Le monument enfoui (2023)

Le monument enfoui
(Un mémorial pour Bernard Lazare)

La question du rétablissement d’un monument à Bernard Lazare s’est posée à plusieurs reprises, après la destruction de la stèle inaugurée en 1908 aux Jardins de la fontaine, notamment en 1984-1986 et 2000-2001.

En 1984, un échange entre le maire de Nîmes, Jean Bousquet et le ministre de la culture, Jack Lang, aboutit en 1986 à un financement de la part de l’État pour 150.000 francs (la moitié de la somme envisagée) apparemment jamais utilisés. Aujourd’hui 300.000 francs correspondraient à 86.000 euros. La somme, considérée dérisoire par tous les acteurs à l’époque, fut finalement retenue aussi par les artistes qui répondirent à l’appel de la Mairie.

Plusieurs artistes ayant été envisagés, finalement c’est le projet de Christian Boltanski, personnellement présenté par Bob Calle (directeur du Carré d’art) qui fut le plus proche d’être adopté. N’ayant finalement pas eu de réponse de la part de l’administration nîmoise, Boltanski se retira du projet, trois ans après l’avoir présenté.

En 1990-1992 la discussion se rouvre, le maire n’ayant pas approuvé le projet de Dani Karavan (dont, contrairement à celui de Boltanski, je n’ai pas retrouvé de traces aux archives). Finalement Bob Calle se dessaisit de l’affaire et Christian Liger, adjoint au maire délégué à la culture, semble faire de même.

En 2000-2001 une requête de Carole Sandrel (Les amis de Bernard Lazare), en préparation du centenaire de la mort de l’écrivain, semble remuer un peu les choses, mais apparemment sans suite.

Le projet de Boltanski, prévoyait, au lieu qu’une réalisation monumentale, une installation de pierres, accompagnées de petites plaques, sur une falaise surplombant un bassin, à la hauteur de “l’avant dernière terrasse du jardin de la Fontaine”.  Ces pierres auraient dû venir de chaque lieu d’où une différente communauté serait venue à Nîmes, pour un minimum de douze et jusqu’à trente, comme un mémorial qui se construirait au fur et à mesure.

Donc, déjà en ces années-là, la question de la réfection de la stèle « à l’identique » ne se posait pas. Par ailleurs, il était documenté que la stèle, démontée pendant la seconde guerre mondiale et après un séjour dans le jardin du musée du vieux Nîmes, avait fini par être démantelée, pour fournir de matière au monument aux martyrs de la Résistance, édifié à partir de 1946 sur l’avenue Jean Jaurès.

La stèle elle-même était bien endommagée et défigurée, comme le montre une image tirée du site www.nemausensis.com (bien évidents le visage de Lazare barbouillé et le « tag » mort aux juifs).

Aujourd’hui, l’idée d’un nouveau « monument » tient toujours et encore plus la route, surtout si, comme l’avait envisagé Boltanski, il ne se résoudrait pas à une simple commémoration mais prendrait en compte les nouvelles et dramatiques questions liées aux intolérances et aux racismes actuels.

Avril 2023

 

PS : Ce qui précède est un compte-rendu de ma visite aux archives municipales de Nîmes, 28/03/2023, sur sollicitation du Collectif Mémoire et histoire (Dossiers 4H57 sur l’édification du monument aux martyrs de la Résistance, 92W22 et 2070 W 113 sur le rétablissement du monument à Bernard Lazare).

 


(D’après le site www.nemausensis.com)

À la suite, un choix de documents issus des archives municipales de Nîmes (92W22 et 2070 W 113) :

 

 

 

 

Rovine nella selva (2023)

Si tratta della terza versione (febbraio 2023) di un lavoro vecchio di quasi dieci anni, mai mostrato in Italia, se non parzialmente (Confronto su Castro, 2018).
Mi sento piuttosto convinto della prima parte (Ruins in the Forest, series A), in cui sovrapponevo il testo dantesco del Purgatorio a foto di siti archeologici nella Tuscia.
La seconda (Ruins in the Forest, series B) mancava forse di qualcosa. Non mi bastava la sovrapposizione di mappe escursionistiche alle mie immagini di rovine e reperti ormai integrati nello spazio naturale. Mi pareva che un nuovo elemento  di artificialità fosse necessario, e credo di averlo trovato nell’apposizione delle lettere di una singola frase, Et in Arcadia [ego]. La Selva del Lamone non è l’Arcadia, certo, e SP non è Poussin. Diciamo che questo Rovine nella selva è un esercizio di imitazione.
Ho anche cambiato la carta topografica che costituisce il fondo dell’immagine: al posto di una carta escursionistica della Tuscia ho messo carte dell’Istituto Geografico Militare degli anni Cinquanta, il cui soggetto non corrisponde con i luoghi da me fotografati.


Rovine nella selva 01, Vallerosa, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 02, Fratenuti, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 03, Sutri, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 04, Rofalco, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 05, Pian di Civita, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 06, Poggio Conte, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 07, Norchia, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 08, Grotta Porcina, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 09, Castro, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 10, Vulci, 2022, 30×40.
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Nella selva antica

Da qualche anno lavoro sul tema della natura soggetta alla civiltà (e viceversa). Nelle fotografie che faccio in giro per l’Europa c’è sempre un elemento naturale che   predomina sulla compresenza di manufatti ridotti a tracce e segni.

Ho ripreso in mano Dante, in particolare i versi della Commedia in cui parla della selva antica, che non è altro che una rappresentazione del paradiso terrestre. Ho trattato in modo allegorico questo soggetto dell’Eden perduto e non ancora ritrovato; l’ho sviluppato in due serie di quadri, una serie A e una serie B, che mostro faccia a faccia.

La prima serie presenta dieci stampe digitali su vetro, in un formato 30×40 orizzontale (se affeziono questo formato quasi A3, è che mi fa pensare a un approccio da amanuense del lavoro artistico: “raccolto”, per non dire “ispirato”). Attraverso l’immagine resa in tal modo trasparente, si intravede il testo di Dante, il Canto XXVIII del Purgatorio, riprodotto su buona carta e in continuo, senza a capo. E’ questo il Canto in cui il poeta, accomiatatosi da Virgilio, si trova nel giardino delizioso da cui i primi peccatori sono stati cacciati; così perfetto questo giardino che anche gli animali ne sono assenti.

Elemento naturale ed elemento umano sono qui indiscernibili, fusi in quella che potrebbe essere una visione del mondo dopo il passaggio dell’uomo, un mondo tornato foresta primordiale. Non si sa se un pescatore di perle venuto da un’altra galassia potrebbe ritrovarvi le ossa divenute coralli, gli occhi diventati perle, neanche impiegando la tecnologia anti-scientifica preconizzata da Hannah Arendt: perforazione contro stratigrafia, nella necessaria distruzione del passato che permette di estrarne ciò che è “prezioso e raro”.

Di fronte a questa sequenza ho concepito un’altra linea di stampe su vetro, dello stesso formato; in questi lavori il fattore umano è più marcatamente presente. Si intravedono soprattutto vestigia monumentali, più “strutturate”, perdute nella natura, ancora riconoscibili anche se forse non più ricostruibili. Di là dalla fotografia si riconoscono carte topografiche ritagliate e rimesse insieme: potrebbero, o forse no, tracciare la localizzazione di questi improbabili paradisi terrestri.

Su ogni carta ho vergato una lettera, in carattere Bodoni: E, T, I, N, A, R, C, A, D, I, A, l’ultima I essendo raddoppiata dall’immagine di un bastone dipinto di rosso, affossato nel pavimento della ex cattedrale di Castro.

Mi provo a oscillare fra una certa “bellezza” dell’immagine e il suo carattere ammonitore. Niente vi cerco di spettacolare o di drammatico, ma penso aleggi da quelle parti una qualche inquietudine: un sentimento che ci accomuna e ci fa “umana cosa”.

Ciao ciao,

SP
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Serie completata il 30 aprile 2022.


Giovanni Francesco Barbieri (Il Guercino), Et in Arcadia ego, 1618-1622, dettaglio, Roma, Galleria Barberini.
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Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1637-1638, dettaglio, Parigi, Museo del Louvre.

 

 

Naples April-May 2023

Affreschi rinvenuti

Una mostra nella Sala Catasti dell’Archivio di Stato di Napoli
in dialogo con le pitture di Belisario Corenzio

Piazzetta Grande Archivio 5

Dal 28 aprile al 27 maggio 2023

Dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18, il sabato dalle 10 alle 13

Affreschi rinvenuti

Una proposta espositiva per l’Archivio di Stato di Napoli

Ciò che propongo alla direzione dell’Archivio di Stato di Napoli è allo stesso tempo un’investigazione da storico e un intervento d’artista. Secondo una pratica che mi è usuale, intenderei sovrapporre, alle immagini delle pitture di Belisario Corenzio recentemente riscoperte nella ex sala del Capitolo, riproduzioni di testi d’epoca e fotografie fatte da me. Su questi differenti strati apporrei interventi di colore.

Sarebbe il mio un approccio evidentemente personale: una stratificazione dell’opera riscoperta di Belisario Corenzio e del mio proprio lavoro. L’affresco di inizio Seicento, il suo stato attuale, quadri miei di dieci e trent’anni fa, la loro sovrapposizione alle foto degli affreschi, la visione nuova (una fra le tante possibili) del mio lavoro e anche di quello del pittore greco-partenopeo.

Potrei sviluppare questo dialogo in tre, quattro serie di quadri di medio formato (fra il 44×106 e il 32×44), per mostrare i quali occorrerebbero quattordici-quindici metri lineari, in un qualunque luogo all’interno dell’Archivio, purché le pareti siano chiare e adeguatamente illuminate.

Una serie Corenzio-Robinson: fotografie del restauro in corso stampate su vetro e sovrapposte a mie foto di spiagge incontaminate o quasi (nella mia pratica artistica uso spesso miei lavori passati, senza un rapporto esplicativo con le iconografie su cui intervengo).

Una serie Corenzio-Gulliver: dettagli degli affreschi prima del restauro, giustapposti a quadri miei antichi di trent’anni, ritagliati e rilavorati.

Una serie Corenzio-Hölderlin: la famosa lettera del poeta tedesco al suo amico Böhlendorf riprodotta su vetro: qui la sua distorta visione dell’antichità si accavallerebbe alla scialbatura gialla che copriva le pitture di Belisario.

Una piccola serie dalle fonti più miste: le riproduzioni dei pagamenti al Corenzio, o degli articoli critici ottocenteschi, sovrapposti a mie foto di soggetto “rupestre”: abbazie abbandonate e riprese dalla natura, romitori medievali, necropoli etrusche.

Il contrasto, e forse la confusione di queste sovrapposizioni mi paiono elementi interessanti da proporre al cortese pubblico dell’Archivio di Stato, che cerca piuttosto schiarimento e spiegazione dalle cose del passato. Il mio è un percorso d’artista: più che interpretazione o spiegazione, propongo dubbi e (spero fertile) confusione.

4 agosto 2022

 

 

Il pieghevole in consultazione alla mostra:
Affreschi rinvenuti pieghevole_SMALL

 

 

 

 

RnS, Rovine nella selva (2023).

This just-completed series is the culmination of a work I have revisited several times in recent years (2016, 2022). The hiking maps previously used as a background were replaced by military maps. A striking addition is the phrase “Et in Arcadia Ego” (Guercino, Poussin) spelled out in a succession of red fluorescent letters.
For the short text (Italian) accompanying the work in its entirety, see:
Rovine nella selva 2022.
This series follows an earlier one (2016-2017), which features sites in the same region (Tuscia, Latium) and plays with the relationship between image and text, and specifically Dante Alighieri’s Purgatorio XXVIII (“dentro alla selva antica…”):
Ruins in the Forest series A.


RnS 01, Vallerosa.


RnS 02, Fratenuti.


RnS 03, Sutri.


RnS 04, Rofalco.


RnS 05, Civita.


RnS 06, Poggio Conte.


RnS 07, Norchia.


RnS 08, Grotta  Porcina.


RnS 09, Castro.


Rns 10, Cuccumella.

 

 

La strada delle annurche, 2023.

La strada delle annurche Poesie (1973-2020) è il titolo della raccolta poetica di Marco Rossi-Doria, a cura e con una prefazione di Franco Vitelli, per le edizioni Studium di Roma (2023).

Gli inchiostri che accompagnano la raccolta datano della fine degli anni Ottanta, quando resi visita a Marco in Kenya, ove insegnava alla scuola elementare italiana. Li ho recentemente ripresi in una sorta di remix, quando mi ha chiesto di illustrare anche questo suo ultimo volume.

Dalla prefazione di Franco Vitelli:

NOTIZIA PER IL LETTORE

Il presente volume, sotto il titolo La strada delle annurche, raccoglie la produzione poetica di Marco Rossi-Doria strutturata in cinque sezioni che occupano lo spazio-tempo che va dal 1973 al 2020. L’autore, in verità, ha fatto un uso parsimonioso dell’espressione in versi e ha mostrato sempre una certa ritrosia nei confronti di un lavoro di sistemazione; ha dovuto cedere, infine, alle insistenze esterne che reclamavano la bontà dell’iniziativa.

Di ciascuna sezione, con titolazione d’autore, se ne dà in seguito notizia specifica, qui basti accennare al fatto che il libro raccoglie in successione cronologica poesie edite e inedite, riuscendo così a dare una fisionomia intera. 

Terra di nessuno comprende 16 poesie degli anni 1973-1983. Esse sono già riunite in una plaquette in carta d’Amalfi pubblicata a Napoli da Forum nel 1984 in 239 esemplari numerati, con 4 acquerelli di Salvatore Puglia. La poesia Generazione è stata anche pubblicata in «Linea d’Ombra», febbraio 1989, p. 64. Rispetto alla plaquette, nella versione odierna l’autore ha apportato alcuni cambiamenti riguardanti la diversa misura dei versi, l’aggiunta o sostituzione di titoli, l’eliminazione di una poesia e di alcune dediche.

