Litania dell’ignavo seconda parte

Torno a piedi in città, come ho già detto sono un buon camminatore, capace di percorrere molti chilometri uno dopo l’altro, capace di attraversare la città da un capo all’altro, città che piccola non è no. Torno a piedi in città e ci vuole il tempo che ci vuole, quando risalgo in casa saranno le quattro del mattino e le ho fatte o no le mie centoventi parole ieri, mi par di no, no. E così mi metto allo scrittoio e ci passo un paio di ore, finché i felini non si risvegliano e non iniziano a vagare per la casa e a chiedere da mangiare, venghino signori venghino apro per loro una diecina di scatolette, queste bestie mi costano quello che mi costano mi, ma per fortuna la mamma non aveva al mondo altri che me, e per maggior fortuna era una così accurata risparmiatrice e una sì accanita accumulatrice, come in parte ho riferito, e una così parca spenditrice, se si eccettua la sua passione per gli oggetti elettrici, di cui anche ho fatto menzione, che mi ha lasciato di che nutrire queste fiere per qualche decennio ancora, chissà se ci saremo ancora, e per massima fortuna aveva la mamma una tale avversione per banche e istituzioni pubbliche in generale che conservava in casa tutto il suo denaro, in ripostigli vari vecchie borse barattoli di zucchero doppi fondi materassi e chi più ne ha più ne metta.
Era proprio incredibile, la mamma. Cosa vuoi, era fatta così, quando si tagliava le unghie si vedeva che  ne gettava via i residui a malincuore, e li lasciava difatti sul comò per giorni e giorni, se mai le fosse venuta in mente una maniera di riutilizzarli. E poi, invece, e poi invece questa mania strana che la spingeva a comprarsi lo stuzzicadenti elettrico, quando di denti lei non aveva più da vent’anni, e non s’era certo permessa la spesa di una dentiera, sia pure di silicone, ma se gliel’avessi trovata elettrica, la dentiera, stai pur sicuro che quella se la sarebbe comprata. Cosa sarà stato, chissà, forse ciò che amava era il ronzio dei motorini, o l’aspetto clinico e igienico di quegli articoli, chissà, o sarà stato che il suo ultimo marito, che era impiegato alle poste e telecomunicazioni, le avrà sempre ripetuto che nell’elettricità stava il futuro, nell’elettricità ti dico, non so, chissà, io non l’ho mai conosciuto, lui.
Fatto sta. Fatto sta che. Cosa vuoi, siamo passeggeri, qui, siamo passeggeri di questo mondo. E la vita continua, su, scuotiti, lascia le tue fantasticherie, trattasi ora di uscire di casa, una volta compiute, certo, come dire, le operazioni mattinali. Scosto la tenda, dò uno sguardo fuori della finestra, lo dò per vedere che tempo fa, per vedere se prendere l’ombrello oppure no, ma la miseria, quello c’è già, quello col braccio al collo, ma quando glielo toglieranno quel benedetto gesso, chissà. Io non mento mai, non mento quasi mai, e vi dirò che quell’uomo mi rende nervoso, e me, per innervosirmi, ce ne vuole. Ma guarda chi esce dal cancello della casa popolare, guarda chi esce con il suo cagnolino, col suo cagnolino al guinzaglio, esce una certa donna, esce la donna della scala B interno 18, questa donna, come si dice, ancora giovane, ancora piacente, che è sempre vestita di nero, che mi aveva interessato una volta e poi, com’è stato, mi è passata di mente, ad altri fugaci incontri mi sono dedicato. Dove è che se ne andrà, se ne andrà di certo ai giardini pubblici, i bei giardini di questa bella città, è lì intorno che tanta gente porta a spasso i cani. Mi occorre un pretesto, mi occorre perché, se pur di vista ci si conosce, ciò non giustifica di per sé l’approccio. Un guinzaglio, dove è che l’ho visto in questa casa, in quale ripostiglio la mamma metteva i guinzagli, certo insieme con gli spaghi e i fili elettrici, per analogia formale, e difatti lì ne trovo uno, lo metto al collo di Felicita, che detto en passant sarà grossa il doppio del chihuahua della signora, ed esco con Felicita al guinzaglio.
Ecco la donna in cima alla via, ecco che costeggia i giardini, la seguo da lontano e quando mi pare che stia per tornare indietro mi fermo e mi appoggio alla cancellata, lascio Felicita vagare intorno a un albero, tenendola al guinzaglio, e quando il cagnolino arriva lì vicino, come no, inizia ad abbaiare e lei a soffiare e non si sa chi dei due ha più paura e chi meno, chi graffierà e chi morderà, c’è da tenerli fermi e sgridarli e così una parola tira l’altra, non so se rendo l’idea, e si fa la conversazione, e anche questa è fatta o quasi, basterà ripassare per di qui domani.
