Dante all’università per stranieri (2017-2023)

Spuglia Dante 01

Spuglia Siena 01

La sede di un’università per stranieri pare il luogo indicato per un’installazione artistica che ha per soggetto l’opera dantesca, che è come il “logo” della lingua italiana.

Come alludere meglio alla sua perennità, e allo stesso tempo alla precarietà dei tempi storici e della trasmissione letteraria, se non trasferendo il testo su maioliche, su materiale da costruzione?

Trascrivere manualmente un canto a scelta per ogni cantico; l’incertezza e l’imprevedibilità della scrittura a pennello su un supporto permanente quale la piastrella è l’aspetto contradditorio, quindi interessante, di una tale installazione.

L’idea della trascrizione di testi letterari mi viene da un lato come un tentativo di parodia della cultura popolare (i proverbi sulle mattonelle appese nelle sale da pranzo) e dall’altro dalla lettura di un breve testo di Walter Benjamin. Lo scrittore tedesco confronta lettura e trascrizione; la prima è come sorvolare in aereo una strada: se ne ha una vista d’insieme ma non se ne ha l’esperienza; per conoscere davvero un tragitto occorre percorrerlo a piedi, così come fa l’amanuense che ricopia un manoscritto antico.

La mia è una grafia pessima. Il tentativo di addomesticarla va insieme a quest’idea del necessario conservare e tramandare. E il supporto ceramico è forse più duraturo della carta e finanche dei vari mezzi informatici di stoccaggio.

Tre canti della Commedia, uno per cantica, sono trascritti piastrella per piastrella, una terzina per pezzo. In tal modo il filologo del futuro potrà ricostruire almeno qualche rima completa del testo dantesco. E l’archeologo del futuro dovrà capire perché testi letterari fossero parte delle mura di un grosso edificio rivestito anch’esso di mattoncini in cortina.

Il formato “zoccolo” (10×20 centimetri) permette di riprodurre una terzina intera; ho vegliato, una volta scelta una delle varie edizioni possibili, a evitare ogni refuso, nel processo abbastanza laborioso del lavoro in officina. La mia sola licenza artistica: ho scritto in continuità lineare, come nel flusso di un telex, senza rispettare il verso né l’a capo.

Un canto a scelta per ogni cantica: rosso per l’Inferno, naturalmente; verde ramino per il Purgatorio; azzurro per il Paradiso, evidentemente. Un piano di scale per ogni canto: possono essere percorse in senso ascendente o discendente. Ma la gerarchia dantesca non è rispettata: il Purgatorio si troverà al piano superiore e il Paradiso in quello intermedio. La realtà che viviamo merita di farsi trovare ai piani alti.

Salvatore Puglia, novembre 2017

PS: nel maggio 2018 sono state aggiunte un centinaio di maioliche, nelle varie lingue insegnate all’università, come contrappunto al testo dantesco.

Spuglia_Dante_02

Spuglia_Dante_01

Spuglia Siena 04

Spuglia Siena 05(Foto: M. Vedovelli)

.
L’installazione è stata poi ripresa, nel 2022 e 2023, con la produzione di diverse maioliche intitolate a personalità letterarie, sistemate a prossimità delle aule a loro dedicate. Vedi anche:
Articolo sull’inaugurazione dell’aula magna, settembre 2022.

See also the short video (2017):
Dante all’università per stranieri

.

Rovine nella selva (2023)

Si tratta della terza versione (febbraio 2023) di un lavoro vecchio di quasi dieci anni, mai mostrato in Italia, se non parzialmente (Confronto su Castro, 2018).
Mi sento piuttosto convinto della prima parte (Ruins in the Forest, series A), in cui sovrapponevo il testo dantesco del Purgatorio a foto di siti archeologici nella Tuscia.
La seconda (Ruins in the Forest, series B) mancava forse di qualcosa. Non mi bastava la sovrapposizione di mappe escursionistiche alle mie immagini di rovine e reperti ormai integrati nello spazio naturale. Mi pareva che un nuovo elemento  di artificialità fosse necessario, e credo di averlo trovato nell’apposizione delle lettere di una singola frase, Et in Arcadia [ego]. La Selva del Lamone non è l’Arcadia, certo, e SP non è Poussin. Diciamo che questo Rovine nella selva è un esercizio di imitazione.
Ho anche cambiato la carta topografica che costituisce il fondo dell’immagine: al posto di una carta escursionistica della Tuscia ho messo carte dell’Istituto Geografico Militare degli anni Cinquanta, il cui soggetto non corrisponde con i luoghi da me fotografati.


Rovine nella selva 01, Vallerosa, 2022, 30×40.
.

Rovine nella selva 02, Fratenuti, 2022, 30×40.
.

Rovine nella selva 03, Sutri, 2022, 30×40.
.

Rovine nella selva 04, Rofalco, 2022, 30×40.
.

Rovine nella selva 05, Pian di Civita, 2022, 30×40.
.

Rovine nella selva 06, Poggio Conte, 2022, 30×40.
.

Rovine nella selva 07, Norchia, 2022, 30×40.
.

Rovine nella selva 08, Grotta Porcina, 2022, 30×40.
.


Rovine nella selva 09, Castro, 2022, 30×40.
.


Rovine nella selva 10, Vulci, 2022, 30×40.
.


Nella selva antica

Da qualche anno lavoro sul tema della natura soggetta alla civiltà (e viceversa). Nelle fotografie che faccio in giro per l’Europa c’è sempre un elemento naturale che   predomina sulla compresenza di manufatti ridotti a tracce e segni.

Ho ripreso in mano Dante, in particolare i versi della Commedia in cui parla della selva antica, che non è altro che una rappresentazione del paradiso terrestre. Ho trattato in modo allegorico questo soggetto dell’Eden perduto e non ancora ritrovato; l’ho sviluppato in due serie di quadri, una serie A e una serie B, che mostro faccia a faccia.

La prima serie presenta dieci stampe digitali su vetro, in un formato 30×40 orizzontale (se affeziono questo formato quasi A3, è che mi fa pensare a un approccio da amanuense del lavoro artistico: “raccolto”, per non dire “ispirato”). Attraverso l’immagine resa in tal modo trasparente, si intravede il testo di Dante, il Canto XXVIII del Purgatorio, riprodotto su buona carta e in continuo, senza a capo. E’ questo il Canto in cui il poeta, accomiatatosi da Virgilio, si trova nel giardino delizioso da cui i primi peccatori sono stati cacciati; così perfetto questo giardino che anche gli animali ne sono assenti.

Elemento naturale ed elemento umano sono qui indiscernibili, fusi in quella che potrebbe essere una visione del mondo dopo il passaggio dell’uomo, un mondo tornato foresta primordiale. Non si sa se un pescatore di perle venuto da un’altra galassia potrebbe ritrovarvi le ossa divenute coralli, gli occhi diventati perle, neanche impiegando la tecnologia anti-scientifica preconizzata da Hannah Arendt: perforazione contro stratigrafia, nella necessaria distruzione del passato che permette di estrarne ciò che è “prezioso e raro”.

Di fronte a questa sequenza ho concepito un’altra linea di stampe su vetro, dello stesso formato; in questi lavori il fattore umano è più marcatamente presente. Si intravedono soprattutto vestigia monumentali, più “strutturate”, perdute nella natura, ancora riconoscibili anche se forse non più ricostruibili. Di là dalla fotografia si riconoscono carte topografiche ritagliate e rimesse insieme: potrebbero, o forse no, tracciare la localizzazione di questi improbabili paradisi terrestri.