Il poemetto Laerte è stato composto tra il 1983 e il 1986 e pubblicato da Cesare Garboli su «Paragone/Letteratura», ottobre 1987, pp. 8-29.

Su proposta di Michel Deguy, Laerte è poi uscito su Po&sie (n. 47, 4° trimestre 1988), tradotto in francese da Caroline Peyron.

Giallonapoli riunisce 27 poesie scritte tra il 1984 e il 1988.

Di queste, tre (La dimora distante, Altri venuti (diverso titolo di Ziggurat), Giallo napoli) sono state stampate a Strasburgo nell’autunno del 1987, con grafica di Philippe Poirier, in un quaderno in carta da imballaggio in 349 copie numerate, titolato Giallo Napoli. Qui erano presenti anche poesie di Salvatore Di Natale e Pasquale Sica, con cinque inchiostri di Salvatore Puglia e un testo di Fabrizia Ramondino.

Nello stesso anno, sempre a Strasburgo, altre dieci poesie, in versione italiana e francese  – Port Bou, mezzogiorno, Selene e le sue compagne, non è la collera Eterna, mé at cori (diverso titolo di Balsamo), PilatoEstremo, Il fantasma nelle stanze (con testo ridotto), il geco che rivedo, da aggiungere  – sono apparse in edizione numerata in 100 copie (Dix poèmes de Marco Rossi-Doria), su carta povera, con disegni di Philippe Poirier.

 

 

 

Un camp d’internement dans la garrigue (2016-2023)

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Le Camp Saint Nicolas.

Comme on le sait, une stèle est la statue d’un lieu. Elle le constitue en point de repère de la mémoire historique, comme une épingle sur une carte d’état major.

Un lieu en manque, et l’on ne devrait pas tarder à l’en pourvoir : le camp d’internement de Saint Nicolas, situé dans les limites administratives de la commune de Sainte Anastasie du Gard et de celles de Nîmes, à l’intérieur du terrain militaire des Garrigues (actuellement géré par le 2e Régiment étranger d’infanterie), à proximité du croisement des routes qui relient Nîmes, Uzès et Poulx (départementales 979 et 135).

Dans le terrain militaire des Garrigues (près du Mas de Massillan) existait déjà un camp, ouvert depuis janvier 1940 pour environ 200 « étrangers hostiles » (surtout allemands et autrichiens), et qui hébergeait déjà autant de républicains espagnols (1). Quelques kilomètres plus au nord, le long de la route départementale qui relie Nîmes à Uzès (dont le trajet a changé depuis) et à proximité d’une ferme désaffectée, existait un grand terrain plat. C’est là où arrivèrent, le 27 juin 1940, après cinq jours d’un tragi-comique périple en train et d’une marche à pieds de quinze kilomètres, environ 2000 détenus provenant du camp des Milles. (2)

Les conditions de vie y étaient rudes. Les internés, logés dans une centaine de tentes « marabout » pourvues d’un sol en paille, souffraient du mistral, de la chaleur, des insectes, de la dysenterie et de l’angoisse d’être livrés aux nazis (la commission Kundt, chargée du recensement et de la sélection des internés de guerre, fut active peu après la signature de l’armistice et se présenta effectivement début août).

Le commandement du site siégeait dans les bâtiments du Mas Saint Nicolas, qui était peut-être un ancien relais de poste, et dont aujourd’hui ne subsistent que quelques murs en ruine. Le camp fut fermé à l’automne 1940.

Certains s’enfuirent (l’écrivain Lion Feuchtwanger, le peintre Max Ernst) ; d’autres en furent libérés (Franz et Ulrich Hessel, le père et le frère de Stéphane) ; au moins un fut reconduit en Allemagne (3) (naturellement, la plupart de ces prisonniers étaient des Krieghetzer, soit des opposants et/ou des juifs).

Deux tableaux du peintre Henry Gowa, lui aussi interné, La marche de Saint Nicolas et Les naufragés, témoignent de cette expérience. Lion Feuchtwanger et Max Ernst la décrivent dans deux livres. Le galeriste Alain Paire et l’historien André Fontaine ont publié des travaux de recherche. Des informations fragmentaires se trouvent dans les biographies des personnes ayant séjourné dans ce camp de la garrigue (4), ainsi que dans les sites web consacrés à la déportation.

Mon propos est de parler de ce lieu, pour qu’on en connaisse mieux l’histoire, et pour que – éventuellement – un signe de mémoire y soit apposé.

(juin 2016)

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(1)
“CAMP DES GARRIGUES
II est situé dans le vaste terrain de manoeuvres militaires du même nom à 10 km au nord de Nîmes et jusqu’au bord du Gardon. Ouvert en janvier 1940 pour 200 détenus millois, il est contigu à un autre camp réservé aux deux cents réfugiés espagnols qui ont eux mêmes monté leurs baraquements en parpaings après avoir souffert du fort mistral tout le temps qu’ils ont vécu sous la tente. Ils cèdent une maisonnette aux Allemands qui, en attendant, en sont réduits à s’entasser et à en construire une deuxième le plus rapidement possible.”
André Fontaine, « Quelques camps du sud-ouest (1939-1940) », Recherches régionales n.104, 1988.

(2) Le 22 juin 1940, une semaine après l’entrée de l’armée allemande à Paris et le jour même de la signature de l’armistice, les internés antinazis du camp de Milles obtinrent d’être déplacés en train à Bayonne, dans l’espoir d’y trouver un navire pour s’échapper. Ils en furent refoulés, sur un malentendu quant au mot « allemand » et probablement on trouva en toute hâte la solution provisoire du camp des garrigues.

(3) Anne Grynberg, « Les camps du sud de la France : de l’internement à la déportation », Annales. Économies, Sociétés, Civilisations, N. 3, 1993, p. 562.

(4) Entre autres : Max Ernst, Franz Hessel, Ulrich Hessel, Lion Feuchtwanger, Wols (le peintre et photographe Alfred Otto Wolfgang Schulz), Henry Gowa, Adolf Lekisch, Golo Mann, Alfred Frisch, les peintres Max Lingner et Eric Isenburger. D’autres et nombreux noms sont répértoriés dans le journal de Lion Feuchtwanger et dans les notes à l’édition allemande du Diable en France (Der Teufel in Frankreich, Berlin 2000), ainsi que dans les liasses des archives départementales du Gard, et plus précisément dans les rapports de police qui documentaient les évasions du Camp Saint Nicolas (voir images en fin d’article).
Voir aussi Sophie D’agostino, Les Juifs dans le Gard durant la seconde guerre mondiale, Mémoire de maîtrise d’histoire contemporaine, Université Paul Valéry de Montpellier, octobre 1993, où une large place est donné au témoignage de l’interné (par la suite résistant) Alfred Frisch.

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02 Entre Nimes et le Gardon

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Henry Gowa :
03 Gowa La marche

Henry Gowa, Les naufragés :
04 Gowa Les naufragés

La tente “marabout” :
Camp Massillan 02

Relâche de Ulrich Hessel :
06 Entlassung Ulrich Hessel
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Probable emplacement du camp, quelques dizaines de mètres à l’ouest du Mas Saint Nicolas :

A environ 1 km, le croisement des D979 et D135 :12-Croisement-D-979_135

Deux articles d’Alain Paire :
Paire sur Gowa
Paire sur Ernst

Deux liens sur ce sujet:
Ce même article de mon site, paru dans Médiapart en juin 2016 dans une version plus ancienne et moins détaillée.
Une émission radiophonique réalisée par Dominique Balay pour France Culture en 2017.

La suite de mes démarches:

Retour sur les lieux, mars 2018

Feuchtwanger, 2022

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Et encore :

Un article de Jean-Jacques Salgon paru dans La nouvelle cigale uzégeoise en 2018.

Et, dans la même revue, un article de François-Guy Abauzit (mai 2010).

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Un texte de Marie-Paule Hervieu sur Feuchtwanger (extraits)

Lion Feuchtwanger, après avoir habité Sanary, lieu de rencontre d’intellectuels allemands antifascistes en exil, est interné au camp des Milles en 1939 et 1940. “Le train-fantôme” évacuant les détenus devant l’avance allemande, suscite la rumeur que “2000 boches” allaient arriver à Bayonne, ce qui provoque leur retour et leur internement au camp de Saint-Nicolas, près de Nîmes, d’où Feuchtwanger s’évade déguisé en femme. Il vit caché chez le vice-consul américain à Marseille, en attendant que Varian Fry le fasse passer en Espagne avec sa femme Marta…
(…)
Le troisième internement, dans le camp de tentes de la ferme Saint Nicolas, près de Nîmes, en zone non occupée. À quinze kilomètres, dans la montagne, les conditions de vie des deux mille internés sont moins rudes : si le camp est « ouvert », dans la mesure où les barbelés et les soldats de garde n’interdisent pas les descentes à la ville, de même que les visites de membres de la famille – Lion Feuchtwanger y a reçu la visite de sa femme évadée de Gurs pendant quatre jours –, le camp n’en reste pas moins surveillé et les évadés sont recherchés et ramenés par la gendarmerie française. Les corvées sont multiples, les latrines inexistantes, les moustiques abondent et la dysenterie menace, Lion Feuchtwanger en a été atteint et est resté quelques jours en péril de mort. Et surtout « le désespoir se faisait de plus en plus fort au milieu de cette ambiance de foire », avec des trafics en tous genres. Ce qui nous rongeait, ce n’était pas seulement le danger, on ne peut plus tangible, de la clause d’extradition, c’était aussi cette inactivité forcée, l’absurdité apparente de notre séjour dans le camp. On tournait en rond, on bavardait, on parlait toujours des mêmes choses, et l’on attendait de tomber malade ou d’être livré aux nazis » (page 256). L’obsession de ces hommes était donc d’être libérés ou, à défaut, de récupérer leurs papiers et de gagner Marseille.
L’évasion et le sauvetage. C’est dans ces conditions qu’avec l’aide de sa femme et du consulat américain de Marseille, Lion Feuchtwanger s’évade, habillé en dame anglaise. Revenus et cachés à Marseille, Lion et Marta Feuchtwanger empruntent la voie de terre, en traversant à pied les Pyrénées, puis ils gagnent Barcelone et prennent le train pour Lisbonne. Lion s’embarque pour les États-Unis sur l’Excalibur et débarque à New York le 5 octobre 1940, Marta le rejoint 15 jours plus tard, ils sont sauvés.

Note février 2023 : pour la précision, ce fut le vice-consul américain à Marseille, Myles Standish, qui attenda Lion Feuchtwanger en voiture diplomatique aux alentours du Camp Saint Nicolas, le dimanche 21 juillet 1940, et le ramena à Marseille, où l’écrivain fut hébergé par l’autre vice-consul, Hiram Bingham IV, avant que l’on organise, peut-être avec l’aide de Varian Fry (arrivé à Marseille le 14 août), sa fuite vers les États Unis :
Bingham worked with Fry on notable cases, including the emigration of Marc Chagall, political theorist Hannah Arendt, novelist Lion Feuchtwanger, and many other distinguished refugees. In the case of Feuchtwanger, Bingham went so far as to help spirit the novelist out of an internment camp and sheltered him in his own house while plans were made to help the refugee walk over the Pyrenees (https://en.wikipedia.org/wiki/Hiram_Bingham_IV).

Il faut aussi citer le rôle de Nanette Lekisch, épouse d’un médecin de Mainz interné aussi aux Milles et à Saint Nicolas, surnommée par la suite “l’ange de Nîmes”, qui guida Standish le jour de l’évasion de Feuchtwanger (voir le seul ouvrage qui à ma connaissance lui est consacré : https://www.hentrichhentrich.de/buch-moppi-und-peter.html).

Feuchtwanger, avec les autres 2000 allemands et autrichiens et apatrides (déchus par Hitler de la nationalité allemande) était arrivé au Mas Saint Nicolas le 27 juillet 1940, au bout du périple qu’il décrit dans le Diable en France et d’une longue marche dans la garrigue. Il sera bientôt au courant de l’article 19 de l’armistice qui venait d’être signé le 22 juin :
Article 19.
Tous les prisonniers de guerre et prisonniers civils allemands, y compris les prévenus et condamnés qui ont été arrêtés et condamnés pour des actes commis en faveur du Reich allemand, doivent être remis sans délai aux troupes allemandes. Le Gouvernement français est tenu de livrer sur demande tous les ressortissants allemands désignés par le Gouvernement du Reich et qui se trouvent en France, de même que dans les possessions françaises, les colonies, les territoires sous protectorat et sous mandat.

Il faut penser que la plupart des Krieghetzer avaient choisi de quitter le camp des Milles et s’étaient retrouvés à Saint Nicolas, alors que les allemands non-opposants n’avaient pas pris le fameux train de Bayonne :

(D’après Jacques Grandjonc L’émigration allemande (1933-1945) et les camps d’internement (1939-1944) dans le sudest de la France, Amiras-Repères-Revue occitane, 1984, n° 8, p. 5-17).
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Pour aller vite, je me borne à suggérer une très bonne bibliographie sur l’internement en France entre 1939 et 1945 :
https://criminocorpus.org/fr/outils/bibliographie/consultation/themes/14621/
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La remarquable recherche de l’Association philatélique du Pays d’Aix :
(http://appa.aix.free.fr/camp/pages/camp02.html) qui a été publié dans :
Guy Marchot, Lettres des internés du camp des Milles (1939-1942), préfaces d’Yvon Romero et Alain Chouraqui, L’Association Philatélique du Pays d’Aix, B.P 266, 13608 Aix-en -Provence cedex 1.