Prendo dunque congedo dalla donna, riporto a casa il gatto, torno nella strada, faccio due o tre acquisti ma poi non ho voglia di tornare su, compro il giornale, vado a sedermi in un caffè, ché non ho di meglio da fare, ma vediamo un poco la gazzetta. No, non faccio in tempo ad aprire il giornale, non faccio a tempo che carissimo signore mi interpella il mio vicino di tavolo, caro signore non pare anche a lei, che come vedo si mantiene informato e per ciò stesso prende una sua posizione propria nel mondo e nella nostra tormentata società, non pare anche a lei signore caro che qui si è passato il limite, il limite di cosa chiedo allo sconosciuto, ma come di cosa signore mio non vede che cosa succede non si rende conto, dove è che vive lei mi fa questo vicino occasionale, quest’uomo ben vestito e bene in carne, quest’uomo che soffre di pressione alta lo vedo con il mio occhio clinico io, non vede cosa accade insiste costui, tutte queste violenze, tutte queste intolleranze, beh sì dico io, ma non vede insiste lui che così non si può più andare avanti, non si è più padroni in casa propria, e tutti questi tartari, questi ugro-finnici ed altaici, non li vede, sono questi il pericolo, glielo dico io, questi, mica quegli altri, i nostri pellirossa, con quegli altri in fondo ci si può intendere, si può ragionare, ma con questi no, questi sono proprio un’altra amministrazione, un’altra lingua, cosa ne dice lei. Ma cosa vuole che le dica, non lo so, non so cosa dirle, e del resto questi discorsi non voglio sentirli, non voglio proprio ascoltarli e quindi la saluto caro signore, e ciò detto mi alzo ed esco, perché certi discorsi non si possono proprio sentire, non si possono.
Me ne vado, me ne vado a passeggio, cammino per un’ora, ma cosa succede, oggi non succede proprio niente, mi fa specie di questa città, mi fa, che cosa ci sono venuto a fare, allora, in questa città dove ne succede una ogni giorno. Ma no, ma sì, eccolo l’episodio, eccolo qui. Mi si accosta uno sul marciapiede, uno che viene dall’altra direzione, mi si accosta, mi ferma e mi fa buongiorno, come sta, bene dico io e lei, bene dice lui e, poi, non mi potrebbe dare del denaro, sa com’è, del denaro per pranzare, sa com’è, sto sempre a pensare pensare pensare e non ho tempo per lavorare. Male, dico io, male. Lei dovrebbe sapere che fa male il troppo pensare, e poi cosa è questo, cosa è ciò, questo fatto che non si lavora perché si ha da pensare, ah no, questa non me la faccia sentire, non me la faccia, e cosa dovrei dire io allora, crede che non potrei passare il tempo a pensare, se volessi, io che in fondo sono un ereditiere e non lo dico con superbia né con arroganza di tempo ne avrei a bizzeffe per non lavorare, e invece io lavoro invece di pensare, mentre lei, lei che è ancora giovane e in buona salute, a quanto pare, quanto è che avrà, neanche cinquant’anni, e le gambe le ha per camminare ed le braccia anche, ah se la mamma fosse viva si rivolterebbe nella tomba a vedere questo, e allora, cosa vuole che le dica, e così dicendo l’ho lasciato e mi sono allontanato, che neanche gli ho dato il tempo di rispondermi ma, certo gliene ho date di che pensare. Ma cosa credono questi che mi fermano così per la strada, questi che mi parlano nei bar, cosa credono, che io non abbia i miei pensieri? Non lo sanno forse quante ne ho viste di cose, come è che non vedono scritte nei miei occhi, incise sulla mia fronte, quante ne ho viste, quante ne ho passate, debbo forse mettermi un cartello al collo, debbo forse, debbo? Non so, ditemi voi, io non so.
Io non so, dovrò pur le mie pene consolar, non so, dovrò pure cercare consolazione. E l’occasione si presenta, nella via affollata, nella via trafficata che da un’ora percorro in su e in giù. Esce una signorina da un negozio, esce con un acquisto che ripone nella borsa, scende la via senza fretta, si vede che è contenta di stare nella via, lo si vede da come indugia davanti alle vetrine. Non è bella questo no ma non è questo il punto anzi, io le ragazze belle non le posso guardare non le posso vedere no, cosa vuoi mi fanno male mi fanno troppo dolor, è una vista quella che mi fa male al cuor, cosa ci posso far. Ma cosa è che guarda questa signorina, guarda le vetrine degli ottici, si interessa agli occhiali da sole, si ferma persino davanti al banchetto di un venditore ambulante, si fa dare uno specchietto e prova due o tre modelli ma non è mai contenta, posa lo specchietto, ringrazia e prosegue, va oltre e io, che sono uomo di mille risorse, ho una bella idea, non ho che da sfilarmi i miei, di occhiali da sole, che sono di buona marca e di bella fattura, tanto che la signorina non potrà non apprezzarli, ed è così che, quando la vedo attardarsi davanti a una nuova vetrina, mi avvicino e le porgo i miei occhiali, glieli porgo con un bel sorriso e lei è invece si direbbe come spaventata, prenda questi le dico con bella galanteria, senza dubbio le doneranno, ma come reagisce la signorina, non reagisce bene, ma cosa vuole mi dice mi lasci in pace, e mi scarta e se ne va ma cosa le ha preso, non capisco, non vedeva sul mio viso l’immagine stessa della buona intenzione, ma che dico, della mancanza d’intenzione, non vedeva come fosse la mancanza di intenzione stessa che si faceva incontro a lei, che a lei si offriva e che lei, ignara e ingrata, ha disdegnato, tanto peggio per lei, se è così allora me ne vado vado oltre e altrove e così è.