Su ogni carta ho vergato una lettera, in carattere Bodoni: E, T, I, N, A, R, C, A, D, I, A, l’ultima I essendo raddoppiata dall’immagine di un bastone dipinto di rosso, affossato nel pavimento della ex cattedrale di Castro.

Mi provo a oscillare fra una certa “bellezza” dell’immagine e il suo carattere ammonitore. Niente vi cerco di spettacolare o di drammatico, ma penso aleggi da quelle parti una qualche inquietudine: un sentimento che ci accomuna e ci fa “umana cosa”.

Ciao ciao,

SP
.

Serie completata il 30 aprile 2022.


Giovanni Francesco Barbieri (Il Guercino), Et in Arcadia ego, 1618-1622, dettaglio, Roma, Galleria Barberini.
.

Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1637-1638, dettaglio, Parigi, Museo del Louvre.

 

 

Naples April-May 2023

Affreschi rinvenuti

Una mostra nella Sala Catasti dell’Archivio di Stato di Napoli
in dialogo con le pitture di Belisario Corenzio

Piazzetta Grande Archivio 5

Dal 28 aprile al 27 maggio 2023

Dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18, il sabato dalle 10 alle 13

Affreschi rinvenuti

Una proposta espositiva per l’Archivio di Stato di Napoli

Ciò che propongo alla direzione dell’Archivio di Stato di Napoli è allo stesso tempo un’investigazione da storico e un intervento d’artista. Secondo una pratica che mi è usuale, intenderei sovrapporre, alle immagini delle pitture di Belisario Corenzio recentemente riscoperte nella ex sala del Capitolo, riproduzioni di testi d’epoca e fotografie fatte da me. Su questi differenti strati apporrei interventi di colore.

Sarebbe il mio un approccio evidentemente personale: una stratificazione dell’opera riscoperta di Belisario Corenzio e del mio proprio lavoro. L’affresco di inizio Seicento, il suo stato attuale, quadri miei di dieci e trent’anni fa, la loro sovrapposizione alle foto degli affreschi, la visione nuova (una fra le tante possibili) del mio lavoro e anche di quello del pittore greco-partenopeo.

Potrei sviluppare questo dialogo in tre, quattro serie di quadri di medio formato (fra il 44×106 e il 32×44), per mostrare i quali occorrerebbero quattordici-quindici metri lineari, in un qualunque luogo all’interno dell’Archivio, purché le pareti siano chiare e adeguatamente illuminate.

Una serie Corenzio-Robinson: fotografie del restauro in corso stampate su vetro e sovrapposte a mie foto di spiagge incontaminate o quasi (nella mia pratica artistica uso spesso miei lavori passati, senza un rapporto esplicativo con le iconografie su cui intervengo).

Una serie Corenzio-Gulliver: dettagli degli affreschi prima del restauro, giustapposti a quadri miei antichi di trent’anni, ritagliati e rilavorati.

Una serie Corenzio-Hölderlin: la famosa lettera del poeta tedesco al suo amico Böhlendorf riprodotta su vetro: qui la sua distorta visione dell’antichità si accavallerebbe alla scialbatura gialla che copriva le pitture di Belisario.

Una piccola serie dalle fonti più miste: le riproduzioni dei pagamenti al Corenzio, o degli articoli critici ottocenteschi, sovrapposti a mie foto di soggetto “rupestre”: abbazie abbandonate e riprese dalla natura, romitori medievali, necropoli etrusche.

Il contrasto, e forse la confusione di queste sovrapposizioni mi paiono elementi interessanti da proporre al cortese pubblico dell’Archivio di Stato, che cerca piuttosto schiarimento e spiegazione dalle cose del passato. Il mio è un percorso d’artista: più che interpretazione o spiegazione, propongo dubbi e (spero fertile) confusione.

4 agosto 2022

 

 

Il pieghevole in consultazione alla mostra:
Affreschi rinvenuti pieghevole_SMALL

 

 

 

 

La strada delle annurche, 2023.

La strada delle annurche Poesie (1973-2020) è il titolo della raccolta poetica di Marco Rossi-Doria, a cura e con una prefazione di Franco Vitelli, per le edizioni Studium di Roma (2023).

Gli inchiostri che accompagnano la raccolta datano della fine degli anni Ottanta, quando resi visita a Marco in Kenya, ove insegnava alla scuola elementare italiana. Li ho recentemente ripresi in una sorta di remix, quando mi ha chiesto di illustrare anche questo suo ultimo volume.

Dalla prefazione di Franco Vitelli:

NOTIZIA PER IL LETTORE

Il presente volume, sotto il titolo La strada delle annurche, raccoglie la produzione poetica di Marco Rossi-Doria strutturata in cinque sezioni che occupano lo spazio-tempo che va dal 1973 al 2020. L’autore, in verità, ha fatto un uso parsimonioso dell’espressione in versi e ha mostrato sempre una certa ritrosia nei confronti di un lavoro di sistemazione; ha dovuto cedere, infine, alle insistenze esterne che reclamavano la bontà dell’iniziativa.

Di ciascuna sezione, con titolazione d’autore, se ne dà in seguito notizia specifica, qui basti accennare al fatto che il libro raccoglie in successione cronologica poesie edite e inedite, riuscendo così a dare una fisionomia intera. 

Terra di nessuno comprende 16 poesie degli anni 1973-1983. Esse sono già riunite in una plaquette in carta d’Amalfi pubblicata a Napoli da Forum nel 1984 in 239 esemplari numerati, con 4 acquerelli di Salvatore Puglia. La poesia Generazione è stata anche pubblicata in «Linea d’Ombra», febbraio 1989, p. 64. Rispetto alla plaquette, nella versione odierna l’autore ha apportato alcuni cambiamenti riguardanti la diversa misura dei versi, l’aggiunta o sostituzione di titoli, l’eliminazione di una poesia e di alcune dediche.

Il poemetto Laerte è stato composto tra il 1983 e il 1986 e pubblicato da Cesare Garboli su «Paragone/Letteratura», ottobre 1987, pp. 8-29.

Su proposta di Michel Deguy, Laerte è poi uscito su Po&sie (n. 47, 4° trimestre 1988), tradotto in francese da Caroline Peyron.

Giallonapoli riunisce 27 poesie scritte tra il 1984 e il 1988.

Di queste, tre (La dimora distante, Altri venuti (diverso titolo di Ziggurat), Giallo napoli) sono state stampate a Strasburgo nell’autunno del 1987, con grafica di Philippe Poirier, in un quaderno in carta da imballaggio in 349 copie numerate, titolato Giallo Napoli. Qui erano presenti anche poesie di Salvatore Di Natale e Pasquale Sica, con cinque inchiostri di Salvatore Puglia e un testo di Fabrizia Ramondino.

Nello stesso anno, sempre a Strasburgo, altre dieci poesie, in versione italiana e francese  – Port Bou, mezzogiorno, Selene e le sue compagne, non è la collera Eterna, mé at cori (diverso titolo di Balsamo), PilatoEstremo, Il fantasma nelle stanze (con testo ridotto), il geco che rivedo, da aggiungere  – sono apparse in edizione numerata in 100 copie (Dix poèmes de Marco Rossi-Doria), su carta povera, con disegni di Philippe Poirier.

 

 

 

Camminare sui cocci di Vietri, Montechiaro 2003.

Una performance meticolosamente preparata, documentata da un anonimo spettatore sabato 28 settembre 2003, poche ore prima del famoso black-out della “notte bianca”. Attrezzature da imbonitore posate a una a una sul tappeto: catene, corde, bottiglia di petrolio e stoppini. Infine due racchette da ping pong e qualche elastico. Il vasellame rotto della ditta Solimene di Vietri sul Mare, sottratto nottetempo fuori della fabbrica, trasportato in due grossi sacchi di plastica e sparso al suolo come il tappeto di braci ardenti di un’ordalia vichinga.