21 juin (1940)
2010 internés arrivent à arracher à l’état-major de Marseille la décision qu’un train les emmène à Bayonne. On leur restitue documents et argent déposés lors de leur arrivée au camp.
Dans la nuit, suicide au camp de l’écrivain Walter Hasenclever.

22 juin
Signature de la convention d’armistice qui entre en vigueur le 25 juin.
Le “train fantôme” part en direction de Bayonne via Arles, Sète, Tarbes, Lourdes, Pau. A Bayonne il rebroussera chemin vers Nîmes.

lettre Milles

Enveloppe + 2 lettres 24.6.40 :
. cachet à date “Les Milles Bouches-du-Rhône 18 30 . 24-6-40”
. cachet “Service de garde des étrangers – Le Vaguemestre”
. manuscrit “F. M.” (Franchise militaire)
. manuscrit : l’adresse de l’expéditeur : Médecin Capitaine P… Camp des Milles prés Aix en Provence B, du Rh.”

A l’intérieur on trouve deux lettres du Médecin Capitaine, dont une fait allusion au “train fantôme”.

Le “train fantôme” arrive à Nîmes. Les détenus sont dirigés vers un camp de toile improvisé à Saint-Nicolas.

(…)

1er août
La commission de contrôle dirigée par Ernst Kundt inspecte le camp des Milles.

4 août
La commission Kundt inspecte le camp improvisé de Saint-Nicolas et en demande la fermeture dans les meilleurs délais.

(…)

23 octobre
Environ 300 internés du camp des Milles et de Saint-Nicolas sont transférés à Gurs.

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Aux Archives départementales du Gard
(Cabinet du Préfet 1940-1945, 1W 273), signalements d’évadés du Camp Saint Nicolas :

 

Aussi (avril 2023), deux cartes du cadastre napoléonien (1811 et 1970) où l’on montre le chemin parcouru par Feuchtwanger le jour de son évasion du camp, comparées au images actuelles issues de Google maps.
Le chemin rural n. 23 du Plateau Saint Nicolas, qui était l’ancienne route de Nîmes à Uzès et où la voiture du consulat américain a recueilli Feuchtwanger le dimanche après midi 21 juillet 1940, a été remplacé entre la dernière guerre et 1970 par la route nationale n. 579 d’Aubenas au Grau du Roi (devenue la départementale 979 en 2006-2007).


(Archives départementales du Gard, Cadastre Sainte Anastasie 1053W28-26)


J’ai marqué le site ou probablement Feuchtwanger, au retour de l’auberge de La chaumière, a rencontré Nanette Lekish qui  l’attendait, entre le camp et la bifurcation pour la ”baignade” de Font verte (remerciements à Jean Minier pour la communication de la carte d’État major).

L’arrivée au camp, ainsi que la vie qu’on y menait et enfin les vicissitudes de son évasion  sont bien racontés par l’écrivain allemand dans Der Teufel in Frankreich. Erlebnisse, Berlin 2000 (1982). Traduction française : Le diable en France, Paris 1985 (Livre de Poche 2012). Je réproduit ici la page de son journal relatant la journée du 21 juillet.

L’auberge La chaumière, à proximité du Pont Saint Nicolas, démolie en 2013-2014 :

 

 

 

Terra di nessuno, 1984.

This collection of poems by a dear friend, Marco Rossi-Doria, contains my first published artworks. Some of the watercolors illustrating the book were executed at Marco’s home on the Sorrento Peninsula outside of Naples, while others were done during a wintertime visit to Venise, on a pier overlooking the Island of the Giudecca.

 


(https://opac.bncf.firenze.sbn.it/bncf-prod/resource?uri=CFI0081055)

 

 

 

Mamotii, 1988-2004.

I lavori della serie Inchiostri-Mamotii sono stati eseguiti durante e al ritorno da due viaggi, in Kenya e nelle Cina meridionale. Presentano quindi due influenze incrociate, quella dei paesaggi africani e quella della pittura cinese. Il supporto usato è invariabilmente la carta da acquarello della Cartiera Amatruda di Amalfi, mentre i colori sono di ogni tipo: inchiostro da penna stilografica per la sua tendenza a diluirsi nell’acqua, caffè, laterite sciolta nella colla vinilica.

I Mamotii* sono figure indistinte, che rimangono larvali e non hanno ancora raggiunto una forma articolata. Potrebbe trattarsi degli alti termitai visibili lungo la strada del lago Turkana, oppure delle sagome dei nomadi che percorrono quella savana, oppure di personaggi mitologici. Per lo più, a suggerire un possibile dialogo fra questi personaggi di natura diversa, in ogni inchiostro figurano almeno due forme.

Negli anni ’90 ho declinato questi disegni in forme sculturali, con il piombo fuso nel tegamino in cucina e colato nelle forme scavate nel mastice da vetraio, oppure con il silicone trasparente da idraulico. Ho anche usato giri di stoppini incerati (Kerzendocht) comprati nei negozi di articoli religiosi in Baviera.

*Il termine mamozio (à la napolitaine) mi viene da un uso fra amici, quando di qualcuno si voleva dire che era un “diverso”, un qualcosa di informe e indistinto ma pure presente, un pò come i monacielli che abitano le vecchie grandi case e gli hunchback inglesi e i gobbetti tedeschi (di cui parla Hannah Arendt nel suo saggio su Walter Benjamin), e quelli che mi sono permesso di ribattezzare Odradek, in un lavoro dal titolo La preoccupazione del padre di famiglia.
Pare che l’espressione venga dalla statua di un Mamotius, ritrovata a Pozzuoli su un sito soggetto al bradisismo, scultura tutta mutilata e forse corrosa dalle emanazioni sulfuree.

 

Nîmes January-May 2023



Quatre écrivains dans la garrigue

Ceci n’est pas à proprement parler un travail artistique, bien que je me considère avant tout comme un artiste visuel. Il se situe entre recherche historique, critique littéraire et création.

L’inspiration pour cette série d’images sur le territoire des écrivains me vient de la lecture d’un texte littéraire, Le Dépaysement. Voyages en France de Jean-Christophe Bailly.

Le chapitre sur Nîmes, « Castellum aquae », débute par la définition que Francis Ponge faisait de lui-même : poeta neamusensis. Or, pour un écrivain d’origine nîmoise, ayant passé toute sa vie ailleurs, cette affirmation ne peut tenir qu’à une très grande force symbolique de l’image de cette ville.

Il est évident qu’elle vient de l’héritage de la romanité, de son autorité historique, mais il y a peut-être autre chose. La langue latine, ses dérivations méridionales, l’occitan et le provençal, le fait de se considérer dépositaire et interprète de ce legs.

Jean Paulhan, issu d’une famille cévenole, lié à Ponge par d’étroits rapports de parenté ainsi que par une forte relation intellectuelle, se voulait descendant d’un Paulianus, consul à Nemausus au début de l’ère chrétienne. Les lettres et les dessins envoyés à ses parents depuis le ‘’masé’’ du grand-père sont les documents que j’ai voulu accompagner par l’image.

J’ai donc commencé à parcourir les lieux que ces écrivains avaient sans doute parcourus, à la recherche de vestiges à photographier.

Des dessins de Norah Borges, peintre et sœur de l’écrivain argentin Jorge Luis Borges, m’ont amené aux jardins de la Fontaine et à la relecture de Fictions. L’une des nouvelles de ce recueil, Pierre Menard, auteur du Quichotte, porte en exergue la date Nîmes 1939, alors que, certainement, l’auteur argentin se trouvait à Buenos Aires à ce moment-là. D’ailleurs, toute son œuvre, à l’instar de la nouvelle en question, est un tissu d’embûches dans des méandres historiques et littéraires. Ce qui est avéré, est qu’il avait séjourné dans le Midi et à Nîmes à plusieurs reprises.

J’ai justement utilisé sa technique pour mon propre travail, en plaçant des légendes sous des images de lieux qui ne leur correspondaient pas, ou en brouillant les reproductions de textes et les fonds visuels que je leur avais associés.

Une peinture d’Henry Gowa, La marche de Saint Nicolas, m’a amené sur l’ancienne route départementale entre Nîmes et Uzès. J’ai utilisé le journal de l’écrivain allemand Lion Feuchtwanger, l’auteur du Juif Süss, interné pendant l’été 1940 dans le Camp Saint Nicolas, pour accompagner mes photos de ce qui reste de ce camp et des traces de mémoire, dérisoires peut-être, que j’y ai laissées.

Enfin, les cartes d’état-major qui constituent l’arrière-plan de ces tableaux ne correspondent pas au Camp des garrigues, l’épisode ‘’vichyste’’ (avec son article 17 de l’armistice) n’étant pas unique en Europe. Elles décrivent ici des lieux situés dans les alentours de Rome, ville dont je suis originaire et dont je ne peux pas refuser l’héritage.

Quatre écrivains dans la garrigue (2022)

Ceci n’est pas à proprement parler un travail artistique*, bien que je me considère avant tout comme un artiste visuel. Il se situe entre recherche historique, critique littéraire et création.

L’inspiration pour cette série d’images sur le territoire des écrivains me vient de la lecture d’un texte littéraire, Le Dépaysement. Voyages en France de Jean-Christophe Bailly.

Le chapitre sur Nîmes, « Castellum aquae », débute par la définition que Francis Ponge faisait de lui-même : poeta neamusensis. Or, pour un écrivain d’origine nîmoise, ayant passé toute sa vie ailleurs, cette affirmation ne peut tenir qu’à une très grande force symbolique de l’image de cette ville.
Il est évident qu’elle vient de l’héritage de la romanité, de son autorité historique, mais il y a peut-être autre chose. La langue latine, ses dérivations méridionales, l’occitan et le provençal, le fait de se considérer dépositaire et interprète de ce legs.

Jean Paulhan, descendant d’une famille cévenole, lié à Ponge par d’étroits rapports de parenté ainsi que par une forte relation intellectuelle, se voulait descendant d’un Paulianus, consul à Nemausus au début de l’ère chrétienne. Les lettres et les dessins envoyés à ses parents depuis le “masé” du grand-père sont les documents que j’ai voulu accompagner par l’image.

J’ai donc commencé à parcourir les lieux que ces écrivains avaient sans doute parcourus, à la recherche de vestiges à photographier.

Des dessins de Norah Borges, peintre et sœur de l’écrivain argentin Jorge Luis Borges, m’ont amené aux jardins de la Fontaine et à la relecture de Fictions. L’une des nouvelles de ce recueil, Pierre Menard, auteur du Quichotte, porte en exergue la date Nîmes 1939, alors que, certainement, l’auteur argentin se trouvait à Buenos Aires à ce moment-là. D’ailleurs, toute son œuvre, à l’instar de la nouvelle en question, est un tissu d’embûches dans des méandres historiques et littéraires. Ce qui est avéré, est qu’il avait séjourné dans le Midi et à Nîmes à plusieurs reprises.

J’ai justement utilisé sa technique pour mon propre travail, en plaçant des légendes sous des images de lieux qui ne leur correspondaient pas, ou en brouillant les reproductions de textes et les fonds visuels que je leur avais associés.

Une peinture d’Henry Gowa, La marche de Saint Nicolas, m’a amené sur l’ancienne route départementale entre Nîmes et Uzès. J’ai utilisé le journal de l’écrivain allemand Lion Feuchtwanger, l’auteur du Juif Süss, interné pendant l’été 1940 dans le Camp Saint Nicolas, pour accompagner mes photos de ce qui reste de ce camp et des traces de mémoire, dérisoires peut-être, que j’y ai laissées.
Enfin, les cartes d’état-major qui constituent l’arrière-plan de ces tableaux ne correspondent pas au Camp des garrigues, l’épisode ‘’vichyste’’ (avec son article 19 de l’armistice) n’étant pas unique en Europe. Elles décrivent ici des lieux situés dans les alentours de Rome, ville dont je suis originaire et dont je ne peux pas refuser l’héritage.

 

 Francis Ponge

 Pierre Menard

 Jean Paulhan

Lion Feuchtwanger

Ces séries sont ponctuées par d’autres images retravaillées, peut-être plus personnelles, de la garrigue gardoise :


Nella garriga 08, 2017, 45×60.
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Nella garriga 09, 2017, 45×60.
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Nella garriga 06, 2017, 45×60.
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From the Road 01 (Camp de César), 2018, 32×50.
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From the Road 02 (Nages), 2018, 32×50.
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Zoology 03 (Pont du Gard), 2019, 31×50.
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Garriga 14, 2017, 32×32.

 

*Parce-que, dans son résultat, l’intention est encore bien présente et elle n’amène pas vraiment à une perte de soi : à une partielle redécouverte de soi-même, peut-être.

 

Nuovi mostri (2023)

Nuove foto di siti costieri, le saline di Aigues Mortes o lo stagno di Thau, nel sud della Francia. Alcune riproduzioni dall’opera di Ulisse Aldrovandi (vedi il mio Histoires des monstres, 2021), neglette a una prima selezione. Trattasi ancora di mostri marini. Una quantità di “firme” al timbro inchiostrato di rosso, da me scavate nelle pietre saponarie riportate dalla Cina trent’anni fa. E, come quarant’anni fa, segni inintelligibili a matita o al pastello a cera, scritture improbabili. Il tutto ripassato col pennello intinto nel fondo di caffè e infine qualche schizzo d’inchiostro di china. Servire su un letto di alghe.