Così è, e dove mi dirigo, non so. Vado ai giardini pubblici, non so, qualcosa vi potrebbe accadere, qualche incontro forse, non so. D’altro canto, sento già la nostalgia delle mie centoventi parole, e i gatti, chissà cosa staranno facendo, e se Wilhelmine  telefonasse? Forse torno a casa sì, forse ripasso per casa, anzi ci vado davvero, ma giunto che lì sono, i gatti se ne stanno tranquilli sulle poltrone e sui divani, i quattro neonati dormono nella loro scatola, Esterina se ne sta sul davanzale a spiare i piccioni, cosa fare, ciondolo da una stanza all’altra, mi metto allo scrittoio ma sono svogliato, vado alla finestra c’è sempre l’uomo col braccio al collo, vado in cucina a bere un bicchier d’acqua, i gatti mi seguono e già rivogliono mangiare, apro per loro qualche scatoletta ed è inutile dire che il telefono intanto non ha squillato. Ma cosa succede fuori nella via, cosa sono questi cozzi, queste urla, vado alla finestra, scosto la tenda, ah sono sempre le solite storie, questi che si picchiano, che si prendono a pugni e chissà perché poi, questi qui fra di loro non si distinguono, non hanno neanche le magliette di colore diverso, si prendono a calci e a pugni, c’è uno cui è caduto tutto in terra, borsello, occhiali da sole, portafogli, e un altro sta piegato in due, si tiene la pancia con le mani, e poi una delle due squadre si sgancia corre via e fugge e quegli altri dietro, strillando acchiappali acchiappali e indicandoli col dito ai passanti che non è che si muovano più di tanto, si sente poi uno sbattere di portiere, uno stridio di gomme e come no, uno sgasare di motore, sono quelli della prima squadra che se ne vanno via e quelli dell’altra, cosa vuoi che facciano, si guardano intorno, ma loro la macchina non l’hanno, rimangono a fissare nostalgici il fondo della via, dove i fuggitivi sono scomparsi, casomai il tempo tornasse indietro e quegli altri con quello. Riaccosto bene la tenda, me ne torno in cucina, mi apro una scatoletta, ma cosa pensate, una scatoletta di tonno mi apro, dio mio che cosa ci tocca vedere, dio mio quante ne ho viste, quante ne hanno viste i miei poveri occhi, non lo sa questo forse Wilhelmine, sì o no, eppure dovrebbe saperlo dovrebbe, non è da poco che mi frequenta, e quello nella via, quello che era triste perché pensava sempre e non aveva il tempo per lavorare, ora che ci penso ci ripenso sono forse stato un poco scortese un poco brusco e spiccio, l’ho congedato, se non erro, con una certa freddezza ed alterigia, spero che non me ne vorrà, non me ne, e non serberà di me cattivo ricordo, il quale ancor più triste renderlo potrebbe.
E ciò detto detto ciò me ne esco, non ho ragione di restare in casa, metto in atto appena una veloce toletta ed esco, ché lo so che Wilhelmine più non chiamerà, lo so perché lo sento, me lo sento, lo sento e lo so che non chiamerà, e non vorrà certo che lo faccia io, chiamare dico, ah no, questo no, che non sia mai, ed è così che prendo, prendo ed esco, riesco di nuovo. Del resto fra non molto avrò appuntamento, cosa si crede qui, che io non abbia niente di meglio da fare, che io non abbia?
Ed è così che, è così che me ne esco, ché ho da far passare tre o quattro ore, e vedrai che passeranno, perché a questo mondo tutto passa e, per ben principiare questa nuova passeggiata,  la propizio con un obolo a questo mendicante, a questo ubriacone, a questo pezzente, capita bene costui, che se ne sta steso contro il muro del palazzo e tiene un barattolo vuoto posato vicino, vicino alla bottiglia, gliela faccio l’elemosina, perché ai segni io sto attento e questo povero con il suo bussolotto sta lì proprio a dire che delle buone azioni un giorno, forse anche oggi stesso, ci sarà reso merito. E poi, umana cosa è l’avere compassione degli afflitti, e non mi si potrà qui ridire, non si potrà certo dire che, che io compassionevole non sono.