Commento del figlio dei padroni di casa: “per superare il letto di cocci hai usato lo strumento più leggero e inatteso” fra tutto l’armamentario da fachiro che avevo esibito. SP

 

Mamotii, 1988-2004.

I lavori della serie Inchiostri-Mamotii sono stati eseguiti durante e al ritorno da due viaggi, in Kenya e nelle Cina meridionale. Presentano quindi due influenze incrociate, quella dei paesaggi africani e quella della pittura cinese. Il supporto usato è invariabilmente la carta da acquarello della Cartiera Amatruda di Amalfi, mentre i colori sono di ogni tipo: inchiostro da penna stilografica per la sua tendenza a diluirsi nell’acqua, caffè, laterite sciolta nella colla vinilica.

I Mamotii* sono figure indistinte, che rimangono larvali e non hanno ancora raggiunto una forma articolata. Potrebbe trattarsi degli alti termitai visibili lungo la strada del lago Turkana, oppure delle sagome dei nomadi che percorrono quella savana, oppure di personaggi mitologici. Per lo più, a suggerire un possibile dialogo fra questi personaggi di natura diversa, in ogni inchiostro figurano almeno due forme.

Negli anni ’90 ho declinato questi disegni in forme sculturali, con il piombo fuso nel tegamino in cucina e colato nelle forme scavate nel mastice da vetraio, oppure con il silicone trasparente da idraulico. Ho anche usato giri di stoppini incerati (Kerzendocht) comprati nei negozi di articoli religiosi in Baviera.

*Il termine mamozio (à la napolitaine) mi viene da un uso fra amici, quando di qualcuno si voleva dire che era un “diverso”, un qualcosa di informe e indistinto ma pure presente, un pò come i monacielli che abitano le vecchie grandi case e gli hunchback inglesi e i gobbetti tedeschi (di cui parla Hannah Arendt nel suo saggio su Walter Benjamin), e quelli che mi sono permesso di ribattezzare Odradek, in un lavoro dal titolo La preoccupazione del padre di famiglia.
Pare che l’espressione venga dalla statua di un Mamotius, ritrovata a Pozzuoli su un sito soggetto al bradisismo, scultura tutta mutilata e forse corrosa dalle emanazioni sulfuree.

 

Asylum 2001

An installation and a performance in Naples, at the Albergo dei Poveri, for the first Day of the memory (January 2001), recorded by Leonardo di Costanzo (short version: 6’46”).

.
Performance realized by the libera mente theater company.
.
And a few images (for the related text, refer to
Asylum English (2001)
and Asylum. Morale d’une installation muséographique (2010)


.

Febbraio 2023: nota per i cortesi lettori italofoni.

Durante la preparazione dell’evento del 27 gennaio 2001, a partire dal luglio precedente, ho tenuto un Giornale.
In parallelo appuntavo in un Taccuino le riflessioni suscitatemi dall’esperienza vissuta e registravo in un Bollettino gli scambi epistolari di tipo amministrativo.
Feci di questi testi paralleli una stampa A4 su tre registri, con un diverso carattere tipografico per ogni sezione. Intendevo così proporre una lettura aleatoria e occasionale dell’insieme, che avevo intitolato Documenti napoletani. Ho perso questo montaggio, tanto nella versione cartacea che in quella digitale. Mi rimangono il diario e il taccuino. Trascrivo qui quest’ultimo.

Taccuino napoletano

 

Nuovi mostri (2023)

Nuove foto di siti costieri, le saline di Aigues Mortes o lo stagno di Thau, nel sud della Francia. Alcune riproduzioni dall’opera di Ulisse Aldrovandi (vedi il mio Histoires des monstres, 2021), neglette a una prima selezione. Trattasi ancora di mostri marini. Una quantità di “firme” al timbro inchiostrato di rosso, da me scavate nelle pietre saponarie riportate dalla Cina trent’anni fa. E, come quarant’anni fa, segni inintelligibili a matita o al pastello a cera, scritture improbabili. Il tutto ripassato col pennello intinto nel fondo di caffè e infine qualche schizzo d’inchiostro di china. Servire su un letto di alghe.


Nuovi mostri 01A, 2023, 30×42.
.


Nuovi mostri 02, 2023, 30×42.
.


Nuovi mostri 03A, 2023, 30×42.
.


Nuovi mostri 04, 2023, 30×42.
.


Nuovi mostri 05, 2023, 30×42.
.
New photos of coastal sites, the salt pans of Aigues Mortes or the Thau Lagoon, in the south of France. Some reproductions from the work of Ulysses Aldrovandi (see my Histoires des monstres, 2021), not included in a previous selection. The subject is once again sea monsters. A number of red-inked stamp ‘signatures’ I excavated from soapstones brought back from China thirty years ago. And, as forty years ago, unintelligible marks in pencil or wax crayon, improbable writings. All brushed over with a brush dipped in coffee grounds and finally a few splashes of Indian ink. Serve on a bed of seaweed.
.


Le monstre de Brignogan-Plage, 2023, 20×30.

.


Le monstre de Mèze 02,
2023, 20×30.
.


Le monstre du Gardon, 2023, 20×30.
.


Les monstres de Mèze, 2023, 20×30.
.

Nouvelles photos de sites côtiers, des salines d’Aigues Mortes ou de l’étang de Thau, dans le sud de la France. Quelques reproductions de l’œuvre d’Ulisse Aldrovandi (voir mes Histoires des monstres, 2021), négligées lors d’une première sélection. Ce sont toujours des monstres marins. J’ai réutilisé, en “signature”, des tampons creusés dans des pierres à savon ramenées de Chine il y a trente ans. Et, comme il y a quarante ans, des marques inintelligibles au crayon ou au crayon de cire, des écritures improbables. Éclabousser le tout avec un pinceau trempé dans du marc de café et enfin quelques garnitures à l’encre de Chine. Servir sur un lit d’algues.

 

 

 

Galatina giugno 1961 (2022-2023)

Questo è il grande giorno delle tarantate. Una volta l’anno esse scrollano il peso e il tormento del loro numero anonimo nella società e della privazione di diritti elementari, e possono recitare la loro disperazione davanti a una folla di spettatori.

I tarantati dicono di sentire la noia all’inizio del male, male che viene curato con le cadenze di una musica fortemente ritmata e continua, e con la danza della piccola taranta, la tarantella. Gli strumenti musicali di cura sono: violino, fisarmonica, tamburello. Il violinista fa il barbiere, il tamburellista è contadino, il suonatore di fisarmonica mette i morti sotto terra.

E il 28 giugno di ogni anno, sotto il sole, mentre i carri portano un suono cupo di solchi lacerati, di torrenti, pietra su pietra colore del fuoco, vanno le tarantate, e quelle che sono state liberate del male, nella cappella di San Paolo, con la speranza di ascoltare, dal forte labbro del Santo, una parola che annienti ogni forza malefica sulla croce di due pietre.


2022, Galatina 04, 20×30.

Giungono altre donne. La speranza di guarire si ripercuote sulla loro anima, ogni anno. Il morso, come il rimorso, è aspro da sottomettere.

Qui, il tarantismo comincia la sua morte. Interdetta dalla pietà cristiana, la musica la danza, disarticolata la disciplina del ritmo e della melodia, moltiplicate le possibilità di contagio di queste frane della psiche fra il formicolio delle ammalate, il tarantismo, nella cappella di San Paolo, è già nella sua parabola di crisi.

