vede da lei stesso gli dico, orsù un bell’applauso ed è tutto finito, su partecipi anche lei da bravo, faccia il bravo e ci faccia vedere che lei non è proprio l’ultima ruota del carro. Ma quale carro e carro fa quello, ma quale ruota dei miei stivali, fa lui e dice, fa un gesto con la mano e se ne va. D’altro canto neanch’io ho tempo da perdere, tempo da perdere non ne ho e mi stacco dall’assembramento che del resto già si disfa di per sé stesso.
Cammino verso il parco delle attrazioni, senza fretta né flemma, come un onesto cittadino, come una persona che si rispetti, e tutto quello che faccio è procedere in una determinata direzione e così è, ma direi a un certo punto che qualcuno mi segue, è dapprima, come dire, un’impressione, ho insomma la sensazione vaga che qualcuno mi segua, e in fin dei conti dirò che sono seguito, che qualcuno mi segue nella pubblica via. Prendo per una strada laterale dove non passa nessuno, dopo cento metri mi volto, non vedo nessuno. Mi sarò sbagliato, chissà. Ah no, viene un uomo in camicia bianca, si direbbe proprio il signore di prima, sarà lui, chissà, entro in un provvidenziale androne, mi nascondo dietro un bidone della spazzatura, ecco che costui passa e va oltre, chissà se mi seguiva davvero, riesco, sguincio per una viuzza e mi allontano a passi grandi e poi non resisto più e mi metto a correre.
E vengo alla mia nuova conquista, alla signorina Rachel con cui ho appuntamento, che incontro davanti al parco delle attrazioni che volete ci sono affezionato a questo posto, all’ora convenuta, c’è da dire anzi per la precisione che entrambi ci trovavamo sul posto con lieve anticipo, cinque minuti circa, e queste sì sono le cose sono le persone che danno soddisfazione nella vita, queste qui, non queste Wilhelmine che sembra lo facciano apposta a farti attendere, e difatti con la mia Rachel mettiamo in essere uno scambio di idee su questo fatto questo della puntualità, cui teniamo tanto io quanto quanto lei, ah questo è parlare! ah questo è dire! ah finalmente una persona precisa educata e ammodo, ah finalmente, ma sì certo signorina cara le dico, dacché tutto segno è, la puntualità è segno di correttezza e di rispetto per l’altro, non mi dica caro signore, fa lei, lei sfonda una porta già aperta, non potrei essere più d’accordo, non potrei, ah non vi dico come questa parola questo parlare mi ha non so mi ha davvero toccato il cuore mi ha proprio mandato alle stelle, perché non è tanto qui questione di buona educazione, quella non ci vuole tanto ad averla, non si penserà certo che io non conosca l’arte di vivere, non si penserà  che io mi metta le dita in mezzo ai denti dopo che ho ben mangiato o, le stesse dita, dentro il naso in un momento di inoperosità, anche se nessuno sta lì a guardare, non si penserà certo ciò di me? Non si penserà certo che, quando sono solo, non visto da nessuno, io possa infrangere le regole e mettermi, detto brutalmente, le dita nel naso? Ah, no, qui sta il bello, il bello sta nel fatto che anche e specialmente quando si è soli e non visti una certa forma una certa etichetta vanno mantenute, come se per l’appunto avessimo indosso gli occhi di qualcuno, e questo spiegavo appunto alla signorina Rachel, e su questo la signorina che – detto per inciso – non è pasticciera né sartina ma anzi studentessa, studentessa fuori sede come si dice, e quindi in fondo straniera come me in questa città dove meno la mia vita, e su di questo, dicevo, la signorina, dicevo, è su questo perfettamente d’accordo. con me, e così è.
Così è che ce ne andiamo a passeggio nel parco delle attrazioni e così ridendo e scherzando ce ne andiamo a passeggio per il parco delle attrazioni, leccando in santa pace i nostri gelati, il mio al gusto di limone, il suo ai gusti di crema e di cioccolato, gelati che ho offerto io, senza mancare di dire tenga pure il resto signorina alla gelataia che più signora era che signorina ma, che volete, queste sono le piccole generosità della galanteria, sì.
C’è poi, per farla corta e per farla breve, da andare al cinema, c’è da scegliere lo spettacolo e la sala, assistere alla proiezione della pellicola e così è così non è, ci sediamo poi in un caffè e non dico che non la si passi un’ora piacevole ma insomma quando è che veniamo al dunque, al dunque veniamo e al momento in cui passo a prendere informazioni sulle sue di lei abitudini di vita e di alloggio e, entrino signori entrino, venghino signori venghino, venghino pure che a questo giuoco non c’è nessun perdente, che qui nessuno perde, mi seguino e sentino come la signorina abiti da sola in una stanzuccia mansardata, una stanzetta insomma niente di ché, ah ma perché non me la mostra la sua bella stanzuccina, perché non mi ci porta sicché la veda e l’ammiri, ecco ma veramente dice lei sa com’è, mi dica mi dica, ecco un’altra volta forse è meglio, ma cosa mi dice mai non penserà mica male di me cara signorina, ah no dio me ne scampi e liberi caro signore, solo che solo che, ecco non so, solo che. Solo che, ecco, non so, solo che, sa com’è, ci conosciamo appena e già lei vuole salire nella mia stanza, non so a dirla tutta non so se posso fidarmi delle sue buone intenzioni. Mia cara signorina mi fa specie di lei mi fa, la credevo un tipo sagace e sensibile, e dire che mi pareva una persona così a modo, ma per chi dunque mi ha preso mi ha, ma cosa ne sa lei cosa ne sa, ma se fanno sette anni sette che vivo in assoluta continenza e castità, se non le pare questo un buon sigillo di garanzia non so, ha forse bisogno di una dichiarazione in carta da bollo? Quello che io penso caro signore, quello che penso io signore caro, è che lei con tutte le sue manfrine le sue moine le sue smancerie ad altro non mira se non alla mia carne, signore caro. Che non l’avesse mai detto, ah, che questo non l’avesse mai detto mai, ché piombo allora nel grande silenzio terribile e di piombo io, non posso più dire parola, povero me incompreso e reietto dal mondo tutto, e non lo vede ora la signorina come io sia diventato muto che non dico, non lo vede come fissi disperato e duro come pietra un qualche punto lontano di qui lontano da questo mondo, vicino alla gamba di un tavolino laggiù? E la faccia finita, caro signore, dice lei infine, la faccia finita e mi dica un poco, piuttosto, mi dica piuttosto, ché l’ascolto, mi dica, ché un paio di orecchie le ha trovate, sù, mi dica le sue sofferenze e le sue tribolazioni. No non posso no. Sù mi dica sù. No non posso no. Sù. No. No e poi no, no e no, no. E davanti a questa muraglia umana di reticenza ed omertà cosa vuoi che la signorina faccia, la signorina s’alza e se ne va senza neanche dire arrivederci e grazie, se ne va ex abrupto così.
Ma sì, è meglio così, è stato meglio così, non eravamo fatti per intenderci, non eravamo io e quella lì. Ma lo stesso lo confesso sono abbattuto colpito e avvilito, ora me ne torno a casa, me ne torno a casa e ai vocabolari, me ne torno dai miei gatti, quelli loro non mi deludono loro no, me ne torno a casa oppure no, perché rimane la signora di prima, la signora della scala B interno 18, la signora che vive sola nel palazzo di fronte a casa mia, ma sì, vado, entro nel palazzo, salgo le scale mi fermo davanti alla porta numero 18 no non ho coraggio mi manca il coraggio e una buona scusa, me ne torno a casa, non mi resta che tornare.
Non so, me ne torno eppure non mi sento contento, non mi sento bene con me stesso ecco, sono roso da un sentimento di inadempienza frustrazione e scontentezza, da questa malinconia propria al lavoratore che non ha potuto condurre a termine la sua onesta giornata ma che vuoi, non tutte le ciambelle vengono col buco, pazienza.
Sono in casa alla fin fine e sto allo scrittoio ma diciamocela tutta non è che proceda non è che avanzi con lena e con ardore, non sto che a gyenge e ai suoi suffissi e prefissi, annessi e connessi, e la lettera h non è molto più vicina di ieri ma, cosa dire, in questi giorni sono svagato, distratto, confuso, e poi, devo dire la verità, sono, non so, svagato, sono distratto e confuso e sì lo so perché: sono le donne che mi rovinano, me.
E se sono le donne che mi rovinano, ebbene sia, andiamo loro incontro lieti e giulivi, facciamo una rapida toletta, riavviamoci la capigliatura, annodiamoci al collo una bella cravatta, che nodo ci facciamo fare stasera vediamo vediamo un pò, forse il numero dodici “alla francese” dice il libretto d’istruzioni dell’annodatrice, sì, questo ci sta bene con la camicia a quadri, poi scegliamo una giacca leggera, scura ma non blu, ché ho i pantaloni marroni e non sia mai che accosti questi due colori, non sono mica un pacchiano, io, e quando siamo pronti usciamo e facciamoci portare da un tassì in un bar notturno, entriamo in questo bar che conosciamo, che frequentavamo in gioventù e fino all’altro ieri, entriamo in questo buon bar, come ai vecchi tempi, sistemiamoci a uno sgabello appartato, poggiamo i gomiti sul bancone, ordiniamo una bibita analcolica, rimaniamo nella penombra e guardiamoci intorno, guardiamo all’intorno nella sala affollata oscura e piena di fumo, chi c’è chi non c’è e guarda chi c’è avrei dovuto aspettarmelo c’è Wilhelmine, Wilhelmine c’è e non è sola, c’è Wilhelmine ed è con un uomo, danza con un uomo e con quale lascivia e con quale lussuria e con che trasporto e con che partecipazione, ah gliel’ho sempre detto che, gliel’ho detto sempre che lei si perderà a forza di perdersi così come si perde, gliel’ho sempre detto, e mostrasse almeno un pò di ironia non so, un qualche distacco, una qualche distanza, no, guarda lì, come gli tiene la mano, come gli intreccia le dita, guarda come se le streccia e se le intreccia le dita, quelle stesse dita che pur mi hanno toccato se non ricordo male, e guarda qui, come si lascia carezzare la schiena e finanche il fondoschiena, ah maledetta, e guarda qui come lo guarda negli occhi, il bel forestiere.
Finisce il ballo infine, se ne tornano al tavolino, lui si allontana, lei rimane sola, osserva la gente, ora mi vedrà, mi metto di profilo, e chi l’ha vista, quella, ma lo vedo che mi vede, lo sento che si alza e viene da me e mi staziona innanzi senza parola, ah sempre questa ricerca di effetto, ma io la guardo con ancor meno parola, e con un sorrisetto indosso ancor meno significante del suo, passa così quanto tempo non so, forse un minuto, alla fine è lei che parla, mi chiede se può interrompere i miei pensieri, come no le dico, e ciao cuore, inizia a raccontarmi una storia salvo ognuno ma cosa vuole che me ne importi cosa vuole che mi interessi ma l’ascolto ugualmente con pazienza tolleranza e comprensione, insomma la storia è che ha incontrato quest’uomo questo giovane a un angolo di via, che chiedeva informazione, e così spaesato lo ha trovato che ha pensato bene di portarlo a casa e anche al bar, è studente di fisica sai e ha fatto anche il saltatore con l’asta, interessante dico io, cosa vuoi che dica, certo, le faccio notare, si assomigliano tutte queste tue conquiste, questi bellimbusti dai denti sani, ah dici fa lei, così mi pare almeno dico io ma non stiamo a sottilizzare, queste discussioni non mi interessano lasciamo stare, ma no ma no hai ragione dice lei non ci avevo mai pensato forse è così davvero, e a dire il vero provo allo stesso tempo una immensa ammirazione e un immenso disprezzo per questi begli oggetti, per queste belle cose piene di forza e piene di salute, ma ciononostante sai com’è, per me l’anima è sempre stata la più importante, sempre l’anima è per me stata la più importante. Tu qui mi forzi la mano, le dico, e mi costringi a dire che anche l’anima ha un suo corpo, ha e, e vuoi mettere, vuoi mettere o no? Qui lei mi interrompe e non mi fa continuare, non mi fa proseguire perché mi chiede e tu, dimmi di te piuttosto, cosa fai, studi sempre l’urdu? E’ un punto sensibile, questo su cui Wilhelmine mi tocca e lo sa, certo che lo sa, lo sa bene che io non ho altro che questo, non ho altro che i miei vocabolari e i miei gatti, è tutto ciò che ho, d’estate e d’inverno, è tutto ciò che ho e non faccio per dire e no le dico, sei rimasta non aggiornata, mi sei rimasta all’urdu, intanto io sono già in Europa, sono tornato all’Europa, allo studio del magiaro attendo adesso. Il magiaro ma cosa mi dici mai, fa lei, hai per caso incontrato un’ungherese, suvvia Wilhelmine sii seria, cerca di fare mente locale, cerca di fare il punto, possibile che non ricordi mai ciò che ti dico, possibile che io parli sempre a vuoto sempre invano, ti avevo ben detto oppure no che tornavo in Europa, sì o no, te l’avevo detto, sì o no?

E su questo viene il suo ganzo il suo cicisbeo il suo centometrista, viene con un bel sorriso aperto e amico, cosa vuoi che ne sappia, quello, cosa vuoi, viene e dice allò e poggia la mano sulla spalla di Wilhelmine e gliela tiene sulla nuca come se gli appartenesse, la nuca e Wilhelmine con quella, ma che modo di fare è questo io non so e qui non ci vedo più, più non ci vedo e non più non posso controllarmi eppure mi controllo e pensare, cara mia, le dico, e pensare che ti ho tolta dalla strada, ah non ricominciare adesso con le tue frasi fatte, con le tue recriminazioni, ribatte lei, cosa c’entra questo adesso, non gli è che sarai geloso per caso, non sarà questo, eppure sai che io sono fedele, te l’ho detto perfino davanti al vicesindaco, ah, a proposito, non dovevamo divorziare? Ma come, mi picco io, se eri tu che non volevi! Ah, sì, beh ora ho cambiato idea, fa lei ma già il suo amico, che a non capirci s’annoia e s’impazienta, se la porta via tra il lusco e il brusco e lei lo segue e, d’altronde, chi non seguirebbe, lei?
E io cosa faccio, cosa faccio adesso, cosa fare non so. Le mie parole, torniamo presto alle mie parole, veniamocene al vocabolario e non pensiamoci più, ché gli imperscrutabili linguaggi delle donne io non li comprendo, ma le parole quelle invece sì. E me ne sto sulle mie parole da neanche tre quarti d’ora quando suona il telefono, suona il telefono e c’è Wilhelmine, che ha lasciato il suo mezzofondista norvegese, che è sola in casa, ma non ti ho chiesto niente le dico io, ti ho forse chiesto qualcosa, no non mi pare no, non voglio proprio sapere con che sei o con chi non sei, non mi interessa davvero, cosa vuoi che mi interessi, lei neanche mi risponde, si mette invece a raccontarmi cosa vede dalla finestra, come se non lo sappia cosa c’è fuori della sua finestra, alle quattro del mattino mi telefona per raccontarmi cos’è che vede fuori della finestra cosa vuoi che veda vede un muro, vede un muro di pietra e un albero, c’è un poco di brezza e le foglie si agitano, frusciano e un’ombra si muove fra i rami, ma io so bene che dalla sua finestra non si vede nessun albero, e non c’è un filo di vento stanotte, stanotte non c’è un soffio né un fiato, l’aria si è fatta solida intorno a noi e non possiamo più muoverci anche volendo e lo dico a Wilhelmine, su Wilhelmine basta giocare basta scherzare con la vita, vieni qui piuttosto vieni ti pago il tassì vieni cara vieni zucchero mio di papà vieni non rispondermi col silenzio non stare nel silenzio vieni, vieni qui, ché sono così debole così stanco, sai, vieni che muoio senza te, non lasciarmi morire che senza te muoio lo sai, e morirò se non vieni morirò, e lei dice aspetta e si sente che parla con qualcuno e io riattacco il telefono e stacco la presa e questo è tutto per stanotte perché passa un’ora e viene l’aurora ed è già mattino.
E’ già mattino e squilla il campanello della porta chi sarà, mi alzo dal divano dove giacevo prostrato e mi trascino alla porta guardo dall’occhio di vetro e chi è chi non è che indugia sul pianerottolo, è Wilhelmine è, mi addrizzo mi dò un contegno e apro la porta, le faccio segno di entrare, lei fa un passo in avanti e subitamente ha un moto di repulsione, dio mio che puzzo dio mio che tanfo dio che lezzo immondo ma come fai a stare qui dentro si esclama, ma quale puzzo dico io non sento niente, ma malgrado ciò che dico lei si avanza e districa fra i gatti che curiosi la circondano e corre alla finestra scosta la tenda e orrore spalanca i vetri, non l’avesse mai fatto divento furioso ma cos’è questo modo di fare questo modo di agire le urlo dietro, questa intromissione questa interferenza che cos’è questo cos’è ciò io domando e dico ma non lo sai da quanto tempo questa finestra è chiusa è chiusa da quando la mamma, ma quale mamma e mamma falla finita mi interrompe lei, senza pietà e senza misericordia, ma non lo senti che non si respira, ma come fai a stare in questo tanfo, in questo puzzo immondo, si accanisce lei e io qui non posso resistere e va bene d’accordo attenersi alla massima discrezione al più impeccabile codice di condotta del mondo e a tutte le buone maniere del galateo universale, ma quando ci vuole ci vuole e qui ci vuole, le dico allora ma cosa credi ma cosa pensi non sei certo migliore di me tu non hai visto in che stato hai ridotto casa tua che poi è un poco mia, tutta quella feccia sui pavimenti, tutta quella muffa nel frigorifero, non sei certo più pulita più ordinata più a posto di me non sei, ma cosa ne sai tu mi fa lei cosa ne sai, poi ripensa e dice ah ma allora mi sei entrato in casa è così nevvero in casa mi sei entrato a mia insaputa come un ladro così è stato non è vero e quando è stato ah cane bugiardo e rognoso, sei un degno figlio di tua madre, chiunque ella fosse, e su questa affermazione mi si getta contro e cosa vuoi, se mi si tocca la mamma io non ragiono più, tutto mi puoi toccare ma la mamma quella no, mi viene il sangue agli occhi mi viene, e comunque quella mi si è gettata contro e cosa fare, dovrò ben difendermi o no, quella già mi cerca gli occhi con le unghie quella già mi pianta un ginocchio nelle parti basse, quella già mi morde il naso e quasi me lo stacca me lo, dovrò ben difendermi e lei è così asciutta e muscoluta, tiene queste braccia così dure che non riesco a tenere ferme e, cosa vuoi, prima che sia troppo tardi, prima che io stesso non venga sopraffatto, con il pregiudizio che si immagina, per l’immagine di me stesso che posso conservare, ora e negli anni a venire, per tutto ciò, prima che sia troppo tardi, le dò un bel pugno forte alla radice del naso e poi anche un altro perché quella non molla non cade non crolla come ci si potrebbe attendere anzi, qui non si scherza questa è una vera lotta per la vita e per la morte questa, e infine a forza di pugni alla radice del naso lei mi crolla, mi crolla a terra e mi rimane immobile in posizione orizzontale e a questa vista cosa vuoi, il sangue non è birra, l’uomo è fatto di carne e di sangue, cosa vuoi, lei mi sta lì così in quella posizione orizzontale e scomposta e non escludo che in questo suo stare, in questo suo essere-qui, in questa specie di apertura a ciò che è aperto non sia in atto, come dire, una sorta di seconda intenzione, magari inconscia o subconscia come vuoi, fatto è che, cosa volete, con tutto questo giacere, questo disordine delle vesti, cercate di capire, con quest’offerta, questa disponibilità, cosa dovevo fare, dovevo ben rispondere, non sarò certo un ignavo no, non sarò certo altezzoso e impassibile no, debbo pur essere con, debbo pur andare incontro, debbo pure andare verso, verso la gente e verso gli umani come me, debbo pure incontrarlo l’altro oppure no ed è così è così che su questo atto si faccia dissolvenza.
Ma Wilhelmine cosa fa non reagisce e d’accordo questo è anche logico lo posso capire con tutto questo trambusto quest’emozione questo scombussolio ma questa immobilità questa no non la capisco che cos’è che cos’è ciò cos’è no non farmi ciò non farmi questo non ci vuole  no proprio stamattina poi fammi prendere dell’acqua fammi spruzzarle il viso rovesciarle il bicchiere sulla faccia niente non serve a niente non si muove non reagisce non risponde cosa faccio adesso davvero non lo so veramente oh non è così che doveva andare oh non è questo che volevo no o dio o dio o dio che cosa ho fatto che cosa è capitato che cosa faccio adesso che cosa, intanto richiudo la finestra ecco adesso ragioniamo riflettiamo, non divaghiamo, veniamo al dunque, veniamo a Wilhelmine, veniamo a questa cosa che già non ha più nome, ragioniamo con calma, pensiamo che nessuno sa niente nessuno ha visto niente e siamo solo io e lei, che è solo una cosa ormai, qui in questa casa, io lei e i gatti, queste belve feroci, sempre affamate, che indifferenti ai miei guai e ai miei dispiaceri già reclamano da mangiare, con disperati reiterati lamenti, come ogni mattina, e che mi fanno venire in mente qualcosa di abnorme qualcosa di mostruoso, pensiamoci sopra, pensiamo che trenta gatti a digiuno, a duecentocinquanta grammi al giorno ciascheduno, no, non va, ci vorrebbero almeno quindici giorni, ma non mi fanno pensare questi qui, non mi fanno ragionare, perché non tacciono, perché non mi lasciano in pace, neanche c’è più niente da mangiare, a parte Wilhelmine, non ci sono più scatolette dovrò scendere a comprarle, i soldi dove sono ecco e le chiavi, non fosse che uscissi e non potessi più rientrare, ecco le chiavi esco e mi chiudo ben bene la porta alle spalle, mi chiudo me la chiudo e sono nella strada sono nella via affollata ecco ma cos’è questo cos’è non so, sono sempre stupito davanti alla vita io, sono come un eterno bambino, sono io, che sempre sono davanti al mondo come in uno stupore, come.