Ah questo non sia mai, questo non sia mai detto né soprattutto ridetto, ah no non vi sarà facile trovare macchia o fallo che dir si voglia nel mio comportamento, non lo vedete quanta cura ci metto, non lo si vede come levigato sia tutto il mio agire e come nulla al caso sia lasciato? E così è, non faccio qui questione di principi, trattasi qui di gentilezza e di compassione, trattasi di semplici e schiette qualità umane, e ne ho da vendere, io, dell’una e dell’altra, che mi trovi a praticare gli umani e che gli animali, quando trattisi degli uni e quando degli altri. E, d’altronde, non stanno forse scritte anche per strada, talune di queste qualità umani ed animali, sotto forma di raccomandazioni, a cura della nostra benemerita Amministrazione comunale?
Ma torniamo alla nostra passeggiata, torniamo alle sirene, alle sirene della polizia delle ambulanze dei pompieri, ma cos’è che succede, che cosa accade, ma io sto lì nel crocchio come lui, non lo vede questo, questo signore, che lo riconosco è quello del bar, non lo vede questo signore, perché allora lo chiede proprio a me? Non so arrivo adesso anch’io gli dico e lo metto a posto, ché d’altronde come vede, se gli occhi ce li ha, e non dico se ce li ha buoni, dico solo se gli occhi li ha anche lui, e mi pare che per averli li abbia, lo vede bene che portano qualcuno fuori da un portone, lo portano fuori in mezzo a due poliziotti, i quali sulla soglia lo trattengono costui un attimo perché, non si sa, né si sa chi si sia colui, fatto è che la folla antistante deve essere grata dello spettacolo perché si mette ad applaudire, cosa avrà da applaudire non si sa, ma per non essere da meno applaudo anch’io, non si sa perché non si sa, vedremo poi sui giornali, per l’intanto applaudo anch’io poi vedremo, una cosa alla volta per favore, e il signore di prima mi domanda che cosa succede, ma non lo vede da lei stesso gli dico, orsù un bell’applauso ed è tutto finito, su partecipi anche lei da bravo, faccia il bravo e ci faccia vedere che lei non è proprio l’ultima ruota del carro. Ma quale carro e carro fa quello, ma quale ruota dei miei stivali, fa lui e dice, fa un gesto con la mano e se ne va. D’altro canto neanch’io ho tempo da perdere, tempo da perdere non ne ho e mi stacco dall’assembramento che del resto già si disfa di per sé stesso.
Cammino verso il parco delle attrazioni, senza fretta né flemma, come un onesto cittadino, come una persona che si rispetti, e tutto quello che faccio è procedere in una determinata direzione e così è, ma direi a un certo punto che qualcuno mi segue, è dapprima, come dire, un’impressione, ho insomma la sensazione vaga che qualcuno mi segua, e in fin dei conti dirò che sono seguito, che qualcuno mi segue nella pubblica via. Prendo per una strada laterale dove non passa nessuno, dopo cento metri mi volto, non vedo nessuno. Mi sarò sbagliato, chissà. Ah no, viene un uomo in camicia bianca, si direbbe proprio il signore di prima, sarà lui, chissà, entro in un provvidenziale androne, mi nascondo dietro un bidone della spazzatura, ecco che costui passa e va oltre, chissà se mi seguiva davvero, riesco, sguincio per una viuzza e mi allontano a passi grandi e poi non resisto più e mi metto a correre.
E vengo alla mia nuova conquista, alla signorina Rachel con cui ho appuntamento, che incontro davanti al parco delle attrazioni che volete ci sono affezionato a questo posto, all’ora convenuta, c’è da dire anzi per la precisione che entrambi ci trovavamo sul posto con lieve anticipo, cinque minuti circa, e queste sì sono le cose sono le persone che danno soddisfazione nella vita, queste qui, non queste Wilhelmine che sembra lo facciano apposta a farti attendere, e difatti con la mia Rachel mettiamo in essere uno scambio di idee su questo fatto questo della puntualità, cui teniamo tanto io quanto quanto lei, ah questo è parlare! ah questo è dire! ah finalmente una persona precisa educata e ammodo, ah finalmente, ma sì certo signorina cara le dico, dacché tutto segno è, la puntualità è segno di correttezza e di rispetto per l’altro, non mi dica caro signore, fa lei, lei sfonda una porta già aperta, non potrei essere più d’accordo, non potrei, ah non vi dico come questa parola questo parlare mi ha non so mi ha davvero toccato il cuore mi ha proprio mandato alle stelle, perché non è tanto qui questione di buona educazione, quella non ci vuole tanto ad averla, non si penserà certo che io non conosca l’arte di vivere, non si penserà  che io mi metta le dita in mezzo ai denti dopo che ho ben mangiato o, le stesse dita, dentro il naso in un momento di inoperosità, anche se nessuno sta lì a guardare, non si penserà certo ciò di me? Non si penserà certo che, quando sono solo, non visto da nessuno, io possa infrangere le regole e mettermi, detto brutalmente, le dita nel naso? Ah, no, qui sta il bello, il bello sta nel fatto che anche e specialmente quando si è soli e non visti una certa forma una certa etichetta vanno mantenute, come se per l’appunto avessimo indosso gli occhi di qualcuno, e questo spiegavo appunto alla signorina Rachel, e su questo la signorina che – detto per inciso – non è pasticciera né sartina ma anzi studentessa, studentessa fuori sede come si dice, e quindi in fondo straniera come me in questa città dove meno la mia vita, e su di questo, dicevo, la signorina, dicevo, è su questo perfettamente d’accordo. con me, e così è.