Quello che poteva sembrare oleografia o folklore entra ora nel campo della cura neurologica. Nell’evoluzione del mondo di oggi, quest’antica eredità del medioevo consuma ormai il suo ultimo tempo.

(Estratti dal commento di Salvatore Quasimodo per il documentario di Gianfranco Mingozzi, La Taranta (18′ 32”, 1962, musiche originali registrate da Diego Carpitella; fotografia di Ugo Piccone; consulenza di Ernesto de Martino).


.

.


2022, Galatina 09, 20×30.
.

La prima parte della scaletta presentata da Mingozzi, scrupolosamente rispettata da Quasimodo (da Gianfranco Mingozzi, La Taranta, Lecce 2009, p. 36).

* Per un’analisi del testo di Quasimodo vedi: Héloïse Moschetto, “Dall’esorcismo al trasumanar : le tarantolate di Salvatore Quasimodo”, Babel [web], 42, 2020.

** La scrittrice e fotografa Suzanne Doppelt si è ispirata al documentario di Mingozzi per il suo Meta donna (Paris, P.O.L, 2020).
.
Il titolo di questi lavori è Galatina. Il formato è 20×30 cm. I quadretti sono numerati nell’ordine, da 01 a 09.
La tecnica: screenshot stampati in UV su celluloide, tasselli di puzzle dipinti all’acrilico, carta topografica ritagliata.
.
Series completed June 28, 2022, at La Verrière, France.
.

Work resumed in March 2023, with the addition of six new pieces:


2023, Galatina 10, 20×30.
.

2023, Galatina 11, 20×30.
.

2023, Galatina 12, 20×30.
.

2023, Galatina 13, 20×30.
.

2023, Galatina 14, 20×30.
.


2023, Galatina 15, 20×30.

.

Der Reichstagssturm (2022)

A thesis on contemporary history.

I vuoti lasciati da un T-Rex dipinto di rosso fluorescente.
Gli Hostile Hopi che resistevano all’imperialismo americano, all’inizio del ventesimo secolo.
Un puzzle le cui tessere sono andate disperse. Un esperimento sull’andatura dei gibboni.
La presa del Reichstag da parte dell’Armata Rossa, in un ciclo pittorico celebrativo del Karlshorst Museum di Potsdam.

Les vides laissés par un T-Rex peint en rouge fluo.
Les Hostile Hopi qui résistent à l’impérialisme américain au début du 20e siècle.
Un puzzle dont les pièces ont été dispersées. Une expérience sur la démarche des gibbons.
La prise du Reichstag par l’Armée rouge, dans un cycle de peintures commémoratives au Karlshorst Museum de Potsdam.

The gaps left by a T-Rex painted in fluorescent red.
The Hostile Hopi resisting American imperialism, early 20th century.
A puzzle whose pieces have been scattered. An experiment on the gait of gibbons.
The taking of the Reichstag by the Red Army, in a commemorative painting cycle at the Karlshorst Museum in Potsdam.


.


Der Reichstagssturm 01, 2022, 22,5×30.
.

 


Der Reichstagssturm 02, 2022, 22,5×30.

.

 

Bello! Opere nuove? C’è spiegone?
SC

Ah no, òpiri d’arti sunnu!
Lo spiegone è che la Storia è complessa e confusa.
Comunque il tirannosauro a pezzi è l’impero sovietico, o forse anche il puzzle.
Il tentativo di rimettere insieme i pezzi si urta alla resistenza degli Hopi, oppure a quelle dei gibboni, che non vogliono stare al gioco.
E la visione della storia è imbrogliata da ogni elemento successivo, come un’archeologia all’incontrario.
E alla fine non ci si capisce niente ma forse c’è un bell’effetto pirotecnico.
SP

Keams Canyon, May 1896 (2021)

Un recente impegno, in risposta alla sollecitazione di un mio amico che lavora nel campo dell’educazione e mi chiedeva un lavoro sulla scolarizzazione nel secolo XIX.

Eccoti la mia idea. Penso a una serie di sei-otto lavori (formati 30×40 e 30×30) sui bambini Hopi alla scuola industriale di Keams Canyon nel 1896.
Come avrai visto dal mio testo sul sito (Hostile Hopi, italiano) la scolarizzazione era una tappa importante per l’assimilazione degli indiani d’America. Andando a scuola, non potevano più parlare la loro lingua, dovevano cambiare nome, vestirsi all’occidentale e naturalmente seguire il catechismo. La scuola era lontana dai villaggi quindi tornavano raramente a casa.
Gli Hopi finirono per dividersi in due fazioni, gli Hostile, che volevano rimanere sulla Mesa e continuare le pratiche tradizionali e che rifiutavano di mandare i figli a scuola; e i Friendlies, che accettavano la scuola e anche di andare ad abitare nelle casette nuove in pianura.
Nella primavera del 1894 quasi tutti resistettero all’attribuzione di lotti individuali e chiesero ai “Washington Chiefs” di continuare a coltivare in modo comunitario. La loro petizione non ebbe mai risposta ma la lottizzazione non funzionò.
Nel novembre di quell’anno intervenne l’esercito degli US per mettere i bambini a scuola in modo forzato, e diciannove padri di famiglia renitenti vennero imprigionati e deportati ad Alcatraz per un anno.
Alla fine la scissione ci fu davvero, nel 1906, quando il villaggio di Oraibi si divise fisicamente in due. I Friendlies rimasero a Oraibi e gli Hostile fondarono un nuovo villaggio, Hotevilla.
Nella primavera del 1896 lo storico dell’arte tedesco Aby Warburg visitò il villaggio di Oraibi, oltre alla scuola industriale di Keam’s Canyon. A Oraibi assistette a una danza rituale, la Hemis Kachina, che non era quella che fu poi il soggetto della sua famosa conferenza di Kreuzlingen (“Il rituale del serpente”, pubblicato in italiano in aut aut del Gennaio-aprile 1984).
Durante i suoi soggiorni presso gli Hopi Warburg non pare avere avuto conoscenza degli avvenimenti degli anni precedenti; in ogni modo non li menziona e sulla questione dell’educazione occidentale ha una posizione ambigua, come si può evincere dagli ultimi paragrafi della sua conferenza. Altri hanno già interpretato e preso posizione al riguardo. Ma è evidente che la sua superficiale adesione alla luminosità dell’insegnamento occidentale contraddice il suo pessimismo “leopardiano” rispetto alle conseguenze del progresso importato dalla modernità.
Per questa mia nuova serie, lavoro a strati.
Un primo strato è trasparente ed è la riproduzione di una foto fatta da Aby Warburg al Keams Canyon. Un secondo strato è la riproduzione della petizione comunitaria del marzo 1894, rivolta ai “Washington Chiefs” e firmata da ognuno con il disegno del suo totem, e la relativa spiegazione. Il terzo strato è la mia ripresa, grossolana e profana, di alcune di queste “firme-totem”, a mo’ di tatuaggio rosso fluorescente.
Esistono due altre foto di Warburg, fatte nella stessa occasione. Una rappresenta Thomas Keam davanti casa, l’altra il Canyon dove si trovava la scuola. Keam era un ex militare irlandese stabilitosi in Arizona, dove aveva aperto un emporio e fungeva da mediatore fra gli Hopi e il governo americano. Ma non penso di intervenire su queste ultime immagini, che mi paiono « fuori tema ».
Apporrò al disotto dei miei lavori le didascalie del libro da cui ho tratto le foto di Warburg (B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier.  Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998).
La questione che pone questa serie di lavori è certo speciale e non comparabile con quelle che voi educatori affrontate oggi. Dovevano i bambini Hopi essere mandati a scuola o dovevano essere lasciati alla loro comunità e alla loro cultura? Oppure era possibile una strada intermedia?
Apparentemente nell’America fra i due secoli questo non era possibile.