Manuale dell’accidioso (1992) prima parte

Un capriccio

Faccio il cieco. Sai cosa ti dico, oggi faccio il cieco. Metto gli occhiali affumicati da saldatore, ritrovo nel ripostiglio la canna che ho dipinto di bianco, infilo un impermeabile liso e impataccato, mi calco sulla fronte un cappelluccio di lana col pon pon, vado e mi apposto al semaforo sul viale, e ce ne sarà uno che si fermerà, sì uno ce n’è sempre, un signore premuroso o meglio ancora una cortese signorina la si trova sempre che si senta in dovere di aiutare il povero cieco ad attraversare la strada, in mezzo a tutti quelli che passano e vanno oltre, non che non lo vedano no, gli altri, il cieco, ma non lo vogliono importunare con una indiscreta attenzione, questo è, e hanno il tatto di lasciargli tutta la sua autonomia, al povero invalido, che la strada di casa certo la conosce, non vorrà mica andarsene a passeggio così, il povero cieco, senza scopo né ragione, sarà certo a casa che se ne torna, e la strada di casa vuoi che non la conosca, pensa a tutte le volte che avrà contato i passi, pensa alle volte che avrà calcolato e previsto ogni singolo ostacolo ogni asperità e accidente del terreno da attraversare, di qui a lì e di lì a qui, pensa che ti pensa è perciò che sto da dieci minuti davanti alle strisce e non c’è un uomo pietoso che si fermi né una compassionevole signora, ah ma che mondo è mai questo, questo qui, che mondo è mai questo, questo qui io domando e dico ma che mondo è, che mondo è questo, questo qui?
Ma no, lo vedi che sei ingiusto con il mondo, lo vedi che eccone lì uno, eccolo lì un baldo giovanotto, che esita e temporeggia dall’altra parte della strada, mi osserva ed è indeciso, non sa se continuare per i fatti suoi oppure no, fa due passi e torna indietro, sì lo so lo capisco è seccante è imbarazzante per davvero mostrarsi ai passanti questi sconosciuti nei propri lati deboli e pietosi, lo so non sei mica il buon samaritano ragazzo mio, ma io di qui non mi muovo e la via non la traverso certo da solo e, ti vedo infine che cedi e vieni a me  e, me la metti la manina sotto il gomito e, mi ci conduci in salvo sul marciapiede opposto e, quando già ti senti in salvo e già con la mente e col pensiero voli alle belle cose che ti aspettano, ah, proprio allora proprio quando vuoi congedarti e proprio per cortesia mi chiedi se vado lontano, proprio allora oh no questa non ci voleva proprio ti devi sentir dire che sono per l’appunto uscito a passeggio e che sì davvero veramente la gradisco la tua compagnia porcaccia la miseria questa non ci voleva proprio ma guarda tu proprio a me doveva capitare questo qui me la devo portare a spasso questa piattola e proprio qui dove tutti mi conoscono, e così ce ne andiamo sottobraccio per la via come due vecchi amici, e la gente sì che ci guarda, ah se la gente guarda questa coppia singolare, questo bel giovane elegante e davvero perlaquale e quel povero straccione invalido, il quale struscia i piedi e avanza così piano, ma così piano, e vuole che l’altro gli racconti che cosa c’è a destra e che cosa a sinistra, come se non lo vedessi da me stesso, come se non lo vedessi da me, quello che c’è a destra e quello che c’è a sinistra, ma che vuoi ne ho ben il diritto anch’io, anch’io ho diritto oppure no, ce l’ho anch’io oppure no non ce l’ho, ce l’ho il diritto anch’io alla mia razione settimanale di calore umano, sì ce l’ho ve lo dico io ce l’ho, e alla resa dei conti ce l’ho avuta anch’io sì, un qualcuno che mi ha parlato per mezz’ora c’è stato sì anche per me, e questo scambio questo contatto benedetto lo si è praticato sì, oh, e allora.
E allora, e allora mi faccio deporre davanti a un qualsivoglia portone qualunque, e dico a costui dico a questo bel giovane gli dico mi lasci pure qui bel giovane, gli dico che questa è casa mia e lo congedo, ed eccolo già lo vedo con gli occhi del pensiero lo vedo che già se ne corre via, leggero come un uccellino se ne corre via, lui, e quanto a me, quanto a me, non mi rimane che infilarmi gli occhiali scuri in tasca, nascondere la canna bianca sotto l’impermeabile e tornare alla roulotte.
Eh sì, queste sono le cose che nella vita fanno piacere, questi radi incontri occasionali che sono il sale della vita, oppure queste sane abitudini come, ad esempio, quando te ne torni al calduccio nel tuo bravo posticino e ti spogli e ti adagi nella tua cuccettina e ti prepari a un meritato sonnellino e, sai com’è, con gesto automatico e direi quasi non so ti gratti fra le cosce e ti passi la mano destra sul tondo ventre e il dito medio esplora la cavità dell’ombelico e rinviene quel batuffolino formatosi con lo sfregamento della canottiera invernale, formatosi per l’esattezza con lo strofinio del tessuto lanoso sulla superficie cutanea, così come le alghe del Mediterraneo, battute e ribattute sull’ospite battigia, si trasformano nelle graziose sfere vegetali che tutti conosciamo, e quando il dito mignolo della mano destra con abile movimento d’uncino estrae e porta alla luce la cosina lanosa e grigiastra, ed ecco, ecco, non so perché ma in quei momenti mi si apre il core, non so perché ma è perché senti in modo confuso che questo è uno dei piccoli piaceri della vita, che dirti, sarà che la vita non ne dà poi tanti, di piaceri, a voler essere davvero sinceri, ma se volete saperlo ebbene questo ne è uno.
Sì, non si può negare, no non si può, questo no, no non si può negare no che questo è un bel momentino, quando ti infili come un baco nel suo bozzolo, come una salsiccia nella sua pelle, come un uomo nel suo sacco a pelo conservato dai tempi del servizio militare, e tiri la chiusura lampo, a lasciare fuori solo le braccia, che sistemi sotto la nuca, a comporre il corpo tutto in questa posizione tipica del sognatore, no non si può negare no che questo è un bel momentino e perciò lo consiglio specialmente, questo giaciglio, o brandina, o scendiletto o, sia pure, materassino di gomma, materasso ad acqua, materassa di lana, di crine, con le molle o senza, saccone di foglie, di capecchio, pancaccio, letto di assi o semplice lettiera, insomma sia dove sia distendersi una buona volta in posizione supina; porre entrambi gli avambracci al disotto della nuca; lasciar vagare lo sguardo  sulle macchie di umido del soffitto imbiancato a calce (avete voluto risparmiare sul materiale, bel risultato, adesso ve lo tenete), sulle travature ripassate col mordente del soggiorno rustico, sugli affreschi cortigiani della dimora principesca, sull’impiallacciatura del controsoffitto spagnolesco, sulla controsoffittatura di canne sfondata dal terremoto dell’ottanta e mai riparata, sull’intreccio di strame della capanna bantù, sull’assito di abete della baita alpina, sulla lamiera ondulata della baracca carioca, sulla rastrematura pietrosa del trullo salentino, sul foro di aerazione del wigwam algonchino, sul tetto di plastica della roulotte nostrale; lasciar vagare lo sguardo su tutto ciò e lasciar correre il pensiero ai tempi andati e a quelli a venire. Vedrete, l’effetto è sicuro e lo consiglio a tutti, a grandi e piccini, sarete come nuovi ve lo dice zio, sarete come prima e come dopo la cura, ma a me, questa cura benedetta, quando è che farà effetto, me lo vuole dire o no, dove è che andiamo a forza di guardare il soffitto e di ripensare, lontano non andiamo no, ah se penso se ripenso che le leggevo Kierkegaard in danese, seduto sul bordo della vasca da bagno, mentre lei si sciacquava e s’insaponava, si risciacquava e si rinsaponava interminabilemente, con quei suoi due bottoncini rosa che facevano cucù dall’orlo della schiuma, mentre lei diceva che sì capiva, capiva tutto, come  avrebbe potuto non capire non amare qualcosa che dalle mie labbra usciva, lei che di me amava perfino il cerume delle orecchie e non per altro, ma solo perché era proprio mio di me, ah capirete allora come dovessi ricorrere a tutto il mio self control, per continuare la lettura. Ma sono altri tempi quelli e non voglio qui rivangarli, veniamo invece piuttosto a noi.
Veniamo invece piuttosto a noi e più precisamente veniamo a me. Veniamo piuttosto al fatto che, essendo io scivolato inavvertitamente nel sonno, bene o male ne sono anche uscito, ed è già mattino per fortuna e per grazia di dio, è mattino anche oggi questa sì ci voleva proprio, lo so che è mattino perché le automobili passano più fitte sul cavalcavia sotto il quale ho parcheggiato la roulotte e la fanno tremare, a darmi questa dolce sveglia e così mi sveglio, mi sveglio e guardo l’orologio, no è ancora presto c’è da aspettare ancora dieci minuti ma com’è, hanno fretta di andare a lavorare oggi tutti questi automobilisti che mi hanno svegliato dieci minuti prima del solito ma io ho la mia tabella da rispettare sono un tipo preciso io e la tabellina sta lì appesa alla parete che lo dice: ore otto, sveglia, e questa è fatta; ore otto e quindici, operazioni igieniche (vado a compierle dietro il pilastro del cavalcavia); ore otto e trenta, prima colazione (mi preparo sul fornellino la solita pappetta ai semi di lino e di girasole); ore otto e quarantacinque, attività lavorative.
E, difatti, quando si sono fatte le otto e quarantacinque diciamo le nove meno un quarto, quando quelle ore lì si sono fatte, quando a un bel momento infine si sono fatte ho preso dal ripostiglio i miei strumenti di lavoro e al lavoro mi sono avviato, mi sono anzi di buona lena avviato, mi sono dunque di buona lena avviato al lavoro, ma non senza aver preso in mano i miei strumenti, e ho preso dunque l’asta di legno alta un metro e quarantacinque in cima alla quale è saldamente fissato, in posizione diagonale rispetto all’asse dell’asta, è saldamente fissato, per mezzo di uno spago girato e annodato,  è saldamente fissato il manico di un pennello piatto misura otto, fatto di setole sintetiche non è il caso di scialacquare qui, con i tempi che corrono, e ho preso dunque l’asta di abete annerita dall’uso, alta un metro e quarantacinque centimetri, ho preso quella e un barattolo di conserva da mezzo chilo (B), scoperchiato da un solo lato e opportunamente forato, grazie a un provvidenziale chiodo metallico, in due punti opposti situati un mezzo centimetro al disotto del bordo superiore, praticati in modo tale da poter essere penetrati da un apposito fil di ferro (C) il quale, opportunamente ritorto, forma due occhiellini che lo fissano al bordo della latta e, adeguatamente incurvato, forma un mezzo cerchio al disopra del barattolo (B) e costituisce così un aggraziato e acconcio manico, un vero fatto apposta, atto al trasporto del barattolo (B), grazie alla semplice introduzione del dito mignolo o anche di un altro a scelta (D), al disotto del cerchio (C) di cui sopra, e tale barattolo (B) è ripieno, o preferibilmente è pieno per due terzi di una sostanza lubrificante di natura variabile, che può essere oggi olio di lino o di girasole o financo di motore, domani strutto o sego o sugna o semplice grasso di maiale, dopodomani ancora vaselina o stearina o persino crema nivea, variando ciò secondo le disponibilità in stock o al dettaglio e le alterne vicende del mercato di sostanze untuose e grassi in genere, e insomma quello che trovo trovo e lì dentro lo metto, quello che conta è il risultato e il fatto che le saracinesche io le sappia lubrificare a regola d’arte.
Avendo or dunque gli strumenti di lavoro che vengo di descrivere in mano, avendo gli strumenti in mano, avendoli descritti, avendoli e descritti e in mano, avendo gli strumenti posso avviarmi al lavoro e non pongo tempo in mezzo, no non lo pongo no, invece mi avvio al lavoro perché i puntuali negozianti, pizzicagnoli e norcini, tarallari e acquafrescari, e i capaci panettieri, e i capienti macellai, e i sapienti librai, eccetera eccetera la lista è lunga e tutti costoro intanto hanno già aperto bottega non aspettavano certo me, e hanno tirato su la saracinesca, che fosse stata a grata, a griglia, a losanghe a fasce o a doghe che dir si voglia, insomma fosse stata come fosse stata ormai l’hanno già alzata e l’hanno sentito l’attrito il cigolio la resistenza della materia, e l’hanno avuto il mal di schiena o finanche il colpo della strega, a chinarsi così, in pieno inverno, a scoprire il dorso demunito di fascia elastica e a fare sforzi bruschi inutili e dannosi alle reni e per farla corta e per farla breve questo è il momento buono per apparire nella via e lanciare il mio grido della strada.
E sì, questo sì, questo è un buon momento della mia giornata, quando nel fresco e anche rigido mattino calco l’asfalto urbano e mi avventuro in un nuovo quartiere, verso sconosciuti luoghi, verso incontri fugaci e imprevedibili e sì, è un buon momento questo, che fin dal risveglio ho atteso e dilazionato, è un buon momento questo, quando prima di affacciarmi al primo negozio, prima di offrire il mio ben noto viso a questi ignoti visi, mi attardo brevemente a un cantone, il tempo di trovare col dito la maliziosa cispa che durante la notte s’era installata all’angolo dell’occhio, e avendola appena, per puro piacere, tastata fra pollice e indice, infilarla nella scatolina che ho estratto dalla tasca del cappotto e riporla, nella scatolina, nella tasca, nel cappotto, insieme con le sue compagnucce belle, a nanna sù bella a cuccia sù dai stai lì buona da brava dove ti ha messo papà, gioca con le amichette e non disturbare i grandi, che come vedi hanno da fare e devono lavorare e devono tirare a campare e devono oliare questi ingranaggi o meglio questi binari perché, perché qualcuno che le faccia aprire, queste porte, queste barriere sociali, qualcuno ci vuole penso io, altrimenti, altrimenti ditemi voi: come è che si andrebbe avanti, eh?
Eh, si va avanti, si va avanti, dove vorresti andare altrimenti, si va avanti e non indietro, ah no, andare indietro? questo no non potrei mai accettarlo mai, tutto ma non che si vada indietro invece che andare avanti, e così vado avanti e non indietro, mi faccio avanti davanti e davanti alla porta di questo bel fondaco lancio il mio urlo rituale, il mio sopracitato grido della strada e così come è giusto risposta me ne viene.
Me ne viene risposta, sì, una risposta c’è, non è forse quella che avrei voluto leggere su quelle labbra ma una risposta c’è ed è forse questo ciò che conta, cioè questo fatto qui che cioè volevo dire sì ecco questo fatto qui che non manchi questo ecco questo dialogo questo scambio, che rimangano aperte cioè come dire ecco le chiuse della comunicazione e, anche se ti dicono vattene sparisci fuori dai piedi sciò vai a vagabondare da un’altra parte, ecco anche se ti dicono così e cosà, anche se ti si rivolgono in tal modo caro fratello incivile e indecoroso, anche se voglio dire caro fratello ti si rivolgono in tal modo incivile e indecoroso, sappi che Dio li vede, e consolati pensando che è pur sempre questa dico io una forma di rapporto di colloquio e di dialogo e me ne vado quindi contento e soddisfatto, non me ne vado con la coda fra le gambe no, non me ne vado come un cane battuto no, al contrario, è tutt’essendo vispo e arzillo che riprendo il mio marciapiede, che me ne vado per la mia strada mia di me, non senza purtuttavia al passaggio meditare su questo esempio di ignoranza umana e di lì su questa insensibilità diffusa e su questa caduta verticale, propria dei nostri egoistici tempi ingrati, dei valori di solidarietà e di convivenza, non ingannino no le pur lodevoli manifestazioni di segno contrario, non ingannino no le pur lodevoli manifestazioni di segno contrario, contrario alla verticale caduta dei valori di solidarietà e di convivenza di cui sono testimoni i nostri tempi egoistici e ingrati, non ingannino no e si pensi invece al cartello che quello si era messo in vetrina, si pensi a come si era dipinto quel tale che mi ha sgarbatamente scacciato dalla soglia della sua bottega, si pensi al contenuto di quel cartello che diceva La cortesia ci contraddistingue La convenienza ci caratterizza L’esperienza ci qualifica, io dico qui ce n’era almeno una o due di troppo, ditemi voi se non era ipocrisia umana questa oppure no, ditemi voi, e ditemelo! se questa è sincerità trasparenza e cuore in mano e non piuttosto doppiezza lingua biforcuta e cuore peloso, mi si passi l’espressione, che però ci vuole, visto il modo in cui vengono trattati gli onesti lavoratori, in questo pubblico esercizio delle mie galosce, e non si possono qui che condannare, ne converrete con me cari colleghi, non si possono qui che condannare questi scellerati atteggiamenti ambigui e ambivalenti, ma in fondo tutto ciò non importa no, non fa niente no, io vado oltre e vado avanti e non ho certo bisogno dei suoi Trattamenti Specifici io, delle sue Prestigiose Marche di Cosmesi io no, non  ho bisogno né di lui né di nessuno io e tantomeno di voi cari colleghi e non vi ci mettete anche voi adesso no non mettetevici no, lo so che state sempre sul chi va là, anche voi, lo so che ci pensate sempre due volte prima di, e che ci andate coi piedi di piombo, ci, in questo tempo di peste e d’ignoranza, dove non puoi girarti un attimo che già ti fanno le scarpe, che già ti scavano la fossa, che già ti mettono con le spalle al muro e cosivvia dicendo, ah! se penso quando penso che, con tutta la mia delicatezza la mia sensibilità, quando penso che, avvinto allacciato e congiunto a lei nell’atto amoroso, all’approssimarsi del momento supremo, non omettevo mai di sospirarle all’orecchio: “posso?”. Bel ringraziamento, ne ho avuto.