Così è che ce ne andiamo a passeggio nel parco delle attrazioni e così ridendo e scherzando ce ne andiamo a passeggio per il parco delle attrazioni, leccando in santa pace i nostri gelati, il mio al gusto di limone, il suo ai gusti di crema e di cioccolato, gelati che ho offerto io, senza mancare di dire tenga pure il resto signorina alla gelataia che più signora era che signorina ma, che volete, queste sono le piccole generosità della galanteria, sì.
C’è poi, per farla corta e per farla breve, da andare al cinema, c’è da scegliere lo spettacolo e la sala, assistere alla proiezione della pellicola e così è così non è, ci sediamo poi in un caffè e non dico che non la si passi un’ora piacevole ma insomma quando è che veniamo al dunque, al dunque veniamo e al momento in cui passo a prendere informazioni sulle sue di lei abitudini di vita e di alloggio e, entrino signori entrino, venghino signori venghino, venghino pure che a questo giuoco non c’è nessun perdente, che qui nessuno perde, mi seguino e sentino come la signorina abiti da sola in una stanzuccia mansardata, una stanzetta insomma niente di ché, ah ma perché non me la mostra la sua bella stanzuccina, perché non mi ci porta sicché la veda e l’ammiri, ecco ma veramente dice lei sa com’è, mi dica mi dica, ecco un’altra volta forse è meglio, ma cosa mi dice mai non penserà mica male di me cara signorina, ah no dio me ne scampi e liberi caro signore, solo che solo che, ecco non so, solo che. Solo che, ecco, non so, solo che, sa com’è, ci conosciamo appena e già lei vuole salire nella mia stanza, non so a dirla tutta non so se posso fidarmi delle sue buone intenzioni. Mia cara signorina mi fa specie di lei mi fa, la credevo un tipo sagace e sensibile, e dire che mi pareva una persona così a modo, ma per chi dunque mi ha preso mi ha, ma cosa ne sa lei cosa ne sa, ma se fanno sette anni sette che vivo in assoluta continenza e castità, se non le pare questo un buon sigillo di garanzia non so, ha forse bisogno di una dichiarazione in carta da bollo? Quello che io penso caro signore, quello che penso io signore caro, è che lei con tutte le sue manfrine le sue moine le sue smancerie ad altro non mira se non alla mia carne, signore caro. Che non l’avesse mai detto, ah, che questo non l’avesse mai detto mai, ché piombo allora nel grande silenzio terribile e di piombo io, non posso più dire parola, povero me incompreso e reietto dal mondo tutto, e non lo vede ora la signorina come io sia diventato muto che non dico, non lo vede come fissi disperato e duro come pietra un qualche punto lontano di qui lontano da questo mondo, vicino alla gamba di un tavolino laggiù? E la faccia finita, caro signore, dice lei infine, la faccia finita e mi dica un poco, piuttosto, mi dica piuttosto, ché l’ascolto, mi dica, ché un paio di orecchie le ha trovate, sù, mi dica le sue sofferenze e le sue tribolazioni. No non posso no. Sù mi dica sù. No non posso no. Sù. No. No e poi no, no e no, no. E davanti a questa muraglia umana di reticenza ed omertà cosa vuoi che la signorina faccia, la signorina s’alza e se ne va senza neanche dire arrivederci e grazie, se ne va ex abrupto così.
Ma sì, è meglio così, è stato meglio così, non eravamo fatti per intenderci, non eravamo io e quella lì. Ma lo stesso lo confesso sono abbattuto colpito e avvilito, ora me ne torno a casa, me ne torno a casa e ai vocabolari, me ne torno dai miei gatti, quelli loro non mi deludono loro no, me ne torno a casa oppure no, perché rimane la signora di prima, la signora della scala B interno 18, la signora che vive sola nel palazzo di fronte a casa mia, ma sì, vado, entro nel palazzo, salgo le scale mi fermo davanti alla porta numero 18 no non ho coraggio mi manca il coraggio e una buona scusa, me ne torno a casa, non mi resta che tornare.
Non so, me ne torno eppure non mi sento contento, non mi sento bene con me stesso ecco, sono roso da un sentimento di inadempienza frustrazione e scontentezza, da questa malinconia propria al lavoratore che non ha potuto condurre a termine la sua onesta giornata ma che vuoi, non tutte le ciambelle vengono col buco, pazienza.