.


KC 01. Alunne Hopi con il loro insegnante, Mr. Neel, di fronte alla Moki (Hopi) Industrial School al Keam’s Canyon, Arizona, nel maggio 1896. Queste foto vennero scattate da Warburg al termine del suo soggiorno nel territorio Hopi.
.

KC 02. Alunne Hopi e alunne occidentali nel Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
 Le alunne della Scuola industriale Moki (Hopi) stazionano su una roccia; il gruppo è composto da bambine indiane, ad eccezione di una bambina occidentale (facilmente riconoscibile dall’abito bianco).
.

KC 03. Genitori Hopi che riportano i figli da scuola, Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
.

KC 04. Allievi Hopi della Industrial School di Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
I bambini indiani venivano vestiti in abiti occidentali. Warburg aveva chiesto loro di illustrare una storia per vedere se il pensiero simbolico continuava a vivere in popoli che non erano pienamente « civilizzati » dal punto di vista della civiltà occidentale. Questi ritratti erano intesi come documentazione del suo esperimento, il che potrebbe spiegare la posa «antropometrica» di queste fotografie.
.

K5 05. Allievo della Moki (Hopi) Industrial School a Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896. Per gli studenti della Industrial School, cappelli e vestiti erano parte dell’uniforme quotidiana: la scuola era in internato e si trovava a miglia di distanza dai loro villaggi.
.

KC 06. Allievi della Moki (Hopi) Industrial School. In questo doppio ritratto, il più grande dei due sembra estremamente consapevole. La mano appoggiata ai fianchi e lo sguardo puntato sul fotografo rivelano una fierezza non intaccata dagli abiti che gli sono stati imposti.
.

 

Below is my response to a request from my friend M., who asked to elaborate an art project on the subject of education in the 19th century. 

This is my proposal. Six works (30×40 cm and 30×30 cm) on Hopi children at the Keams Canyon Industrial School in 1896.
As you have noted in my recent text (Hostile Hopi, English), schooling was an important stage in the assimilation of Native Americans. On their way to school, they could no longer speak their language, they had to change their names, dress Western and of course follow the catechism. The school was far from the villages so they rarely returned home.
The Hopi ended up splitting into two factions, the “Hostiles, who wanted to remain on the Mesa and continue traditional practices and refused to send their children to school; and the “Friendlies », who accepted the school and even went to live in new houses on the plains.
In the spring of 1894 almost everyone resisted the attribution of individual plots and asked the “Washington Chiefs” to be allowed to cultivate them communally. Their petition was never answered, but for several reasons the government’s land allotment program did not work out.
In November of that year, the US army intervened to force the children into school, and nineteen defying fathers were imprisoned and deported to Alcatraz for one year.
In 1906, the split was exacerbated , when the village of Oraibi was divided into two. The “Friendlies”, remained in Oraibi while the “Hostiles” founded a new village, Hotevilla.
In the spring of 1896, German art historian Aby Warburg visited the village of Oraibi, as well as the industrial school at Keams Canyon. In Oraibi he attended a ritual dance, the Hemis Kachina, which was not the subject of his famous lecture in Kreuzlingen (“The Snake Dance”, published in Italian in aut aut, January-April 1984).
During his stays with the Hopi, Warburg does not appear to have been aware of the events of previous years; in any case he does not mention them, and on the question of Western education his position is ambiguous, as reflected in the final paragraphs of his conference. Others have examined this matter and taken position. But it is evident that his superficial adherence to the enlightened nature of Western teaching values contradicts his “Leopardian” pessimism regarding the consequences of any sort of progress resulting from modernity.
In my new series, I work in layers. A first layer is transparent and reproduces a photo taken by Aby Warburg at Keams Canyon. A second layer is a reproduction of the community petition of March 1894, addressed to the “Washington Chiefs” and signed by each member of the community with the design of his totem, and its explanation. The third layer is my crude imitation of some of these “totem-signatures”, resembling red fluorescent tattoos.

There are two other photos taken  by Warburg on the same occasion: one of Thomas Keam in front of his house, the other of the canyon where the school was located. Born in England, Keam served in the US army eventually settling in Arizona, where he operated a trading post and acted as a mediator between the Hopi and the US government. But I do not expect  to use these last two images, which I consider to be insufficiently relevant.
However, I will place underneath my artworks the captions published in the book containing Warburg’s photos (B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier.  Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998).
The question posed by this series of works is quite particular and unlike those that educators, like yourself, face today. Should the Hopi children have be forced  to attend faraway schools or should they have to be left in their community in contact with their culture? Or was an intermediate solution possible?

Apparently in late-nineteenth century America, this was not an option.

 

See also: https://slate.com/human-interest/2013/07/hopi-petition-asks-government-to-allow-communal-land-owning-to-continue.html

https://books.google.fr/books?id=EHrML-IMEfIC&pg=PA114&dq=hopi+moqui+allotments&hl=en&sa=X&ei=xkHfUbbkIcazyQHFvoHoDQ&redir_esc=y#v=onepage&q=hopi%20moqui%20allotments&f=false

 

 

 

 

Hostile Hopi (2017-2021)

Spuglia Hostile Hopi 02

Il testo che segue, se può interessare qualcuno, è la premessa a un lavoro che sto compiendo, l’intervento cioè su alcune fotografie scattate da Aby Warburg nella primavera del 1896, nel Nord-Est dell’Arizona (USA).*

Gli Hopi sono una tribù amerindiana stabilitasi all’incirca mille anni fa (chi dice nell’ottavo secolo, chi dice nel tredicesimo) nei territori desertici situati fra il Nuovo Messico, il Colorado e l’Arizona. Attualmente autogovernano una ridotta riserva all’interno della più vasta riserva Navajo. Abitano (abitavano) villaggi di case trogloditiche raggruppate su altipiani rocciosi, le mesa.
Il primo contatto degli Hopi con gli Occidentali risale al 1540, quando il conquistador Francisco Vàzquez de Coronado venne a sapere della loro esistenza e ne fece un primo censo. In seguito i conquistatori spagnoli intrapresero la loro conversione al cattolicesimo. Nel 1629 trenta frati francescani approdarono nel loro territorio.
Nel 1680 ebbe luogo la grande rivolta dei Pueblo e degli Hopi uniti, che gli spagnoli misero vent’anni a domare.
Alla fine di quel secolo l’unico villaggio che i missionari erano riusciti a convertire era quello di Awatowi. Nell’inverno 1700-1701 squadre scelte provenienti dagli altri villaggi Hopi attaccarono Awatowi. Tutti gli uomini furono uccisi, le donne e i bambini trasferiti negli altri villaggi, le case bruciate sino alle fondamenta. Gli spagnoli rinunciarono alla colonizzazione degli Hopi e la loro presenza divenne sporadica.
Il primo contatto con i nuovi occupanti, gli Stati Uniti d’America, avvenne nel 1850 (due anni dopo la conclusione della guerra in cui gli USA incorporarono il 55% del territorio messicano).
Nel 1875 Loololma (o Lololomai secondo altre dizioni), capo del villaggio di Oraibi (considerato il più tradizionale fra gli insediamenti Hopi) fu condotto a Washington per incontrarvi il presidente degli Stati Uniti. Ne rientrò convinto della necessità di far costruire scuole, per poter accedere al livello di civiltà degli americani ed essere capaci di produrre grandi quantità di granturco, l’alimento base degli Hopi.
Nel 1887 fu edificata una prima scuola al Keams Canyon. Rappresentava una vera impresa di conversione e, in seguito a una forma di resistenza passiva, accolse pochi alunni (1); finché nel 1890 truppe federali, sotto la minaccia dell’arresto dei loro genitori, non vi condussero a forza i bambini.
Nel 1893 fu aperta una nuova scuola a Oraibi. L’anno successivo un gruppo di genitori rifiutò di mandarvi i figli. L’esercito americano intervenne, arrestò diciannove padri e li deportò nella prigione di Alcatraz, dove rimasero detenuti per diversi mesi (novembre 1894-settembre 1895) (2).
Nel 1906 infine, in conseguenza di conflitti intercomunitari che si focalizzavano sulla questione dell’educazione oltre che su quella del possesso delle terre, il villaggio si scisse: i “collaboratori” (“friendlies”) rimasero a Oraibi; mentre i “resistenti (“hostiles”), sotto la guida di Lomahongyoma, capo del clan del Ragno, fondarono un nuovo insediamento, Hotevilla.