Ecco, quando penso a tutto ciò, ecco allora sento che mi hanno, mi hanno, mi hanno tradito, proprio così, ecco ora mi è uscita lo so che è grossa ma questa, questa dovevo dirla.
Ma scacciamo i cattivi pensieri  e torniamo alla bisogna, alla bisogna e a un nuovo negozio, il cui gerente è un tipo ammodo e perbene, ah questo qui sì, non come quell’altro, questo qui sì che è cortese e gentile e mi dice ma prego si accomodi facci pure, ah no, dico io, lei è cortese gentile ammodo e perbene lo si vede subito e il suo invito difatto conferma questa prima impressione, ma a me lei facci non lo dice no, sarebbe come se lei mi dicesse venghi invece che venga, capisce, qui o si è precisi e corretti oppure, me lo dica lei, dove è che andremmo a finire, me lo dica lei, me lo dice no non me lo dice anzi mi caccia, mi caccia via dal suo locale a manate e quasi a calci va bene ho capito me ne vado da solo me ne e mi ritrovo di nuovo sull’inospite e ventoso marciapiede, dove mulinano cartacce e foglie secche e i gas di scappamento mi bruciano gli occhi, ma cosa farci, sono un uomo della metropoli io, un uomo della folla sono e con la pioggia e col bel tempo le mie otto ore di marciapiede le devo fare, costi quel che costi in termini di raffreddori influenze tossi bronchiti, reumatiche e non, nasi otturati, congiuntiviti, mal di testa e nevralgie, nasi che colano, dolori artritici e muscolari, forme infiammatorie varie, e mal di piedi, calli duroni e vesciche, e piedi piatti, tendiniti, borsiti, pelli secche e screpolate, dolori renali e vertebrali e per oggi basta così potete andare a casa.
Voi potete ma io no, la mia giornata è appena cominciata e se ne vedranno ancora delle belle, restate quindi ai vostri posti, non perdetevi il seguito e guardate, guardatemi qui quest’uomo qui che cammina avanti a me si scarta un bonbon se lo infila in bocca e butta via la carta colorata e la stagnola, questo essere inurbano ed egoista, e devo chinarmi per due volte a raccattare i suoi rifiuti e datosi che un cestino, dei rifiuti, nei paraggi non c’è o almeno non si vede, eccomi costretto a deviare dal mio percorso e a vagare inutilmente per vie secondarie e prive di esercizi commerciali, e alla fine entrare in un portone e cercare nell’androne il bidone della spazzatura.
“Cosa ci fa lei qui?”, non faccio in tempo a sollevare il coperchio del bidone che questa voce mi raggiunge alla schiena come un coltello affilato e mi paralizza all’istante. Mi giro lentamente e chi ti vedo piazzato sulla porta della sua miserabile guardiola, chi ti vedo che mi guarda con sguardo rinfrignato e sospettoso, non lo indovinerete mai perciò ve lo dico io: sulla porta della sua miserabile guardiola, mentre mi guarda con sguardo rinfrignato e sospettoso, ti vedo un portiere, un bel ripugnante portiere come ce n’era una volta, uno di quelli che, quando si stava meglio quando si stava peggio, avrebbe già suonato il fischietto solo a vedermi e mi avrebbe già affidato ai servizi di quelli del Partito, in quanto elemento asociale e di tipo criminale, e dire che io volevo solo mettere una carta di caramella al suo posto in mezzo ai rifiuti, né di più né di meno, non volevo certo frugare nei bidoni di quel puzzolente condominio, cosa vuoi che me ne importi del contenuto di quei ributtanti bidoni, ho da lavorare, io, ed ecco invece dove mi conduce il mio civismo il mio senso dell’ordine e della pulizia, mi conduce davanti a questo, a questo portiere e, per fortuna siamo in regime democratico, già mi vedevo davanti a scribi satelliti Uditori e Giudici del Fisco, e vaglielo a spiegare che volevo solo buttare via una carta di stagnola, quando mai avrebbero potuto capirlo, e hai voglia a tendere il povero arco del tuo intelletto e cercare un’altra spiegazione del tuo essere lì in quel luogo e a quell’ora, e, atrocemente, lungamente, inutilmente sarei stato martoriato da scherani sgherri aguzzini esecutori vari e come me ne sarei uscito, chissà, chissà se sarei mai più tornato uccel di bosco, o anche solo di passo o, perché no, appena di ripasso.
Chissà. Fatto è che i tempi non sono più quelli che erano, sono altri e il portiere non ha più il suo fischietto di bachelite nera ma ha solo questa voce acuta e tagliente come un rasoio, con cui mi chiede cosa faccio io qui e cosa vuole che le dica, signore mio, mi trovo qui in rispetto delle più elementari norme di igiene e di sicurezza pubblica, e mostrandogli il barattolo e l’asta col pennello gli faccio: “Io sono il Lubrificatore Municipale”.
“Cosa?”, fa lui, “ah questa è bella”. Bella o non bella, signore caro, così è e mi lasci fare il mio lavoro, e ciò detto mi metto ostentatamente all’opra, e sollevo e riabbasso il coperchio del bidone e appoggio l’orecchio alla cerniera ad auscultare da dove è che viene precisamente il cigolio che c’è, e che quel coperchio cigoli questo negare non lo si può di certo, ed intingo quindi il pennellino nell’olio e lo passo sui cardini di ferro zincato e già il lamento del metallo si assopisce in un soffio e, svolto con successo questo compito me ne posso andare, ah se penso che questa mia urbanità questo mio senso civico mi sono costati almeno un decigrammo di olio di colza, oh sono proprio sfortunato io, fammene andare adesso e me ne vado difatti, lasciando il maledetto guardiano esterrefatto ed interdetto.
Sì, lascio interdetto l’esterrefatto guardiano, sicché profittando di questa sua provvidenziale interdizione mi metto in salvo, guadagno l’uscita e mi lascio alle spalle lui e la trappola del suo lercio immobile infestato di blatte scarafaggi boje panatere scaroze e scarafoni, ah non si respirava davvero lì dentro, fammene uscire all’aria aperta, fammi prendere una boccata d’aria, fammi cambiare aria, e qui dico aria come nel deserto direi acqua, e come in mezzo agli oceani in tempesta direi terra, e come perso fra i ghiacci polari direi fuoco, e come nel fondo di una segreta direi pane, ora però dico aria e aria sia, ma d’aria non si campa no lo sappiamo tutti e passata l’ora me ne torno al lavoro e mi affaccio alla porta di una boutique, questo sì è un posto locupletato è, guarda quanti oggetti belli, vedrai che qui saranno generosi e magnanimi, saranno di manica larga e forse avranno anche le mani bucate, e varco difatti la soglia dell’esercizio, spingo la porta vetrata che si apre con un beneaugurale scampanellio e chi c’è chi non c’è laggiù in fondo seduto alla scrivania, chi c’è seduto dietro la bella scrivania in puro stile direttorio, chi c’è seduto alla scrivania con i gomiti sul piano, della scrivania, e la testa fra le mani, chi c’è che sta seduto dietro una scrivania di puro stile direttorio, per quanto sommariamente riverniciata e ridorata che sia e forse persino in parte contraffatta, chi è che se ne sta poggiato alla scrivania con la testa fra le mani e i gomiti sul piano, della scrivania, e si lamenta così, e ha un’aria così sfastidiata e sconsolata e financo sfigata, mentre le lacrime gli scorrono sul viso e gocciolano piano sulla doratura della scrivania stile direttorio, chi è. E’ un signore, è l’esercente della boutique.
E siccome io sarò un tipo autonomo ed emancipato ma insensibile no questo non lo sono, mi avvicino all’uomo che vedo in quest’ambascia in quest’angustia in questa ipocondria, mi accosto al mio prossimo al nostro fratello che soffre e gli faccio: “ma che fa, piange?”. Costui alza il capo, si asciuga le lacrime col dorso della mano, tira su col naso e mi fa: “ah, è lei”, come se già ci conoscessimo, come se avessimo mai pranzato insieme o anche solo preso un caffè al bar ma non mi formalizzo no quest’uomo è sconvolto dal dolore, bisogna perdonarlo, è affranto dalla perdita, come si vede infatti dalle unghie che porta listate a lutto, e infatti mi guarda negli occhi e mi annuncia: “mi è morto il gatto”.
Davanti a questo io rimango senza parole, poi le trovo e chiedo a quel signore: “gli voleva molto bene?”. Non l’avessi mai detto, ecco che mi si rimette a piangere, ecco che mi scoppia in pianto, ecco che mi piange come una fontana, ed è tra un fiume di lacrime che mi indica col dito un povero fagotto che giace al suolo dietro la scrivania, è un qualcosa avvolto in carta di giornale e legato con lo spago. Bisogna seppellirlo, mi vien di dire, o affidarlo alle acque, o esporlo su un trespolo, o cremarlo e spargerne le ceneri al vento, mi vien di dire e lo dico, gli prospetto cioè praticamente tutte le possibilità offerte dalla nostra premiata casa, medaglia d’argento al salone funerario di Algeciras 1908, ed è un modo anche per riportarlo alla ragione, questo, e, difatto, il signore fa “sì, sì”, si alza da dietro la scrivania, tira fuori un fazzoletto dal taschino del blazer, si asciuga gli occhi, si soffia il naso, dice: “andiamo”. Solleva il pacchetto e me lo mette in mano, prende dal cassetto della scrivania due mazzi di chiavi e, da me seguito, esce in strada, chiude a chiave la porta del negozio e, da me seguito, si infila in una bassa macchinetta sportiva, mette in moto e in un batter d’occhio ci troviamo presso la discarica comunale, che giace presso il greto del fiume. Ma è oltre la discarica che andiamo, lungo la sponda ciottolosa, ed è lì che l’uomo si ferma e mi indica un punto qualunque, e io poso i miei arnesi, mi chino e scavo fra i ciottoli con le mani, e poi nella fanghiglia fredda, ed è lì che lasciamo cadere il povero involto, che un tumuletto va a coprire alla men peggio, poi il commerciante mi abbraccia e mi colpeggia la schiena, mi dice “grazie, grazie”, torna alla macchina ma dimentica di aprire la portiera dal mio lato, mette in moto e se ne va e io lo lascio, lo lascio solo con il suo dolore, come si conviene. Quanto a me, mi basta la coscienza di aver compiuto il mio dovere.
Compiuto il mio dovere, non mi rimane altro da fare adesso che tornare a piedi in città e, eccomi, ecco qui, lo faccio, lo vedete anche da voi stessi che me ne torno a piedi in città o, se non lo vedete, basta che vi figuriate (in campo lungo, per oggi, direi), basta che vi figuriate un omino che muove le gambe, poi una strada diritta diritta e sommariamente asfaltata, costellata di buche fangose e laggiù, no, lì, un pò più a sinistra, ecco bravi proprio lì, laggiù ecco i primi palazzi della città, quelli che hanno dipinto di rosa per farci appunto la vita più colorata a noi tutti quanti che siamo.
E cammina cammina, che cosa si offre allo sguardo del nostro omino, del nostro eroe, a un incrocio di due strade? Si offre allo sguardo del nostro omino, del nostro eroe, a un incrocio di due strade, si offre allo sguardo del nostro, si offre allo sguardo, si offre, si, si offre un’amena locanda, un’amena locanda si offre allo sguardo del nostro omino e del nostro eroe a un incrocio di due strade. E un invitante cartello lo lusinga, lo lusinga egli affamato camminatore suburbano e potenziale cliente, lo hanno scelto davvero bene il loro target questi inserzionisti, e hanno vergato a caratteri d’amanuense un invitante cartello che dice: Pranzo a prezzo fizzo. Compozto da: un primo piatto, un zecondo con contorno, 1/4 di vino, 1/4 di aqua minerale, pane e coperto, caffè. Beh di fronte a un tale invito come resistere e non resisto per niente no non resisto proprio per niente ci mancherebbe altro, non resisto no ed entro in questa trattoria rusticana, entro appoggio l’asta al muro e il barattolo a terra e mi accomodo a un tavolo, e nel fare questo sono fedele al mio programma, che al punto 5 prescrive: ore dodici, pausa pranzo.
Non per essere qui pedagogico né didattico, no, ma vorrei qui a questo punto della mia narrazione aprire una parentesi e dire come codesta regola della fedeltà al proprio programmino quotidiano sia davvero una regola aurea, e dovrebbe sempre essere il primo dei nostri precetti questo qui, cioè quello di farsi una bella scaletta e seguirla passo passo, perché l’esecuzione segue sempre la concezione, ed entrambe danno alla nostra vita quel senso e quella finalità che noi tutti ricerchiamo.
Si prenda dunque un bel foglio a righe o a quadretti o anche bianco, in tal caso la quadrettatura la si farà opportunamente con squadra righello e matita, si prenda dunque un tale foglio, vi si tracci una riga verticale nella parte sinistra, e sarà questa la colonna delle ore (si esegua, incolonnando le ore, da 8 a 22); si tracci quindi, al disotto di ogni cifra oraria, una riga orizzontale al di sopra della quale si indicheranno, ben allineate, le funzioni corrispondenti alla tale ora e, infine, all’estrema destra della tabella un’apposita colonna sarà adibita alla segnatura con una x dell’effettivo compimento delle operazioni prescritte; ciò consentirà di praticare, alla fine della giornata, il più scrupoloso degli esami di coscienza. Tale modello è confacente ad attività di ogni ordine e grado, perché che siate scolari o laureandi, semplici apprendisti o esperti maestri d’opera, capitani d’industria o pubblici impiegati, un tale sistema serve a tutti, provate e resterete soddisfatti.
Vedete che mentre voi provate io non perdo tempo e fettuccine al ragù zcaloppine alla valdoztana inzalata verde frutta di ztagione caffè 1/4 di aqua e di vino pane e coperto li ho consumati e posso passare al punto 6 della mia tabellina che prescrive: ore tredici e trenta, passeggiata igienica. Esco dunque dal ristorante e mi porto a passeggio ma, se ne parli per l’ultima volta, ma devo dire che a me questa regola aurea è più necessaria che agli altri, perché con questa mia vita libera e indipendente, con questi miei sbalzi d’umore, e questo girovagare alla ricerca di qualcosa chissà cos’è, con tutto questo ci vuol bene una struttura uno scheletro della tua giornata, altrimenti che cosa ti resta fra le mani, che cosa che cosa ti rimane, se ti lasci andare così, seguendo solo l’istinto e la fantasia?
Ma riveniamo alla nostra passeggiata, piuttosto, riveniamo a quello che ci aspetta oggi, e che cosa ci aspetta, ci aspetta il lavoro quotidiano cos’altro vuoi che ci aspetti, non c’è certo qualcuno qui che mi dica fai questo e quell’altro, ti prego fallo, fallo per me, se non vuoi che per me sia finita, se non vuoi che io muoia, se non vuoi che io scompaia per sempre, no uno o una che mi dica così non c’è e allora cosa vuoi, se non lo dico io a me quello che ho da fare, chi altro vuoi che me lo dica?
E quello che ho da fare non è cosa da poco, trattasi difatti di oliare per così dire i cardini dello scambio e della comunicazione fra gli uomini, aiutandoli in tal modo a essere in pace e in commercio tra di loro. E’ per questo e non per altro che, assunte qui le forme di un povero lubrificatore, scendo in città e mi affaccio a tutte le soglie e cortesemente mi annuncio agli esseri umani: “buongiorno, sono qui per l’unzione”, oppure, a seconda dei luoghi, sgarbatamente urlo: “ungo?”.
“Ah, lei capita a proposito”, può accadere financo di sentirsi dire, raramente però, e questi sono davvero quei rari momenti belli che raramente mi riserva questa ingrata professione, bei momenti e rari quando qualcuno ti dice “ah, lei capita a proposito”, e non ti resta più che fare ciò per cui sei venuto, farlo dunque, e ricevere di ciò la giusta mercede; no, non domando mica la carità io, e quando mi si chiede quanto è che mi si deve, non vorrai mica che io dica “faccia lei bontà sua” no, io la mia tariffa ce l’ho, sarà irrisoria e risibile e ridevole quanto si vuole ma è pur sempre una regolare tariffa con tanto di annessi e connessi, spesa per la materia prima, tempo di impiego della manodopera, detto anche tempo-lavoro, indennità varie e contributi sociali; ma anche sommando tutti questi fattori, ve lo assicuro, non fa gran cosa, e i clienti questa cosa la danno veramente a cuor leggero, e rimangono contenti perché il servizio l’hanno avuto, e con che abilità, e con che destrezza, il servizio l’hanno avuto e qualcosa di positivo l’hanno fatto anche loro, un negozio con qualcuno l’hanno avuto anche loro, chi vuoi altrimenti che sarebbe entrato in quella rivendita di libri usati, dalle vetrine così polverose che neanche la sagoma dei libri esposti si distingue, chi vuoi che oggi come oggi avrebbe rivolto la parola a quel vecchietto dalla testa d’uccello che fa tutt’uno con il ciarpame che ha accumulato qui dentro, chi vuoi che avrebbe con lui scambiato cortesi parole sulla pioggia e sul bel tempo, chi vuoi che, chi vuoi che, che abbia compassione di questo personaggio dimenticato dai secoli, di questo vecchio signore gentile e inutile, di questa persona che a malapena ha ancora una forma e parvenza e appena appena obbedisce anch’essa come noi tutti alle leggi della gravità, chi vuoi che abbia ancora compassione di questo sedimento di questo scarto dei nostri tempi obliosi, di questa cosa che sta affondata in fondo a una poltrona ammuffita e che è tanto se ha ancora una voce, una voce quasi inaudibile, che porta ancora parole, che dice “ah, lei capita a proposito”, quando quella saracinesca non l’alzava né l’abbassava più da almeno vent’anni, questo lo vede anche un profano, lo vede, che era costipata e incarognita da un disuso di trent’anni, quella serranda, ve lo dice zio, topi e ratti sorci e pantegane avevano fatto il nido nel cassettone del rullo da almeno cent’anni, ve lo dico io, sono arrivato io a disturbarli e a farli fuggire a frotte, questa è la pura verità, ve lo dico io, ma si vede che il vecchio l’aveva visto subito che io questo lavoro lo faccio con l’anima, ed è vero, lo faccio con l’anima io e si vede, in quanto il lavoro è lavoro, e ho scrostato col manico dell’asta le guide impastoiate di lanugine e di guano, e a forza di tirare l’è venuta giù la serranda, alla fin fine è venuta e l’obolo del libraio l’ho proprio meritato questo va detto sì e poche ma sentite parole le ho pronunciate sì e ho dichiarato che di saracinesche ne avevo viste, eh se ne avevo viste, ma una così no mai, no una così non l’avevo mai vista mai, sicché è stato veramente con l’aria di scusarsi che il vecchio ha sospirato e ha tirato di tasca la moneta e, per non farlo sentire in imbarazzo io, ché sono un cuore tenero io, per non farlo stare a disagio mi sono attardato a chiaccherare con lui del tempo che faceva, e faceva freddo sì, di questo si accorgeva anche lui, perché glielo facevano sapere le sue povere ossa, glielo, a lui, per quanto questo inverno qui, come mi ha rivelato, non fosse niente in confronto a quello del quarantaquattro, quando fece così freddo che, se proprio volevi azzardarti a urinare all’aperto, allora dovevi farlo camminando all’indietro, se non volevi che un arco di ghiaccio ti penetrasse per l’uretra fino al cuore, uccidendoti all’istante.
“Ma no!?” faccio io, a sentire questo resoconto. “Ma sì!” fa il vecchio, sorpreso della mia incredulità, di cui subito e precipitosamente mi scuso, ah se penso che ho fatto pesare l’incognita del dubbio sulle parole di questo povero vecchio, come potrò mai perdonarmene, come? Ci penso e intanto ascolto l’uomo che mi racconta la sua vita e sono stanco di stare all’inpiedi, ché i piedi mi fanno ancora più male quando staziono immobile e non li muovo, i miei poveri piedi che mi fanno male, e le varici, quelle chi le sente, quelle, sentitele voi perché io di starle a sentire la pazienza non l’ho più non l’ho, ma il fatto è che il momento buono per congedarmi non l’ho trovato e poi gli voglio già così bene, a questo vecchietto, gli voglio così bene che me ne vengono le lacrime agli occhi e vorrei stringermelo al petto e baciarlo sulla fronte veneranda perché egli è il papà di noi tutti, il papà che non si cura più di noi perché ai suoi libri ha da pensare, e vorrei baciarlo sulle tempie, questo piccolo vecchio dalla barbetta bianca, ma non lo faccio, non lo abbraccio né lo bacio e invece ascolto in piedi il suo racconto interminabile, e passa il tempo, il tempo passa e siamo proiettati all’indietro nel tempo, perché così è, voliamo verso il passato e l’occhio lo voltiamo dall’altra parte, e così non vediamo niente, non vediamo proprio niente no di quello che c’è sotto di noi, così è, ma non voglio immalinconirvi no con le mie storie e voglio invece solo finire di narrarvi di questo vecchietto, si pensi ad esempio che, dopo aver fatto quello che ha fatto, dopo aver fatto quello che ha fatto e tutte le altre belle cose che ha fatto, di cui mi ha riferito, ecco che si trova a finire i suoi giorni in quest’umida e buia bottega, ma che vuoi, purché abbia un libro in mano, lui, tutto il resto gli è indifferente, e ha bisogno solo di qualcuno con cui discutere di tanto in tanto e del più e del meno, esigenza questa che io comprendo bene, perché anche la mia autosufficienza non è che sia eterna, e passata una settimana un corpo umano devo pur toccarlo, un qualche contatto con il mio simile devo pure averlo, perché farei allora il cieco con la canna bianca, perché farei lo sciancato col carrellino, perché farei quello che entra nel bar e sviene sul pavimento, lo faccio perché uno che ti prende per le spalle e ti rimette in piedi lo trovi sempre, perché farei quello con due gambe ingessate e le stampelle rotte allora, lo faccio perché qualcuno che ti prenda per mano o anche sottobraccio compaia e il prezioso contatto con il mio simile l’abbia anch’io, ah se penso che a questo mi sono ridotto, non crediate no che non sia consapevole della mia miseria no, ah se penso, se penso all’ingratitudine umana, se penso alla marezzatura dé suoi capelli biondi, che più non pettinerò con dita trepide, se penso al dedalo di venuzze nella trasparenza del suo seno colmo, che il mio sguardo avido più non percorrerà, se penso alle affusolate falangette che più non suggerò tra le labbra tremanti, se penso alle pelluzze tra unghia e lunula che più non le reciderò con i dentuzzi, no, che più non, che non più, che non più da che, da quando un giorno le dissi, non l’avessi mai fatto, da quando un giorno le dissi, porgendole le chiavi di casa, le dissi … ed è così, gentili astanti, è così, o voi del cortese pubblico, è così, belle persone, è così che io sono, oggi come oggi, in senso assoluto, l’ultimo dei reietti, proprio così.
Proprio così, ma a prescindere da tutto ciò, su cui rilascio cadere il velo che ho avuto la debolezza di sollevare, sia pure per un attimo, a prescindere da ciò c’è qui il mio vecchio, che continua a parlare parlare m’ero distratto un attimo ma che alla fine dichiara che l’ora è tarda e i suoi ricordi anche sono stanchi, e come lui cominciano a ciondolare il capo, a palpebrar le palpebre, a sbadigliare, e insieme con lui reclinano la nuca sullo schienale della poltrona e si riaddormentano.

Amici! Cosa volete che faccia io adesso. Faccio quello che vi aspettate da me, e cioè rimbocco il plaid sulle gambe del pover’uomo e me ne esco cheto cheto senza far cricchiare l’uscio, immaginate solo il tempo che ci ho messo, ma alla fine nella via mi sono ben ritrovato e non senza sollievo ho riprovato il gusto della libertà! che consiglio a tutti quanti, è davvero delizioso, e così ho ripreso i miei sentieri il cielo sia lodato, si è svolta veramente all’insegna della perdita di tempo questa giornata, ma non voglio qui recriminare, è andata come è andata e va bene così, ma devo ora recuperare il  tempo perso, perché come una diga incombe su di me il punto 8: ore diciannove, cessazione del lavoro, e che cosa ho combinato oggi, quale traccia ho lasciato del mio passaggio in questo mondo su questa terra, che cosa ho lasciato? Un bello zero, ecco che cosa ho combinato oggi, proprio così, finanche il vecchio la monetina se l’è tenuta stretta in mano e ci si è addormentato sopra, un bello zeri spaccato ho concluso, e questo qui che dico mi esce dal fondo del cuore, mi dispiace ma dovevo dirtela la verità fa male lo so ma quando ci vuole ci vuole, anche se questa rivelazione può comportare gravi conseguenze sullo sviluppo successivo del soggetto e anche taluni scompensi e squilibri del sistema psicofisico e financo pericolose affezioni psicosomatiche, perché qui siamo tutti soggetti a rischio, siamo, e nessuno sta in una botte di ferro, no nessuno ci sta no, e andiamo tutti avanti di pari passo, andiamo avanti, verso quella che è la nostra destinazione finale, e tornatene quindi al tuo posto, e cerca di mettere la testa a partito e vedi di quagliare qualcosa anche oggi e tira a te la maniglia di questo spaccio di generi coloniali, visto che la targhetta dice “tirare” e non dice “spingere”, tirala dunque la maniglia e con quella la porta e introduciti nello spazioso fondaco dove troneggiano dietro l’alto bancone i busti di due opime donne, madre e figlia, lo si vede subito difatti fin dal primo colpo d’occhio che quelle due donne opime madre e figlia sono, lo si vede perché quelle due donne sono proprio come due gocce d’acqua sono, sono davvero il ritratto sputato l’una dell’altra, solo, si direbbe, la figlia è il  ritratto della madre con vent’anni di più, e la madre è il ritratto della figlia con vent’anni di meno, a parte ciò entrambe sono occupate con i clienti, non è il caso di chiamare dal fondo del locale, mi accodo quindi ai clienti e aspetto il mio turno, che non arriva mai e poi mai, perché nuovi clienti entrano nell’esercizio e vengono tutti serviti prima di me, non mi vedono né loro né le bottegaie, ma come è questo fatto che quando c’è da fare una coda divento sempre invisibile e tutti mi passano davanti, ma com’è? Tanto è che, stanco dell’inutile attesa, volto le spalle al bancone e torno nella strada, lo vedi che qui invisibile non sono perché i passanti si scostano per non venirmi addosso, è vero però che mi sono piantato in mezzo al marciapiede mi sono e, allora, fatta questa prova qualità, visto che quando davvero lo voglio invisibile non lo sono no, fatta questa prova passiamo al prossimo, veniamo al prossimo e veniamo a questo negozio di calzature, che farà almeno 200 metri quadri di superficie interna, senza contare vetrine e spazi espositivi diversi, e per non parlare della facciata, che è tutta rivestita di marmi preziosi e incastonata di lapislazzuli e ametiste e che farà almeno trenta metri di lunghezza e avrà quindi altrettanta metratura di serrande, questo sì mi incentiva e mi motiva, entro perciò difilato in questo luogo spazioso e ben illuminato, entro ma non c’è nessuno qui, forse perché è vicina l’ora di chiusura chissà, si sente però un tramestio che viene dal retrobottega, aspetto pazientemente e nell’attesa raddrizzo un quadro storto, è un’elegante stampa che rappresenta un’antica conceria e a maggior ragione non posso lasciarla così storta, mi fa venire il nervoso mi fa. Attendo pazientemente e dopo non molto compare qualcuno da dietro la tenda compare una ragazza che mi fa “desidera prego”, ma questa ragazza è di una tale bellezza, ma di una tale bellezza che ne sono abbagliato e abbacinato e che tutto confuso impacciato e vergognoso arretro e sgaiattolo via senza profferir motto, perché davanti a tale bellezza si può solo morire.
Ed è scaduto così il tempo a mia disposizione, si sono fatte le diciannove e con quelle si è fatto il momento di cessare il lavoro, suona la sirena dentro la mia testa, ché non ho bisogno di orologio io per sapere che ore sono, ché me lo sento io a che punto siamo. Siamo al punto di dover operare un cambiamento, siamo a una svolta delle indagini sul caso mio di me, siamo al punto in cui si apre avanti a noi la lunga serata e bisogna trovare qualcosa da fare, non è a caso che talvolta in questi momenti mi viene una malinconia mi viene come un’uggia e con quella l’estro di cambiare aria, cambiare di posto e andarmene via verso nuovi lidi e nuovi orizzonti, per fortuna il punto 10 della scaletta sta lì, come una bitta sul molo dello sconforto, come uno scoglio nel mare dell’inoperosità, sta lì che dice: ore ventitré, ritorno al domicilio.

 