Sono in casa alla fin fine e sto allo scrittoio ma diciamocela tutta non è che proceda non è che avanzi con lena e con ardore, non sto che a gyenge e ai suoi suffissi e prefissi, annessi e connessi, e la lettera h non è molto più vicina di ieri ma, cosa dire, in questi giorni sono svagato, distratto, confuso, e poi, devo dire la verità, sono, non so, svagato, sono distratto e confuso e sì lo so perché: sono le donne che mi rovinano, me.
E se sono le donne che mi rovinano, ebbene sia, andiamo loro incontro lieti e giulivi, facciamo una rapida toletta, riavviamoci la capigliatura, annodiamoci al collo una bella cravatta, che nodo ci facciamo fare stasera vediamo vediamo un pò, forse il numero dodici “alla francese” dice il libretto d’istruzioni dell’annodatrice, sì, questo ci sta bene con la camicia a quadri, poi scegliamo una giacca leggera, scura ma non blu, ché ho i pantaloni marroni e non sia mai che accosti questi due colori, non sono mica un pacchiano, io, e quando siamo pronti usciamo e facciamoci portare da un tassì in un bar notturno, entriamo in questo bar che conosciamo, che frequentavamo in gioventù e fino all’altro ieri, entriamo in questo buon bar, come ai vecchi tempi, sistemiamoci a uno sgabello appartato, poggiamo i gomiti sul bancone, ordiniamo una bibita analcolica, rimaniamo nella penombra e guardiamoci intorno, guardiamo all’intorno nella sala affollata oscura e piena di fumo, chi c’è chi non c’è e guarda chi c’è avrei dovuto aspettarmelo c’è Wilhelmine, Wilhelmine c’è e non è sola, c’è Wilhelmine ed è con un uomo, danza con un uomo e con quale lascivia e con quale lussuria e con che trasporto e con che partecipazione, ah gliel’ho sempre detto che, gliel’ho detto sempre che lei si perderà a forza di perdersi così come si perde, gliel’ho sempre detto, e mostrasse almeno un pò di ironia non so, un qualche distacco, una qualche distanza, no, guarda lì, come gli tiene la mano, come gli intreccia le dita, guarda come se le streccia e se le intreccia le dita, quelle stesse dita che pur mi hanno toccato se non ricordo male, e guarda qui, come si lascia carezzare la schiena e finanche il fondoschiena, ah maledetta, e guarda qui come lo guarda negli occhi, il bel forestiere.
Finisce il ballo infine, se ne tornano al tavolino, lui si allontana, lei rimane sola, osserva la gente, ora mi vedrà, mi metto di profilo, e chi l’ha vista, quella, ma lo vedo che mi vede, lo sento che si alza e viene da me e mi staziona innanzi senza parola, ah sempre questa ricerca di effetto, ma io la guardo con ancor meno parola, e con un sorrisetto indosso ancor meno significante del suo, passa così quanto tempo non so, forse un minuto, alla fine è lei che parla, mi chiede se può interrompere i miei pensieri, come no le dico, e ciao cuore, inizia a raccontarmi una storia salvo ognuno ma cosa vuole che me ne importi cosa vuole che mi interessi ma l’ascolto ugualmente con pazienza tolleranza e comprensione, insomma la storia è che ha incontrato quest’uomo questo giovane a un angolo di via, che chiedeva informazione, e così spaesato lo ha trovato che ha pensato bene di portarlo a casa e anche al bar, è studente di fisica sai e ha fatto anche il saltatore con l’asta, interessante dico io, cosa vuoi che dica, certo, le faccio notare, si assomigliano tutte queste tue conquiste, questi bellimbusti dai denti sani, ah dici fa lei, così mi pare almeno dico io ma non stiamo a sottilizzare, queste discussioni non mi interessano lasciamo stare, ma no ma no hai ragione dice lei non ci avevo mai pensato forse è così davvero, e a dire il vero provo allo stesso tempo una immensa ammirazione e un immenso disprezzo per questi begli oggetti, per queste belle cose piene di forza e piene di salute, ma ciononostante sai com’è, per me l’anima è sempre stata la più importante, sempre l’anima è per me stata la più importante. Tu qui mi forzi la mano, le dico, e mi costringi a dire che anche l’anima ha un suo corpo, ha e, e vuoi mettere, vuoi mettere o no? Qui lei mi interrompe e non mi fa continuare, non mi fa proseguire perché mi chiede e tu, dimmi di te piuttosto, cosa fai, studi sempre l’urdu? E’ un punto sensibile, questo su cui Wilhelmine mi tocca e lo sa, certo che lo sa, lo sa bene che io non ho altro che questo, non ho altro che i miei vocabolari e i miei gatti, è tutto ciò che ho, d’estate e d’inverno, è tutto ciò che ho e non faccio per dire e no le dico, sei rimasta non aggiornata, mi sei rimasta all’urdu, intanto io sono già in Europa, sono tornato all’Europa, allo studio del magiaro attendo adesso. Il magiaro ma cosa mi dici mai, fa lei, hai per caso incontrato un’ungherese, suvvia Wilhelmine sii seria, cerca di fare mente locale, cerca di fare il punto, possibile che non ricordi mai ciò che ti dico, possibile che io parli sempre a vuoto sempre invano, ti avevo ben detto oppure no che tornavo in Europa, sì o no, te l’avevo detto, sì o no?