Nell’inverno 1895-1896 Aby Warburg, dopo un soggiorno allo Smithsonian Institute di Washington, visita diversi villaggi amerindiani del Nuovo Messico e assiste ad alcune cerimonie (ma non alla danza dei Serpenti). Da Albuquerque va a Laguna, poi ad Acoma; a San Ildefonso vede la danza delle Antilopi. A fine aprile 1896, dopo un soggiorno in California, è di ritorno nei territori Hopi dell’Arizona. Dopo due giorni di viaggio in calesse nel deserto, arriva al Keams Canyon e di lì raggiunge Walpi e Oraibi. In quest’ultimo luogo assiste alla danza humiskatcina.
Quindi Warburg si trova a Oraibi al più tardi sette mesi dopo il rilascio dei diciannove “hostile” dall’isola di Alcatraz. Se nel resoconto del suo viaggio (la famosa conferenza del 25 aprile 1923 a Kreuzlingen) (3) non fa menzione di questo episodio, sembra difficile che non ne sia venuto a conoscenza. E, se tutto il suo testo gira intorno alla questione del conflitto fra “l’anima” Hopi e la cultura occidentale e l’aspetto dell’educazione vi è più volte toccato, egli non pare essere stato al corrente dei metodi di educazione forzata praticati dal governo federale statunitense. Egli cita solo la difficoltà con cui il capo del villaggio di Acoma riesce a far entrare in chiesa i riluttanti Indianer.
Infine, la figura 27 del “PowerPoint” di Kreuzlingen mostra un piccolo gruppo di scolari “graziosamente abbigliati e coi grembiulini”, che non credono più ai “demoni pagani”. Ma a quest’osservazione, apparentemente ironica, segue un’affermazione lapidaria: “I bambini stanno dinnanzi a una caverna. Condurli alla luce, è il compito non solo della scuola americana, bensì dell’umanità in generale”.
.
Le prime quattro foto che seguono illustrano le differenti fasi dell’arresto e dell’internamento dei diciannove genitori Hopi (fra cui si riconosce, in posizione centrale, il capo della fazione “resistente”, Lomahongyoma). Le due successive sono state scattate con l’apparecchio Kodak di Warburg: vi si può riconoscere il maestro Neel con due alunne e i bambini di fronte alla grotta da cui la civiltà occidentale si adopera ad estrarli.

.
Nota gennaio 2023: questa piccola ricerca ha dato luogo a una serie di lavori, in cui sovrapponevo le foto fatte da Warburg a Oraibi, le pagine di una petizione dei capi Hopi per la terra in comune e i disegni da me imitati delle loro firme: Keams Canyon 1896.
.

(1) “The Keams Canyon School was organized to teach the Hopi youth the ways of European-American civilization. It forced them to use English and give up their traditional ways. The children were made to abandon their tribal identity and completely take on European-American culture. They received haircuts, new clothes, took on Anglo names, and learned English. The boys learned farming and carpentry skills, while the girls were taught ironing, sewing and “civilized” dining. The school also reinforced European-American religions.”
Questa citazione, così come le informazioni che precedono e buona parte di quelle che seguono, è tratta dall’articolo di wikipedia “en.wikipedia.org/wiki/Hopi”.

(2) Su questa vicenda e per le relative quattro fotografie da me riprodotte vedi il sito web del parco nazionale di Alcatraz: www.nps.gov/alca/learn/historyculture/hopi-prisoners-on-the-rock.htm.
Vedi anche: S. Rushfort, S. Upham, A Hopi social History, Austin, Texas, 1992; M. S. Gilbert, Education beyond the Mesas: Hopi Students at Sherman Institute, 1902-1929, Lincoln, Nebraska, 2010; H. C. James, Pages from Hopi History, Tucson, Arizona, 1974; Peter M. Whiteley, Deliberate Acts, Changing Hopi Culture Through the Oraibi Split, The University of Arizona Press, Tucson, 1988.

(3) A. Warburg, “Il rituale del serpente”, aut aut, 199-200, gennaio-aprile 1984, pp. 17-39; vedi anche il fondamentale B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier. Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998. E senza dimenticare Aby M. Warburg, Images from the region of the Pueblo Indians of North America, Translated with an interpretive essay by Michael P. Steinberg, Ithaca and London, 1995. Non male il David Freedberg, “Pathos at Oraibi: What Warburg did not see“, in Lo sguardo di Giano: Aby Warburg fra tempo e memoria, ed. C. Cieri Via e P. Montani, Torino 2004), pp. 569-611.

.

hopi-1

hopi-3

hopi-5

hopi-6
I diciannove “renitenti” ad Alcatraz.

.

warburg 01

warburg 02
Bambini scolarizzati, con il maestro e davanti alla grotta di cui alla Fig. 27 del Rituale del serpente. Foto di Warburg (1896). Da B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier. Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998.
.

Petizione per la terra comune, marzo 1894.

.

I simboli dei capi religiosi.

 


2021, Keams Canyon 00, 40×30. Dove utilizzo le due immagini precedenti.

.

Le pagine finali della conferenza di Kreuzlingen (1923), in “Il rituale del serpente”,  aut aut, Gennaio-aprile 1984.

.
E due foto più tardive (1905):


(Southwest Museum Collection, Los Angeles, CA, USA)

 

 

 

 

Elementi biografici

.

Mostre personali   (*Catalogo)