Qui la seconda parte

Manuale dell’accidioso seconda parte

Ma, di qui alle ventitré, di tempo ce n’è. Ieri ho fatto il cieco, ma oggi? E ieri era domenica, e oggi è lunedì, sì oggi è un giorno feriale e implacabile il punto 9 della mia tabellina recita: ore diciannove e trenta, pasto serale e attività ricreative e, datosi che così recita, ebbene non mi rimane che entrare in una bettola una locanda un’osteria che dir si voglia, non mi rimane che, se vogliamo procedere per esclusione,  non mi rimane altro che entrare in una bettola una locanda o un’osteria che dir si voglia, ed entrato in questa qui che è terreno già calcato e luogo a me ben conosciuto, entrato in questa qui proprio questa e non un’altra vedo che è già piena di avventori, ma non vorrete mica che me ne torni fuori con il freddo che fa, ho tanto camminato per giungere sin qui, ho consumato tante di quelle suole per venire fino a qui che ne ho perso il conto, e non me ne posso certo andar via così. E guarda che ti guarda un posticino lo vedo, sarebbe, questo posticino, a un tavolinuccio dove siede un uomo solo, secco secco e alto alto, ha un viso così triste, ma così triste, quest’uomo, e così solitario, che nessuno siede a lui difronte, meglio così, ci andrò io, che voglia di parlare ne ho ancora meno di lui, e non fa niente se ha quelle mani coperte da quei guanti di gomma, se ha queste due mani nascoste da questi guanti da massaia arancione gialli e blu, si vede che ne ha infilati almeno tre strati uno sopra l’altro, tanto che gli impediscono quasi di sollevare il bicchierino, no impressione non mi fa perché me, per farmi impressione ce ne vuole, perché me non mi fa impressione niente no, e poggiati i miei attrezzi e il pastrano vicino all’entrata mi seggo a costui dfronte, ordino il mio piatto e nell’attesa mi guardo intorno, non guardo certo lui no, cosa vuoi che me ne importi, me, delle sue mani guantate di gomma arancione gialla blu e invece, qui lo volevo, invece lui mi apostrofa e mi fa: “lei si domanderà senza dubbio caro signore come mai io vada in giro conciato a questo modo”.
“Io? No, perché?” ribatto io e già guardo altrove, ci mancava solo la conversazione con quest’esemplare dell’umanità umana, ci mancava. Ed è finita lì, io ho mangiato la mia bistecca con le patatine fritte, lui ha bevuto la sua grappa, ma, poi, cosa volete, sono un cuore solitario io ma, talvolta la curiosità la vince sulla mia naturale discrezione, la curiosità la vince talvolta e si finisce per dirglielo poi a quell’uomo, si finisce per dirglielo “ebbene sì me lo domando” e si viene così’ a sapere, si viene così a sapere, dalla pronta e circostanziata risposta dell’uomo in questione, si viene così a sapere, dalla pronta e circostanziata risposta dell’uomo, si viene così a sapere, dalla pronta e circostanziata risposta, si viene così a sapere, si viene a sapere così, si viene, si, che l’uomo in questione ha le mani elettriche e, se stringe la mano a qualcuno, quel qualcuno salta in aria colpito come da una scossa, colpito mortalmente questo no, ma neanche leggermente, un qualcosa sui cento-centodieci volts lo attraversa e un brividino glielo dà, ed è per questo che l’uomo elettrico che siede avanti a me ha dovuto prendere questa precauzione, di coprirsi le mani con guanti isolanti, per non essere di pericolo né per sé né per gli altri, in questo caso di stretta di mano ma anche in tutte le altre eventualità che la convivenza umana gli pone difronte, supponiamo ad esempio che inavvertitamente egli si appoggi a un oggetto che sia un buon o anche un mediocre conduttore, un bancone di bar ad esempio , magari di zinco o di alluminio dio me ne scampi e liberi, vi lascio immaginare le conseguenze in termini di ustioni di primo, secondo e terzo grado, imbianchimento o caduta dei capelli, pelli d’oca e altri traumi vari, per non parlare poi dei soggetti particolarmente sensibili alle scosse elettriche, ed è così che questo paria questo relitto della società vaga per il mondo con queste due mani arancioni gialle e blu che sono come un dito accusatore puntato contro di lui, quest’uomo che nessuno vuole più, quest’uomo di cui ci si ricorda solo quando viene a mancare la corrente e sono finite anche le candele e allora tutti i vicini lo vogliono e lo cercano, allora sì, per potergli mettere in mano una lampadina, che lui mantiene alta sopra il capo come la fiaccola della libertà, fra le dita pollice indice e medio, a illuminare di flebile luce le interrotte riunioni familiari, luce flebile certo, ma quei cento-centodieci volts non sono mica da disprezzare, no? e tanto sono gratis. Ah mi viene proprio da piangere a sentire questo racconto, mi sono davvero commosso e vorrei abbracciare questo povero uomo ma me ne astengo. Sì, non è il nostro un paese di larghi spazi, lo so, non è questa una terra di praterie sconfinate e terre vergini da dissodare, e ci si sta già strettini qui dentro sì questo lo so e, lo so, il posto al sole qui lo trovi solo se sei figlio di Tizio e di Caio, ed è così difficile l’integrazione del soggetto isolato in questo sistema di valori, e con queste mani elettrificate poi, cerchi di capire, come mi si presenta qui, anche lei però, lo so capisco tutto ma che diamine, possibile che in questo paese di antiche e umanistiche tradizioni un posticino un impieguccio non glielo si possa trovare, possibile che non vi venga in mente qualcosa per quest’uomo che in fondo una rara qualità ce l’ha, possibile che non si possa dare un senso un indirizzo a questa vita sprecata e spericolata, signore e signori non voglio qui fare l’anima bella sulle spalle di questo povero cristiano e non lo voglio certo ammollare a voi, e non ve lo darei per trenta, e non ve lo darei per venti, ma che dico non ve lo darei per dieci, ma per niente sì, insomma pensateci voi perché a me questo qui m’ha già stancato e non sono mica un Don Bosco io, non sono mica la fata dai capelli turchini, e adesso, solo per via di queste maledette orecchie che gli ho prestato per neanche dieci minuti dieci, ecco che mi viene dietro e non mi lascia più, ecco che mi segue come un’ombra nella notte buia come la pece, nelle lunghe silenziose vie della città addormentata ma guarda se proprio a me doveva capitare, questa mi mancava solo questa, e lo stupore vergine, sorto in me al cospetto di questo specimen umano, si è già trasformato in fastidio e insofferenza per la sua assiduità, eppure glielo avevo detto, all’uscire dal locale, detto glielo avevo che tenevo che fare, che i miei affari mi chiamavano e mi attendevano e, quantunque e, quantunque e, quand’anche e, quand’anche.
E quand’anche, e quand’anche me lo voglia sgrommare di dosso e, quantunque, quantunque cerchi di ignorarlo, fatto è che questa creatura disumana mi segue e mi alita sul collo e poi mi si accosta e prende il mio passo, facciamo proprio una bella coppia, il tracagnotto coll’asta e col pennello e lo smilzo coi guanti di gomma colorati  ci manca solo un pinocchio che difatti si presenta sotto forma di un cane randagio al quale cosa viene in mente, di accodarsi proprio a noi, bella soddisfazione, questa testimonianza di solidarietà, ma cosa gliene viene poi, a quello, a farsela con noi, ah no questa situazione è troppo scabrosa e quasi ridicola, ho una dignità io da difendere non fosse che ai miei occhi, cos’altro vuoi che faccia, gambe in spalla e fuoco alle polveri me ne scappo a grandi falcate, cosa vuoi che faccia, se non è zuppa è pan bagnato e quella zuppa non mi piaceva più e già quei due non si vedono più, me li  sono lasciati indietro li ho seminati e sono arrivato primo sono arrivato uno e sto infine in salvo nella mia roulottina teneramente cullata dalle vibrazioni del traffico sul cavalcavia, me ne sto nella mia roulottina, rimetto a posto gli arnesi, faccio un poco appena un pò d’ordine infilo qualche mattonella di carbone nella stufetta e sono pronto per andare a letto mi spoglio parzialmente mi infilo il pigiamino di flanella e seggo sul bordo della cuccetta accavallo le gambe mi studio i piedi passo l’indice fra le dita dei piedi e la pesca che ne ritiro è soddisfacente la ripongo nella scatolina con l’etichetta corrispondente e con questo è giunto il momento del meritato riposo, momento turbato solo dall’idea che domani dovrò alzarmi prima del solito, avendo dovuto abbandonare nella fuga il barattolo coll’olio, magra spoglia per quei due barboni, per me prezioso strumento di lavoro, cui dovrò al più presto trovare un qualche ersatz, un provvisorio sostituto, un interimario rimpiazzo o quel che sia, purché alla sua funzione funga.
Ci si desti quindi di buon’ora, non si ciondoli né si temporeggi inutilmente, non si giri in tondo né ci si porti a spasso sconsideratamente, si vada invece diritti al proprio scopo, non si aggiri con argomenti capziosi il nocciolo della questione e si vedrà che con la semplice osservanza di tali suggerimenti si otterranno successi eccezionali, e infatti a cercare dietro questo condominio in mezzo alla spazzatura che gli operatori ecologici non sono ancora passati a ritirare, a cercare sul retro di questo condominio una scodella sbreccata la si è trovata, che non manca persino sì di una certa linea e di una sua grazia, che bella mostra di sé può ancora fare, a vantaggio mio personale e della comunità tutta e in ogni modo siccome chi fa da sé fa per tre, e chi la dura la vince, e chi la fa l’aspetti, e chi dorme non piglia pesci, e chi non risica non rosica, e chi cerca trova, siccome tutto ciò e altro ancora, io la mia brava scodellina me la sono guadagnata col sudore della fronte, ce l’ho e me la tengo stretta, e nessuno me la toglierà, e nessuno potrà recriminare, perché qui non ci sono santi in cielo no, non ci sono no, e guardatemi qui piuttosto questa bella ciotolina, ammiratemi questa birichina linea azzurra che le cinge la taglia per intero, osservatemi prego i teneri fiorellini, dipinti a mano e non con i piedi no, osservatemi dicevo questi graziosi fiorellini blu che bordano come in un gaio girotondo la bianca convessità smaltata, ditemi se non sono un amore, e ditemi voi se non è questo un pezzo speciale, di quelli che non capitano tutti i giorni, ah no, questo non lo si può certo dire no, che di pezzi come questo se ne trovino ad ogni cantone, non lo si può dire no, non lo si dica allora e si taccia cortesemente.
Cortesemente si taccia, silenzio prego, il pezzo è stato aggiudicato, niente proteste, niente recriminazioni, si seguano piuttosto nel prossimo numero le nuove avventure del nostro eroe, ed eccolo qui il nuovo numero, fresco fresco che odora ancora d’inchiostro. Al sommario: I. In quali ulteriori drammatici frangenti si troverà oggi il nostro eroe? II. Sfuggirà alla spietata caccia di Cane Randagio e Uomo dai Guanti di Gomma? III. Riuscirà a procurarsi la sua dose quotidiana di lubrificante ?
Cominciamo dall’ultima domanda. La risposta è: sì. Ho già una bella idea, quella di rivolgermi al meccanico che sta sulla tangenziale, lui l’olio di motore usato me lo dà senza tanto discutere, me lo regala anzi e sempre volentieri, non mi va di andarci però perché in cambio vorrà mostrarmi la sua ultima opera, e io non so mai cosa dire davanti a questi suoi lavori e devo sempre cercare nuove parole di elogio che non vengono a me spontanee, ma non vorrai certo urtare l’artista, con un silenzio che suonerebbe condanna, proprio quando sta nel mezzo della sua opera, quando sta dentro l’opera e non fuori, e non ha quindi la necessaria distanza emotiva e la serenità di giudizio, potresti ucciderlo potresti, non vorrai mica farmi questo no, colpire un uomo nel suo punto vulnerabile, colpirlo, per così dire, nelle parti basse della sua vulnerabilità? Ma cosa vuoi il lavoro è lavoro ed esige anche una certa parte di compromesso, di mediazione, senza dubbio, fra sé stessi e il mondo, mondo che è qui rappresentato dal mio fornitore di olio di motore, un meccanico di nome Ambrogio, che ha un cuore d’artista sotto la sua rude scorza e il suo petto tatuato con aquile reali draghi e serpenti fasci littori falci e martelli stelle e strisce e chi più ne ha più ne metta e questo personaggio, questo bel tipo è il detentore della mia riserva di capitale variabile e a lui debbo sottostare, per farla finita vado da Ambrogio che, tò! è contento di vedermi e tiè! ha qualcosa di nuovo da mostrarmi e qui va premesso che Ambrogio non è un artista che possa scindere arte e vita vissuta, no lui non è di quelli, le sue opere hanno sempre un diretto riferimento alla vita reale, per quanto, per quanto mi senta di dire che demone è a ciascheduno il suo modo di essere, e che, per quanto faccia, il nostro non arriva a controllare sino in fondo la propria pratica operativa, e si lascia spesso convogliare in una pura gestualità, che dalla mera rappresentazione fenomenica lo trasporta piuttosto verso una espressione schiettamente vitale, una sorta di sinfonica e metaforica lauda del mondo sensibile, e in questo la sua rara maestria tecnica non è senza rendergli servizio e, pur nella mancanza di quel controllo irrigidente che menzionavamo sopra, pur nella mancanza di pastoie ideologiche e preconcetti vari dicevamo, le sue sperimentate doti virtuosistiche gli consentono sorprendenti risultati formali. Si parlava più sopra di sinfonia: come non pensare, ad esempio, a questa maniera di rendere i cozzi dei metalli e le urla delle lamiere contorte: non è forse questa una degna dimostrazione di quell’analogia che lega suono e colore, musica e pittura? ecc… Ma vai a spiegare tutto questo ad Ambrogio, cosa vuoi che ne sappia, lui. Purché mi dia il mio olio e mi lasci andare via, mi lasci infine uscire dal suo sgabuzzino, purché mi lasci ritrovare la mia strada e la mia libertà, non essere triste Ambrogio, sù, cerca di capire, non mi trattenere per la giacchetta tanto è inutile li vedrò un’altra volta i tuoi quadri del periodo ecologico, adesso devo proprio andare non farmi questo faccino no, non farmi questo visino smunto e patetico no, non farmelo no, ché mi pari una Maria Maddalena, e di pura scuola mantegnesca direi, se non erro, se erro correggimi ma lasciami andare ti prego ti scongiuro farò tutto ciò che vuoi, oh! infine libero!
Infine libero ma in terribile ritardo, dove mi porterà questo mio buon cuore non si sa ma intanto monto sulla mia automobilina e guido fino a un nuovo e distante quartiere, e qual’è questo nuovo e distante quartiere verso il quale ho intrepidamente diretto la mia vettura? Questo nuovo e distante quartiere è: il quartiere Tal dei Tali. Non mi chiedete altro, non mi tirerete fuori altro neanche con la tortura, neanche se mi scorticate vivo, anzi ho già parlato troppo, e non pensiate no che io lo faccia per me, no non è per me che lo faccio, che mi metto in piazza a questo modo ma, volete saperlo per chi è, è per voi, è per voi che mi metto in piazza questo modo, è solo per voi e per il vostro bene che lo faccio, quindi state buoni, sedete diritti e a braccia conserte, ché ora ve lo dico che cosa mi è capitato in questo quartiere Tal dei Tali, ve lo dico ora o mai più, e non mi ci devo certo spremere il cervello, perché i fatti stanno qui nudi e crudi e sono quello, sono quello che sono, sono quello che sono e basta.
Ragazzi! Ecco che il vostro eroe parcheggia la sua auto nel parcheggio, ecco che esce dall’auto e la chiude a chiave, ecco che si guarda intorno con aria di sfida, si infila i mezzi guanti di lanuccia, si rialza il bavero dello spolverino, ecco che il vostro eroe calca la terra battuta della via principale e  nel vento si avvia e, trovandoci noi in un paese in cui non tanto lo spazio quanto il tempo domina, trovandoci noi in un tale paese, ecco che in un battito di ciglia mi trovo nella piazza del mercato, dove mi riprometto di acquistare un nuovo pennellino per la mia asta da lubrificatore e guarda qui guarda lì, per confrontare prezzi e qualità e trovare in tal modo il miglior rapporto qualità-prezzo, guarda qui guarda lì non riesco a decidermi. Perché, se uno è economico, avrà le setole in plastica, che cadranno al primo uso come foglie d’autunno e, se è uno di quelli buoni, se è un puro cinghiale o addirittura una pura martora, allora sai che prezzi, non ne parliamo neanche, ah, come è difficile trovare la giusta via di mezzo o, per dirla in latino, questa benedetta laurea mediocritas!
E guarda che ti guarda, cerca che ti cerca, prova che ti prova, fra una bancarella e l’altra, arrivo in questa zona dove c’è la rete e, dietro la rete che è, questo va detto, che è a maglie larghe più che strette, dietro la rete stazionano in riga questi venditori non autorizzati, imbacuccati nelle loro pelli lapponi, ed espongono ciascuno un articolo o al massimo due, a terra davanti ai piedi calzati di stivali alla cavallerizza, o appesi con corde di budello alle maglie della recinzione, e sono sempre gli stessi articoli, che non interessano nessuno: un pesce salato o affumicato qui, un salsicciotto di cavallo lì, una bottiglia di schnapp fatto in casa là, un paio di bamboline d’osso qua, ma perché verranno costì a perdere il loro tempo, perché hanno tutto questo tempo da perdere, costoro, non si sa, due giornate ad aspettare al bordo della nazionale la corriera che magari arriva già carica e non si ferma neanche, e poi sette giorni e sette notti di viaggio senza mai poter scendere, perché la corriera passa e non si ferma mai, per poi trovarsi qui alla periferia di questa metropoli ignara e indaffarata, trovarsi qui ad aspettare davanti a quel pescetto secco e striminzito, davanti a quel barattolo di unguento per i cavalli, davanti a quel desueto strigile d’osso, davanti a quello scialle a fiori sottratto con la forza alla nonna, ma perché hanno tutto questo tempo costoro, non si sa, non si sa ma avviciniamoci a costoro guardiamoli bene in viso vediamo cosa c’è nel loro sguardo, c’è l’atavica indolenza di un popolo abituato a essere dominato, o c’è invece la rude fierezza di una razza accostumata alla guerra e alla scorreria? C’è fredda determinazione e spietata ferocia, nei loro occhi tondi a mandorla sporgenti infossati azzurri neri, nei loro occhi che parlano, oppure c’è mite docilità e rassegnata sottomissione, che cosa dicono cosa, cosa dicono questi occhi che parlano, parlano e dicono di sereno laborio campestre o parlano e dicono di terribili razzie notturne, non diranno piuttosto entrambe le cose, eh?
Ma non voglio qui sfondare porte già aperte dai nostri più autorevoli scienziati analisti e commentatori, non agogno no a competere con i più insigni specialisti e dottori ex causa no non anelo no, mi limito, ecco, mi limito appena a suggerire alcuni spunti di studio e di riflessione, a porgere umilmente alcune mie osservazioni estemporanee, suscitatemi dalla vista e dall’esame in loco di questi tipi umani, quasi reperti frammentari rinvenuti accidentalmente dal modesto escavatore quale io sono, nel corso di tutt’altra campagna di ricerca, e cioè la ricerca di un pennellino piatto numero otto, in setola sintetica o eventualmente naturale.
Ma ecco che la fortuna mi arride, sì, un momento, sì, sì, mi arride, sì. Mi arride e mi si presenta sotto forma, sotto la forma di un uomo appoggiato alla rete, un uomo che guarda maliconicamente dalla nostra parte e non si attende certo un compratore, e che cosa vende quest’uomo, ve lo dico subito quest’uomo vende un  pennello, e qui non so davvero contenere l’anelito nel mio petto, lo vedo immediatamente che quello non è un pennello di quelli che incontri tutti i giorni no, non è uno di quelli che ti tirano dietro a ogni angolo di strada no, è un bel pennello solido come se ne facevano una volta, con un manico di legno duro, polito, di pioppo nero certo o financo di castagno, dalla bella curvatura, e un legaccio impeciato che tiene salde e strette le ben mondate e pettinate setole che, oh cielo, me ne accorgo bene al tatto, appartenevano al più puro e robusto fra gli zibellini, uno zibellino che ha cacciato e predato nelle sconfinate taighe del nord, che ha vissuto la sua vita e ha avuto la sua morte, non uno di questi zibellini da allevamento che mangiano pappette e kit kat e si spelacchiano alla prima spennellata no, ma mi contengo, cerco di non far trasparire la mia emozione e il mio interesse, è un fatto di semplice senso degli affari, e addirittura me ne vado a fare un giro ma subito non ne posso più e torno lì e l’uomo, il cielo sia lodato, c’è ancora e il pennello anche. E come è presentato questo pennello, caso dei casi, e come avevo potuto non notarlo sin da prima, ma dove li avevo gli occhi, eh? dove è che li avevo, eh, gli occhi? Perché questo pennello è fissato alla cima di un’asta e fa con quella un angolo di, a occhio e croce direi, sì, sessanta-sessantacinque gradi, ma l’asta amici miei, l’asta quella sì che è un’asta, una signora asta, un’asta come si deve, un’asta con tutti i crismi, ma cos’è il mio crisma davanti a quelli, e cos’è il mio crismale, quel povero scodellino sbreccato e crepato, che cos’è davanti a quel panciuto orciolo di terra rossa, ornato di un leggero manico di bambù e decorato a figure nere, che lo straniero oltre la rete ha poggiato al suolo, come un’offerta ai sordi dèi, e la mia asticciola stenta che cos’è, cos’è davanti a questa bell’asta ardita tutta intagliata da cima a fondo di belle rappresentazioni cosmogoniche e mitologiche, lì una battaglia di eroi e gasteropodi, qui la scoperta dell’isola di Vineland e là la conferenza di Tubinga, e cos’è che avrà spinto quest’uomo dal volto malinconico e nostalgico, cosa l’avrà spinto a disfarsi di questi preziosi strumenti, di questi pezzi da collezione, di questi veri e propri capolavori dell’arte untoria, cosa l’avrà indotto cosa, cosa l’avrà portato a questo punto di non ritorno, debbo saperlo devo, cosa ha condotto qui a questa rete infame il mio fratello dell’altra sponda, cosa e che, perché e che cosa, questa è la domanda che mi sta sulla punta della lingua e che non posso formulare, perché dico io manchiamo di una lingua comune?

Questa è dunque la paradossale situazione: avere di fronte a sé, separato appena da qualche centimetro di aria fredda e gelida e da una rete metallica, avere di fronte a sé un collega, un sodale, un maestro, vederlo così ridotto dalla fame e dagli stenti a rivendersi i suoi stessi strumenti di lavoro, a cedere a uno sconosciuto i suoi unici mezzi di sussistenza, solo perché questo sconosciuto dispone di alcuni biglietti colorati e numerati, disegnati con il più grande cattivo gusto, questo è davvero il colmo signori miei, e tutto questo non è che non glielo dica, glielo dico ma nella mia lingua che è l’unica che so e costui non può capirmi, mi fa un sorriso perso e un segno di V con le dita. Debbo fargli intendere almeno che sono anch’io uno della congregazione, e perciò torno all’automobile, e ne estraggo gli arnesi, l’asticella col pennello e la scodella, ed è assai probabile che certe anime belle troveranno improponibile un simile approccio, e avranno ragione, perché quando l’uomo oltre la rete mi vede arrivare con i miei poveri attrezzi, che gli mostro come trofei, venite a intender li sospiri miei, oi cor gentili, venite pure anime belle di tutte le razze e di tutti i colori, ridete anche voi di me, così come, al vedermi arrivare ride quell’uomo e mi indica col dito e chiama anche gli altri e tutti quelli dall’altra parte della rete mi ridono addosso e sopra e dietro, ridono di me e della mia ciotolina e del mio pennellino, ridono del mio yin e del mio yang, del mio yoni e del mio linga, e come volete che dopo questa prova io abbia ancora fiducia nell’umanità? Davanti a ciò mi cadono proprio le braccia o per meglio dire le loro appendici e scivolano a terra il bastone e la tazza, e me ne corro via da quel maledetto posto e luogo, ma perché, perché tutto ciò, perché questo mal di vivere questo vivere male perché questo tedium vitae che capita a me, perché, perché.
Perché, perché partir bisogna, prendi la tua automobile, piccolo uomo, prendila e vai, torna sotto il cavalcavia della tangenziale, attacca la roulotte al gancio dell’auto e vai, parti nella sera e vai, immettiti nella tangenziale che conduce in tutte le direzioni, segui le lucette rosse avanti a te, pensa a dove te ne potresti andare, pensa a un posto che sia fatto per te, pensa a un posto così, un posto pieno di futuro e non di passato, un posto in cui avresti magari anche potuto andare con lei, a rifarsi una nuova vita, a ricominciare tutto daccapo, ah se ci ripenso mi vien di piangere mi vien, tempo ne è passato ma non ha lenito le tue ferite, il tempo passa ma ti trovi sempre imbottigliato in questa coda sulla tangenziale, a neanche due chilometri dal tuo cavalcavia, te ne stai nell’oscurità protettrice dell’abitacolo e sgorgano infine lacrime consolatrici e necessarie, son lacrime d’amor, son più grosse di quell’altre, sono lacrime d’amor per te, lo vedi che qualcuno che ti vuole bene c’è, non essere triste sù, e datti un contegno ché qualcuno potrebbe vederti, cosa penserebbero i vicini di coda, a vedere un uomo grande e grosso, con tanto di vettura regolarmente immatricolata e di roulotte al seguito, che piange così come una femminuccia? No non ci far fare queste figure per favore no non farcele fare no ecco da bravo tira fuori il fazzoletto soffiati il naso e non ci pensare più no, ecco, sù, va diminuendo, vedi, bravo, ecco, in un soffio, in un fiato, sottovoce sottovoce, come in un sospir, ecco.
Ecco, non si sente più adesso che il ronfare tranquillo del motore, sarà quello che sarà Ambrogio come artista, ma come meccanico non c’è che dire, senti qui senti che registrazione delle puntine senti qui che messa a punto delle valvole senti che smerigliatura delle candele ma questo motore è proprio un orologio senti qui che ritmo cronometrico senti che melodia metronomica ma senti, altro che Rossini, altro che Bach, ma questo è un vero Paganini del cacciavite, questo è un luminare della meccanica moderna, no nessuno come Ambrogio sa coniugare in tal modo estro ed armonia, padronanza tecnica e intuito creativo, conoscenza del soggetto e fantasia inventiva, e devo proprio mandargliela una bella cartolina di ringraziamento da lì dove andrò, sì, ma dove è che me ne andrò?
Luce! quadro! fuoco! riflettori occhi di bue luci psichedeliche faretti multicolori palle rotanti lampade scialitiche e fotoelettriche su questo conducente che prende infine la sua decisione tanto cogitata e si infila nella corsia d’emergenza e supera gli altri tutti quanti ma dopo neanche un chilometro c’è uno svincolo il guidatore lo imbocca e si trova fuori della tangenziale via dalla calca in una strada di campagna una specie di siberia oscura e nebbiosa e, guida che ti guida su questa carrareccia interminabile vede un lumicino laggiù in fondo e poi due e poi tre a dire il vero è quella tutta una luminaria festaiola, bisogna dire che è veramente illuminato a festa il piazzale del ristorante Da Luigi, come se stesse ad aspettarti non deluderlo non andare a parcheggiare la roulotte nell’angolo buio in fondo non rinchiuderti lì dentro non infilarti nella cuccetta sotto le coperte, in compagnia delle tue pallottoline delle tue caccole delle tue cispe dei tuoi muchi che collezioni nelle scatoline etichettate, esci di lì, vai incontro al mondo, entra nel ristorante Da Luigi, sarà pure vasto e tutto vuoto ma due parole col cameriere potrai scambiarle pure, no, da questo orecchio non ci sente, guardate, già dorme con la testa sul tavolo. Me ne torno alla roulotte. Domani forse andrà meglio, si vedrà.
Ed eccolo l’indomani: una vita nuova forse prenderà inizio, sù, sveglia e al lavoro, ché una nuova vita inizia oggi e, pagare per vedere, oggi inizia una vita nuova, allora volete vedere ebbene sia vedete qui, vedete vedete vedete, vedete che non scherzo e invece faccio sul serio, ché al mattino si vedono le cose con altri occhi, con occhi cioè che non sono quelli della sera precedente ma piuttosto quelli del mattino successivo, e difatti ecco, ecco, arrivo e vengo e sono a voi, ma cos’è, non so, mi sento come impedito, mi sento rattrappito e congestionato, non so. Su, dai, prova metticela tutta mettiti di impegno e di buona volontà alla grande dai sù, procedi come ti diciamo noi. No no non voglio no lasciatemi in pace no. Ora basta, basta con le tue frigne le tue astenie basta su, dai prova, dai vedrai che ce la fai: i piedi, spingili fuori dal letto e poggiali entrambi a terra, ecco, da bravo, su, anche l’altro adesso, bravo, ecco, sei già a metà dell’opera, ma adesso viene il bello, e cioè passare dallo stato seduto a quello eretto, andiamo avanti allora: flettere le ginocchia, spingere sui talloni, raddrizzare il busto (si vegli a che il paziente non si distragga in questo delicato frangente: un malaugurato passo falso, con conseguente ritorno alla posizione di partenza, risulterebbe di nocumento e pregiudizio a tutto l’insieme psico-fisico della nostra terapia d’urto).
E allora, ci si vuole mettere bene in piedi e ritti sulle gambe, sì o no? Raddrizzare il busto attenzione non distrarsi ecco ancora un piccolo sforzo, e ci siamo ecco bravo ci sei riuscito ce l’hai fatta tieni lo zuccherino bello di zio nel cerchio di fuoco ci salterai più tardi ma adesso da bravo infilati le scarpe o almeno questa specie di cioce dove sono concresciuti muffe e licheni, che tu chiami scarpe, infilatele insomma ed esci nel nuovo mattino affacciati alla porta e come ti era stato promesso questo è un altro giorno, si vedrà, noi fin qui ti ci abbiamo portato, ora vai avanti con le tue gambe bello di mamma e se non ti va giù ti arrivano due sberle due sganassoni che senti ti faccio vedere io ti faccio se li sai usare o no quei due stecchi che tieni al posto delle gambe, correre, su, correre, cento giri di corsa del piazzale e chi non è contento, che protesti pure, che faccia l’arruffapopolo, vedrà se non gli spaccheremo il culo, a lui e a tutti quelli della sua razza, quanto è vero iddio.
Ah ma quanto è grande il piazzale del ristorante Da Luigi detto la Siberia è grande sì, nel lucore plumbeo del mattino sulla piana, è grande vuoto e polveroso, si direbbe davvero una piazza d’armi. C’è perfino il pennone con la bandiera.
E c’era una volta un omino tracagnotto e coi piedi piatti, che non aveva voglia di camminare perché gli facevano male i piedi. Quest’omino era triste triste, perché era tracagnotto, aveva i piedi piatti e questi gli facevano male quando camminava. Ma non aveva altro che i suoi piedi, l’omino tracagnotto e coi piedi piatti, per andare al lavoro e sbarcare così il lunario e, lavora lavora, cammina cammina con il suo barattolino di olicino e l’asticella col pennellino, cammina cammina i piedi gli facevano sempre più male e le sue scarpe erano sempre più sformate. Ma, direte voi, ma perché quest’omino tracagnotto e con i piedi piatti non se li compra un paio di zoccoli del Dr. Scholl’s e non la smette di lamentarsi? Eh no, dovete sapere che il nostro omino è un vero cicalone e si è mangiato già tutto quello che aveva guadagnato l’altrieri, se lo è pappato tutto all’osteria e conta e riconta, e fruga e rifruga in tutte le tasche e in tutte le saccocce, non gli rimane più che una sola e unica banconota, che non è sufficiente neanche per comprarsi una soletta di gommapiuma, figurarsi un paio di scarpe buone.
Ed è così che il nostro omino indugia sulla porta della sua roulotte, indugia e non sa decidersi, e intanto che lui si decide voi potete osservare, signore e signori, alla vostra sinistra un bel filare regolare di eucalipti importati per noi specialmente d’Australia e dritto avanti ai vostri occhi potete ammirare l’imponente architettura postmoderna del restaurant Da Luigi Sale per Banchetti Ricevimenti Feste Aziendali Conferenze Meetings Summit Incontri al Vertice e alla Base Riunioni Segrete Incontri Particolari Cure Estetiche di Prima Classe Massima Discrezione sconti speciali per onanisti monchi, se accompagnati dalla nonna, e alla vostra destra no c’è solo questa utilitaria con rimorchio che non era prevista dal prospetto e come mi è capitata dentro il quadro non si sa, e quell’uomo che orina dietro la roulotte come mi è finito qui dentro, portatemelo via ecco e passiamo al punto successivo del nostro programma che come potete vedere dal depliant prevede: Mattinata interamente dedicata alla visita di queste famose Lande Desolate, con soste nei luoghi più caratteristici. Raccolta di cicoria selvatica e altri tipici prodotti locali. In caso di maltempo, caccia alle rane nei fossi. Pranzo al sacco. Pomeriggio libero. In serata rientro in hotel, cena e pernottamento.
Un programmino come questo non glielo invidio certo a questi escursionisti, ah questa abitudine tutta nostrale di organizzarci la vita fin negli infimi dettagli io non la capisco no, e dove è finita l’anima artistica, dove è finito lo spirito d’avventura per cui andavamo famosi nel mondo intero? Vuoi mettere quando al mattino ti alzi e la giornata è tutta intera avanti a te, promettente e trepidante nell’attesa che tu faccia di lei ciò che vuoi, vuoi mettere o no? Vuoi mettere quando sei così aperto al caso e all’imprevisto, e avanzi i tuoi passi sul bilico dei bilici su questa scala senza balaustra che è la nostra esistenza? Ma non voglio lasciarmi andare no a questi accenti lirici, e dopo aver raccolto quello che c’era da raccogliere stamane all’interno delle mie froge e aver riposto il raccolto lì dove ha da esser riposto, dopo avere raccolto quello che c’era da raccogliere e dopo averlo riposto lì dove doveva essere riposto, dopo avere raccolto il raccoglibile e riposto il riponibile, dopo aver raccolto, dopo aver riposto, dopo che il raccoglibile è stato raccolto e il riponibile riposto, come è giusto e come qui dico a futura memoria, ora sono libero e posso andare alle toilettes del ristorante Da Luigi, per ottemperare anch’io alle più recenti misure igienico-sanitarie, e nelle toilettes avverrà una scena che sarà affidata a un cast davvero d’eccezione e ne saranno interpreti e protagonisti due stelle fra le più gettonate che vanno per la maggiore sui nostri schermi: il Lubrificatore di Saracinesche, nel ruolo di Col Sapone sulla Faccia, e il Cameriere, nel ruolo di Senza sapone sulla Faccia.
Buongiorno – disse Col Sapone sulla Faccia.
Buongiorno – disse Senza Sapone sulla Faccia.
Come va? – disse Col Sapone sulla Faccia.
Bene, grazie, e lei? – disse Senza Sapone sulla Faccia.
Bene, grazie, non c’è male – disse Col Sapone sulla Faccia.
Fine della scena. Si torna all’aria aperta. Si torna all’aria aperta e alla roulotte parcheggiata in fondo al piazzale deserto e spazzato dal vento che sembra una piazza d’armi ma che potrebbe essere anche la piazza San Pietro o anche la piazza del Palazzo d’Inverno, perché c’è, se volete saperlo, c’è nell’aria del tempo un qualcosa, c’è come una domanda o un’attesa di una qualche rappresentazione, o raffigurazione, o come dire una qualche incarnazione dell’essere o del destino della comunità (e questo nome stesso sembra, solo a evocarlo, risvegliare un tale desiderio identificatorio), e cosa c’è di meglio che una bella piazza, per contenere questa domanda e quest’attesa e riempirla di simboli, figure, rituali e presenze atte a fornirla questa bella identificazione cui tutti aneliamo, e non potremmo riempirlo allora questo inutile e che non aspetta altro piazzale del ristorante Da Luigi, non potremmo riempirlo alla bisogna di una bella folla che acclama e applaude, non potremmo organizzarci una bella adunata oceanica, l’impianto stereo c’è e quello delle luci anche, che cosa volete di più?
No, vedo che quest’idea  non piace a nessuno e non fa niente come non detto, me ne torno in macchina metto in moto e torno sulla carrareccia polverosa, sono di nuovo solo davanti al mio destino e nessuno ha bisogno di me no nessuno la comunità non mi vuole e se è così, se è così ebbene io non voglio lei, anzi prima che me lo dica lei glielo dico io, glielo, e glielo dirò con sguardo perso lontano verso l’infinito: “mi dispiace davvero signora mia ma è andata così non potevo fare diversamente mi dispiace ma è andata così se ne dia pace in fondo è meglio così, non eravamo fatti per intenderci, noi due”, ah ma se penso a quell’altra, se penso a quell’ultimo incontro, ah! lo avessi presentito, che quell’insperato contatto materiale e spirituale, quel suo subitaneo cedimento al mio desiderio era destinato a non più riprodursi, ah se penso che quegli sguardi che mi ubriacavano come calici di vino, che mi giungevano fino ai precordi…ah! non pensiamoci più, lasciamo stare, và!
E, mentre lascio stare e più non ci penso, scorre a perdita di vista avanti a me il nastro bianco del tratturo, scorre scorre e scorrono scorrono a destra e a sinistra gli eucalipti australiani e sobbalza sobbalza la vettura sui dossi e nelle buche, ed ecco mi trovo davanti alla recinzione dell’aeroporto. Accosto in uno slargo. Scendo dall’automobile. Mi appoggio alla rete. Guardo gli aeroplani che scendono giù e salgono su. Anch’io voglio volare.