Nuovi mostri 01A, 2023, 30×42.
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Nuovi mostri 02, 2023, 30×42.
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Nuovi mostri 03A, 2023, 30×42.
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Nuovi mostri 04, 2023, 30×42.
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Nuovi mostri 05, 2023, 30×42.
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New photos of coastal sites, the salt pans of Aigues Mortes or the Thau Lagoon, in the south of France. Some reproductions from the work of Ulysses Aldrovandi (see my Histoires des monstres, 2021), not included in a previous selection. The subject is once again sea monsters. A number of red-inked stamp ‘signatures’ I excavated from soapstones brought back from China thirty years ago. And, as forty years ago, unintelligible marks in pencil or wax crayon, improbable writings. All brushed over with a brush dipped in coffee grounds and finally a few splashes of Indian ink. Serve on a bed of seaweed.
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Le monstre de Brignogan-Plage, 2023, 20×30.

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Le monstre de Mèze 02,
2023, 20×30.
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Le monstre du Gardon, 2023, 20×30.
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Les monstres de Mèze, 2023, 20×30.
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Nouvelles photos de sites côtiers, des salines d’Aigues Mortes ou de l’étang de Thau, dans le sud de la France. Quelques reproductions de l’œuvre d’Ulisse Aldrovandi (voir mes Histoires des monstres, 2021), négligées lors d’une première sélection. Ce sont toujours des monstres marins. J’ai réutilisé, en “signature”, des tampons creusés dans des pierres à savon ramenées de Chine il y a trente ans. Et, comme il y a quarante ans, des marques inintelligibles au crayon ou au crayon de cire, des écritures improbables. Éclabousser le tout avec un pinceau trempé dans du marc de café et enfin quelques garnitures à l’encre de Chine. Servir sur un lit d’algues.

 

 

 

Con il cuore fermo (2022)

Ce travail s’inspire d’un autre documentaire de Gianfranco Mingozzi, moins connu que La Taranta : Con il cuore fermo, Sicilia (1965). Il n’est pas moins magistral que celui sur Galatina. Ce film connut des vicissitudes difficiles : conçu comme un long-métrage autour du personnage de Danilo Dolci (La violenza), il fut interrompu en plein tournage à cause du retrait de la maison de production. Mingozzi, avec son propre argent et l’aide technique d’un producteur indépendant, en fit un moyen-métrage qui jouit de l’admirable commentaire de Leonardo Sciascia (voir : Sciascia per Con il cuore fermo).
“Le détroit de Messine n’est donc pas seulement la ligne de partage entre le continent et une île, mais la ligne qui coupe les espoirs et les désirs de l’absence, la soumission, la misère, tous les problèmes d’un monde qu’il faut regarder d’un œil clair et d’un cœur ferme, publiquement, avec le courage de les affronter et de les résoudre.” (Leonardo Sciascia, in La terra dell’uomo, Lecce 2008, p. 83).

Les deux premières minutes du documentaire :
Gianfranco Mingozzi Con il cuorefermo, Sicilia – Sequenza iniziale.mov

Je n’ai utilisé de ce film que quelques captures d’écran, issues de la première séquence, où une voix off énumère les statistiques sur l’émigration de la Sicile vers l’Europe du Nord et où l’on montre les adieux des familles sur le quai de la gare maritime de Messine.
J’ai creusé le titre, respectant la police et le format originaux, au Bic sur des cartes topographiques. À travers les mots du titre, le fond du tableau, en rouge fluorescent. Les trois images arrêtées sont transférées sur verre et constituent le premier plan de chaque pièce.
J’ai utilisé sans doute les séquences les plus anodines du film, mais c’étaient les seules où je pouvais me sentir autorisé à intervenir. D’autres, outre celles des meurtres mafieux dont le montage est impressionnant, sont trop fortes pour ne permettre autre chose que de regarder : les corps luisants de sueur des travailleurs dans les mines de soufre ; la fuite des enfants du cortile Cascino devant la caméra, dans la dernière séquence.

 


Capture d’écran : http://www.gianfranco-mingozzi.it/D.%20Documentari.html
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Ainsi, le détroit de Messine…


mais sépare l’espoir du désir sans confiance,

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Le DVD dont j’ai extrait les arrêts sur image est inclus dans le livre publié par les éditions Kurumuny de Lecce en 2008 : Gianfranco Mingozzi, La terra dell’uomo. Storie e immagini su Danilo Dolci e la Sicilia.

Les liens vers mes travaux précédents inspirés des documentaires de Mingozzi : Galatina remix, Galatina 1961.

Un extrait de Con il cuore fermo, Sicilia (5 minutes) :

 

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Feuchtwanger (2022)

“Les dimanches d’hiver, quand en général il n’y a pas d’entrainement dans le terrain militaire du Camp des garrigues, il y a une certaine tolérance, ou peu de surveillance, à l’égard des randonneurs, des chercheurs de champignons et des coureurs. Mais il a fallu attendre le mois de mars et la fin de la saison de chasse au sanglier pour pouvoir pénétrer, habillé comme un coureur et en courant, dans le terrain, pour y placer un carreau de céramique en guise de stèle commémorative.
J’ai trouvé, à l’intérieur même de l’ancien camp d’internement (dont il ne reste que des vestiges infimes) un endroit plat et assez visible à l’improbable visiteur, où la terre paraissait remuée de frais, et c’est là où, en mars 2018,  j’ai placé mon humble témoignage.”

Pour l’historique de ce geste,  un petit rappel :
“Comme on le sait, une stèle est la statue d’un lieu. Elle le constitue en point de repère de la mémoire historique, comme une épingle sur une carte d’état-major. […] Dans le terrain militaire des Garrigues (près du Mas de Massillan) existait déjà un camp, ouvert depuis janvier 1940 pour environ 200 « étrangers hostiles » (surtout allemands et autrichiens), et qui hébergeait déjà autant de républicains espagnols. Quelques kilomètres plus au nord, le long de la route départementale qui relie Nîmes à Uzès (dont le trajet a changé depuis) et à proximité d’une ferme désaffectée, existait un grand terrain plat. C’est là où arrivèrent, le 27 juin 1940, au bout de cinq jours d’un tragi-comique périple en train et après une marche à pieds de quinze kilomètres, environ 2000 détenus provenant du camp des Milles.”  (Camp Saint Nicolas, October 2016. Voir aussi : Une marche en garrigue, émission réalisée par D. Balay pour France Culture en septembre 2017).

En novembre 2022, le caractère exagérément confidentiel de cette intervention artistique, qui n’a connu qu’un seul acteur et témoin, me pousse à relire et réinterpréter les images que j’avais prises au moment de l’apposition de ma “stèle”.

Je vais imprimer sur film transparent et superposer ces photographies à des cartes d’état-majeur, des cartes de l’Istituto Geografico Militare italien dont je dispose grâce à la prévenance d’un ami fils de diplomate. On est bien là dans un terrain militaire, comme Feuchtwanger et les autres réfugiés allemands étaient en 1940. Par ailleurs, ces cartes italiennes remontent à la même époque. Je compte aussi imprimer sur papier calque des extraits du texte de l’écrivain allemand où il décrit sa marche dans la garrigue et son arrivée au Camp Saint Nicolas, et les superposer aux cartes IGM. Il me faudra encore un élément de couleur, propre à rehausser ou parfois à brouiller certaines parties des deux premières couches sémantiques. Je pense transférer, sur verre et en premier plan, les dates de la marche et de l’internement au Camp saint Nicolas, que je retrouve dans le journal de L.F. Comme un cachet de cire rouge et dans la langue originale, bien sûr.
En bon critique de moi-même, je me permets de rappeler que cette technique de travail par stratigraphie n’est pas sans faire écho à une pratique du “retour sur les lieux” : octobre 2016, septembre 2017, mars 2018, novembre 2022.

(Le livre de Feuchtwanger : Der Teufel in Frankreich. Erlebnisse, Berlin 2000 (1982). Traduction française : Le diable en France, Paris 1985 (Livre de Poche 2012). Première édition : Mexico 1942, sous le titre Unholdes Frankreich.

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Feuchtwanger 01, 2022, 30×40.
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Feuchtwanger 02, 2022, 30×40.
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Feuchtwanger 03, 2022, 30×40.
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Feuchtwanger 04, 2022, 30×40.
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Feuchtwanger 05, 2022, 30×40.
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Feuchtwanger 06, 2022, 30×40.

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Galatina remix (2022)

Préface

Si je me suis intéressé au sujet de la Taranta – qui en Italie est loin d’être seulement un sujet d’études ethno-démo-musicologiques – mais est devenu un phénomène de culture populaire, en même temps savante et de masse – c’est que, vu mon âge et mes origines géographiques, j’aurais pu moi-même être l’un de ces garçons qui guettent la tarantolata par la fenêtre de sa masure.
J’ai entrepris la traduction en français du texte de Salvatore Quasimodo, Prix Nobel de littérature en 1959, auquel Gianfranco Mingozzi s’adressa, sans doute par le biais de son mentor, Cesare Zavattini.
Le texte, qui fait bien référence aux écrits de l’ethnologue Ernesto De Martino (Sud e Magia, Milano 1959 et probablement La terra del rimorso, Milano 1961), fut rédigé en moins de vingt jours, Mingozzi souhaitant présenter son film au très proche Festival dei popoli de Florence (janvier 1962, où effectivement il gagna le prix Marzocco d’oro).

Je vais reprendre cette série récente de neuf petits formats (Galatina 1961) en utilisant d’autres arrêts sur images, d’intérêt plus “autobiographique”. Il y aura douze 30×40, dont chacun portera une ou deux lettres de la phrase Et in Arcadia Ego, écrites sur une carte topographique d’Italie du Sud. Chaque tableau sera décoré de pièces de puzzle vierges, peintes en rouge fluo (acrylique La Pajarita Fluor F-3, qui remplace efficacement mon Lumen rosso 26) et appliquées selon la succession de Fibonacci, de 0 pour le premier à 89 pour le douzième (comme on le sait, la progression de Fibonacci née pour calculer le taux de reproduction des lapins, considère chaque numéro comme l’addition des deux qui le précèdent).
Au dernier tableau de la série, le puzzle, qui ne montre rien mais cache plutôt l’image au fur et à mesure qu’il avance, sera presque entièrement rempli.
J’avoue que j’ai choisi cette formule tout en pensant à Mario Merz (Crocodilus Fibonacci, 1972, entre autres) et à des formes en spirale dont je me suis servi pour des travaux récents (Going round and round).

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Le texte de Quasimodo (Gianfranco Mingozzi, La Taranta, Kurumuny, Lecce 2009).
Et ma tentative de traduction française : Quasimodo La terre du remords

 

Ici un court extrait (1:20) de La Taranta remix :

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Galatina remix, 2022.


01, 30×40.
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02, 30×40.
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03, 30×40.
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04, 30×40.
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05, 30×40.
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06, 30×40.
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07, 30×40.
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08, 30×40.
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09, 30×40.
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10, 30×40.
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11, 30×40.
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12, 30×40.
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Postface

Je viens d’achever le deuxième volet de mon travail sur les rituels de dépossession en Italie méridionale (voir aussi Galatina 1961).
Cette série de douze 30×40 sera accompagnée d’une projection : j’ai traduit en français le commentaire de Salvatore Quasimodo sur le documentaire de Mingozzi et je vais enregistrer ma voix, en off, à la place du texte italien. Cela donnera quelque chose d’amusant je pense.

Ensuite je travaillerai sur un autre documentaire de Gianfranco Mingozzi, moins connu que La Taranta : Con il cuore fermo, Sicilia (1965). Il n’est pas moins magistral que celui sur Galatina. Ce film connut des vicissitudes difficiles : conçu comme un long-métrage autour du personnage de Danilo Dolci (La violenza), il fut interrompu en plein tournage à cause du retrait de la maison de production. Mingozzi, avec son propre argent et l’aide technique d’un producteur indépendant, en fit un court-métrage qui jouit de l’admirable commentaire de Leonardo Sciascia.

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La verrière, Octobre 2022.

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Galatina giugno 1961 (2022-2023)

Questo è il grande giorno delle tarantate. Una volta l’anno esse scrollano il peso e il tormento del loro numero anonimo nella società e della privazione di diritti elementari, e possono recitare la loro disperazione davanti a una folla di spettatori.

I tarantati dicono di sentire la noia all’inizio del male, male che viene curato con le cadenze di una musica fortemente ritmata e continua, e con la danza della piccola taranta, la tarantella. Gli strumenti musicali di cura sono: violino, fisarmonica, tamburello. Il violinista fa il barbiere, il tamburellista è contadino, il suonatore di fisarmonica mette i morti sotto terra.

E il 28 giugno di ogni anno, sotto il sole, mentre i carri portano un suono cupo di solchi lacerati, di torrenti, pietra su pietra colore del fuoco, vanno le tarantate, e quelle che sono state liberate del male, nella cappella di San Paolo, con la speranza di ascoltare, dal forte labbro del Santo, una parola che annienti ogni forza malefica sulla croce di due pietre.


2022, Galatina 04, 20×30.

Giungono altre donne. La speranza di guarire si ripercuote sulla loro anima, ogni anno. Il morso, come il rimorso, è aspro da sottomettere.

Qui, il tarantismo comincia la sua morte. Interdetta dalla pietà cristiana, la musica la danza, disarticolata la disciplina del ritmo e della melodia, moltiplicate le possibilità di contagio di queste frane della psiche fra il formicolio delle ammalate, il tarantismo, nella cappella di San Paolo, è già nella sua parabola di crisi.

Quello che poteva sembrare oleografia o folklore entra ora nel campo della cura neurologica. Nell’evoluzione del mondo di oggi, quest’antica eredità del medioevo consuma ormai il suo ultimo tempo.

(Estratti dal commento di Salvatore Quasimodo per il documentario di Gianfranco Mingozzi, La Taranta (18′ 32”, 1962, musiche originali registrate da Diego Carpitella; fotografia di Ugo Piccone; consulenza di Ernesto de Martino).