1985 Falsapartenza, Galerie ADEAS, Strasbourg

1987 A sea-change, Centro Ellisse, Naples

1988 Ash-boxes, Galerie FNAC, Strasbourg

         Galerie Escapade, Paris

1990 Small Talks, Instituto Cultural de Macau, Macao *

  1.   Kein Marternbild. Institut culturel français, Naples

1992 Leçons d’anatomie, Galerie FNAC, Paris *

        Museo, Galerie Alternance, Strasbourg *

1993 Par les yeux du langage, Atelier du chocolat, Marseille *

         Aschenglorie, Lo Studio, Rome

         Über die Schädelnerven, Galerie Alternance, Strasbourg

1994 Figure humaine, Espace Lézard, Colmar

         Hortus deliciarum, Le Parvi, Paris

         Music on Bones, Galeria 21, Sankt Petersburg

         Actes, Tribunal administratif, Strasbourg

1995 Abstracts of Anamnesis, Onassis Center, New York *

         Histoire de l’oeil, Lo Studio, Rome *

         L’image de l’autre, Galerie Artem, Quimper, France *

         Trönur, Galerie Alternance, Strasbourg

1996 Still Lives, Lo Studio, Rome *

1997 Kópeskönyvek , Vizivarosi Galeria, Budapest

1998 3bisF, Aix en Provence

         Centre d’Art Albert Chanot, Clamart, France

         Stationen, Palais Yalta, Francoforte *

1999 Iconografie transitorie, Lo Studio, Rome*

         Bilder, Fotogalerie Wien *

         Deutsche Menschen, Maison Heinrich Heine, Paris

2000 Project: Personal monuments, Overgaden, Copenhagen

         A Parachute, Jan Van Eyck Academie, Maastricht

2001 Museum d’histoire industrielle, Société industrielle, Sainte Marie aux Mines

2003 La philosophie dans le boudoir, 3A, Roma

         Sei lezioni di panneggio, Galleria Del Borgo, Rome*

2004 Six leçons de drapé, Moments d’art, Paris

            Filmini, Borgotsunami, Rome

            Antiquarium, Galleria Del Borgo, Rome

2005 Inventarium, Fnac Montparnasse, Paris*

2006 Futuro postumo, Fortezza di Montepulciano

         Quattro pose statuarie, Lo Studio, Rome*

2007 Travaux 2001-2007, atelier Burger, Sainte Marie aux Mines

2008 Ex voto, Galerie Atypic, Toulouse

2009 Time drip, galleria s.t., Rome

         L’Illustrazione Italiana, galerie EOF, Paris

2010 Identifications, galerie Sit down, Paris

         Identifications, galerie Le troisième oeil, Bordeaux

2011 L’art de la copie, Salle d’exposition du lycée Daudet, Nîmes

         SP O tempora, galerie Sit down, Paris

2012 Rupestri, Alessandro Carbone Arte, Roma

         Rupestres, galerie Le troisième oeil, Bordeaux

2013 Il parco dei mostri e l’ombra del luogo, Atelier Morbiducci, Rome

2014 Le jardin des monstres, galerie Sit down, Paris

         Giovannetti fluo, ESPE, Nîmes

         Robinson a Rosignano, Atelier Morbiducci, Rome

2015 Eden, galerie Flair, Arles

         62 rue Vincent Faita : une histoire, ESPE, Nîmes

         Inventaire, galeries Sit down et Huit, Arles

2016 Land paintings, Atypic, Toulouse

2017 Des intrus chez les étrusques, galerie Sit down, Paris

2018 Transit, Etant donné, Nîmes

         Return to Eden, FLAIR galerie, Arles

2020  Millenovecento, Sit down, Paris

2021 Millenovecento, Troisième oeil, Bordeaux
.

Mostre di gruppo

1987 Masques d’artistes, La Malmaison, Cannes

1989 Délire de livres, Centre culturel, Boulogne-Billancourt

1993 Im Licht der Schatten, Siegburg, R.F.A.

         Une autre mémoire, Mai de la Photo, Reims

1994 Ecrit matière d’artistes, Conseil général, Digne, Francia

1995 Contretemps, Galerie Kiron, Parigi

         Printemps de Cahors, Cahors, Francia

         Seconda Triennale di fotografia creativa, Jyväskylä, Finlandia

         Ecrits…. Montpellier

1996 Biennale, San Pietroburgo

         Mois Off de la Photo, Parigi

1997 The Shadow, Magyar Fotográfiai Múzeum, Kecskémet, Ungheria

         Groupe Novembre, Artsenal II, Parigi

1999 L’image en mémoire, Maison des Arts, Bordeaux

         Groupe Novembre, Artsenal I, Parigi

2000 Models of resistance, Overgaden, Copenhagen

         Fotoplastiken, Galerie im Heppächer, Esslingen, Germania

2001 The air palpably thickens…, Hedda, Maastricht

2002 La fotografia fra storia e poesia, Galleria Le stelline, Milano

2006 Une autre photographie…, Château de Saint Ouen

         Traversée d’art, Saint-Ouen

            Déjà, Espaces Commines, Paris

2007 Intrecci, Castello normanno, Acicastello, Sicilia

         La trasparenza, L’impronta, Roma

         Dix ans de photographie plasticienne, Galerie 89, Parigi

2008 Attesa, Galerie Frédéric Moisan, Parigi

         La chute ou la lutte, Kaplan’s Project, Napoli

2009 Paris-Séoul, groupe Novembre, Seoul

2012 A quoi rêvent-ils?, galerie Sit down, Parigi

         Le temps des lucioles, Hôtel de Sauroy, Parigi

         Ubu Styx, galerie 17, Parigi

2013 L’intonation de la lucidité, In extremis, Strasburgo

2015 Play Vallée, C’est dans la vallée, Sainte Marie aux Mines

2016 Histoire naturelle, La Frontiera, Parigi

         Omnibus circus, Hotel de Sauroy, Parigi

2017 InCadaquès fotofestival, Spagna

2018 Fotolimo festival, Cerbère-Port Bou

         Confronto su Castro, galleria AOC58, Roma
.

Cura di mostre

Via dalle immagini – Leaving Pictures, Roma 1999

Memoria e storia. La rappresentazione dello sterminio degli ebrei, Napoli 2001

Promemoria, palazzo Lercari, Taggia (Imperia), 2005
.

Installazioni in situ

Laralia, Dale i Sunnfjord, Norvegia, 1999

La storia, Albergo dei poveri, Napoli, 2001

Impalcatura, Teatro Festival, Parma, 2002

Arredamento, Albergo dei poveri, Napoli, 2002

La preoccupazione del padre di famiglia, Festival di Malborghetto, 2004

Memoria e storia, Albergo del Purgatorio, Naples, 2001

Glances across Europe, dieci steli in altrettante località europee, 2002-04

Postcard 02-03, festival Esterni, Terni, 2006

Wallflowers, 53 Nôtre Dame, Nîmes, 2012

Mémoire de l’immigration, Collège de Manduel, Francia, 2013

Les Justes du Gard, collège Révolution, Nîmes, 2014

Aux professeurs et anciens élèves…, Lycée Daudet, Nîmes, 2014

Dante all’università, Università per stranieri di Siena, 2017
.

Collezioni e commesse pubbliche

Galeries Photo FNAC, Parigi

Alvar Aalto Museo, Jyväskylä, Finlandia

Fonds National d’Art Contemporain, Parigi

Service ophtalmologique-pédiatrique, Hôtel-Dieu, Parigi

Comune di Fjaler, Norvegia

Artothèque, Strasburgo

ESPE, Nîmes
.

Scenografie

2001: The Conqueror Worm, Teatro Festival, Parma

2004: Passion érotique des étoffes chez la femme, Théâtre des deux Rives, Rouen
.

Residenze e borse di studio

1999: Nordisk Kunstnarsenter, Dale i Sunnfjord, Norvegia

1999-2001: Jan Van Eyck Academie, Maastricht, Paesi Bassi

2005-2006: Mains d’oeuvres, Saint-Ouen, Francia

2013: Collège de Manduel, Francia
.