Prontuario del protervo (1994) prima parte

Me ne stavo, come al solito, sì, al Circolo Donatori di Organi, sì, impegnato in una di quelle partite a boccetta americana che non finivano mai prima di mezzanotte e passa, sì, me ne stavo, sì, impegnato, sì, quando squillò il telefono, sì, collocato sul muro, sul muro del vestibolo, sì.

“Chi sarà mai” disse Alessio, che sbuffò e ciabattò fino al ve­stibolo e quando ne rivenne annunciò che era me che si voleva al telefono. “Chi sarà mai” dissi, e guardai i Soci riuniti intorno al ta­volo con aria allibita, perplessa e circospetta, li guardai cioè io con aria allibita eccetera, perché loro di aria non ne avevano proprio nessuna, ché a forza di dare il proprio corpo personale per il bene del prossimo e dell’altrui non erano rimasti loro neanche gli occhi per piangere, ma lo stesso li guardai in quegli occhi che non erano più loro, ma che detenevano solo in prestito, in via eccezionale e per grazia di Dio, e li guardai volendo significare che non era mia colpa e responsabilità no quella inopinata inter­ruzione, non era mia no ma invece era di quell’ altro sì di quello scocciatore in attesa dentro il telefono nel vestibolo, e che aspettasse, non ero certo ai suoi ordini io, che a me nessuno mi dice quello che ho da fare, capito, capiert, capitt? Ma, bene o male, volere volare, mi staccai dal tavolo e mi portai nel vestibolo, dove pendeva la cornetta del telefono, appesa alla sua stessa corda ironia del destino, e arrivai appena in tempo per salvarla, sollevandola dalla sua incomoda posizione e portandomela all’ o­recchio.

“Pronto” dissi. Una voce ringhiosa ruggì nel ricevitore: “So­no papà”. Era il mio papà. “Vieni qui, vieni, ché ho del lavoro per te, vieni a casa coccobello di papà”: disse papà.

“Ma, papà, è mezzanotte e passa, si deve fare proprio stase­ra, non si può aspettare fino a domani, domani anche di primo mattino non dico di no, non si potrebbe no, proprio no?” Ma papà aveva già riattaccato il telefono, parlavo al vuoto e al nulla, parlavo senza più il e in mancanza del, naturale, interlocuto­re, ed è per questo che a mia volta rimisi al suo posto la cornetta, che se la vedesse lei con la sua forcella e il suo cordone, d’ altronde ci si era messa lei fra l’incudine e il martello e non sta a me intervenire nello spontaneo esercizio del libero arbitrio altrui, ah no, certo però se l’arbitrio fosse servo, allora in­vece interverrei, perché su di me si può contare, sì, quando si tratta di difendere gli oppressi oppure di raddrizzare i torti, allora io rispondo sempre presente, insomma ricondussi la benedetta cornetta al suo natu­rale stato di attesa e tornai in sala, a prendere congedo sì dagli amici del Circolo.

Presi così congedo dagli amici, del Circolo, e andai difilato dal babbo il quale mi disse non appena mi ebbe visto il quale non appena mi ebbe visto mi disse dissemi: “Ce ne hai messo, corpo di mille balene, ce ne hai messo di tempo per venire”.

“Sì è vero papa sì lo so ma d’altronde devi pur capire che il Circolo non è che stia dietro l’angolo, al contrario invece non sta proprio dietro l’angolo, capisci”.

“Capisco, capisco” disse burbero ma già in qualche modo rab­bonito papà, il mio paparino che urla sempre ma non è poi così cattivo come sembra, il mio papi sotto la cui rude scorza batte un cuore di gran signore, il mio unico e autentico genitore, il Padre, chi altri se non lui, il mio vecchio, il Grande Vecchio, che in quella circostanza di cui qui narro mi disse e anche mi disse, sì: “ma cosa ci andrai a fare in quel ritrovo di smidol­lati io non lo so, perché perdi tempo in quelle compagnie io non lo so, non mi piace no la gente che frequenti e dovresti sapere che chi va con lo zoppo impara a zoppicare e dimmi con chi vai e ti dirò chi sei e perciò, ma del resto la vita è tua e ne fai quel che ti pare, non sarò certo io che interverrò nella tua vita che è tua, dio me ne scampi e liberi, cosa vuoi che me ne importi di quello che combini e del resto che cosa potrebbe combinare un salame un imbelle come te ma lasciamo stare non mi far parlare che è meglio e vai piuttosto nello stanzino da lavoro, vai piuttosto nello stanzino che lì c’è del lavoro, c’è del lavoro per te, e bada a non ciurlarmi nel manico, ci sono altre dodici lettere da copiare, mettimele per bene in bella copia e in bel carattere, con diligenza e applicazione, come puoi se lo vuoi, e te l’ho detto e ripetuto mille volte che vo­lere è potere, cerca quindi di volere e vedrai che potrai e adesso su al lavoro, via”, disse papà concludendo la sua tirata con un affettuoso scapaccione sulla nuca (eh si devo dirlo che il mio papà non è poi così cattivo come vuole far credere e sopra! tutto è uno che dimentica tutto, che non ha risentimenti di sorta ecco questo è il lato bello di lui, per esempio mi rimprovera è vero per causa delle mie frequentazioni e compagnie, ma subito via un, bel colpo di spugna e tutto è acqua passata e cosi dovremmo fare tutti, perché cosi si vivrebbe meglio tutti quanti, questo e sicuro, sì, e veramente garantito, sì, davvero.

Me ne venni dunque al tavolino, dove mi aspettavano le dodici lettere di papà, si se ne stavano li buone buone ad aspettarmi, chiacchierando fra di loro in un allegro ciangottio in un argen­tino pio pio, ma subito al mio ingresso tacquero all’unisono le gallinelle e rimasero silenziose, perché la ricreazione era fini­ta e adesso si lavorava, e lo sapevano bene.

Mi sistemai per benino al tavolino, ben composto e ben dirit­to, io cioè composto e diritto e quanto al tavolino, quelli erano affari suoi, io intanto mi sistemavo diritto e composto, tanto che fra il mio dorso e lo schienale della sedia poteva passarci finanche un treno, così come mi aveva insegnato la Gretel, la mia istitutrice svizzero-tedesca di Sils-Maria, che fu la mia inizia­trice anche in ben altri campi che non nel solo galateo, come dirò più in là, sì. Mi sistemai bene bene, presi un bel foglio bianco, intinsi il pennino nel calamaio e mi accinsi a copiare la prima lettera, che suonava pressappoco così, sì:

“Egregio Signor Direttore,

le scrivo in merito a un annoso e penoso problema che è stato, sia pur fuggevolmente, evocato in un articolo del Suo pregiato giornale, di cui sono, come mi fregio di farle noto, un appassionato e fedele lettore, problema dicevo, annoso e penoso, che è stato meritoriamente, per quanto fuggevolmente, evocato in un articolo del Suo benemerito periodico, a firma G.S., che portava il titolo Nuovi e vecchi problemi del nostro quartiere.

L’ articolo in questione faceva riferimento a diversi fenomeni di malcostume dilagante e, per quanto in modo forse troppo fuggevo­le, al problema morale, che si rivela in mille e uno spie indizi e sintomi del comportamento umano, non ultimo fra i qual i quello su cui vorrei qui modestamente richiamare la Sua e quella dei Suoi lettori attenzione, e mi riferisco alla triste abitudine che vorrei in questa sede stigmatizzare, unendomi al coro delle persone civili e oneste che sono, lo sappiamo bene, divenute ormai merce rara, e mi unirò a questo coro nella mia qualità di ormai sessan­tennale Servitore dello Stato e nella mia veste. di Promotore e Presidente Onorario del Partito dei Reduci di Tutte le Guerre (P.R.T.G.), affiliato alla Cassa Previdenziale dei Reduci di Tutte le Guerre (C.P.R.T.G.) e all’Associazione Dopolavoristica dei Reduci di Tutte le Guerre (A.D.R.T.G.), Partito il quale, è doveroso aggiun­gere, ha conseguito lusinghieri e incoraggianti risultati in occa­sione dell’ ultima “kermesse” elettorale nella nostra circoscri­zione, ed è perciò forte di tale incoraggiante sostegno da parte di diecine di nostri concittadini che elevo la mia voce da questa tribuna, per stigmatizzare con forza la triste abitudine, così consueta ormai, in ispecie presso certi “signori” provenienti dai ceti sociali meno educati, di pizzicare o financo grattare, nel bel mezzo della pubblica via, le parti basse del proprio corpo o, per dirla schiettamente, i propri organi genitali. È questa una vera vergogna civile, e lo dico qui con vigore: se è questa dunque l’immagine di noi uomini adulti che vogliamo dare ai nostri piccini, come pretendiamo che di fronte a tali esempi possano essi credere in un futuro migliore? “Signori” che vi grattate le parti basse nel bel mezzo della pubblica via, riflettete su questo dato e pensate al bello spettacolo che offrite ai nostri bambini e alle nostre donne, pensate a quegli innocenti occhi che vi guardano, quando una subitanea prurigine richiama la vostra mano verso quelle parti, e da veri uomini sappiate controllarvi, sappiate resistere, se davvero ce li avete!

La ringrazio, Signor Direttore, della sua cortese attenzione.”

Ecco, come si vede è uno che gliele canta, il mio papà, sì, proprio, davvero, e non gliene scappa una, no, è proprio implacabile sì il mio paparino. E ne copiai altre undici dello stesso tenore, di queste lettere di fuoco, di questi messaggi di fiera e vibrante denuncia, toccanti i più vari e variegati aspetti della vita sociale e civile, ed è noto che undici più uno fa dodici, anche i bam­bini lo sanno questo e copiai perciò durante la notte ben dodici Lettere al Direttore, e l’indomani mattina di buon’ora le conse­gnai personalmente alle segreterie dei suddetti Direttori, dopodiché potei considerarmi sul rompete le righe sì e potei andare a pren­dere un meritato riposo al Club dei Portatori di Pacemaker, e di­fatti giunto costì sprofondai in una confortevole poltrona in “skai”, mi apersi un giornale finanziario sulla faccia e mi appisolai al­l’ istante.

Mi risvegliò un domestico, messaggero di notizie e in partico­lare della notizia che mi si desiderava al telefono, come dimostrava il fatto che egli stesso mi porgeva un ricevitore telefonico, che portai seduta stante all’ orecchio, per udire la ben nota voce del mio Big Daddy, il quale voleva sapere se avevo portato feli­cemente a termine la missione assegnatami, “sì papà non ti preoc­cupare certo papà ho fatto come dicevi tu le ho consegnate in Ma­ni Proprie le tue letterine e vedrai che domani le pubblicano tutte per intero, grazie alle tue note conoscenze, e potrai accluderle in tempo, ma in appendice beninteso, all’ ultima edizione degli Scritti Completi, e sì l’ho preso l’appuntamento col tipografo non ti preoccupare va tutto bene ho pensato a tutto anche alla dedica in carattere Times e ai ringraziamenti in corsivo corpo otto, ho tutto scritto tutto appuntato sul mio calepin no stai tranquillo non dimentico niente e del calzolaio sì me ne occuperò oggi stes­so ci passo dopo il tipografo o forse prima, vedremo, sì, la so­letta di vero cuoio e non di gommapiuma lo so si certo gliel’ho detto lo sai che lavora bene non ti preoccupare ci penso io poi te le porto questo pomeriggio sì adesso vai tranquillo a lavorare che ci vediamo poi, sì, ciao sì , ciao ciao, si sì ciao”.

“Oh” dissi riconsegnando il ricevitore al solerte servitore, “neanche si può più riposare in santa pace in questo posto, mi porti un decaffeinato, buon uomo, mi faccia il piacere, sia gentile, grazie, vedrà che Dio gliene renderà merito e che magari ci scappa finan­che una bella mancetta, ci scappa, sì, ma ora vada, su, e mi torni con un bel decaffeinato, e vedrà che saprò mostrarle tutta la mia riconoscenza, ma si sbrighi, che diamine, cosa me ne sta lì impalato e tutto boccheggiante, razza d’idiota, si muova piutto­sto e visto che c’è mi faccia venire il Direttore, che gliene can­terà quattro, la faccio mettere in riga io la faccio, sì, cosa vuole che mi interessi se lei è un raccomandato di ferro, mi fanno un baffo a me quelli del Sindacato Detentori Organi Artificiali, lei è qui per fare il suo lavoro e non per farsi venire una crisi respiratoria davanti a un cliente che non faccio per dire ma di guai e preoccupazioni ne ha ben altri che lei”, e messo così al suo posto questo zoticone, questo pappamolla, con cui avevo perso già abbastanza tempo, ebbi infine il mio bravo decaffeinato , por­tatomi con le sue proprie mani dal Direttore stesso, tutto defe­rente, tutto sollecito, Direttore il quale, a furia di celie moine e lusinghe, il quale, ben uso a simili casi avvezzo e a tutte le esperienze rotto, Direttore il quale riuscì non senza dura fatica e sudore della fronte, riuscì a rabbonirmi e difatti fui rabbonito e come se niente fosse in men che non si dica  sorbito degustato e infine gradito e apprezzato il mio bel decaffeina­to (ma che bouquè questo suo decà, caro il mio bel Direttore, mio caro Direttore dei miei stivali, e che retrogusti, senta qui che retrogusti, si vede che questo è un arrivaggio speciale veramente, si annidano difatti in questa tazzina tutte le fragranze delle più selezionate raccolte dalle origini più controllate, cantano in questa tazzina qui i cori dei gioviali raccoglitori quechua pagati un miserabile sol alla gerba e frustati a sangue dai capo­rali a cavallo se per caso scivolano sul sentiero di montagna e rotola giù nelle valli qualche preziosa bacca, perché niente vale più di una gerba colma del più puro arabica arabica, insomma per farla corta mio caro Direttore questo suo decaffeinato fa proprio schifo, altro non è che rigovernatura dei piatti e niente più, al­tro non è che una vera ciufeca, proprio, sì, davvero, ma per oggi basta così, per oggi la perdono, se la beva lei alla mia salute questa pozione d’inferno, ché io ho da fare e me ne vado), me ne andai, cosi, sui due piedi, come se niente fosse.

Come se niente fosse no, perché io non sono uno che prende o fa le cose alla leggera io no, invece al contrario io ci penso e ci medito sopra, ed è così in fondo che la ciambella viene con il bu­co, altrimenti no, non viene né l’una, e né l’altro, e già. Perché io sono un uomo preciso, sono un vero paradiso. Sono un uom ché molto vale, non son mica neutrale. Sono un uomo assai palese, non son certo un eschimese. Sono un uomo eccezionale, sono un figlio naturale. Sì fatto è che nell’uscire dal Club, mentre indugiavo sul marciapiede antistante, allo scopo di accendermi uno dei miei Avana grandi come portaombrelli per cui vado famoso in tutta la città, mentre indugiavo dicevo sul marciapiede antistante il Club mi imbattei in qualcheduno che entrava, e questo qualcheduno dov’è che l’avevo già visto, era al Sodalizio, o non piuttosto invece all’Unione Nazionale, fatto è che quella persona lì mi ricordava qualcuno, ma dov’è che l ‘avevo già vista, ah ma certo dove è che li avevo gli occhi, non è che li avevo lasciati anch’io alla Cas­sa del Circolo (e sarebbe stato un bell’errore, perché quando hai ancora gli occhi per vedere, cos’altro vuoi di più, e tutto il re­sto sono quisquilie), no invece ce li avevo ancora e difatti me ne servivo per riconoscere e identificare quel tale, e quel tale era, sì, indovina chi, perché questi sì sono dati su cui riflettere, quel tale era, ebbene sì, quel tale era, e fatti furbo, quel tale era, indovina indovinello, quel tale era, fuochino fuochetto fuoco fuoco, quel tale era, oohh, quel tale era proprio Antonio, ma cosa ci faceva lì, mi domandai, e poi girai la domanda a lui stesso:

“ma Antonio che cosa ci fai qui?””

“Cercavo proprio Lei, Signorino” rispose Antonio, il nostro ze­lante maggiordomo. “Il suo Signor Padre difatti mi ha inviato costì, presagendo che con ogni probabilità ve La avrei trovata, e difatti mi allegro all’averveLa incontrata, e all’aver in tal modo condotto in porto la mia malridotta alberatura, così come mi era stato prescritto” e detto fatto Antonio si fece latore di un mes­saggio per me, e il messaggio era: che non dimenticassi di passare dal calzolaio a ritirare le scarpe badwürtemburghesi del mio Si­gnor Padre, “Lei lo sa quanto Egli ci tenga a quelle scarpe conta­dine che Gli offerse il Bürgermeister di Todtnauberg in persona, e che erano state portate, si dice, da Martin Heidegger stesso”. Sì sì lo so va bene grazie per il servizio ma ora vai torna a casa e riferisci quanto segue e cioè che le scarpe di papà stanno in cima ai miei pensieri e ora vai levati dai piedi sciò pussa via.

Sbarazzatomi così del vecchio Antonio, che è una pasta d’uomo e davvero fedele come un cane, ma che è anche un po’ anzichenò noioso, sbarazzatomi così brillantemente di lui, potei ricondurmi infine presso la mia signora, che si era a quell’ora certamente risvegliata e senza ombra di dubbio mi attendeva tutta acconcia e bene agghindata, davanti a un bel piatto di maccheroni alla salsa di pomodoro, e sì presto potetti constatare che così era ef­fettivamente, sì.

Quel giorno la mia signora indossava un completino che non le avevo ancora visto indosso, un completino giacca pantalone di la­netta a larghe strisce verticali bianche e rosse, forse un po’ leggero per la stagione, ma che d’altro canto ben sposava le di lei opulente forme, in ispecie ai fianchi e al calcagno, lascia­to a mezzo scoperto; tocco finale a questo variegato quadro, un, paio di scarpe nere con tacco a spillo, e niente calze a coprire i piedini rosati, degni modelli di un Rubens, che un Rubens cioè avrebbe potuto benissimo dipingere, se solo lo avesse voluto, o per meglio dire che ancora attendono il loro Rubens, ah perché non sono nato pittore, pittore di quadri! ma chissà che un giorno non mi ci metta… ma no non si tema, non lo farò sfigurare no il genere umano tutto, con l’esibizione della mia maldestria, lo so che non ci sono portato me lo sento lo sento e lo siento, e perciò non mi ci proverò niente paura, perché le idee ci sarebbero quelle sì ma di lì ad avere del talento quella è un’ altra storia, quello o ce l’hai o non ce l’hai e perciò mi accontenterò saggiamente di contemplare il mio piedino stretto nella scarpa di cuoio nero con fibbia d’argento e tacco a spillo con punta d’acciaio, mi accontenterò perciò solamente della pura contemplazione, come prescriveva il buon vecchio Schopenhauer e del resto, quando hai gli occhi per contemplare, cos’altro vuoi di più inoltre, e bando alle ciance rimettiamola al suo posto sì questa perfezione di piedino vicino all’altra che non è da meno, come perfezione, di piedino, ohi ahi ma che calma, ahi ma che lusso, ahi che voluttà, ah che oasi di pace questo calmo rifugio questo lussuoso nido quest’alcova voluttuosa che è il regno della mia Tatiana! (Certo, mi è costato un occhio della testa, ma quale gioia della vista, per quello che m’è rimasto!)

E fu così che all’ammirazione e contemplazione del piedino del sottoscritto, all’ammirazione e contemplazione cioè del sot­toscritto del piedino, o come dir meglio fu così che all’ammira­zione e contemplazione da parte del sottoscritto del piedino, no: fu così che all’ammirazione e contemplazione del piedino da parte del sottoscritto, oh, fecero seguito, infine! succedettero gioio­se agapi, allietate da una languida musica baiadera, diffusa nel­l’ambiente da un apposito impianto stereofonico a fedeltà davve­ro altissima, fornito dal sottoscritto a suon di assegni a otto cifre, come del resto tutti gli accessori e le varie suppellettili del nostro nido  d’amore e, al termine delle suddette agapi, per chiudere quest’ora di incontro conviviale, venne firmato il libro d’oro, o per meglio dire venne staccato e deposto sulla consolle un congruo e pingue assegnuccio, ahi quanto mi costi mia bella baiadera, ahi che sufrimiento del corazón tirar fuori all’aperto ed esporre alle correnti d’aria quel povero carnet ma che soddi­sfazione, anche, e per essere giusti bisogna dire che si ha quel che si dà, come regola generale e, poi, non c ‘ è che dire, non appena io sento la parola “amore”, io estraggo la mia credit card, seguendo in ciò una vocazione umanista perpetrata di generazione in generazione, e più particolarmente di padre in figlio e in questo caso il figlio sarei io sì.