E su questo viene il suo ganzo il suo cicisbeo il suo centometrista, viene con un bel sorriso aperto e amico, cosa vuoi che ne sappia, quello, cosa vuoi, viene e dice allò e poggia la mano sulla spalla di Wilhelmine e gliela tiene sulla nuca come se gli appartenesse, la nuca e Wilhelmine con quella, ma che modo di fare è questo io non so e qui non ci vedo più, più non ci vedo e non più non posso controllarmi eppure mi controllo e pensare, cara mia, le dico, e pensare che ti ho tolta dalla strada, ah non ricominciare adesso con le tue frasi fatte, con le tue recriminazioni, ribatte lei, cosa c’entra questo adesso, non gli è che sarai geloso per caso, non sarà questo, eppure sai che io sono fedele, te l’ho detto perfino davanti al vicesindaco, ah, a proposito, non dovevamo divorziare? Ma come, mi picco io, se eri tu che non volevi! Ah, sì, beh ora ho cambiato idea, fa lei ma già il suo amico, che a non capirci s’annoia e s’impazienta, se la porta via tra il lusco e il brusco e lei lo segue e, d’altronde, chi non seguirebbe, lei?
E io cosa faccio, cosa faccio adesso, cosa fare non so. Le mie parole, torniamo presto alle mie parole, veniamocene al vocabolario e non pensiamoci più, ché gli imperscrutabili linguaggi delle donne io non li comprendo, ma le parole quelle invece sì. E me ne sto sulle mie parole da neanche tre quarti d’ora quando suona il telefono, suona il telefono e c’è Wilhelmine, che ha lasciato il suo mezzofondista norvegese, che è sola in casa, ma non ti ho chiesto niente le dico io, ti ho forse chiesto qualcosa, no non mi pare no, non voglio proprio sapere con che sei o con chi non sei, non mi interessa davvero, cosa vuoi che mi interessi, lei neanche mi risponde, si mette invece a raccontarmi cosa vede dalla finestra, come se non lo sappia cosa c’è fuori della sua finestra, alle quattro del mattino mi telefona per raccontarmi cos’è che vede fuori della finestra cosa vuoi che veda vede un muro, vede un muro di pietra e un albero, c’è un poco di brezza e le foglie si agitano, frusciano e un’ombra si muove fra i rami, ma io so bene che dalla sua finestra non si vede nessun albero, e non c’è un filo di vento stanotte, stanotte non c’è un soffio né un fiato, l’aria si è fatta solida intorno a noi e non possiamo più muoverci anche volendo e lo dico a Wilhelmine, su Wilhelmine basta giocare basta scherzare con la vita, vieni qui piuttosto vieni ti pago il tassì vieni cara vieni zucchero mio di papà vieni non rispondermi col silenzio non stare nel silenzio vieni, vieni qui, ché sono così debole così stanco, sai, vieni che muoio senza te, non lasciarmi morire che senza te muoio lo sai, e morirò se non vieni morirò, e lei dice aspetta e si sente che parla con qualcuno e io riattacco il telefono e stacco la presa e questo è tutto per stanotte perché passa un’ora e viene l’aurora ed è già mattino.