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2022, Galatina 09, 20×30.
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La prima parte della scaletta presentata da Mingozzi, scrupolosamente rispettata da Quasimodo (da Gianfranco Mingozzi, La Taranta, Lecce 2009, p. 36).

* Per un’analisi del testo di Quasimodo vedi: Héloïse Moschetto, “Dall’esorcismo al trasumanar : le tarantolate di Salvatore Quasimodo”, Babel [web], 42, 2020.

** La scrittrice e fotografa Suzanne Doppelt si è ispirata al documentario di Mingozzi per il suo Meta donna (Paris, P.O.L, 2020).
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Il titolo di questi lavori è Galatina. Il formato è 20×30 cm. I quadretti sono numerati nell’ordine, da 01 a 09.
La tecnica: screenshot stampati in UV su celluloide, tasselli di puzzle dipinti all’acrilico, carta topografica ritagliata.
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Series completed June 28, 2022, at La Verrière, France.
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Work resumed in March 2023, with the addition of six new pieces:


2023, Galatina 10, 20×30.
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2023, Galatina 11, 20×30.
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2023, Galatina 12, 20×30.
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2023, Galatina 13, 20×30.
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2023, Galatina 14, 20×30.
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2023, Galatina 15, 20×30.

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Polyandrion (2022)

 

Je présente ici une réédition de la première d’une série d’estampes inspirées par le Songe de Poliphile (Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio, 1499) : From Cythera series C, 2018. Dans cette œuvre romanesque, les protagonistes Poliphile et Polia se retrouvent parmi les ruines du Polyandrion qui, d’après les exégètes modernes, pourrait se traduire par “le cimetière des morts d’amour”.

Le mot Polyandrion vient du grec ancien ; il désigne les sépultures collectives, notamment de guerriers morts au combat :
article ancient world magazine
article wikipedia
Je m’y intéresse aussi parce que j’ai repris récemment un travail sur les Étrusques et leurs pratiques funéraires : sp nemoz

Voir aussi, parmi les nombreux articles sur les canopes :
article enciclopedia treccani
article camminare nella storia

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Pour les représentations du Polyandrion dans le Poliphile, voir :
article persee
article cairn
article utpictura

 

PS :
Une photographie prise dans les mêmes circonstances que celle utilisée en fond de ce From Cythera C 01, mais avec un cadrage  différent, a servi pour une couverture de la revue La cause du désir (numéro 104, mars 2020). Le lieu representé est le “Temple de Diane” des Jardins de la Fontaine à Nîmes.

 

 

 

Der Reichstagssturm (2022)

A thesis on contemporary history.

I vuoti lasciati da un T-Rex dipinto di rosso fluorescente.
Gli Hostile Hopi che resistevano all’imperialismo americano, all’inizio del ventesimo secolo.
Un puzzle le cui tessere sono andate disperse. Un esperimento sull’andatura dei gibboni.
La presa del Reichstag da parte dell’Armata Rossa, in un ciclo pittorico celebrativo del Karlshorst Museum di Potsdam.

Les vides laissés par un T-Rex peint en rouge fluo.
Les Hostile Hopi qui résistent à l’impérialisme américain au début du 20e siècle.
Un puzzle dont les pièces ont été dispersées. Une expérience sur la démarche des gibbons.
La prise du Reichstag par l’Armée rouge, dans un cycle de peintures commémoratives au Karlshorst Museum de Potsdam.

The gaps left by a T-Rex painted in fluorescent red.
The Hostile Hopi resisting American imperialism, early 20th century.
A puzzle whose pieces have been scattered. An experiment on the gait of gibbons.
The taking of the Reichstag by the Red Army, in a commemorative painting cycle at the Karlshorst Museum in Potsdam.


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Der Reichstagssturm 01, 2022, 22,5×30.
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Der Reichstagssturm 02, 2022, 22,5×30.

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Bello! Opere nuove? C’è spiegone?
SC

Ah no, òpiri d’arti sunnu!
Lo spiegone è che la Storia è complessa e confusa.
Comunque il tirannosauro a pezzi è l’impero sovietico, o forse anche il puzzle.
Il tentativo di rimettere insieme i pezzi si urta alla resistenza degli Hopi, oppure a quelle dei gibboni, che non vogliono stare al gioco.
E la visione della storia è imbrogliata da ogni elemento successivo, come un’archeologia all’incontrario.
E alla fine non ci si capisce niente ma forse c’è un bell’effetto pirotecnico.
SP

Ruins in the Forest. Series A (2016-2017)


RnF A 01, 2016, 30×40.
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RnF A 02, 2016, 30×40.
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RnF A 03, 2016, 30×40.
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RnF A 04, 2016, 30×40.
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RnF A 05, 2016, 30×40.
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RnF A 06, 2016, 30×40.
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RnF A 07, 2016, 30×40.
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RnF A 08, 2016, 30×40.
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RnF A 09, 2016, 30×40.
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RnF A 10, 2016, 30×40.
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Spuglia lettre 1

Spuglia lettre 2

 

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NEMOZ, livre d’artiste. (2022)


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NEMOZ est le nom, prélatin et même préceltique, * du site où surgit la ville de Nîmes, anciennement Nemausus. Étant romain de naissance, et ayant l’opportunité de séjourner régulièrement dans la “Rome française”, je m’y sens comme “chez moi”, et j’ai souhaité apporter mon humble contribution à une iconographie de la capitale du Gard.

Ainsi qu’un nom préromain, qui résonne bien à mes oreilles, ** j’ai choisi pour mes illustrations des sources préromaines : des productions plastiques des Étrusques, le peuple qui a tout appris aux Romains, sauf l’art de la guerre.

J’ai utilisé comme support un guide de Nîmes et du Gard de 1935, peut-être un objet de collection en soi. J’y ai apposé, à l’encre rouge Lumen 26, des “reprises” d’images qui me tiennent à cœur : des photographies de canopes (urnes funéraires grossièrement anthropomorphiques). Ces vases viennent surtout de la ville de Chiusi (Toscane méridionale), bien qu’on en trouve aussi un peu plus au nord (Arezzo). Ils datent du VIIe-VIe siècle av. J.-C. ***

Quelqu’un remarquera peut-être que mes citations de l’imagerie tuscanique présentent des profils pas très « philologiques », un peu trop proéminents, à l’instar d’un célèbre personnage littéraire, lui aussi issu des terres d’Étrurie. C’est une petite boutade que je me suis autorisé.

 

* Certains citent, toutefois, un mot celte nemoz (forêt), d’autres un nemeton, qui “désigne le temple utilisé par les Gaulois à l’époque de leur indépendance” (https://fr.wikipedia.org/wiki/Religion_gauloise).

** Le latin nemo (ne hemo, “pas-homme”) pourrait donner en français personne, si ce n’est que personne vient du latin persona, qui à son tour vient de l’étrusque phersu : masque.

*** Les canopes qui ont servis de modèle à mes fictions sont exposés actuellement au Musée de la Romanité de Nîmes (Étrusques, une civilisation de la Méditerranée, du 15 avril au 23 octobre 2022).
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Dimensions des images : 24×34 cm.
Travail achevé le 17 mai 2022.
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Documents annexes :


SP, Phersu, 1986, 60x25x30, égaré (exposé à Masques d’artistes, La Malmaison, Cannes 1987).
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Le personnage de Phersu, tombe des Augures, nécropole de Monterozzi, Tarquinia, VIe siècle av. J.-C.

 

 

 

Oiseaux de Carême (Birds of Lent) 2022


Au moment où je peins ces poissons en prise de bec avec eux-mêmes, ces grotesques ichtyologiques sur fond de planches ornithologiques allemandes, on est en pleine période de Carême (la période liturgique qui débute quarante jours avant la Résurrection).

Je reprends, deux ans après, des dessins de Carême  exécutés  pendant le printemps 2020, période où, comme on le sait, on était dans la pénitence  et l’on ne pouvait consommer de viande (mais du poisson, ça oui).

Oiseaux de Carême : le juste titre me vient d’un vers de Thomas Lago (“envoie tes oiseaux de malheur…”) pour une chanson des Kat Onoma de l’année 1987 je crois (Cupid). En italien cela donnerait : uccelli di malaugurio, uccelli di Quaresima, qui résonne avec Quarantena.

Des oiseaux de proie (Raubvögel), ainsi que des oiseaux aquatiques, issus d’un recueil zoologique déniché par mon amie Margaret dans un marché aux puces du Starnbergersee, dans les années 90, et réduit par moi à l’état d’arête à force d’en arracher les pages.

Un dessin à la main libre et à la mémoire courte, à l’acrylique rouge, en une maladroite imitation du peintre oriental, ivre de jeûne et d’abstinence.

 


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Birds of Lent 01, 2022, 33×42.
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Birds of Lent 02, 2022, 33×42.
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Birds of Lent 03, 2022, 33×42.
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Birds of Lent 04, 2022, 33×42.

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Birds of Lent 05, 2022, 33×42.

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Birds of Lent 06, 2022, 33×42.

 

 

Ceramic writings (2003-2022)

Spuglia ceramics are produced in friendly collaboration with Vietriscotto, a traditional ceramic workshop operating on Italy’s Amalfi Coast (at Vietri sul Mare) since 1952.
Around mid-May I returned from Vietri, where I made a new series of ceramic pieces: pasta plates (diameter: 21 cm) with “bestiaire” drawings and a blue border; and dinner plates (diameter: 26 cm) with concentric texts taken from Shakespeare’s The Tempest (see examples below).
The plates are priced at 30 euros apiece, including shipment within Europe.



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“Bestiaire” 21 cm, without border.
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“Bestiaire” 21 cm with border.
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Ceramic writings 26 cm.
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See also the relatively recent: Dessins de Carême 2020 (for “wave” plates).

Please send inquiries and order to contact[at]salvatorepuglia.info.

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Ceramic 2003-2020:

 


Voi ch’ascoltate…, 2003 (the very first one).
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Spuglia Philosophie 01
La philosophie dans le boudoir
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Spuglia Vedo rosso a

Spuglia Vedo rosso b
Vedo rosso (collection Lo Giudice-Mitrofanoff)
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Spuglia-tavolo-croceverde
Tavolino croce verde
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Tavolino Martini
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Table Rouge et Noir
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bagno-ercadi
Bagno Ercadi
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Spuglia-bagno-Donnini-Occhiuzzi1
Bagno Occhiuzzi-Donnini
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assiettes-de-trimardeur
Assiettes trimardeurs
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zoccoli-trimardeur1
Carreaux trimardeurs

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Piatti Inuit 2015Plates drum songs
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Table-dressée-2016
Assiettes Heidsieck
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Carreaux à plinthe

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spuglia-zoccoli-scritti
Zoccoli verderamino
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Spuglia piatto onda Ginestra
Piatto “onda” La ginestra

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Plat de Carême

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Sushi 13×26

 

La philosophie dans le boudoir

Vietri sul Mare est une petite ville de cinq ou six-mille habitants, perchée à l’extrémité du golfe de Salerne, à cinquante kilomètres au sud de Naples.
Depuis l’antiquité, grâce à un courant longeant les côtes du nord au sud, qui amenait naturellement ses bateaux vers la Sicile, les entrepreneurs de Vietri ont pu exporter la vaisselle faite avec la glaise des inépuisables carrières qui se trouvent à l’intérieur de ses terres.
Aujourd’hui encore la fabrication artisanale de la céramique est son activité principale. Dans les rues et les places de cette ville tout ce qui est signe est fait de ce matériau: façades, enseignes, pancartes, vases et animaux en faïence donnent à Vietri un aspect d’entrepôt de pacotille peinte à ciel ouvert.
Si on a des amis là-bas, on peut être introduit dans l’un de ces laboratoires artisanaux, pour y faire ses propres carrelages. On vous donne un tabouret au milieu des ouvriers, on vous confie un pot de la couleur que vous aurez choisi, un bleu de Delft par exemple, et on place à coté de vous une palette de carreaux prêts à être émaillés.
Sous le regard des ouvriers, curieux de voir ce que vous savez faire, vous aurez à décider comment couvrir de signes ces dalles. Vous avez décidé de jouer une parodie de l’art populaire, avec ses desseins «bien faits», ses dictons écrits en belle calligraphie. Vous avez décidé de mettre un texte philosophique sur ces surfaces, bien que ce ne soit pas la surface naturelle pour un tel travail de transcription. Vous sortez un livre de votre poche, un livre en langue étrangère, parce que vous n’avez pas envie que soit lisible ce que vous écrivez. Vous vous mettez à l’œuvre, d’une main maladroite qui ne vous obéit pas. Le pinceau va là où il veut, vous le laissez faire, cela peut vous convenir que de rédiger en mauvaise écriture un beau texte. On s’approche de vous et on vous fait gentiment remarquer que vous n’utilisez pas le bon pinceau. Mais, même avec le bon, vous en mettez partout. Au bout de quelques heures, les gens sont fatigués de se laisser amuser par vous et comprennent qu’il n’y a rien à faire, ils vous laissent tranquille. Vous en êtes à la troisième page de la philosophie dans le boudoir et au cinquantième carreau, vous n’en pouvez plus, maintenant votre main est libre vraiment et elle écrit ce qu’elle veut, et la journée de travail est bientôt finie.

 

La filosofia nel boudoir

Vietri sul Mare è una cittadina di quattro o cinquemila abitanti, incastonata su un promontorio erto, all’imbocco della costiera amalfitana.

Fin dai tempi preistorici, grazie a una corrente che scende lungo la costa tirrenica, da nord a sud, e che porta le imbarcazioni verso la Sicilia, i commercianti vietresi potevano esportare il vasellame prodotto con l’argilla scavata a Ogliara, una frazione di Salerno.