Eh sì, e quanto all’amore, la mia Tatiana sapeva davvero come farsi voler bene. E ne fu ben ripagata: la sua vita accanto a me è stata infatti sempre costellata di gioielli, animali da compagnia e doni vari. Tra i molti regali che le ho fatto, quel li che ricordo con più tenerezza sono due dolcissimi gatti siamesi, chiamati Johnny 1 e Johnny 2, purtroppo prematuramente scomparsi in tragiche ed oscure circostanze, e uno splendido canarino rosa, Dioniso ; quanto ai gioielli, essi erano per la maggior parte, come detta il buon gusto, piccoli, di fattura delicata e poco appariscenti.

Eh sì, neanche applicando il metodo decimale del Dewey potrei catalogare tutti i doni e le offerte che ho deposto avanti a quel­l’amoroso altare, ma d’altronde, d’atro canto, d’altra parte, ne sono, come ho già detto, stato davvero ripagato, e già, e con gli interessi, sì ah, quale fonte di ispirazione non è stato esso per la mia arte, non è stato per la mia arte esso, non è stato no uno di quegli amori che fanno scoprire in te stesso vocazioni letterarie e ti fanno scrivere poesie, novelle e financo romanzi fiu­me, o che suscitano in te insospettate aspirazioni teatrali, e ti fanno allestire scenari di suicidio, non è stato esattamente ciò ma solo perché altre erano e mie vocazioni e le mie aspirazioni, ben altre, sì, come presto si vedrà su queste stesse pagine. Ma ciononostante conservo a tutt’oggi della Tatiana un indelebile e affettuoso ricordo, sì.

Ma per tornare a quel giorno, fu senza malinconia, malgrado i forti legami che ci avevano unito, che mi accomiatai dalla Tatia­na, difatti già sapevo che l’indomani l’avrei riveduta e non c’era quindi da fare tante smancerie, che la smettesse dunque di ag­grapparmisi alle ginocchia e la piantasse con i suoi pianti da coefora e lamentatrice professionale, basta, sciocche lamentanze sono queste e femminili, dai che domani torno, non piangere più adesso Tatiana, non piangere più Tatiana adesso, basta ho detto oppure ti faccio vedere, ah lo vedi che ti calmi se ti prendo dal verso giusto e adesso ciao, e che cazzo!

Oh, ma cosa faccio loro io alle donne, ché non vogliono mai la­sciarmi andar! E con tutto il lavoro che mi aspetta! Ma sì, amore e lavoro quelli li avevo non chiedevo altro no, e perciò era ora di passare al secondo, al lavoro, cioè!

Per prima cosa, punto uno: calzolaio. E lì tutto andò come pre­visto: consegnato scontrino, pronte scarpe, aperto sacchetto, ve­rificate suole, solette, linguette e tacchi, perfetti, un lavoro proprio di fino, davanti al quale papà non avrà davvero niente da ridire, almeno spero, liquidato calzolaio, missione compiuta.

Punto due: tipografo. E anche lì tutto sarebbe andato bene, se questa commissione non fosse stata turbata da un funesto episo­dio. Difatti, dopo aver discusso in tutta serenità con il brav’uomo le postille e appendici varie da apporre all’ Opera Omnia, ebbi la malaugurata idea di congedarmi lanciandogli, mentre ero già sulla porta, un “e lei, come va, tutto bene?””

“Sì, beh, veramente, ho appena perso mia moglie, proprio avant’ieri, è stato un attacco improvviso e fulminante, in pieno sonno, così, pace all’anima sua, non s’è accorta di niente, se ne è andata così la mia Amalia che m’ ha lasciato solo, erano quarant’anni che eravamo sposati, sa”.

E già alla memoria gli si inumidivano gli occhi, oh no, già lo vedevo, questo mi si metteva a piangere davanti non so se ren­do l’idea, no, per fortuna s’è trattenuto, anche perché prontamente io gli dissi: “sia forte, su, non si lasci abbattere , su, su con la vita, le rimane sempre il suo lavoro, pensi piuttosto a quello e al suo impegno morale e civile nei confronti dei suoi clienti, che hanno bisogno di lei, che non possono fare a meno di lei, coraggio, suvvia, coraggio” gli dissi.

“Sì, grazie, grazie”, balbettò il pover’uomo.

“Ma le pare, per carità, si figuri, se possono farle un po’ di bene alcune semplici parole consolatrici, non vedo perché dovrei dispensarmi dal pronunciarle, ma ora devo andare che vado di fretta, vedrà che la prossima volta già mi starà meglio, vedrà, mi prenda delle vitamine, mi mangi carne rossa con una bella insalata vicino, non mi disdegni un bicchierino di moscato di tanto in tanto, se le viene la voglia, e vedrà che in poche settimane mi tornerà come nuovo, su, pensi che nella vita non c’è solo il matrimonio e poi, figli ne avrà, no?”

“No”.

“Ah… Beh, in ogni modo, si tiri su, eh, non sia pessimista” e colpeggiandolo sulle spalle infossate dal dolore presi congedo dal povero tipografo e dal suo caso pietoso, e me ne andai per i fatti miei, ma ero davvero intristito (non paia eccessiva questa mia tristezza; quell’uomo era davvero un brav’uomo; e poi, fin da quando ero bambino, sono sempre stato troppo sensibile, sì).

Ma veniamo al punto tre: scappatina al Sodalizio. Dovevo infatti incontrare colà qualcuno, un tipo, un elemento, un affi­liato, insomma una pedina essenziale del mio piano accuratamente ordito, ah se papà mi avesse visto, egli che di nulla sospetta­va, egli che ignaro della Grande Impresa nella quale il suo pu­pillo si era imbarcato si cullava ancora nelle rimembranze delle sue passate glorie, cosa avrebbe detto, eh? se mi avesse visto in quel momento con gli occhi del pensiero, se mi avesse con gli occhi del pensiero visto in quel momento, se con gli occhi del pensiero mi avesse in quel momento visto, mentre mi intrattenevo con il mio uomo, nei gabinetti della sede del potente Sodalizio Portatori Organi Artificiali, mentre mi intrattenevo con Alber­to X, il mio uomo presso lo S.P.O.A., cosa avrebbe detto, eh? il mio Grand’Uomo, che si faceva beffe di me, che mi trattava da lavativo e da buono a nulla, che cosa avrebbe detto, eh? ma un bel giorno l’avrebbe visto, ma per l’intanto se non a lui, all’igna­ro visitatore che si fosse trovato ad avventurarsi nei gabinetti dello S.P.O.A. si sarebbe offerta la vista inconsueta di due uo­mini maturi che confabulavano dietro il separé di marmo rosa fatto venire espressamente da Carrara in convoglio eccezionale, grazie a certe conoscenze del Presidente, il quale ci teneva a che la Sede Centrale fosse decorata con quanto di più moderno e ricercato il mercato offrisse, e che si era perciò rivolto nel campo specifico dell’Arredamento Sanitari Architettura Interni a un’a­zienda leader nel settore, la quale azienda risultò poi essere intestata al marito della figlia cadetta, del Presidente, la quale figlia deteneva anche la maggioranza azionaria della Marmi Rosa e Affini S.p.A., principale fornitrice dell’azienda leader di cui sopra, come è logico, nonché della ditta a cui era stato affidato il restauro del palazzetto settecentesco, di puro stile baroc­chetto, opera dell’esimio per quanto non eccelso Guarinucci (1689-1788), che si vide , il palazzetto dico, nonché forse anche il Guarinucci lì dall’alto dei cieli, si vide la leggiadra facciata rivestita da cima a fondo di marmo rosa di Carrara, fornito per l’appunto dalla Marmi Rosa e Affini S.p.A. di cui sopra, ma non stiamo qui a sottilizzare, né saltiamo di punto in bianco o come suol dirsi di palo in frasca, torniamo piuttosto nelle riti­rate marmoree del palazzetto del povero Guarinucci, e vediamo che cosa combinano questi due dietro il separé, che cosa trafficano, che cosa cincischiano, ah no, non creda il gentile lettore che io agiti così avanti a lui lo spettro dell’omofilia, no, ci mancherebbe altro, quello che si fa lì dietro io e il segretario dello S.P.O.A. è pura cospirazione politica, altroché.

Altroché, altroché, altroché perdersi in ciance, qui si lavo­ra! Si lavora e si prepara qualcosa che valga davvero la pena, qualcosa per cui valga la pena vivere e morire, qualcosa che ha nome: futuro.

Ecco, mi asciugo l’angolo dell’occhio, perché ogni volta che sento la parola futuro io tiro fuori il mio fazzoletto, anche se sono io che la dico, poi rimetto nel taschino il fazzoletto e dico quello che facevo nei bagni dello S.P.O.A. insieme con il suo Segretario, e quello che facevo con il suo Segretario era trasmettergli le mie istruzioni, istruzio­ni concernenti data e ora di un certo avvenimento che è il cuore stesso del racconto che qui sto facendo, perché è ora che la ve­rità sia detta, anche se questo significa mettere a nudo se stes­si, in riguardo tanto alla vita pubblica, quanto alla propria vi­ta privata, che d’ altronde oggigiorno sono così intimamente lega­te e indiscernibili l’una dall’altra, sì.

Fatto dunque quello che avevo da fare – e anche questa era fat­ta – presso la sede dello S.P.O.A., e fattolo, quello che avevo da fare, grazie alla minuziosa organizzazione curata da me stes­so e dai miei fidi collaboratori, e consapevole finalmente del fatto che la macchina era ormai inesorabilmente messa in moto, e non era più questione che di oliarne scrupolosamente gli in­granaggi, non tralasciando neanche un dettaglio della trama ordi­ta con pazienza certosina e geometrica precisione, fu a cuor leggero che mi presentai al ”’briefing” pomeridiano con papà.

Ed ecco ciò che accadde quel pomeriggio, nella residenza pater­na. Antonio, dopo avermi sbarazzato del cappello all’aviatora e del sacchetto con le scarpe badwürttemburghesi, mi introdusse, come di consueto, nella biblioteca: Egli sedeva alla scrivania, intento a riordinare alcune carte. Alzò il capo quando mi udì entrare e parlò.

E il padre disse al figlio: “Accomodati pure sul seggiolino”. Il figlio disse al padre: “Non avresti qualcosa di un po’ più como­do su cui poggiare i miei lombi affaticati da una prolungata sta­zione eretta?” Il padre disse: “Sei il solito lavativo. Quando è che ti deciderai a prendere esempio da tuo padre, non lo sai che da sessant’anni dormo sulla mia brandina da campo di tela grezza e mi vedi, diritto e svelto come un tenentino di prima nomina!” Il figlio disse: “Con il tuo permesso, babbo, sono vent’anni che ogni giorno facciamo questa discussione. Ma non fa niente, ecco, mi accomodo sul seggiolino ai tuoi piedi, ecco qui il tuo scriba fe­dele, cosa detta oggi Sua Signoria?”

E presa carta e penna mi accinsi alla stesura scritta di ciò che il Generale via via prendeva a contare, e già il Generale par­lava parlava, e io scrivevo scrivevo di buona lena e i fogli scritti si ammontavano sul pavimento al lato dello sgabellino finché: “trenta!” annunciai a papà. Allora egli smise di parlare e inter­ruppi io anche di scrivere. E mentre a capo chino radunavo i fo­gli di carta e rimettevo il calamaio al suo posto presi il co­raggio a due mani e dissi: “Babbo, ti debbo parlare”.

“Dimmi, figliolo” disse il babbo.

“Avrei bisogno di denaro. Ho perso al gioco” (non era vero, anzi avevo vinto, ma mi occorreva sempre più contante per finanzia­re le mie mene ardite, pagare i differenti fornitori ad esempio, e collaboratori e informatori di ogni sorta).

“Ah, di nuovo la boccetta, ma quando la finirai con quest’ar­te, eh? E quanto ti occorre?” (Si, del mio papà si può dire tut­to, ma non che sia taccagno, questo no non lo si può proprio dire, e difatti mentre mi parlava già tirava fuori il portafoglio).

“Cinque milioni”.

“Cinque milioni? Ecco, tieni, e adesso non farti più vedere. Non avrò bisogno di te fino a domani. Ti attenderò alla solita ora. Ora vai”, disse solennemente, indicandomi la porta con il suo indice inanellato di rubino. Mi ritirai discretamente e a reculòn, senza dargli la schiena cioè, come mi aveva insegnato la Gretel, l’istitutrice di Sils-Maria sul conto della quale ce ne sarebbero delle belle, da raccontare. Più tardi, sì.

Era l’ora dell’aperitivo. Come di consueto un taxi, chiama­to dall’inappuntabile Antonio , mi attendeva fuori del cancello.

“Alla stazione, presto” dissi all’autista. In realtà non andavo alla stazione no, andavo bensì alla sede della potentissima Società di Mutuo Soccorso dei Portatori di Protesi Dentarie, che dalla stazione distava un cinque-seicento metri, ma desideravo sfuggire a occhi indiscreti, e in particolare agli occhi di qualche accolito di mio padre (da tempo sospettavo che egli mi facesse segretamente spiare).

La sala riunioni della S.M.S.P.P.D. era giù piena e non si at­tendeva altri che me. Dopo i brindisi di rito – si festeggiava di­fatti quel dì il ventesimo genetliaco della Società e al tempo stesso il suo milionesimo aderente – presi brevemente la parola, a nome mio personale e in rappresentanza del mio genitore che una subitanea indisposizione eccetera eccetera, per ricordare l’im­portanza del fattore associativo nella vita moderna, e di conseguenza l’importanza di associazioni categoriali quali quella alla presenza dei cui membri avevo l’onore di trovarmi, e quindi l’im­portanza della presente riunione, giuliva e conviviale sì, ma an­che occasione, oltre che di incontro. fra cittadini aventi analo­ghi interessi particolari, di raccoglimento e di riflessione. Su cosa difatti eravamo chiamati a raccoglierci e a riflettere in questa pur gaia circostanza? Eravamo chiamati a raccoglierci e a riflettere, in questa pur gaia circostanza, ad una nozione di spe­ranza e di futuro (e lì più d’uno dei presenti – oltre che me stesso -tirò fuori non uno ma due fazzoletti e ci fu anche chi levò alta la fiammella del suo “briquet” in segno di partecipazione), speranza e futuro cui dovevamo tutti credere, perché, perché, perché e a qual fine comprendere l’avvenire e il progresso così come si comprenderebbe un teorema algebrico? Potevano essere ridotti, l’Avvenire, il Progresso, a meri teoremi algebrici? No, risposi io a nome di tutti, perché noi vogliamo credere, dobbiamo credere, perché tutti noi abbiamo bisogno di credere, perché – e su questo concludevo – l’illusione è forse l’unica realtà della vita.

………………..

E la seconda parte

Prontuario del protervo seconda parte

Non mi attarderò sulla palpabile emozione che il mio breve ma ardente discorso aveva prodotto sull’ uditorio lì convenuto. Dirò solo che, mentre la maggioranza dei convitati si affollava presso le tavole del buffet, un comitato ristretto si riunì nel sottoscala, e non mi costò fatica trarre del tutto a me gli animi già impressionati dal mio “speech”, così come convincere gli ele­menti più riottosi fra i membri del Consiglio Direttivo della S.M.S.P.P.D.

E fu con un sentimento di soddisfazione per il buon lavoro compiuto, e per distendermi un po’ dopo questa giornata cruciale e febbrile che, consumato un breve spuntino presso un chiosco di piazza delle 120 Giornate, mi recai al Circolo per la consueta partita serale di boccetta americana. Nessuna importuna telefona­ta mi disturbò costi quella sera, e fu veramente a cuor leggero che me ne tornai a casa, feci una doccia, mi rasai (per non perdere tempo l’indomani mattina), infilai un pigiama di raso nero e mi misi a letto con un buon libro (quella sera: le Odi Barbare del Carducci, in una speciale edizione in pelle di cucciolo foca , of­fertami da papà per i miei quarant’anni).

L’indomani, destatomi come sempre di buon’ora, ed eseguiti al­cuni semplici esercizi ginnici, e fatti i miei cento giri di corsa lungo il muro di cinta del giardini, e frizionatomi il corpo con l’acqua di colonia, e consumata una frugale prima colazione, e accesami una delle mie pipe lunghe come corni svizzeri, per cui vado noto anche oltrefrontiera, e che sono manufatte in esclusiva per me da un artigiano dei Grigioni, ed effettuata la lettura quotidiana dei giornali, e ritagliatine e segnatine i passi salienti con la matita rossa e blu (sarebbero pervenuti al babbo in matti­nata), e scelto l’abito da indossare quel giorno, un giorno dav­vero speciale, per cui andava scelto un abito altrettanto specia­le (e difatti non senza esitazioni e ripensamenti optai per un completo tre pezzi colore azzurro cielo, con panciotto giallo oro e pantaloni svasati in fondo, che non era senza ricordare taluni modelli maschili un po’ “osés” del mio stilista preferito (mi cadeva bene? sì mi cadeva bene), e calzato un bel feltro bianco a strette tese e nastro marrone (mi calzava bene? sì mi calzava bene), e trasmesse alcune concise di­sposizioni all’ impeccabile Antonio, uscii nella città, sì.

Puntuale come sempre mi presentai dalla Sonia e, come di consueto, bussai con i piedi, volendo significare con ciò che avevo le mani troppo occupate per poter bussare con quelle, e cioè questo vole­va dire che non mi presentavo no a mani vuote e difatti, oltre a un pacchettino di babà al rum, portavo un piccolo dono, un gradi­to omaggio che quel mattino stesso l’ineffabile Antonio, seguendo le mie precise istruzioni, mi aveva procurato, e quel semplice oggettino, giuntomi appositamente dalla Val Gardena, era una per­fetta riproduzione di una baita alpina, tutta di legno di abete e quindi deliziosamente odorante di resina, al centro della quale troneggiavano due cuori dipinti di rosso, allacciati da una ban­deruola azzurra, sulla quale era scritta in lettere dorate la la­pidaria frase: “due cuori e una capanna” .

Venni introdotto nella camera della Sonia. Vidi che quel giorno ella aveva preparato uno dei suoi piatti forti: pollo coi peperoni. Era un piatto di origine cecoslovacca. Insieme con i babà al rum, di cui la Sonia era molto ghiotta, e di cui si rimpinzava non appena io mi giravo dall’altra parte, questo era uno dei rari “strappi” alla sua ferrea dieta.

Quel giorno, mi ricordo ancora, la Sonia sfoggiava una giacca di cuoio marrone, con frange penzoloni alla cao boi, calzoni bian­chi di maglietta, molto aderenti, scarpe marroni con tacco a spil­lo, che snellivano il suo polpaccio forse appena un poco muscolu­to. Al collo, sopra la maglietta alla marinara: un foulard leggero, a pois rossi su fondo bianco. Ma quel giorno, più che su altri dettagli, mi attardai sulla sua manina, la sua manina rosa usa a coglier viole e carezzar pargoletti, la sua manina artistica (di­ta affilate, palmo e attaccatura del polso ben proporzionati, pol­lice diviso in due falangi di eguale lunghezza, come un Dante Gabrie­le Rossetti avrebbe potuto dipingere), la sua manina che presentava un anello di Venere largo come un Vallo ia Lucania e una linea della vita diritta come un’ autostrada nella foresta amazzonica, segni certi questi di buone predisposizioni artistiche e vitali, la sua manina tranquilla e lieta, che parlava d’amor, di primavere, che parlava di sogni e di chimere, di quelle cose che han nome, a buon intenditor, poesia.

Ma cosa non vidi quel giorno su quella manina rosa, cosa non ti vidi, non ti vidi un segno, no sì lo vidi sì un segno rivelatore e lo vidi invece proprio lì, su quella manina rosa, fra la percus­sione e l’indice, la vidi sì quella linea del cuore così spezzata, cosi frammentata, lo vidi sì quel disastro di linea, segno sicuro di incostanza e infedeltà, e il sangue mi si raggelò nelle vene, ed è così che, da quel momento, all’uomo felice ch’ero io, stette il sospetto accanto, e fu da allora che nascosi a tutti la mia vera tortura, la tortura della gelosia!

E del resto, e d’altronde, non l’avevo forse letto, il mio oro­scopo, quel mattino, e cosa diceva, eh, nero su bianco, che cosa diceva, lo so a memoria quello che diceva: “Persona e lavoro: sol­tanto nella seconda metà della settimana troverete quel coordina­mento tra pensiero e azione che garantisce il successo nell’im­presa. Intanto cercate di dare più ascolto a chi vi è vicino. Affetti: per colpa della vostra fantasia rischiate di amare una persona diversa da quella che avete creduto. Dovete essere molto più cauti. Salute: cautela con il cibo. Giorno favorevole: venerdì”.

Eh, sì, in un certo senso me l’ero cercata! Ma non feci in tem­po a portare alle dovute conseguenze questa mia scoperta, almeno sotto forma di rimproveri recriminazioni e rivendicazioni varie, che mi si venne ad annunciare una chiamata telefonica: era il fe­dele Antonio; mi disse che il papi mi chiamava presso di sé con la massima urgenza. C’era qualcosa di strano nella sua voce. Mi congedai dunque, forse un pò freddamente, dalla Sonia, dicendo­le che i babà se li poteva mangiare anche da sola, per quello che mi importava, e me ne andai così, senza prestare attenzione alle sue proteste né ai suoi pianti da coccodrillo.

Mi feci dunque portare verso casa, in quel tepido primo pome­riggio autunnale, in cui illanguidiva il cielo sui tetti della città e, attraverso i vetri aperti del taxi che sfrecciava sul­la corsia preferenziale, vedevo addensarsi laggiù, verso l’orizzonte, qualcosa come un’ombra (forse era soltanto il riflesso di un’ombra, oppure l’ombra di un’ombra). Sfilavano rapide le immagini della città natale: un bambino con un ciuccio in bocca leggeva il Mein Kampf, seduto sulla scala di casa; un vecchio ubriacone vagava barcollando e urlava “ma insomma, l’Uomo, cos’è?”; una giovane donna esibiva sul marciapiede il movimento dinamico del suo cane al guinzaglio.

Giunsi infine a casa, suonai al portone. L’Antonio mi venne ad aprire, l’espressione sconvolta. “Cosa c’è, cosa accade?” domandai allarmato, il cuore già gonfio di tristi presentimenti. Ma lo sa­pevo bene, quello che era successo. Papà aveva avuto un malore. Mi precipito nella sua stanza; egli è disteso sulla sua brandina da campo e non fiata, non risponde ai miei richiami, mi guarda con i suoi occhi muti, se ne resta rigido, così. So cosa fare in questi casi. Si prende in mano la situazione, si manda a chiamare il dot­tore. Sopraggiunge il medico di famiglia. Apre la sua valigetta, tira fuori ago e siringa, fa un’endovenosa al babbo. Il babbo chiude gli occhi dolcemente e si distende. Il medico dice: “Lasciamolo riposare” e mi prende in disparte. “Anche questa volta” mi dice, “siamo arrivati in tempo. Ma bisognerebbe convincere suo padre a smettere, una buona volta; lei sa che passati gli ottanta l’eroina non è più uno scherzo, non sono più noccioline non sono, e io l ‘avviso: una di queste, suo padre ci rimane “.

Ciò detto, si fece pagare profumatamente e se ne andò. Mi appoggiai alla sponda del letticciuolo dove riposava mio padre, e scru­tai pensieroso la sua testa bianca, per lungo tempo. “Cosa fare?” ripetevo in cuor mio.

Venne infine il momento di ritirarmi e di affidare papà alle cure del vigile Antonio. Poiché nulla, neanche i problemi del bab­bo con la droga, potevano distogliermi dalla mia missione, dal mio Magnum Opus.

L’ appuntamento con i gemelli era stato fissato in un luogo davvero sicuro, in un locale molto alla moda ed estremamente ben fre­quentato, dove nessuno ci avrebbe notati, il Zum Kater Hiddigeigei, dove era veramente agevole, in mezzo a tutto quel danzare quel pi­roettare quel conversare ridere e scherzare, dove era veramente agevole parlare con due inti­mi di cose serie e sostanziali, in quello sfavillio di “mises” femminili e in quel risuonar di tacchi d’ufficialetti, dove era veramente agevole discutere con i terribili gemellini dei nostri progetti, in quella rutilante composizione di tenui rosa e riposanti verdi appena ritmata dagli sprazzi bianchi delle giacchette dei camerieri (si sarebbe detto un quadro del Degas), e decidere con i due sicari le nostre prossi­me mosse, no non potevo lasciarmi distrarre no e d’altronde, se non aveva potuto finora distrarmi dai miei superiori compiti la cono­scenza degli infamanti vizi di mio padre, come si pretende che io abbia potuto essere distratto da un qualunque sgonnellio, da un qualsivoglia scavigliar di fanciulla?

Trovato quindi un tavolo d’angolo appartato e in disparte e ordinati tre, anzi due boccali di birra, mi immersi in una fitta discussione con gli elegantissimi gemellini i quali, oltre a esse­

consumati gagà, erano due tipi davvero a posto e veramente a modo, ed erano i miei migliori elementi. C’era però una difficoltà nel mio rapporto con loro, e questa difficoltà era costituita dal fatto che non era proprio possibile distinguere i gemellini l’uno dall’altro, per quanto l’uno, come era palese, mangiasse troppo, e l’altro troppo poco, o forse anche niente, ma ciononostante, grazie a chissà quale fluido psichico che li collegava, rimanevano assolutamente indistinguibili e io non sapevo mai a chi era che mi rivolgevo, all’uno, o all’altro?