E’ già mattino e squilla il campanello della porta chi sarà, mi alzo dal divano dove giacevo prostrato e mi trascino alla porta guardo dall’occhio di vetro e chi è chi non è che indugia sul pianerottolo, è Wilhelmine è, mi addrizzo mi dò un contegno e apro la porta, le faccio segno di entrare, lei fa un passo in avanti e subitamente ha un moto di repulsione, dio mio che puzzo dio mio che tanfo dio che lezzo immondo ma come fai a stare qui dentro si esclama, ma quale puzzo dico io non sento niente, ma malgrado ciò che dico lei si avanza e districa fra i gatti che curiosi la circondano e corre alla finestra scosta la tenda e orrore spalanca i vetri, non l’avesse mai fatto divento furioso ma cos’è questo modo di fare questo modo di agire le urlo dietro, questa intromissione questa interferenza che cos’è questo cos’è ciò io domando e dico ma non lo sai da quanto tempo questa finestra è chiusa è chiusa da quando la mamma, ma quale mamma e mamma falla finita mi interrompe lei, senza pietà e senza misericordia, ma non lo senti che non si respira, ma come fai a stare in questo tanfo, in questo puzzo immondo, si accanisce lei e io qui non posso resistere e va bene d’accordo attenersi alla massima discrezione al più impeccabile codice di condotta del mondo e a tutte le buone maniere del galateo universale, ma quando ci vuole ci vuole e qui ci vuole, le dico allora ma cosa credi ma cosa pensi non sei certo migliore di me tu non hai visto in che stato hai ridotto casa tua che poi è un poco mia, tutta quella feccia sui pavimenti, tutta quella muffa nel frigorifero, non sei certo più pulita più ordinata più a posto di me non sei, ma cosa ne sai tu mi fa lei cosa ne sai, poi ripensa e dice ah ma allora mi sei entrato in casa è così nevvero in casa mi sei entrato a mia insaputa come un ladro così è stato non è vero e quando è stato ah cane bugiardo e rognoso, sei un degno figlio di tua madre, chiunque ella fosse, e su questa affermazione mi si getta contro e cosa vuoi, se mi si tocca la mamma io non ragiono più, tutto mi puoi toccare ma la mamma quella no, mi viene il sangue agli occhi mi viene, e comunque quella mi si è gettata contro e cosa fare, dovrò ben difendermi o no, quella già mi cerca gli occhi con le unghie quella già mi pianta un ginocchio nelle parti basse, quella già mi morde il naso e quasi me lo stacca me lo, dovrò ben difendermi e lei è così asciutta e muscoluta, tiene queste braccia così dure che non riesco a tenere ferme e, cosa vuoi, prima che sia troppo tardi, prima che io stesso non venga sopraffatto, con il pregiudizio che si immagina, per l’immagine di me stesso che posso conservare, ora e negli anni a venire, per tutto ciò, prima che sia troppo tardi, le dò un bel pugno forte alla radice del naso e poi anche un altro perché quella non molla non cade non crolla come ci si potrebbe attendere anzi, qui non si scherza questa è una vera lotta per la vita e per la morte questa, e infine a forza di pugni alla radice del naso lei mi crolla, mi crolla a terra e mi rimane immobile in posizione orizzontale e a questa vista cosa vuoi, il sangue non è birra, l’uomo è fatto di carne e di sangue, cosa vuoi, lei mi sta lì così in quella posizione orizzontale e scomposta e non escludo che in questo suo stare, in questo suo essere-qui, in questa specie di apertura a ciò che è aperto non sia in atto, come dire, una sorta di seconda intenzione, magari inconscia o subconscia come vuoi, fatto è che, cosa volete, con tutto questo giacere, questo disordine delle vesti, cercate di capire, con quest’offerta, questa disponibilità, cosa dovevo fare, dovevo ben rispondere, non sarò certo un ignavo no, non sarò certo altezzoso e impassibile no, debbo pur essere con, debbo pur andare incontro, debbo pure andare verso, verso la gente e verso gli umani come me, debbo pure incontrarlo l’altro oppure no ed è così è così che su questo atto si faccia dissolvenza.
Ma Wilhelmine cosa fa non reagisce e d’accordo questo è anche logico lo posso capire con tutto questo trambusto quest’emozione questo scombussolio ma questa immobilità questa no non la capisco che cos’è che cos’è ciò cos’è no non farmi ciò non farmi questo non ci vuole  no proprio stamattina poi fammi prendere dell’acqua fammi spruzzarle il viso rovesciarle il bicchiere sulla faccia niente non serve a niente non si muove non reagisce non risponde cosa faccio adesso davvero non lo so veramente oh non è così che doveva andare oh non è questo che volevo no o dio o dio o dio che cosa ho fatto che cosa è capitato che cosa faccio adesso che cosa, intanto richiudo la finestra ecco adesso ragioniamo riflettiamo, non divaghiamo, veniamo al dunque, veniamo a Wilhelmine, veniamo a questa cosa che già non ha più nome, ragioniamo con calma, pensiamo che nessuno sa niente nessuno ha visto niente e siamo solo io e lei, che è solo una cosa ormai, qui in questa casa, io lei e i gatti, queste belve feroci, sempre affamate, che indifferenti ai miei guai e ai miei dispiaceri già reclamano da mangiare, con disperati reiterati lamenti, come ogni mattina, e che mi fanno venire in mente qualcosa di abnorme qualcosa di mostruoso, pensiamoci sopra, pensiamo che trenta gatti a digiuno, a duecentocinquanta grammi al giorno ciascheduno, no, non va, ci vorrebbero almeno quindici giorni, ma non mi fanno pensare questi qui, non mi fanno ragionare, perché non tacciono, perché non mi lasciano in pace, neanche c’è più niente da mangiare, a parte Wilhelmine, non ci sono più scatolette dovrò scendere a comprarle, i soldi dove sono ecco e le chiavi, non fosse che uscissi e non potessi più rientrare, ecco le chiavi esco e mi chiudo ben bene la porta alle spalle, mi chiudo me la chiudo e sono nella strada sono nella via affollata ecco ma cos’è questo cos’è non so, sono sempre stupito davanti alla vita io, sono come un eterno bambino, sono io, che sempre sono davanti al mondo come in uno stupore, come.