Ancora oggi la fabbricazione artigianale e semi-industriale di terraglie e di maioliche è l’attività principale di questa amena località campana. E Vietri ha sempre attirato artisti vagabondi, cui ha offerto possibilità di lavoro e ospitalità. Lo stile stesso della ceramica vietrese, il segno un po’ naif un po’ sincretico che la fa riconoscere immediatamente, è il risultato dell’incontro, negli anni ’20, fra pittori tedeschi di ispirazione modernista e artigiani locali dalle provate capacità.

Tutto ciò che è segno, nelle strade e nelle piazze di Vietri, è in ceramica dipinta: i rivestimenti delle facciate, le insegne dei negozi, i cartelli stradali. I balconi riempiti di vasi, di statuette e di varia animalia, così come le cupole delle chiese coperte di piastrelle verdi e gialle, contribuiscono a fare di questa località un gaio trionfo dell’horror vacui fittile.

Se si ha la fortuna di avere amici che vivono nella cittadina, si può essere accompagnati in un laboratorio ed essere presentati al mastro. Si cerca di spiegare cosa si intende fare. Ma è un amico che vi ha portato, non c’è bisogno di grandi discorsi: vi si prepara il vostro posto, vi si sistema uno sgabello davanti a un tornio, vi si procura una ciotola del colore che avrete scelto, un blu di Delft, per esempio, a imitazione degli azulejos, che a loro volta imitavano la porcellana importata dalla Cina. A lato del vostro sgabello viene sistemato un carrello di piastrelle smaltate, pronte per essere dipinte.

Sotto lo sguardo curioso degli operai, che si chiedono di quali abilità darete prova, vi troverete nella situazione di decidere rapidamente in che maniera coprire di segni queste mattonelle. Avrete deciso di eseguire una parodia di arte popolare, con le sue figurazioni precise e ripetitive, con i suoi proverbi scritti in bella calligrafia. Avrete deciso di apporre a queste superfici un testo filosofico, pur sapendo che quella non è la superficie destinata a ricevere una tale fatica di amanuense. Tirate un libro fuori della tasca, un testo misto di metafisica e di oscenità, un libro scritto in una lingua straniera: non avete voglia che ciò che trascrivete sia leggibile.

Vi mettete all’opra, con una mano malabile che non vi obbedisce. Il pennello va lì dove vuole; lo lasciate fare; in fondo vi conviene, questa redazione in brutta copia di un bel testo. Infine i vostri vicini non ne possono più di vedervi soffrire; ce n’è uno che si alza dal suo posto e viene a dirvi – gentilmente – che non state usando il buon pennello, che quello lì è il pennello sbagliato. Cambiate strumento, ma anche quello buono va lì dove vuole lui. Dopo qualche ora si sono finalmente stancati di divertirsi alle vostre spalle e capiscono che non c’è niente da fare; vi lasciano tranquillo. Siete arrivati alla terza pagina della filosofia nel boudoir, avete calligrafato cinquanta mattonelle e non ne potete più, è adesso che la vostra mano è libera davvero e scrive ciò che vuole, è presto finita la giornata lavorativa, e il bello è là da venire.

Vietri sul Mare, 2003

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Paulhan

“Jusqu’à l’âge de douze ans, Jean Paulhan vit heureux dans la région nîmoise ou cévenole : il va passer le dimanche au mazet, herboriser dans le bois des Espeisses, explorer la garrigue, regarder les parties de boule, se promener au jardin de la Fontaine, écouter les ‘sornettes’ de son grand-père…”, Claire Paulhan, Introduction à Jean Paulhan, La vie est pleine de choses redoutables. Textes autobiographiques, Paris 1989, p. 9.

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Paulhan 01, “passer le dimanche au mazet”.
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Paulhan 02, “herboriser dans le bois des Espeisses”.
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Paulhan 03, “explorer la garrigue”.
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Paulhan 04, “regarder les parties de boule”.
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Paulhan 05, “se promener au jardin de la Fontaine”.
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Paulhan 06, “écouter les ‘sornettes’ de son grand-père”.

Le format de chaque pièce de la série, achevée à la fin de février 2022, est 24×36.
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Voir aussi:

Christian Liger, Histoire d’une famille nîmoise : les Paulhan, Paris 1984 (d’où j’ai tiré les dessins et manuscrits de J. P. utilisés en trame de mes images).

Jean Paulhan-Francis Ponge, Correspondance 1923-1968, vol. I et II, Paris 1986.

Frédéric Badré, Paulhan le juste, Paris 1996.
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Quant à la méthode employée pour ce travail, je me suis inspiré de celle de Pierre Menard *, illustrée dans ce même site. Aucune des images utilisées pour accompagner les écrits de jeunesse de Paulhan n’est “originale” : ces photographies légendées proviennent toutes de mes archives personnelles et ont été prises dans différents lieux du Gard au cours des dix dernières années. Elles pourraient facilement être interchangeables.
Dessins autographes, images d’aujourd’hui : il manquait un élément textuel à relier et rehausser ces deux couches. Je l’ai trouvé, je crois, dans le poncif de l’épigraphie nîmoise, la dédicace augustéenne de la Maison carrée. Par ailleurs, Paulhan ne se considérait-il pas le descendant d’un “certain consul romain Paulianus qui est resté célèbre”? **

* “la technique de l’anachronisme délibéré et des attributions erronées” (Jorge Luis Borges, “Pierre Menard, auteur du Quichotte”, Fictions (1939).
** Jean Paulhan, Entretiens à la radio avec Robert Mallet, Paris 2002 (enregistrés en 1952).

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(D’après : http://www.nemausensis.com/Nimes/MaisonCarree.htm)
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Un supplément : Paulhan 00, 2023, 24×36.

 

 

 

Menard

« Pierre Menard, autor del Quijote », le premier récit « fantastique » de Jorge Luis Borges, publié en mai 1939 dans la revue argentine Sur, porte en bas la date fictive « Nîmes 1939 ». À cette date Borges résidait à Buenos Aires. Il avait pourtant séjourné dans la ville occitane à l’été 1918, à l’âge de dix-neuf ans, et en avril 1919 (peut-être aussi en 1923, mais je ne suis ni bibliophile ni biographe et je n’ai pas cherché à en savoir plus). Dans l’œuvre de Borges les références à Nîmes sont plutôt elliptiques (voir le poème « Por los viales de Nîmes », antérieur à 1925) mais dans cette nouvelle l’auteur montre une connaissance plus que touristique de la ville ; en témoignent les noms mêmes qu’il mentionne : Menard (ou Ménard), Reboul, tant du côté protestant que catholique.  Par ailleurs sa sœur Norah, artiste peintre, à laquelle il était très lié et avec qui il voyageait, était à ce que l’on dit très impressionnée par la beauté de la “Rome française” et  en avait représentés quelques lieux remarquables (voir le dessin  Jardin à Nîmes, ici reproduit en bas de page (AA. VV. Federico Garcia Lorca (1898-1938) Museo Nacional de Arte Reina Sofia, Madrid 1998, p. 186).

Quant à ma séquence de lieux notables, j’ai apposé à chaque image une des six lettres du nom MENARD, en Bodoni 72 .
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Voir  aussi:
Eamon McCarthy, Norah Borges: A Smaller, More Perfect World, University of Wales Press, 2020.

Eamon McCarthy, “El jardín de los Borges que se bifurcan: The Image of the Garden in the Early Work of Jorge Luis and Norah Borges”, Romance Studies, vol. 27, 2009.

Michel Lafon, Une vie de Pierre Ménard, Paris 2008.

René Ventura, La vrai vie de Pierre Ménard ami de Borges, Nîmes 2009.

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Menard 01, “… y entre los cipresos infaustos…”, 28×42, 2022.
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Menard 02, “… las ninfas de los rios…”,
28×42, 2022.
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Menard 03, “… un simbolista de Nîmes…”, 28×42, 2022.
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Menard 04, “Ah, bear in mind this garden was enchanted!”, 28×42, 2022.
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Menard 05, “… Le Jardín du Centaure de Madame Henri Bachelier...”, 28×42, 2022.
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Menard 06, “Nîmes, 1939”, 28×42, 2022.
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* Remerciements à Eric Decrette de la bibliothèque du Carré d’art et Jean-Louis Meunier de l’Académie de Nîmes.

 

 

 

Ponge

“Je puis me plaire à considérer Rome, ou Nîmes, comme le squelette épars, ici le tibia, là le crâne d’une ancienne ville vivante, d’un ancien vivant…”,
Francis Ponge, Le parti pris des choses, Paris 1942, p. 75.

2 janvier 2022. En ce début d’année, je débute aussi un nouveau travail. Avant-hier, 30 décembre, j’ai achevé la série Histoire des monstres,  d’après les gravures de Ulisse Aldrovandi et hier, dernier jour de l’année 2021, profitant d’une lumière de brume assez exceptionnelle dans cette partie de la France, je suis monté à bicyclette au Cimetière Protestant et j’en ai photographié les pourtours, sans y pénétrer.

Au retour à la maison j’ai repris le livre de Jean-Christophe Bailly sur ses voyages en France (Le dépaysement, Paris 2011) et je l’ai ouvert au chapitre 23. Castellum acquae : ” Nemausensis poeta, c’est ainsi que Francis Ponge aimait à s’annoncer…”

Depuis longtemps, depuis que je sais que Francis Ponge est enterré dans ce cimetière d’une insoutenable beauté, à quelques centaines de mètres de chez moi, que je pense aller visiter sa tombe, mais je ne l’ai jamais vraiment fait. Son patronyme ne figure pas parmi ceux des personnalités illustres, sur la carte accrochée à l’entre monumentale, et en flânant dans les allées mousseuses, en compagnie d’un chat errant ou de l’autre, je n’ai jamais posé les yeux sur son nom, ni ai-je voulu interroger les gardiens à son sujet.

Hier aussi, au lieu que rentrer, maintenant que je connaissais le sujet de mon travail nouveau, je suis resté aux abords des deux secteurs du cimetière, séparés par un cadereau canalisé et bétonné pour éviter les inondations. J’ai pris quelques photos de l’intérieur par les bouches d’évacuation des eaux, ayant la tête à la hauteur du terrain et des tombes.

PS : les scans utilisés en fond à mes photographies viennent de l’édition de 1979 de Francis Ponge, Le parti pris des choses, Paris 1942.
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Ponge 01, 24×42, 2022.
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Ponge 02, 24×42, 2022.
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Ponge 03, 24×42, 2022.
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Ponge 04, 24×42, 2022.
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Ponge 05, 24×42, 2022.
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Ponge 06, 24×42, 2022.
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2 January 2022. At the beginning of this year, I embarked upon a new project. The day before yesterday, 30 December, I completed the series Histoire des monstres, based on engravings by Ulisse Aldrovandi, and yesterday, the last day of 2021, taking advantage of foggy conditions that are quite unusual in this part of France, I cycled to the Protestant Cemetery located a few hundred meters from my home and photographed its perimeter, without entering it.

Upon returning home, I picked up Jean-Christophe Bailly’s book on his travels in France (Le dépaysement, Paris 2011) and turned to chapter 23, entitled Castellum acquae: “Nemausensis poeta, as Francis Ponge liked to refer to himself…”

For a long time, ever since I learned that Francis Ponge was buried in this unbearably beautiful cemetery, I had been thinking of visiting his grave, but somehow I never managed to do so. His name does not appear among the illustrious figures on the map posted at the monumental entrance, and while strolling through the mossy paths, in the company of a stray cat, I never found his name, nor did I want to ask the cemetery’s caretaker.

Yesterday, having decided on the subject of my new project, I returned but rather than entering the cemetery, I remained at the edge of its two divisions, separated by a concrete-paved ditch dug below the street level to avoid flooding. Looking through the ditch’s drainage holes situated at the ground level, I took some pictures of the cemetery’s interior and the tombs from this unusual viewpoint.

 

Notes :

Mais je ne suis pas loin de Nîmes. N’y puis-je rien y faire à ta place ? Au splendide jardin de la route d’Alès (1) (qui m’est si cher), n’aurez-vous pas à venir ? Ne puis-je rien préparer ?
Francis Ponge, Lettre à Jean Paulhan, 22 mars 1944, in  Correspondance 1923-1946, Paris 1986, p. 309.
La note (1) de l’éditeur récite : Il s’agît du cimetière protestant de Nîmes, où se trouve le monument funéraire de la famille Ponge-Fabre.

 

 

 

 

 

Histoire des monstres (2021)

C’est dans l’attente d’un endormissement qui ne venait pas, en feuilletant un livre illustré sur les Océans qui appartient à mon fils ainé, que je suis tombé, ou plutôt retombé, sur certaines gravures anciennes reproduisant des monstres de la mer.

Il faut dire que mon cerveau devait être dans une recherche subliminale d’images cauchemardesques, puisque les deux autres livres qui gisaient près du lit étaient Monstros du philosophe portugais José Gil (Lisboa 1994) et les Métamorphoses d’Emanuele Coccia (Paris 2020) .

J’ai donc recherché et repris en main les bestiaires de Ulisse Aldrovandi, médecin et philosophe bolognais (1522-1605), l’un des inventeurs de l’histoire naturelle. La source d’un nouveau travail était trouvée.

Pour reproduire les planches de la Monstrorum Historia j’ai utilisé un exemplaire qui, publié à Bologne en 1642, portait déjà en 1643 le cachet de la Chartreuse de Villeneuve lès Avignon. Cet exemplaire, sans doute à la suite des réquisitions révolutionnaires, se trouve aujourd’hui à la bibliothèque du Carré d’art de Nîmes.

Parmi toutes les créatures monstrueuses répertoriées par Aldrovandi (rarement par observation directe), j’ai choisi les animaux marins. Ils me paraissent plus appropriés à s’adapter aux habitats que je leur ai imposés de manière tyrannique.