Chissà. Ma ciò che contava era senza dubbio il risultato, e quanto a quello, avrei potuto metterci la mano sul fuoco, perché quei due erano proprio un tutt’uno, e rispondevano al mio appel­lo come un sol uomo.

C’era solo con loro un altro problema, un’altra incongruità, fonte di non pochi imbarazzi, e questo problema era il fatto, che trovavo sì davvero incongruo questa è la parola giusta, e questo problema era il fatto che i due non erano della stessa madrelingua, vai a sapere perché, ah questo sì che era incongruen­te (uno solo parlava anche la mia lingua, quello che mangiava troppo? quello che mangiava troppo poco? mah!), fatto è che i due per poter comunicare fra loro dovevano usare un terzo idioma, che non era né quello dell’uno, e né quello dell’altro, e nel caso speci­fico era la lingua inglese, lingua, come è noto, che è il latino dei giorni nostri (se vogliamo riferirci a quello che è stato l’impero romano per l’antichità), ed era difatti in un inglese davvero maccheronico, in un idioma davvero “Tertii Imperii”, che i due co­municavano fra di loro. Per fare un semplice esempio, quella se­ra, quando uno dei due mi fece; “attento che hai la braghetta sbottonata”, si sentì tenuto a tradurre immediatamente: “Look at the guy, he has got his fuckin’ zipper open”. In ogni modo, se anche avessero avuto ben altri difetti, io non potevo fare a meno degli inseparabili gemellini. Perché, io domando e dico, che cosa sa­rebbe una lama senza il suo manico, eh? o un manico senza la sua lama, eh? ed è solo nella loro unione reciproca che lama e mani­co fanno: un coltello. E non c’è coltello senza ferita, e non c’è ferita senza grido, e non c’è grido senza canzone, cosi come non c’è rivolta senza inno, e il nostro inno era: tutti per uno, e uno per tutti!

Era intanto purtroppo giunto il momento di accomiatarmi dagli spietati gemellini, perché ero atteso a una cena sociale cui non potevo proprio mancare, e difatti per quella sera di partita a boccette al Circolo non se ne sarebbe parlato no, con mio grande dispiacere, fatto è che congedai i due fanatici gemellini e li seguii con lo sguardo, mentre si allontanavano in mezzo alla fol­la danzante e ignara, facendosi urtare qui e là la testa dalle ginocchia dei distratti ballerini.

La cena sociale cui ero atteso era un ricevimento del Liver Club. Niente a che vedere con il mio progetto di vasto respiro, ma cosa dire, certe relazioni, certi contatti, erano pur sempre da coltivare, e in mezzo a quei borghesi qualche tipo disinteressato, suscettibile di essere affiliato, magari in una seconda fase, c’era anche. E poi, non avrei certo macchiato il nome che portavo, facendomi notare per un’ingiustificata assenza da un ri­cevimento del Liver, ed è perciò che, avendo indosso uno dei miei migliori vestiti, ed avendo preparato un bel discorsetto, mi portai quella sera presso l ‘Hotel Holiday Inn, e ne valse davvero la pena, perché proprio lì nel bel mezzo della hall mi si av­vicina un socio, uno che conoscevo di vista, un vero V.I.P., un magnate della stampa, l’editore della celebre Tribuna dei cuori spezzati, il quale, avvicinatomisi, mi fa: “Mi trovavo presente ieri presso la S.M.S.P.P.D., per puro caso, mi trovavo dunque per una fortunata combinazio­ne presente al suo discorso e devo dire che l ‘ho trovato davvero, non so, davvero pregnante, e devo dire che l’afflato ideale di cui lei ha dato prova mi ha in modo particolare emozionato e commosso, sì è chiaro che lei non è uno di questi propagandisti a mezzo servizio che ci hanno, come diciamo dalle parti nostre, scocciato i c*** , mi scusi l ‘espressione , si vede invece che lei ha una tempra e un carattere veramente fuori del comune, ed è per questo che le propongo, a nome del comitato di redazione tutto, di scrivermi per domani un bell’articolo di fondo, che comparirà nella prima pagina della mia Tribuna”. Rimasi muto per la sorpresa e il piacere: potermi esprimere liberamente dall’alto del più influente dei “media” nazionali’! Ebbe l’accortezza di mostrarmi reticente.

“Lei non ignorerà”, continuò lui sornione, “che il nostro giornale tira a venti milioni di esemplari, disponibili gratuitamente presso tutti i distributori di Kleenex”. Non lo ignoravo certo, e così mi lasciai convincere. Quest’uomo me l’ave­va mandato la Provvidenza!

E così anche quella sera mi coricai contento e soddisfatto. Le cose si mettevano bene, e davvero per benino.

L’indomani, venerdì, sarebbe stata una giornata intensa. Già di buon’ora avevo un impegno, come mi ricordò l’ineffabile Anto­nio, entrandomi in camera con, ben piegata sulle braccia la divisa nera, con la divisa nera sulle braccia, ben piegata. Ero stato di­fatti chiamato a fare da arbitro a un incontro di calcio del cam­pionato regionale di seconda divisione della Federazione Nazio­nale Privi di Arti Inferiori, e trattavasi perlappunto della tanto attesa finalissima, Senza Gamba Destra contro Senza Gamba Sinistra.

Era quella per me una situazione molto delicata, in cui dovevo dimostrare tutta la mia equidistanza e il mio sangue freddo. Ave­vo infatti accettato quel ruolo arbitrale solo per evidenti ragio­ni diplomatiche, ma devo ammettere che in quel campo ero del tutto a digiuno. Com è come non è, mi feci il segno della croce e mi portai ai bordi del campo. l gemellini, che avevo designato come guardalinee, già mi attendevano. Dopo il tradizionale lancio della monetina, fischiai il calcio d’inizio, con la trepidazione che si immagina. Ma tutto si svolse bene; il gioco era corretto, anche se non privo di qualche intervento falloso, soprattutto da parte del terzino destro dei Senza Gamba Sinistra; è vero che la mez­zala sinistra dei Senza Gamba Destra non era da meno, anzi. Fui costretto a fischiarla spesso, ad ammonirla più volte e infine ad espellerla; la squadra dei S.G.D. se ne trovò mutilata. l guarda­linee collaborarono al meglio; solamente, quando ne chiamavo uno per conferire su di un caso controverso, arrivava sempre anche l’altro, per via della traduzione: “l saw, this is a fuckin’ corner” diceva uno; “ha visto, è corner”, traduceva l’altro. Poi tornavano ai propri posti (che probabilmente si scambiavano, ma chi vuoi che se ne accorgesse).

E come Dio volle l’incontro ebbe termine, ai calci di rigore, e il risultato, cosi come era stato l’arbitraggio, fu davvero equo e imparziale. Ne trassi motivo di lustro e di compiacimento. Quasi quasi dimenticavo la Tatiana. Invece no: con appena un quarto d’ ora di ritardo (una breve “reception”, che aveva seguito la consegna delle coppe, era stata per me occasione di fruttuosi conciliaboli con alcune personalità presenti negli spogliatoi, ma mi aveva preso più tempo del previsto) bussavo alla sua porta; come al solito, le portavo un bel pacchettino, uscito fresco fresco da “Chez Gennaro” , le très prestigieux pâtissier de fora ô vascio, chillo ‘ncopp’ ‘a Pasquale, sì, chilIo cu’ ‘a faccia ‘e cane ‘e presa, ma come li fa lui i babà, signora mia, non c’ è tema di paragone, creda a me, e creda, eh, se glielo dico io, e che diamine, vuole che le rac­conti delle balle, belìn, ocio, non mi ha preso mica per un bada­lòn, no? Lo so mi che a fine mese i schei no basta mai, ghe xe le scarpe nove e i vestiti d’inverno da comprar, ma non perciò sarò meno onesto, e dirò sempre, sempre dico, pane al pane, vino al vi­no, e babà al babà, si, ohh.

Quel giorno la Tatiana portava uno scamiciato bianco, di cotonina, con volàn pieghettato di color rosa, lungo fino alla cavi­glia (ma piuttosto scollato sulla schiena), e calzava scarpe aper­te di color bianco, un pò consunte forse ma ben ripassate col bianchetto. I tacchi: a spillo.

Malgrado io fossi giunto in ritardo, lei stava ancora cucinando (ah, sebbene morso dalla gelosia, resistetti a chiederle cos’è che aveva fatto sinora, eh?) e dopo avermi salutato tornò nel suo angolo cottura, dandomi la schiena. La Tatiana stava ancora preparando la salsa di pomodoro; mi avvicinai a lei, volevo ap­profittare dell’occasione per studiarle la nuca, che era quanto di più fine si potesse desiderare, come articolo corporeo: su un collo che era una torre d’avorio, dalle sfumature rosate, la flessibile nuca, lasciata scoperta dalla bionda capigliatura raccolta in crocchia sul capo, si distingueva per la sua delicata incavatura centrale, una vera valle di delizie, ma tutta la muliebre postura della Ta­tiana era un incanto, e si sarebbe detta quella una scena dipinta dal Feuerbach stesso per quanto, per quanto, per quanto, iniziassi a considerare che la Tatiana si chinasse un po’ troppo spesso e talvolta scompostamente sulla salsa, non era poi così necessario rigirarla di continuo, no, quella benedetta salsa di pomodoro, e bi­sognava proprio abbassarsi fin quasi a ficcarci il naso dentro, a quella salsa, e sì trovavo davvero irritante quel gesto ripetuto, quel chinarsi sul tegame, così sgraziato e privo di “fair play” e fu lì che ebbi d’un tratto la rivelazione, e la rivelazione era che non l’amavo più, sì ora lo vedevo lo sapevo, nulla più di quella donna, che pure tanto avevo amato, nulla più mi moveva a commozio­ne.

E ora, ora che tutto è finito fra me e la Tatiana, io mi do­mando: cosa ha fatto sì che d’un tratto io l’abbia vista sotto la sua vera luce, e perché proprio lì davanti alla salsa di pomodoro e non invece in un’altra qualsivoglia circostanza, e poi, è poi detto che quella fosse davvero la sua vera luce e non invece, non invece un mero abbaglio? Era il naso nella salsa che me la rende­va indesiderabile e me la alienava per sempre, o non era piutto­sto lo stesso venir meno della mia passione (lentamente erosa dalla frequentazione bisettimanale, e dalla “routine” che inesorabilmente si impone al più sperimentato dei ménages) o non era piutto­sto lo stesso venir meno della mia passione che mi rendeva indesi­derabile il suo naso nella salsa?

Domande che resteranno forse, chissà, senza risposta.

E, lasciata lì la Tatiana senza neanche avere assaggiato la sua famosa salsa, giunsi con un qualche anticipo al consueto incontro con papà.

Bussai. Entrai. Mio padre era seduto alla scrivania, intento a riordinare alcune carte. Alzò il capo quando mi udì entrare. ­

“Accomodati pure, il seggiolino è tutto tuo” disse. E aggiun­se, preso da un subitaneo e spaventoso accesso d’ira: “E così, pa­rev che a guerr foss frnut e, invec, è appen’ accumnz ‘t! Sì, perché l ‘ho saputo, razza di animale, che hai fatto un bel discorso sovversivo, alla Società di Mutuo Soccorso. È così dunque che metti in piazza il nome che ti ho dato, eh? E da quando in qua ti sei montato la testa, eh? E dove pensi di andare a finire, eh? Se continui di questo passo, eh? Lo lo so è tutta colpa mia, che ti ho sempre lasciato briglia libera, che non ti ho mai stretto il morso, che non ho mai affondato lo sperone e questa è la ri­compensa questo è il ringraziamento, no non dire niente è tutto inutile non ci sono se e non ci sono ma, lo so bene che con te non c’è niente da fare è andata così, e chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, ah se mi vedesse il mio povero papà, cosa direbbe di me, te lo dico io cosa direbbe, direbbe che l’ho deluso, che l’ho tradito, direbbe che non sono capace di raddrizzare neanche un buono a nulla come te, direbbe. Ma sì, infanga, infanga pure il no­stro nome, profitta pure dell’indulgenza del tuo povero padre, troppo vecchio omai per porre rimedio alle tue bravate. Sobilla e complotta pure, Catilina d’avanspettacolo! Ma sappi che no non andrai lontano. no!”

“Ma, papà…”, tentai di difendermi…

“Basta! Qui non c’è più ma, non c’è più papà!”, tagliò corto lui, e aggiunse, ma già con un tono in qualche modo raddolcito: “Che non se ne parli più, adesso. Passiamo piuttosto al lavoro, ché abbiamo perso già abbastanza tempo. Allora, scrivi?”

“Sì, papà, scrivo” dissi, prendendo carta e penna. Per fortuna s’era calmato. La bufera era passata.

E scrissi sotto dettatura, sì, e lo feci anche quel giorno il mio bravo dettatino, e lo redassi il compitino, ah quante volte lo avevo sentito, eh, l’Antonio dirmi che il brodo vegetale era buono (a me che, fin da piccolo, non appena vedevo qualcosa di color verde, mi veniva da vomitare), “e mangialo su fallo per papà, e mangia su altrimenti il babbo è triste e piange” maledetti ipocriti, ma chi volevano far fesso, “altrimenti il babbo piange” buona questa, ma quale babbo e babbo, facciamola finita, ma qua­le papà, ma quale paparino, ma quale papi, è forse un padre que­sto, che sembra non possedere, nel suo vocabolario intimo, la pa­rola “affetto”, è un padre questo, che mi chiama solo quando ha bisogno di me e mi tratta come l’ultimo dei sottoposti? No, io dico che questo è un padre che padre non è. Ma, mi dico anche, cosa farebbe, senza di me, quel vegliardo canuto e in fondo così solo, ed è per questo che rimango invece di andarmene via lontano, ed è per questo che ogni giorno scrivo sotto dettatura un nuovo capitolo della sua au­tobiografia, è per questo che gli ritiro gli scarponi alla Heidegger dal calzolaio e gli preparo già sottolineati in rosso e blu i rita­gli di giornale, e chiudo gli occhi sui suoi problemi con la droga, i bambini e i cavalli. Ma un giorno lo vedrà, di cosa sono capace, sì.

Per l’intanto ho un nuovo impegno, sì perché urge l’opra, e si avvicina il momento culminante. E mi portai Il dove ero uso por­tarmi ogni venerdì, nel tardo pomeriggio. Per tutto l ‘autunno di quell’anno difatti sarebbe stato possibile vedere – per chi l’aves­se solamente voluto – il sottoscritto aggirarsi per i viali peri­ferici della nostra amata città, lì dove erano state drizzate le tende e parcheggiate le roulotte dei circhi ambulanti, con tutto il loro seguito di cani e di gatti, di giocolieri e di saltimbanchi, di ammaestratori, di morti di fame e cosivviadicendo, ammaestratori di mor­ti di fame, cioè, e così, via, dicendo, e chi si fosse trovato a seguirmi in quel variopinto mondo multicolore non avrebbe potuto supporre altro che io fossi alla ricerca di una qualche facile distrazione, al vedermi entrare in un crocchio di curiosi raduna­tisi intorno, ad esempio, al “caditore dalle scale” (pare che fosse costui un tale che aveva questo difetto, di origine senza dubbio psicofisicomotoria, e questa singolarità infermità, e cioè: che non appena egli si trovava in cima a una scala, ecco, non poteva resistere, cadeva giù; non c’era niente da fare, non poteva resi­stere, era più forte di lui; aveva consultato i migliori specia­listi, tutto inutile; poi qualcuno gli suggerì di mettere a pro­fitto questa sua anomalia, e difatti a quel giorno aveva costui messo da parte, sembra, un bel gruzzoletto, lasciandosi cadere giù da scale di tutti i tipi, mobili, a libretto, biscagline (ma il suo pezzo forte, il suo non plus ultra, erano le scale a chioc­ciola), ed esibendosi come attrazione speciale nelle feste di compleanno della “jeunesse dorée”, oppure in “parties” privati o, talvolta, nelle pubbliche fiere, usufruendo di una scala aerea messa appositamente a disposizione dalla locale stazione dei pompieri e, grazie al generoso contributo della premiata macelleria “da Nando Supercarni” – PEZZI DI PRIMA SCELTA -TAGLI DI ALTA QUALITA’ ­SPECIALITA` CARNI LOCALI E SALSICCIE PAESANELLE (presentando alla cassa questa pagina, ritagliata seguendo la linea tratteggiata, si ha diritto all’osso per il cane in omaggio) SI EFFETTUA SERVIZIO A DOMICILIO). Questo caditore pare avesse – mi si scusi la digres­sione – pare avesse rubato la “vedette” a un celebre “saltatore in basso”, alle cui esibizioni non avevo avuto purtroppo la fortuna di assistere, detentore di tutti i record (meno 24 m. e 56 cm., re­cord mondiale tuttora imbattuto, categoria pesi di piombo), ormai ridotto dall’età e dagli acciacchi a più miti consigli, costretto infine al ritiro, di conseguenza precipitato in una profonda de­pressione, da cui non si risollevò se non per suicidarsi plateal­mente, gettandosi dall’alto di una palma nana che cresceva davanti al palazzo della Commissione per l’Abolizione della Legge di Gravità, immolandosi cosi a nome di tutta la sua categoria, la cui esistenza stessa era messa a repentaglio dall’operato della sud­detta Commissione.

Ma, per tornare a noi, chi si fosse trovato a seguirmi in quei luoghi non avrebbe potuto sospettare che io facessi altro che darmi a uno svago innocente, a un innocuo passatempo. Non mancavo difatti di arrestarmi davanti a ogni palco su cui si desse uno spettacolo, mescolandomi così alla folla dei curiosi, ma non rimanen­dovi che qualche minuto, il tempo – chi vuoi che se ne accorges­se – di soffiare un ordine all’orecchio di un adepto, che ne aveva istruzione di trovarsi puntualmente in quel tal luogo e alla tale ora, ogni tardo pomeriggio, in quei venerdì d’autunno. Ogni venerdì, nel tardo pomeriggio, quell’autunno.

……………………………….

Lamento dell’avaro (1993-1994)

8 settembre. Mi scappava la cacca mannaggia proprio allora proprio sul più bello mi scappava la cacca no perché così non va così no proprio quando stavo per concludere qualcosa di buono qualcosa di giusto proprio allora proprio quando lei stava per pronunciare il suo fatidico sì ma ciononostante cosa vuoi ho dovuto con un pretesto qualsiasi allontanarmi proprio sul più bello e cosa vuoi quando sono tornato, e quando sono tornato il momento magico era già passato, l’incantesimo era rotto e lei si era già ricomposta, aveva lasciato il divano per accomodarsi ben ricomposta sulla poltrona e avvertii immediatamente in lei qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, e in fin dei conti una certa qual freddezza, ma perché, ma perché, in fondo non m’ero assentato che per dieci minuti, cos’era potuto accadere nel frattempo, vallo a sapere, vallo a capire, valle a capire tu queste donne perché io, io non ci capisco più niente, uno si assenta per un attimo, è vero sì in un momento cruciale e particolarmente pregnante, però si trattava di un attimino appena, cosa vuoi che sia, e quando torna, ecco, già il paesaggio generale è cambiato, già lo scenario è stato rimpiazzato, e ci si trova di fronte a questa freddezza a questa distanza a questa generale mancanza di coinvolgimento io non capisco proprio ma cos’hai le dico cosa ti è successo c’è qualcosa che non va dimmi su dimmelo dai, e dimmelo, su, e dimmelo, dai, dimmelo cos’hai, vedrai che dopo ti sentirai più leggera, come sgravata, macché, era come parlare al muro, niente, e allora sai che ti dico le ho detto, sai che ti dico, che preferisco andarmene, preferisco rimanere solo con il mio dolore.

E me ne sono andato, forse un po’ troppo di fretta, non so, forse avrei potuto darle un po’ più di tempo, non so, un’ultima chance, non so, ma è tardi ora per ripensarci sopra, forse vedremo domani.

9 settembre. Oggi è domani. Oggi per domani e ieri per oggi. Oggi come ieri come domani, per l’eternità fedele. Oggi qui, domani là. Oggi nel mondo. Oggi come oggi. Oggi no, oggi no. Ma se non oggi, quando? Se non oggi, sarà domani. Se io fossi un extracomunitario, e tu una signora, tu credi davvero, che mi vorresti ancora? Avresti negli occhi la stessa dolcezza, oppure sarebbe soltanto tristezza? Avere negli occhi la voglia di guardare, avere nelle scarpe la voglia di andare. Scarpe rotte, eppur bisogna andar. Basta la salute e un par de scarpe bone. O con le scarpe o senza scarpe i miei alpini li voglio qui. Qui, qui e ora, come prima e più di prima, oggi più che mai. Oggi gnocchi. Domani non si sa. Sarà quel che sarà. Chi vivrà vedrà. Intanto non ci vedo dalla fame. Me li mangio con gli occhi, gli gnocchi. Me la mangio di filata, la frittata. Me la mangio in tutta fretta, l’Antonietta.

Antonietta, Antonietta, il tuo comportamento di ieri sera mi risulta tuttora incomprensibile e imperscrutabile. Ce ne stavamo così bene, ce ne stavamo, mano nella mano, impegnati in uno dei “petting” più spinti che mai a memoria d’uomo siano stati tentati, quando ho dovuto allontanarmi a cause di una impellente necessità fisiologica e quando sono tornato a te, tutto pronto e davvero pronto a tutto, io non so io tuttora non capisco, spero solo che un giorno capirò, spero solo che allora non sarà troppo tardi e che sarò ancora in grado e in condizione di capire.

Oh Antonietta, miantonietta, comedovequando potrò rivederti, come, dove e quando potremo riparlarne potremo riconsiderare la quistione, la questione delle questioni, l’anten ata di tutte le questioni?  Nell’attesa ci ripenso, a quel drammatico ieri sera.

Rivediamo con calma il filo degli avvenimenti: ho forse chiesto io di essere messo al mondo quel 10 di aprile dell’anno 1962 in quel di Palma di Maiorca? L’ho chiesto io, forse? No, non mi pare. L’hai chiesto forse tu? Nemmeno. Quindi, da questo punto di vista, nessuno di noi due è responsabile, almeno per quanto riguarda la mia presenza in questo bel mondo. E così abbiamo spuntato un primo punto e acquisito un primo dato, il quale ci introduce difilato al secondo dei nostri soggetti di riflessione e cioè alla controversa nozione di: responsabilità.

No no no così non va, sento che la sto prendendo troppo alla larga, ma lo sai è colpa del mio tatto, del mio solito tatto ma adesso te la dico tutta:

………………

Il resto a seguire nelle prossime settimane…

La signorina Doremifasol (1993)

Melodramma allegorico in due quadri

 

Personaggi:

LA SIGNORINA, Mezzosoprano

S1, Tenore

S2, Baritono

CANE CATTIVO, Basso

LO SCRIVANO, Baritono

UN CERTO MARIO, Tenore

LA MAMMA, Contralto

I

            Un ufficio nella penombra. Le uniche fonti di luce saranno quella fissa di un abat-jour su un tavolino rotondo e quella mobile della lampada usata dallo scrivano (la tiene applicata sulla fronte, per avere le mani libere). La Signorina, accovacciata al centro della scena, coperta da una larga stoffa, è una forma scura. Gli altri personaggi saranno di stature e corporature molto differenziate.

            S1: Siamo qui con lei riuniti, cara Signorina, in veste in veste di di amici, sì, ma che dico, dirò di più Signorina mia, siamo qui come sodali e come fratelli lei mi capisce e qui siamo riuniti sì per farci quattro chiacchere fra noi in spirito di franca cordialità e lieta convivialità, lei converrà con me, cara Signorina, Signorina cara, Signorina bella, allora ce le possiamo fare queste quattro chiacchere in tutta serenità sì o no ma sì ma sì che ce le possiamo fare…

            LA SIGNORINA: (rantolante) Do – re – mi.

            S1: Eh? Come? Sì? Sapevo che ci saremmo intesi, Signorina, sapevo che anche lei avrebbe sentito il richiamo, il richiamo di quella causa superiore che a tutti è cara che a tutti tiene a cuore e che ha nome, sì, Verita, lo sapevamo Signorina che solo per la Verità e non per altro no Signorina ci saremmo intesi sì, non per altro che per questa povera e tanto bistrattata cosa che si chiama si chiama Verità.

            S2 e CANE CATTIVO: (all’unisono) La Verità, la Verità, sì.

            S1: (intenerito) Sì, la Verità.

            LA SIGNORINA: (flebile) Sol – re -do.

            S1: Sì, sì, davvero, sì, e allora, Signorina bella, ce la dà questa mano? (Sommesso, agli altri) Dài che viene, dài che viene, dài che ci siamo (Alla giacente) Ce la dà, sì, sì, sì, eccola la vedo che viene, sù un piccolo sforzo, si calmi si distenda, prenda pure tutto il suo tempo, sì, faccia pure con comodo, sì, e via quell’aria sgomentata, sù…

            LA SIGNORINA: (ansimante) Mi – do – do –mi.

            CANE CATTIVO: (minaccioso) No – o?