Cette nouvelle série présentera par conséquent en toile de fond la reproduction d’une gravure d’Aldrovandi, sur laquelle une photographie de paysage sera posée en transparence. Il y aura un élément textuel aussi qui, sans avoir de relation directe avec l’une ou l’autre image, sera comme la couture qui reliera les deux autres couches : comme des marginalia adjoints dans le courant de la lecture. Il s’agira de citations des auteurs que j’ai lus en m’attablant à ce travail : je les transcrirai à l’encre de Chine.
(13 décembre 2021)

Histoire des monstres 00, Poggio Rota, 30×30, completed December 13.
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Histoire des monstres 01, Fiora, 24×42, completed December 15.
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Histoire des monstres 02, Lagos, 24×42, completed December 16.
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Histoire des monstres 03, Rofalco, 24×42, completed December 17.
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Histoire des monstres 04, Morgantina, 24×42, completed Decembre 19.
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Histoire des monstres 05, Castro, 24×42, completed December 20.
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Histoire des monstres 06, Brignogan, 24×42, completed December 22.
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Histoire des monstres 07, Fratenuti, 24×42, completed December 24.
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Histoire des monstres 08, Batz, 24×42, completed December 25.
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Histoire des monstres 09, Fosso bianco, 24×42, completed December 26.
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Histoire des monstres 10, Balena bianca, 24×42, completed December 27.
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Histoire des monstres 11, Camp de César, 24×42, completed December 28.
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Histoire des monstres 12, Ponte san Pietro, 24×42, completed December 29.
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History of the monsters

Waiting unsuccessfully to fall asleep one evening, I was leafing through an illustrated book on the oceans that belongs to my eldest son, when I encountered, or rather re-encountered, some old engravings depicting sea monsters.

I must say that my brain must have been engaged in a subliminal search for nightmarish images, since the two other books that were lying near the bed were Monstros by the Portuguese philosopher, José Gil (Lisbon, 1994) and Metamorphoses by Emanuele Coccia (Paris, 2020).

So I searched for and consulted the bestiaries of Ulisse Aldrovandi, a noted physician and philosopher from Bologna (1522-1605), who is considered one of the fathers of natural history studies. This became the source of a new artistic project.

To reproduce the plates of the Monstrorum Historia, I used a version that was published in Bologna in 1642, and bore the stamp of the Charterhouse of Villeneuve lès Avignon in 1643. This publication is now preserved in the library of the Carré d’art in Nîmes, probably as a result of requisitions undertaken during the French Revolution.

Among all the monstrous creatures listed by Aldrovandi (he rarely observed them directly), I chose marine animals because they seem to me best adapted to the habitats that I tyrannically imposed on them.

This new series will therefore feature a reproduction of an Aldrovandi engraving as a backdrop, on which a transparent landscape photograph will be placed. I will also add some texts which, without being directly related to either image, will serve as the thread connecting the other two layers: like marginal notes added while reading a text. They will be quotations, transcribed in Chinese ink, from the authors who have read while approaching this latest work.

(December 13 2021)

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I have used also:

J. Baltrusaitis, Le moyen âge fantastique, Paris 1955
G. Lascault, Le Monstre Dans l’Art Occidental, Paris 1973
C. Kappler, Monstres, démons et merveilles à la fin du Moyen Age, Paris 1980
M. Guédron, Les monstres, Paris 2018

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* Remerciements au personnel de la bibliothèque du Carré d’art, service Patrimoine.

 

 

Predators (2021)

Superb 19th-century German zoological prints that I disfigured by superimposing fluorescent acrylic silhouettes, some of which refer to features depicted in the prints, while others are totally unrelated. The source of this inspiration was my vague recollection of the never-reread  17th-century French literary classic, La Fontaine’s Fables or of various French or German animal tales, which I attribute to the Age of Enlightenment.

Des planches zoologiques allemandes du XIXe siècle, superbes, que je me suis autorisé à abimer en leur superposant des silhouettes à l’acrylique fluorescent, prenant appui sur des éléments de l’image, ou les ignorant. Dans la tête, le vague souvenir des jamais relues Fables de la Fontaine ou de certains contes animaliers, français ou allemands, que je situe à l’âge des Lumières.

 


Predators 01 (Raubtiere bis 01), 33×42 (sold).
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Predators 02 (Raubtiere bis 02), 33×42.
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Predators 03 (Raubtiere bis 03), 33×42.
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Predators 04 (Raubtiere bis 04), 33×42.
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Predators 05 (Raubtiere bis 05), 33×42.
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Predators 06 (Raubtiere bis 06), 33×42.
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Predators 07 (Raubtiere bis 07), 33×42.
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Predators 08 (Raubtiere bis 08), 33×42.
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The first presentation of this series here.

 

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Jacques Derrida, To Save the Phenomena.

In 1989 the French philosopher, Jacques Derrida, wrote an essay on my early artwork entitled “Sauver les phénomènes (Pour Salvatore Puglia)”. The essay was originally published in the French journal Contretemps in 1995.

I am pleased to announce that the Chicago University Press has recently published an English translation of this essay along with several other writings by Derrida in the collection Thinking Out of Sight, Writings on the Arts of the Visible.

For a preview of “To Save the Phenomena” click here.

Below are the nine works referred to in Derrida’s text (only Vie d’H.B. is reprinted in the translated text):


1987 Ashbox
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1986 Intus ubique
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1987 Als Schrift
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1985 Hors d’attente
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1984 Présages
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1986 Croce e delizia
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1983 Vie d’H.B.
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1985 Aurora
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1988 Orto petroso

Keams Canyon, May 1896 (2021)

Un recente impegno, in risposta alla sollecitazione di un mio amico che lavora nel campo dell’educazione e mi chiedeva un lavoro sulla scolarizzazione nel secolo XIX.

Eccoti la mia idea. Penso a una serie di sei-otto lavori (formati 30×40 e 30×30) sui bambini Hopi alla scuola industriale di Keams Canyon nel 1896.
Come avrai visto dal mio testo sul sito (Hostile Hopi, italiano) la scolarizzazione era una tappa importante per l’assimilazione degli indiani d’America. Andando a scuola, non potevano più parlare la loro lingua, dovevano cambiare nome, vestirsi all’occidentale e naturalmente seguire il catechismo. La scuola era lontana dai villaggi quindi tornavano raramente a casa.
Gli Hopi finirono per dividersi in due fazioni, gli Hostile, che volevano rimanere sulla Mesa e continuare le pratiche tradizionali e che rifiutavano di mandare i figli a scuola; e i Friendlies, che accettavano la scuola e anche di andare ad abitare nelle casette nuove in pianura.
Nella primavera del 1894 quasi tutti resistettero all’attribuzione di lotti individuali e chiesero ai “Washington Chiefs” di continuare a coltivare in modo comunitario. La loro petizione non ebbe mai risposta ma la lottizzazione non funzionò.
Nel novembre di quell’anno intervenne l’esercito degli US per mettere i bambini a scuola in modo forzato, e diciannove padri di famiglia renitenti vennero imprigionati e deportati ad Alcatraz per un anno.
Alla fine la scissione ci fu davvero, nel 1906, quando il villaggio di Oraibi si divise fisicamente in due. I Friendlies rimasero a Oraibi e gli Hostile fondarono un nuovo villaggio, Hotevilla.
Nella primavera del 1896 lo storico dell’arte tedesco Aby Warburg visitò il villaggio di Oraibi, oltre alla scuola industriale di Keam’s Canyon. A Oraibi assistette a una danza rituale, la Hemis Kachina, che non era quella che fu poi il soggetto della sua famosa conferenza di Kreuzlingen (“Il rituale del serpente”, pubblicato in italiano in aut aut del Gennaio-aprile 1984).
Durante i suoi soggiorni presso gli Hopi Warburg non pare avere avuto conoscenza degli avvenimenti degli anni precedenti; in ogni modo non li menziona e sulla questione dell’educazione occidentale ha una posizione ambigua, come si può evincere dagli ultimi paragrafi della sua conferenza. Altri hanno già interpretato e preso posizione al riguardo. Ma è evidente che la sua superficiale adesione alla luminosità dell’insegnamento occidentale contraddice il suo pessimismo “leopardiano” rispetto alle conseguenze del progresso importato dalla modernità.
Per questa mia nuova serie, lavoro a strati.
Un primo strato è trasparente ed è la riproduzione di una foto fatta da Aby Warburg al Keams Canyon. Un secondo strato è la riproduzione della petizione comunitaria del marzo 1894, rivolta ai “Washington Chiefs” e firmata da ognuno con il disegno del suo totem, e la relativa spiegazione. Il terzo strato è la mia ripresa, grossolana e profana, di alcune di queste “firme-totem”, a mo’ di tatuaggio rosso fluorescente.
Esistono due altre foto di Warburg, fatte nella stessa occasione. Una rappresenta Thomas Keam davanti casa, l’altra il Canyon dove si trovava la scuola. Keam era un ex militare irlandese stabilitosi in Arizona, dove aveva aperto un emporio e fungeva da mediatore fra gli Hopi e il governo americano. Ma non penso di intervenire su queste ultime immagini, che mi paiono « fuori tema ».
Apporrò al disotto dei miei lavori le didascalie del libro da cui ho tratto le foto di Warburg (B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier.  Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998).
La questione che pone questa serie di lavori è certo speciale e non comparabile con quelle che voi educatori affrontate oggi. Dovevano i bambini Hopi essere mandati a scuola o dovevano essere lasciati alla loro comunità e alla loro cultura? Oppure era possibile una strada intermedia?
Apparentemente nell’America fra i due secoli questo non era possibile.

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KC 01. Alunne Hopi con il loro insegnante, Mr. Neel, di fronte alla Moki (Hopi) Industrial School al Keam’s Canyon, Arizona, nel maggio 1896. Queste foto vennero scattate da Warburg al termine del suo soggiorno nel territorio Hopi.
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KC 02. Alunne Hopi e alunne occidentali nel Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
 Le alunne della Scuola industriale Moki (Hopi) stazionano su una roccia; il gruppo è composto da bambine indiane, ad eccezione di una bambina occidentale (facilmente riconoscibile dall’abito bianco).
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KC 03. Genitori Hopi che riportano i figli da scuola, Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
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KC 04. Allievi Hopi della Industrial School di Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
I bambini indiani venivano vestiti in abiti occidentali. Warburg aveva chiesto loro di illustrare una storia per vedere se il pensiero simbolico continuava a vivere in popoli che non erano pienamente « civilizzati » dal punto di vista della civiltà occidentale. Questi ritratti erano intesi come documentazione del suo esperimento, il che potrebbe spiegare la posa «antropometrica» di queste fotografie.
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K5 05. Allievo della Moki (Hopi) Industrial School a Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896. Per gli studenti della Industrial School, cappelli e vestiti erano parte dell’uniforme quotidiana: la scuola era in internato e si trovava a miglia di distanza dai loro villaggi.
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KC 06. Allievi della Moki (Hopi) Industrial School. In questo doppio ritratto, il più grande dei due sembra estremamente consapevole. La mano appoggiata ai fianchi e lo sguardo puntato sul fotografo rivelano una fierezza non intaccata dagli abiti che gli sono stati imposti.
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Below is my response to a request from my friend M., who asked to elaborate an art project on the subject of education in the 19th century. 

This is my proposal. Six works (30×40 cm and 30×30 cm) on Hopi children at the Keams Canyon Industrial School in 1896.
As you have noted in my recent text (Hostile Hopi, English), schooling was an important stage in the assimilation of Native Americans. On their way to school, they could no longer speak their language, they had to change their names, dress Western and of course follow the catechism. The school was far from the villages so they rarely returned home.
The Hopi ended up splitting into two factions, the “Hostiles, who wanted to remain on the Mesa and continue traditional practices and refused to send their children to school; and the “Friendlies », who accepted the school and even went to live in new houses on the plains.
In the spring of 1894 almost everyone resisted the attribution of individual plots and asked the “Washington Chiefs” to be allowed to cultivate them communally. Their petition was never answered, but for several reasons the government’s land allotment program did not work out.
In November of that year, the US army intervened to force the children into school, and nineteen defying fathers were imprisoned and deported to Alcatraz for one year.
In 1906, the split was exacerbated , when the village of Oraibi was divided into two. The “Friendlies”, remained in Oraibi while the “Hostiles” founded a new village, Hotevilla.
In the spring of 1896, German art historian Aby Warburg visited the village of Oraibi, as well as the industrial school at Keams Canyon. In Oraibi he attended a ritual dance, the Hemis Kachina, which was not the subject of his famous lecture in Kreuzlingen (“The Snake Dance”, published in Italian in aut aut, January-April 1984).
During his stays with the Hopi, Warburg does not appear to have been aware of the events of previous years; in any case he does not mention them, and on the question of Western education his position is ambiguous, as reflected in the final paragraphs of his conference. Others have examined this matter and taken position. But it is evident that his superficial adherence to the enlightened nature of Western teaching values contradicts his “Leopardian” pessimism regarding the consequences of any sort of progress resulting from modernity.
In my new series, I work in layers. A first layer is transparent and reproduces a photo taken by Aby Warburg at Keams Canyon. A second layer is a reproduction of the community petition of March 1894, addressed to the “Washington Chiefs” and signed by each member of the community with the design of his totem, and its explanation. The third layer is my crude imitation of some of these “totem-signatures”, resembling red fluorescent tattoos.

There are two other photos taken  by Warburg on the same occasion: one of Thomas Keam in front of his house, the other of the canyon where the school was located. Born in England, Keam served in the US army eventually settling in Arizona, where he operated a trading post and acted as a mediator between the Hopi and the US government. But I do not expect  to use these last two images, which I consider to be insufficiently relevant.
However, I will place underneath my artworks the captions published in the book containing Warburg’s photos (B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier.  Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998).
The question posed by this series of works is quite particular and unlike those that educators, like yourself, face today. Should the Hopi children have be forced  to attend faraway schools or should they have to be left in their community in contact with their culture? Or was an intermediate solution possible?

Apparently in late-nineteenth century America, this was not an option.

 

See also: https://slate.com/human-interest/2013/07/hopi-petition-asks-government-to-allow-communal-land-owning-to-continue.html

https://books.google.fr/books?id=EHrML-IMEfIC&pg=PA114&dq=hopi+moqui+allotments&hl=en&sa=X&ei=xkHfUbbkIcazyQHFvoHoDQ&redir_esc=y#v=onepage&q=hopi%20moqui%20allotments&f=false

 

 

 

 

Hostile Hopi (English, 2021)

The following text is the premise of an art project I recently completed (May 2021; see Keams Canyon, May 1896) involving various photographs taken by Aby Warburg during the spring of 1896 in the northeastern sector of present-day Arizona (USA).

The Hopi are a Native American tribe established between the 8th and the 13th centuries in the desert territories bordering present-day New Mexico, Colorado, Utah and Arizona. Since 1934, the Hopi constitute a self-governing tribe occupying a reduced area within the larger Navajo reservation.

The Hopi’s first contact with Westerners dates back to 1540, when the conquistador Francisco Vásquez de Coronado learned of their existence and carried out an initial census. Subsequently the Spanish conquerors attempted to convert them to Catholicism. In 1629, thirty Franciscan friars arrived in their territory.
The year 1680 saw the great revolt of the united Pueblo and Hopi, which took the Spanish twenty years to quell. At the end of the 17th century, the only village that the missionaries had succeeded in converting was Awatowi. In the winter of 1700-1701, groups from other Hopi villages attacked Awatowi. All the men were killed, while the women and children moved to other villages, and their houses were burned to the ground. The Spanish eventually gave up their attempts to colonize the Hopi, and their presence on Hopi land became sporadic.

The first contact with the new occupants, the United States of America, occurred in 1850 (two years after the end of the war in which the US incorporated 55% of Mexican territory).
In 1875 Loololma (also known as Lololomai), the head of the village of Oraibi (considered the most traditional of the Hopi settlements) was taken to Washington to meet with the President of the United States. He returned convinced of the need to build schools in order to provide access to American “civilization” and to produce larger quantities of maize, the Hopi’s staple food.

In 1887 the first school was built at Keams Canyon. This initiative represented a genuine attempt to convert the Hopi and, as a result of the passive resistance on the part of many members of the tribe, the few pupils attended the school (1). Eventually in 1890 US federal troops forced children to attend by threatening to arrest non-compliant parents.
In 1893 a new school opened in Oraibi. The following year, a group of parents refused to send their children there. The US army intervened, arresting nineteen fathers and eventually deporting them to Alcatraz prison, where they remained detained for several months (November 1894-September 1895) (2).
Finally, in 1906, as a result of inter-community conflicts related to education as well as land ownership issues, the village split into two factions: those who collaborated (the “Friendlies”) remained in Oraibi; while those who resisted (the “Hostiles”), under the leadership of Lomahongyoma, head of the Spider clan, established a new settlement, Hotevilla.

In the winter of 1895-1896,  after a stay in Washington where he conferred with ethnographers at the Smithsonian Institute, Aby Warburg visited several Native American villages in New Mexico and attended certain ceremonies (but not the Snake Dance). From Albuquerque he travelled to Laguna, then to Acoma; in San Ildefonso he observed a performance of the  Antelopes Dance. In late April 1896, after a stay in California, he returned to the Hopi territories. After a two-day trip in a buggy across the desert, he arrived at Keams Canyon and proceeded to Walpi and Oraibi, where he witnessed the humiskatcina dance.

Therefore, Warburg was in Oraibi some seven months after the release of the nineteen “Hostile” fathers from Alcatraz prison. Although in the account of his journey (as recounted in his well-known Kreuzlingen lecture of 25 April 1923) (3), Warburg does not mention this episode, it is highly unlikely that he was unaware of it. And, while his entire lecture revolves around the question of the conflict between the “Hopi soul” and Western culture and the subject of education is repeatedly referred to, Warburg does not seem to be familiar with the methods of forced education practiced by the US government. He only mentions difficulties that the head of the village of Acoma encountered in convincing reluctant Indianers to enter the church.

Figure 27 of the Kreuzlingen lecture shows a small group of school children “gracefully dressed and in aprons”, who no longer believe in to the “pagan demons”. But this observation, apparently ironic, is followed by a striking affirmation: “Children standing in front of a cave. Leading them to light, is the task not only of the American school, but of humanity in general”.

The first four photos that follow illustrate the different phases of the arrest and internment of the nineteen Hopi parents (among them, at the center, the head of the “Hostile” faction, Lomahongyoma). The next two photos were taken with Warburg’s Kodak camera: they show Neel, the teacher, with two Hopi girls and a group of children in front of a cave .

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(1) “The Keams Canyon School was organized to teach the Hopi youth the ways of European-American civilization. It forced them to use English and give up their traditional ways. The children were made to abandon their tribal identity and completely take on European-American culture. They received haircuts, new clothes, took on Anglo names, and learned English. The boys learned farming and carpentry skills, while the girls were taught ironing, sewing and “civilized” dining. The school also reinforced European-American religions.”
This quote, as well as the information above and most of the following, is taken from the wikipedia article “en.wikipedia.org/wiki/Hopi”.

(2) For additional information on this deportation  and the four related photographs, see the website of the Alcatraz National Park: www.nps.gov/alca/learn/historyculture/hopi-prisoners-on-the-rock.htm.
See also: S. Rushfort, S. Upham, A Hopi social History, Austin, Texas, 1992; M. S. Gilbert, Education beyond the Mesas: Hopi Students at Sherman Institute, 1902-1929, Lincoln, Nebraska, 2010; H. C. James, Pages from Hopi History, Tucson, Arizona, 1974; Peter M. Whiteley, Deliberate Acts, Changing Hopi Culture Through the Oraibi Split, The University of Arizona Press, Tucson, 1988.

(3) A. Warburg, “Il rituale del serpente”, aut aut, 199-200, January-April 1984, pp. 17-39; see also the fundamental B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier. Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998. And without overlooking Aby M. Warburg, Images from the region of the Pueblo Indians of North America, Translated with an interpretive essay by Michael P. Steinberg, Ithaca and London, 1995, and David Freedberg, “Pathos at Oraibi: What Warburg did not see”, in Lo sguardo di Giano: Aby Warburg fra tempo e memoria, ed. C. Cieri Via e P. Montani, Torino 2004), pp. 569-611.

Note: this is a revised automatic translation from the Italian (see my Hostile Hopi 2017-2021).
(The images disappeared from this page. Please refer to the Italian version of this article.)
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The nineteen “Hostile” in Alcatraz.

Hopi and Western children at Keams Canyon, photo by Aby Warburg (1896). From B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier. Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998.
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A page from the Hopi petition, March 1894.

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The religious chiefs symbols.

 

2021, Keams Canyon 00, 40×30.

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The final pages of the Kreuzlingen (1923) lecture, in “Il rituale del serpente”,  aut aut, Gennaio-aprile 1984.

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Anabasis. Mario Rigoni Stern landscapes. (2015-2021)

Mario Rigoni Stern (1921-2008) had two ‘anabasis experiences’ in his lifetime. The first one involved the retreat of the Italian Expeditionary Corps in Russia, in January 1943. Rigoni was one of the 60,000 ‘Alpini’ elite military corps that Mussolini sent to occupy the Soviet Union, and among the fortunate 20,000 that returned home safely. His second “anabasis” experience occurred two years later, during his escape from a German military concentration camp in April 1945. For ten days, Rigoni wandered through the Styria and Carinthia forests in Austria surviving on berries, bird eggs and snails before encountering an outpost of Italian partisans at an Alpine pass.

I regard Mario Rigoni Stern as one of my spiritual fathers along with Nuto Revelli (1919-2004) and Vittorio Foa (1910-2008). Among the three, it is Rigoni Stern who explored in greatest depth the relationship between humans and their natural environment. The theme of the forest, as a locus of nature, is central to Rigoni’s oeuvre. The pre-Alpine forest, which was completely destroyed by Austrian and Italian bombs between 1915 and 1918 and subsequently replanted, is an example of the blending of the artificial with the natural. By the time Stern’s work Uomini, boschi e api (Men, Woods and Bees,) was published in 1980, the Asiago plateau forest had reverted to a nature state.

The forest is a mirror of the world “as it should be”, a world where “siamo tutti compaesani”, (we all belong to the same village). In this ecosystem, we can all live together, humans and various animal species, once the carrying capacity of the environment is under control. But according to the writer, the ‘good’ forest is not the one that grows freely and spontaneously. Rather it is the one tamed by human labor, where humankind plays the role of the caring gardener.

At the beginning of his book Forests. The Shadows of Civilization, (Stanford 1992), Robert Pogue Harrison quotes the Italian philosopher Giambattista Vico: “This was the order of human institutions: first the forests, after that the huts, then the villages, next the cities, and finally the academies…” (The New science, 1725). But Vico’s text continues as follows: “it is the nature of peoples to be first crude, afterward severe, then benign, later on delicate, eventually dissipate”.

Rigoni Stern considers Vico’s reflection, and assumes that the city (the last stage of human progress before academies, according to Vico) has become a place of “spiritual solitude”, where “barbarity dwells in the very heart of the humans” and states that the woods have become a “place of salvation” (Introduction to Boschi d’Italia, Rome 1993).

As I wandered around Rigoni’s homeland, I recorded some images of forests, which, upon closer inspection, reveal traces of the war: the collapsed trenches and the craters left by bombs. There I encountered a theme related to my Rupestrian series: these sites have also been reclaimed by nature, even if here the traces left behind are the result of humankind’s diabolical engineering rather than its creativity.

The works that bears the title Anabasis come from the superposition of these images and archive images: the Alpini retreating in the Russian snow, the trenches and the woodland of the Asiago plateau after an artillery battle.

 


Anabasis 03, 40×60, 2015.
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Anabasis 06 A and B, 30×30 each, 2015.
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Anabasis 09 B, 40×60, 2018.
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Anabasis 08 B, 40×60, 2020.
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Anabasis 05 B, 40×60, 2021 (2015).

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Rigoni Stern connut deux anabases, une grande et une petite. La première fut la retraite de Russie, en janvier 1943 ; Rigoni était l’un des 60.000 chasseurs alpins italiens partis pour occuper l’Union Soviétique, aux côtés des allemands, et il fut l’un des 20.000 qui en revinrent. La deuxième fut sa fuite solitaire du Stalag, en avril 1945 ; pendant une dizaine de jours il erra dans les forêts de Carinthie et de Styrie, se nourrissant de baies, d’œufs d’oiseaux et d’escargots, jusqu’au moment où il rencontra, sur la route des Alpes, un poste avancé de partisans italiens.

Mario Rigoni Stern (1921-2008), avec Nuto Revelli (1919-2004) et Vittorio Foa (1910-2008) est l’un de mes pères. Et, parmi mes pères, c’est celui qui a le plus investi la thématique du rapport de l’homme à la nature.

Le haut-plateau d’Asiago est le lieu des origines et des retours de Rigoni ; la forêt qui le couvre, cette même forêt annihilée par les bombes autrichiennes et italiennes entre 1915 et 1918 et ensuite « reconstruite » (exemple du naturel qui devient artificiel, pour redevenir naturel) est un sujet central dans son œuvre littéraire.

Le bois est, d’après Rigoni, « lieu de salut » (introduction à Boschi d’Italia, Rome 1993), tandis que la ville est devenue le lieu de la « solitude spirituelle », où « la barbarie se cache jusque dans le cœur des hommes ». L’écrivain de l’Altopiano reprend ici les arguments de Giambattista Vico (Principi di scienza nuova, 1725), tout en leur donnant une inflexion plus humaniste et, somme toute, réconciliante. Si l’homme veut survivre « avec » la nature, il doit être capable d’en prélever sa part, sans en entacher le capital.

Comme on le sait, Rigoni était un chasseur passionné ; on se demande si, finalement, ses raisonnements ne couvraient pas son désir de s’adonner à la chasse au coq de bruyère. Cela dit, le coq de bruyère n’est aucunement en danger et la forêt se porte bien en Europe, vu sa progression aux dépens des pâturages et des terres cultivables.

Aussi éloigné d’un sentiment de domination inspiré de la civilisation des Lumières que d’une approche nostalgique à la Sturm und Drang (1), Rigoni exprime plutôt un sobre panthéisme humaniste ; la « bonne » forêt n’est pas, d’après lui, celle qui pousse de manière spontanée et sauvage ; c’est celle qui est administrée et ordonnée par l’homme, en sage jardinier.

En errant, en touriste, sur l’Altopiano, j’ai enregistré quelques images de sites naturels où restent visibles les traces de la guerre : les tranchées écroulées, les cratères ouverts par les obus. Je retrouve, dans ces images, le motif de mon travail sur le rupestre : peut-on parler de sites « rupestres » même si ce n’est pas la créativité de l’homme qui a laissé ses empreintes, mais plutôt sa diabolique ingénierie ?

Les travaux qui ont pour titre Anabasis naissent de la superposition de ces photographies et d’images d’archives : la retraite des Alpini dans la neige de Russie et leur lutte pour s’ouvrir un passage ; les abris des fantassins et les bois de l’Altopiano éventrés par les batailles d’artillerie.

 

(1) Sur la confrontation-opposition entre ces deux courants de pensée voir Robert Pogue Harrison, Forêts : Essai sur l’imaginaire occidental, Paris 1994.