            S2: Ma sì, ma sì, la lasci riflettere, la lasci concentrare, ecco che arriva, guardi (si avvicinano tutti alla forma accucciata, che non si è mossa).

            S1: (dopo un tempo) Ah ma Signorina Signorina mia perché non ci vuole ascoltare perché, perché non lo vuole capire che siamo qui solo solo per il suo bene, perché non lo vuole capire lei che è una persona così fine così sensibile, una persona venuta dal mondo artistico, che ha avuto tante esperienze, belle e brutte, buone e cattive, che ha conosciuto tanti successi e anche tante delusioni, e che a causa di queste delusioni, lo so, e di tutta l’ingiustizia del mondo che cattivo è, ha fatto quello che ha fatto…

            CANE CATTIVO: Ah, perché non mi lasciate fare a modo mio?

            S1: Taccia, la prego.

            S2: Sì, taccia, non lo vede che ci siamo? Non ce la spaventi proprio adesso, nevvia!

            S1, CANE CATTIVO, SCRIVANO: (in contrappunto) no – no – no – no, no – no – no – no, no – o – no – noo.

            LA SIGNORINA: (in una sorta di ululato) Sol – fa – re –do –sol!

            S1: (animato da nuova speranza) Ci capisce, Signorina, ci capisce? Sì, ci dica che ci capisce, ci faccia un segno, ci dia un segno, un segno d’assenso, muova un ditino in sù e in giù, lo muova la prego lo faccia per noi, lo faccia per noi che le vogliamo tanto bene ecco sì mi pare sì ecco, no? E` stanca? Se è stanca ce lo dice e noi sospendiamo la seduta non siamo mica ai tempi dell’inquisizione ci mancherebbe altro certo ma poi torniamo e lei allora ce lo dà quello che vogliamo da lei ce lo dà nevvero? Sì, sì che ce lo darà, a noi che l’amiamo tanto a noi che siamo e sempre siamo stati i suoi ammiratori incondizionati e senza condizioni, sì cara, sì bella, le vogliamo bene, cocca di casa sua, sì cuore mio, sì cuore, sì patatina bella di zio, sì, sì, guardi come striscio ai suoi piedi guardi come mi prostro e mi umilio avanti a lei, guardi, e guardi!

            LA SIGNORINA: (la cui voce sale in modo elicoidale e poi si spezza) Do – do –mi – fa – sol.

            S2: (secco, autoritario) Bene, facciamo entrare il Mario (lo scrivano esce; ritorna introducendo un certo Mario).

           LA SIGNORINA: (affannosa e palpitante, come se pronunziasse: Mario!) Do – mi -fa!

            S2: Ecco scrivano prenda nota diamo atto che introdotto un certo Mario il summenzionato è stato immediatamente e senza fallo riconosciuto dall’inquisita andiamo avanti andiamo.

            UN CERTO MARIO: (fa un gesto di grande sorpresa; sollecito e premuroso si fa di presso alla giacente) Tu qui! Chi l’avrebbe mai creduto! E dire che… Oh, quanti ricordi! Ti ricordi, cara… il cancelletto che cigolava… il giardinetto… la casetta… e ora tutto ciò… ma bando ai tristi pensieri! Parliamo di noi piuttosto… allora… eh… beh, che mi racconti di bello? (Una pausa) Ma perché perché non me l’hai detto allora di questa di questa situazione di questa che ti tieni dentro perché? Ecco io ti avrei io t’avrei aiutata t’avrei, dovevi solo dirmelo farmelo sapere e non ci saremmo ritrovati così con una… come dire… mano davanti e una didietro così come ci ritroviamo oggi come oggi, è per il tuo bene mia cara che io parlo e dico così, e non è l’amico che qui ti parla no non è l’amante no non è il protagonista fortuito e casuale d’una avventura fugace no, ma è un fratello che qui ti parla con le mie parole di parole di fede di carità e di speme che il core a lacrimar invoglia e sforza sì lo vedo lo vedo che mossa sei a compassione e glielo fai ora a questi bravi signori il regaluccio che da te tanto aspettano glielo fai lo vedo sì, dài, dài, un piccolo sforzo ed è fatta dài sù…

            S1: Dài sù!

            S2: (riprendendo S1, come in una litania) Dài sù!

            S1: Dài, sù!

            S2: Che ce la fai!

            S1: Dài…

            S2: Che ce la fai.

            S1: Dài fallo per mamma tua…

            S2: Dài!

            S1: Fallo per il paparino…

            S2: Dài!

            S1: Fallo per lo ziuccio…

           S2, CANE CATTIVO e MARIO: (all’unisono, quasi come in un gospel) Dài!

            S1: Fallo per il cagnolino che ti vuole tanto bene…

            S2, CANE CATTIVO, MARIO: Dài!

            S1: Fallo per il canarino della nonna!

            S2 ETC.: Dài!

            S1: Fallo per i pesci nell’acqua!

            S2 ETC.: Dài!

            S1: E gli uccelli nell’aria…

            S2 ETC.: Dài, sù!

            S1: Fallo per tutte le creature…

            S2 ETC.: Sì!

            S1: Fallo per sora luna!

            S2 ETC.: Sì!

            S1: Fallo per frate sole!

            S2 ETC.: Sì!

            S1: Fallo per qui fallo per là fallo di sù fallo di giù…

            LA SIGNORINA: (estenuata) Sol – re – do.

            CANE CATTIVO: Ah, maledetta!

            S1, S2 e UN CERTO MARIO: (invitandolo a tacere) Sshsshsshssh!

            UN CERTO MARIO: (con fare persuasivo) Ragiona cara. Vivesti d’arte, vivesti d’amore, non facesti mai male ad anima viva! Perché, perchè nell’ora dell’ineluttabile reddizione… lo sanno bene, tanto che sei stata tu!

            S1: (lo interrompe) Risolva, Signorina!

            UN CERTO MARIO: Sì, risolvi!

            S2: O gliela tireremo noi fuori, con le buone o con le brutte! Anche la pazienza ha i suoi limiti, Signorina bella!

            S1: Sì!

            CANE CATTIVO: Sì!

            S2: Lei è così bella, Signorina, e così poco amabile. Cosa le chiediamo, in fondo, è ben poca cosa, è cosa d’un istante! Non farà male, vedrà, un attimo e sarà passata. Pensi a come le saranno tutti grati, pensi, pensi a come la ricorderanno sempre, in vita e in morte, e ci aiuti, Signorina, ci aiuti, e guadagni quell’imperitura riconoscenza che tanto merita, e vedrà come se lo gusterà infine il suo agognato successo, che finora le è ingiustamente mancato! La prego sù la prego sù ancora un piccolo sforzo e ci siamo ce l’abbiamo quasi fatta siamo ormai in dirittura d’arrivo sì, sì che tutti insieme ce la facciamo, sì, dai tutti insieme, sù! Ce lo dia, sù!

            S1, CANE CATTIVO, UN CERTO MARIO, SCRIVANO: (come se sollevassero un peso) Oohh… oohh… oohh…

            CANE CATTIVO: (dopo un tempo) No, niente.

            UN CERTO MARIO: (all’orecchio di lei) Ascolta, comprendi, fai mente locale, capisci. E` successo un fatto strano, sì? E allora, cosa vuoi, le condizioni non sono più quelle di una volta, capisci, comprendi, compiacerli ora dobbiamo, dài, che poi… che poi… dài, ce ne andiamo io e te sì lontano da tutto lontano da qui da questo mondo che prigioniero è, sì, che ora torno a te sì, che son qui per te, sì, che…

            LA SIGNORINA: (in una sorta di rignhio) Mi – fa – do -do.

            S1: (spazientito) Ma perché, Signorina, io domando e dico, ma perché non vuole essere contenta di sè, eh? (Allo scrivano) Scrivano, metta agli atti che la Signorina, la signorina rifiuta di essere contenta di sè, ecco, e cosi sta scritto nero su bianco e non se ne parli più, ecco, e sospendiamo la seduta.

 

Un tempo. Sipario.

 

II

            Stesso luogo, un’ora più tardi.

S1: Bene eccoci qui di nuovo eccoci vede il tempo glielo abbiamo dato glielo di ristorarsi nel corpo e nello spirito e anche noi il nostro bravo cappuccino coi bigné l’abbiamo avuto quindi eccoci qui di nuovo, freschi riposati e bendisposti, disposti a tutto pur di farle piacere Signorina cara, cosiffacendo peraltro piacere anche a noi stessi. Ecco, come ha visto il bel Mario l’abbiamo allontanato che anzi ci siamo sbagliati a farlo venire, che dio ce ne scampi e liberi quello cara mia è un mangiapane a tradimento quello, glielo dico io che di cotte e di crude ne ho viste ne ho, io, sì, ma insomma dove è che eravamo rimasti?

            LA SIGNORINA: Re – re – fa – re.

            S2: (insinuante) Sì Signorina sì stavolta ce la faremo sì se siamo solidali e uniti tutti insieme perchè in fondo, no? Siamo tutti sulla stessa barca, sì? E allora? E allora, remiamo! (ride). Ah! Ah! Ah!

            CANE CATTIVO: (sforzandosi di essere suadente) Per farla contenta signorina ecco le abbiamo preparato una sorpresina una sorpresuccia ecco guardi qui che cosa le abbiamo portato chi le abbiamo portato ecco guardi lo vede che cosa non facciamo per lei, eh? (Al suo cenno lo scrivano esce e torna introducendo la Mamma. Costei, allo scorgere la figura della figlia, che le viene indicata da Cane Cattivo, si slancia verso di essa, ma i gesti simultanei di S1, S2 e della Signorina stessa la fermano a mezza strada). (Alla Mamma) no, non la si può toccare, non è permesso (La Mamma, diligente, si arresta).

            LA MAMMA: Oh piccola di mamma tua, o core di mamma, o core, come stai come ti senti come ti trattano qui, hai mangiato, almeno, sì? Chissà se ti danno almeno da mangiare in questo posto, che cosa ti danno, eh? dimmi, dillo a mamma tua che ti fa un bel puré, che ti fa una bella minestrina di verdura come piace a te, tieni tieni qui, t’ho portato le caramelle che piacciono a te. (Estrae dalla borsa una manciata di caramelle in carta d’argento, ne dà un paio alla Signorina, che le porta alla bocca, distribuisce le rimanenti agli altri presenti; tutti, lei compresa, le scartano e le masticano; le stagnole vengono intascate o gettate a terra. Per un momento tutti, Signorina compresa, sono accomunati dall’attività di masticazione). (A Cane Cattivo) Sa, la m’e sempre stata di buon appetito, la mia gallinella! (Alla Signorina) Beella di mammuccia sua! Allora hai dato a questi bravi signori quello che vogliono da te, sù non fare la smanciosa, non farti pregare che non sta bene, fai vedere ai signori come sai comportarti tenerti in società che non per niente t’abbiamo preso la fille au pair svizzera, che non per niente t’abbiamo comprato il pianoforte che c’è costato quello che c’e costato, a papà tuo buon’anima ch’era tanto troppo buono e te le dava tutte vinte te le, ed è per questo che mi sei finita qui te lo dico io, ché se era per me altro che, sai come li vedevi la fille au pair e il pianoforte rosa e l’ovino sbattuto ogni sacrosanta mattina e tutto il resto, col binocolo li vedevi te lo dico io, e dire che contavamo tanto su di te, tante belle speranze avevamo riposto in te e guarda qui bella soddisfazione guarda la figura che ci fai fare in faccia a tutto il mondo, questo e il ringraziamento, eh? questo è? ah mi vien financo di piangere mi vien.

            S1: Signora, si controlli, la prego. Cerchi piuttosto di convincere la sua figliola, glielo dica glielo che è solo per il suo bene che siamo un pò insistenti, ce la convinca, sù, da brava, che così ce ne torniamo a casa tutti felici e contenti e non se ne parla più e anche il mondo tutto sarà più contento.

            LA MAMMA: Sì, sì, ma cosa vuole, signore caro, l’è sempre stata così testarda questa figliola, quando si metteva una cosa in testa, niente da fare, quella doveva essere. Pensi che una volta la ci fece fare una figuraccia, la ci fece, eravamo invitati dai Mantecati, sa quelli della pasta dell’uovo, sì, proprio quelli, sì, e pensi che non volle mettersi le scarpette di vernice non volle, si figuri, e non ci fu verso, non ci fu, niente, a otto anni e già così cocciuta, niente, non ci furono santi, nisba, dovemmo portarcela in scarpe da tennis, pensi che roba, non ci crederebbe neanche a vederlo, dovemmo inventare che soffriva di calli la poverina, si figuri, gliene avrei date quattro gliene, avrei, a questa smorfiosa a questa sfacciata a questa impunita, pensi un pò, tutte le aveva vinte, tutte…

            CANE CATTIVO: Ma con noi è diverso, vedrà signora, vedrà che le caramelle non gliele daremo piu, eh? (Minacciosamente allusivo) Capito, Signorina?

            LA MAMMA: Sì, sì, fate bene, sì, chissà che voi non gliela facciate intendere, la ragione, ma non trattatemela male però, la mia piccina, che colpa non ha, ché la colpa è tutta delle male compagnie, ah…

            S1: (la interrompe) Sì signora, sì, ha ragione ma ora vada, vada pure, grazie tante del suo intervento, (allo scrivano) scrivano l’accompagni. (Alla Mamma) Le faremo sapere, signora, mille grazie ancora, ora vada, sì, vada pure, grazie, grazie tante.

            LA MAMMA: (si lascia portar via dallo scrivano) Sì, vado, si, ciao, cuore, ciao, amore, trattatemela bene eh mi raccomando, vedrete che con le buone maniere tutto si ottiene, ma non strapazzatemela, eh, ciao, sì, ciao, ciao.

            S1, S2, CANE CATTIVO: (con sollievo) Aaahhh!

            S2: Beh, riprendiamo, dove è che eravamo rimasti?

            S1: A “Caro amico” siamo rimasti, sempre lì siamo, sempre da capo a dodici, non c’è niente da fare non vuole intendere ragione, lo dice pure la mamma lo dice. (Lo scrivano rientra).

            CANE CATTIVO: Bando alle ciance. Occorre intervenir.

            S1: Sì ma lei capisce, ciò che ci deve restituire, non è che possiamo estrarglielo a forza, no?

            CANE CATTIVO: No, lei dice? So ben io come indurla a più miti consigli, la nostra brava Signorina qui presente, so…

            S2: (seccamente, allo scrivano): Non scriva più.

            CANE CATTIVO: Vi farò vedere io vi farò. (Allo scrivano) si conduca Ottavio.

            LA SIGNORINA: (sorpresa e supplice) Sol – fa – sol –re – do. (Lo scrivano esce. Rientra conducendo al guinzaglio un cane barboncino. La Signorina non ha smesso di modulare il suo lamento. Alla vista di Ottavio tende le mani verso di lui, invano: lo scrivano lo tiene fuori della sua portata).

            CANE CATTIVO: (allo scrivano) Mostri il cagnetto alla nostra amica. Ora lo riconduca di là. Indi… ai miei cenni… (lo scrivano riporta Ottavio fuori scena).

            S1: (con una certa compassionevole dolcezza) risolva, Signorina, ce lo ridia.

            LA SIGNORINA: (provata, forse incerta) Re – do – re – do.

            S2: (languido) Sì, Signorina, risolva. Non ci faccia fare ciò che non desideriamo, ciò che ripugna ai nostri sentimenti di alta umanità, ma…

            LA SIGNORINA: (su un tono dapprima cedevole, quindi, inaspettatamente, di diniego) Do – do – re – mi – fa – sol! Cane Cattivo, impaziente, fa un gesto nella direzione in cui lo scrivano e Ottavio sono usciti. Si ode un guaito di dolore) La Signorina, addolorata, spaventata, dà quasi un ululato). Mi – fa – fa – mi – mi.

            CANE CATTIVO: (incalzandola) Allora? Non resterà mica indifferente a questo guaito di dolore? Allora? Si decide, infine, a scriverla quest’ultima nota del suo melodramma? (Molto minaccioso) Oppure no?

            LA SIGNORINA: (non ancora remissiva, quantunque duramente provata) Do – re – re – re – mi. (Cane Cattivo fa un nuovo cenno. Un guaito prolungato perviene dalla camera della tortura. La Signorina si tiene la testa con le mani. Si lamenta, in una modalità non dissimile da quella di Ottavio) Mi – re – re – do – do.

            S1: Sù, e ce lo faccia, questo regalino!

            S2: Sì, ce lo faccia, sù! Ci ridia, infine, quello che ha sottratto. Ce lo ridia!

            CANE CATTIVO: O preferisce che andiamo avanti? (Urla, rivolto allo scrivano) Scrivano, j’amm’nnanz’! (Ma, prima che s’oda il gemito di Ottavio, la Signorina si scuote in un gesto di assenso, come potrebbe essere quello di un Pulcinella in un teatro dei burattini. Cane Cattivo ferma lo scrivano. I tre inquisitori si tendono verso la Signorina in una postura di attesa, un pò come dei cani da caccia).

            S2: (sottovoce) Ci siamo.

            S1: Ci siamo.

            CANE CATTIVO: Sì, ci siamo.

            LA SIGNORINA: (prende fiato, prima di emettere la nota, che durerà a lungo; dopo un tempo, sul suo la l’orchestra accorderà gli strumenti e i cantanti le voci; costoro, a braccia larghe, si rivolgeranno al pubblico; polifonia monocorde) La – la – la – la – la – la – la.

 

Sipario.

 

FINE

 

NOTA: Evidentemente, la nota la sarà assente dalla partizione del melodramma, e nessun la dovrà essere dato all’orchestra prima della rappresentazione.

 

………..
PS 2021. La fonte di questo testo è un articolo sull’incendio del teatro Petruzzelli di Bari (1991), su l’Unità del 26 luglio 1993.

 

Un’anima del Purgatorio (1988)

Questo testo è stato pubblicato in Linea d’ombra, numero 33, Milano 1988.

 

L’Anima se ne stava nel purgatorio.

Cosa trovò il suo amico, uno che prima era suo amico, che di cognome faceva Vitelli? Di andare lì dove preparano le figurine delle anime, ci lavorava uno che conosceva, andò lì e chiese di quello, stava nell’ufficio e venne subito, Vitelli gli disse così e così e quello: nessun problema, ti accompagno didietro, ti porto dall’operaio anziano, sta nel laboratorio dietro alla bottega.

L’operaio anziano faceva i pezzi difficili, quelli coi capelli ricci o i preti colla berretta e anche i tipi singolari; gli stava vicino uno che gli passava i blocchi d’argilla preparati, che già aveva sagomato la base e le fiamme; il torso le braccia e la testa, quelli li rifiniva l’operaio anziano. Un altro passava, raccoglieva le statuine, le metteva nel forno, un altro le ritirava, le allineava su una tavola di legno, una donna pitturava le fiamme, una più giovane il rosa dei corpi, una più giovane ancora gli occhi e i capelli.

Vitelli tirò fuori le fotografie, due ne aveva portate, nella prima si vedeva l’Anima insieme con altre persone, con la penna biro gli aveva fatto una freccetta sulla testa, era una foto di gruppo, stavano sullo sfondo di una marina, il sole tramontava dietro le teste e poco si distingueva, quello oltretutto era mezzo nascosto da uno vicino. La seconda era una fototessera, fotomat, cabina di stazione centrale, quello teneva il mento sollevato e strizzava gli occhi ma già si capiva di più; farò quel che posso disse l’operaio: che vede, in ogni modo su queste statuine arriviamo appena a notare i segni particolari, se ci sono; riportiamo giusto il colore degli occhi e dei capelli, più o meno la forma del naso, il contorno della faccia, se è grassa o magra, la lunghezza dei capelli, tutto qui; l’importante è il nome scritto davanti, disse, me lo deve lasciare, disse, che devo inciderlo sull’argilla fresca, me lo scriva per favore dietro alla fotografia più grande.

Il conoscente riaccompagnò Vitelli alla porta, quando sarà fatto chiese Vitelli, torna fra tre giorni e sarà pronto disse quello, lo devono mettere nel forno e dopo pitturare, la pittura si deve asciugare, poi te lo possiamo consegnare.

L’Anima se ne stava nel purgatorio. Sente che lo chiamano, chi sarà mai, si dice. Per un pò non risponde ma la voce insiste, la chiama per nome, deve per forza corrispondere. Chi mi vuole dice l’Anima, sono Vitelli risponde la voce. Cosa mi vuoi dice l’Anima, ti devo parlare Vitelli risponde. Parlami dunque l’Anima dice.

Gli è che potresti tornare, fa Vitelli.

Tornare? Fa l’Anima. Per fare? Che di nuovo?

Che è cambiata la sentenza, c’è stata l’indulgenza.

Ah no, fa l’anima del purgatorio, quale indulgenza che non ne voglio.

L’indulgenza, spiega Vitelli, quella nuova, che danno a chi ha scontato a sufficienza. L’ho chiesta io per te.

La sentenza in curva discendente, allora, l’interrompe l’Anima, ma niente io ho a che fare. Niente io ho a che vedere con quelli della sentenza. Non c’ho complicità.

Non essere sdegnoso, non essere pertinace, trattasi giusto d’una formalità, un passaggio procedurale; cosa di poco conto, la sbrighi e stai di nuovo qui fra noi.

Niente da fare dice l’Anima, se non sarà l’equidistanza non sarà niente.

Questa è dunque la tua ultima parola, questo dunque avrò da riferire, vuoi che la riporti dunque l’immaginetta, non altro c’è da dirsi, non più potrò chiamarti, debbo dunque lasciarti lì? Dice Vitelli, dice con voce dispiaciuta.

Se non sarà l’equidistanza no, niente se ne farà, l’Anima ribatte.

Eppur ti son venuti incontro.

Ma non io incontro a loro.

Eppure tuo fu il torto.

E me lo tengo tutto. Quello almeno mi dà un posto.

Ah, bel posto quello.

Cosa ne sai tu.

Lo so, ci sono stato. Anche a me m’hanno richiamato.

Non me l’avevi detto.

Non sono cose che si dicono.

Lo sai allora che non si sta poi tanto male, dice l’Anima.

L’uomo s’abitua a tutto; se ha qualcosa a cui abituarsi, dice Vitelli.

Come sei sapiente.

Certo. Certo non superficiale come te. Potevi stare più attento, potevi. Non te ne finivi lì.

Anche questo è vero. E` stato che mi sono distratto sul più bello.

Ah cane, ah maledetto, ceffo di basilisco, lacerta vermenara, semente di gramigna, si altera Vitelli; pur te lo dissi che ogni distrazione prepara l’accidente, pur te lo dissi.

E sia. Ma anche l’attenzione, che all’accadente attende, attende l’incidente, si difende l’Anima. Ben lo sapevo che per colui restar campione era cosa d’importanza, davvero non ci tenevo a rubargli il titolo, parlo con lingua diritta. Cosa potevo farci, dovevo pur mostrare i segni, cosa potevo farci se la forbice è spezzata dalla pietra ma taglia la carta che incarta la pietra. Fosse stato per me avrei sempre tirato, non so, orsacchiotto, sarebbe stato trapassato dalla forbice avviluppato dalla carta e tramortito dalla pietra. Ciò nonostante stavo attento e tiravo con ritardo, proprio agli ultimi colpi mi sono distratto.

Non è quello, non è quello, dice Vitelli.

E cosa allora.

E` il fatto l’altro, quello, l’altro.

Quello dell’orecchio? Ai fatti qui mi chiami, che sono accaduti. Un demonio certo comandava dentro me, nondimeno va detto che grande era la tentazione, la folla nel vagone mi ci spingeva addosso, ed era un orecchio talmente sodo e traslucido, arrossato per la ressa al punto giusto, mi stava giusto all’altezza dei denti… come non addentarlo, cerca di capirmi.

Non è quello, non è quello. Quello ti venne condonato in prima istanza, dice Vitelli. Mi fa specie di te, che non intendi.

Ora mi metti con le spalle al muro, dice l’Anima, si sa dunque di quei due? Quelli entrarono e si misero a sedere proprio di fronte a me, già lui col braccio le allacciava il collo e già lui le parlava nel collo e lei rideva, ridevano fin dall’ingresso, veramente, dovevano stare attenti, non lo vedevano che tenevo il carné e la penna in mano, e allora.

Ecco. Ora l’hai detto.

E` questo certo, lo sapevo. Perciò l’ammenda dunque, vedi, lo sapevo che era per questo l’indulgenza.

Ebbene?

E sia.

Così, così ti voglio, esclamò Vitelli.

Vitelli incontrò per strada il suo conoscente, quello delle anime.

Come è andata allora, sei rimasto soddisfatto, quello gli si rivolse.

Come no, fece Vitelli, di nuovo egli è fra noi, dopo breve reticenza ha deciso per il meglio. Piacere mi fa a sentirlo, oggi come oggi s’è fatto quasi raro, sempre meno ci richiedono le anime e capita spesso che di tornare non vogliono sapere, sei stato fortunato; e dove l’hai impiegato, sul posto di lavoro?

No, no, s’accomiatò Vitelli, lo tengo in casa, dà una mano a sbrigare le faccende e già i bambini lo chiamano zio, li porta a scuola e li riprende, davvero bene ci troviamo e la statuina sta in fondo a un cassetto che neanche so più quale, bene ci siamo trovati e ti manderò qualcuno che già so, e così dicendo mi accomiato; e detto fatto s’accomiatò.