Cortometraggi video

1991   Museo, 03:30, con Jean-Baptiste Mathieu

1999   Laralia, 03:40, con Nikolaus Lingström

Un échange public, 07:53

An etiquette lesson, 05:50

Ou bien… ou bien, 05:21

2001   Asylum, 07:51, (con Leonardo Di Costanzo)

            Leaving Pictures, 14:40

            Travelling Fiumicino, 18:00

            Coliseum Pantomime, 08: 55 (versione corta: 05:00)

2006 Ex voto 14:00
.

Illustrazioni, copertine, interventi grafici

Marco Rossi-Doria, Terra di nessuno, Napoli 1984, illustrazioni

Kat Onoma, Cupid, album 33 giri, 1986, copertina

VV, Giallo Napoli, Strasbourg 1987, disegni

André Bernold, Cahier de conversation, Strasbourg 1988, illustrazioni e grafica

Quelques poètes en mars, Paris 1991, illustrazioni e copertina

”Gloses”, Détail, n. 3, Paris 1991-92, disegni

Christopher Fynsk, Language and relation, Stanford 1996, copertina

VV, Jardins d’hiver. Littérature et photographie, Paris 1997, copertina

Deltio, n. 11, Atene 1997, copertina

Crossings, n. 3, Binghamton 1999, copertina

Communications, n. 70, Paris 2000, copertina

Ecrire court, Strasbourg 2001, copertina

Vacarme, Paris, n. 22, Inverno 2003, illustrazioni

Vacarme, Paris, n. 23, Primavera 2003, illustrazioni

Theodor W. Adorno, Can one live after Auschwitz? Stanford 2003, copertina

A propos de Rodolphe Burger, DVD Séquence Fnac, Paris 2004, copertina

Piero Calamandrei, Futuro postumo, Montepulciano 2004, copertina e illustrazioni

Il Manifesto, calendario 2006, copertina

Piero Calamandrei, La lapide della discordia, Montepulciano 2006, copertina

Les Carnets du paysages, nn. 13 et 14, 2007, p. 204, illustrazione

Il museo verso una nuova identità, convegno, Roma 2007, manifesto

Nimes sources adultes, revue numérique, nn. 5 e 6, 2009, immagini con testo

Ecrire l’histoire, n. 5, Parigi 2010, copertina

Wilderatlas, collezione Orteluque n. 14, Venusdailleurs, Nîmes 2013, cinque stampe

L’évolution psychiatrique, avril-juin 2013, copertina

Play Kat Onoma, 2015, Cover art e manifesto,

David Wills, Inanimation, Minnesota University Press, 2015, copertina

Les mises en scène du divers. OIC, Université laval, Quebec, novembre 2018
.

Conferenze e presentazioni

Tradurre e imitare, Escola das Belas Artes, Macao, 1990

Telegrams, Binghamton, State University, USA, 1993

Sauver les phénomènes, Ecole Normale Supérieure, Paris 1994

Abstracts of abstracts of Anamnesis, Onassis Center, New York 1995

Ecole des Beaux Arts, Aix en Provence, 1997

Asylum, JVE Academie, Maastricht, 2001

A-museum, JVE Academie, Maastricht, 2001

Un museo della memoria?, Università di Urbino, 2001

Phantombilder, Università Di Tella, Buenos Aires, 2012 e Aberdeen (GB), 2013

Transient Monuments, Princeton, 2014

In the Underbrush, Providence, 2015

Les visages, les images et leur vérité, Ecole des arts décoratifs, Strasbourg, 2015

Tirages limités, Galerie From point to point, Nîmes, 2016

Findlinge. Images trouvées, images adoptées, Museo della marionetta, Palermo, 2019
.

 Pubblicazioni a carattere storico-artistico

”Ainda sobre a pintura macaense”, Comercio de Macau, 2-XI-1991

Contre l’image, à travers l’image, catalogo mostra Colmar 1994

”Vie de Gustav Ammassallik”, Révue de littérature générale, Paris,1996, pp.

”Abstracts of Abstracts of Anamnesis”, Any, New York 1996, n. 15, pp. 55-57

”L’art de la radiographie”, Vacarme, n. 8, Paris1999, pp. 61-62

Via dalle immagini/Leaving Pictures, Salerno 1999 (cura e saggio introduttivo)

”Translator’s scratching”, Issues in contemporary culture…, Maastricht 2000, n. 10-11, pp. 79-91

”Digressions of the Resistance”, Hype_text, Maastricht 2000

”Costruzione di un paracadute”, Lo sciacallo.com, n. 2, estate 2000

“Displaced Translations”, Issues in contemporary culture…, Maastricht 2001, n. 12, pp. 77-82

“1930 circa”, Vacarme, n. 23, Paris 2003, pp. 101-103

“Traduzioni trasparenti”, Testo a fronte, Milano, 2003, pp.

“Excursus”, Vacarme, n. 25, Paris 2003, pp. 69-75

“Des errances croisées”, Vacarme, n. 30, Paris 2004, pp. 114-117

“Rencontres imaginées”, L’île de Batz, n. 117, 2005, p. 8

“Asylum. Morale d’une installation muséographique”, Ecrire l’histoire,n. 5, Paris 2010

“Interpretare storia e natura attraverso l’immagine”, About art on line, gennaio 2019

“Images trouvées, images adoptées”, AM, Antropologia museale, n. 43, Palermo, 2019
.

Periodici e opuscoli autoprodotti

Forum, rivista dattiloscritta, quindici numeri fra il 1983 e il 1999

Monsieur B, di André Bernold, con Philippe Poirier, Strasburgo 1986

Poesie di Marco Rossi-Doria, con Philippe Poirier, Strasburgo 1987

Personal Monuments, Copenhagen 2000

Collecting Figures, Roma 2001

Rendiconto, Roma 2002

Sur ses propres pas, Parigi 2002

Libretto, Praiano 2002

Quindici ritratti, Praiano 2002

Divers matériaux, Parigi 2002

Asylon, Roma 2002

Le intrecciate erranze, Feuilleton 01 e 02, Piano di Sorrento 2003

Macchine parlanti. 1930 circa, Parigi 2003

La filosofia nel boudoir, Roma 2003

Quatre thèses sur l’esthétique du fascisme, Parigi 2003

Scritture ceramiche, Salerno 2005 (grafica: Menabò)

In Tuscia, Anabasis, Etruscan Places, Sur une traduction, edizioni a tiratura limitata, 2016

Ruins in the Forest, Transit, edizioni a tiratura limitata, 2017
.

Pubblicazioni a carattere letterario o saggistico

”Un’anima del purgatorio”, Linea d’ombra, Milano,n.33, dic.1988, pp.82-83

Hours. Quattro poesie, Nairobi 1990

”Une vie. Nana Frasina”, Vacarme, n. 12, Paris 2000, pp. 98-100

“Builders of Monuments”, Mediamatic, n. 10, pp. 3-5, Amsterdam 2001

“La grande mêlée”, In extremis, Strasbourg, dicembre 2001

“Un été au camp d’internement de Saint Nicolas de Campagnac”, Mediapart, 15-06-2016
.

Pubblicazioni a carattere storiografico

“Uno sciopero dei braccianti del suburbio romano nel settembre 1906”, Agricoltura e lotta di classe, Roma, Giugno 1978, pp. 110-117

”Operai e contadini nella grande guerra”, Quaderni storici, 40, Ancona 1979, pp. 364-365

”Enti ‘inutili’ e storia sociale del Novecento”, Quaderni storici, 41, Ancona 1979, pp. 782-786

”Le scuole per i contadini dell’Agro romano”, Roma 1911, Roma 1980, pp.199-208

”Conflittualità, controllo , mediazione in un quartiere di Roma intorno al 1848”, Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso, Roma 1983-84, VII, pp. 225-244

“Pouvoirs officiels et ordre coutumier : les “Caporioni” à Rome au XIXe siècle”, in: AA.VV., Maintien de l’ordre et polices en France et en Europe au XIXe siècle, Paris 1987, pp. 301-308
.

Articoli critici su S. P.

Pierre Alféri, ”Aschenglorie”, in catalogo della mostra Par les yeux du langage, Marseille 1993

Philippe Lacoue-Labarthe, ”Museo”, Bloc-Notes, Bellinzona, Svizzera, n.28-29, 1993, pp. 53-57

Martine Arnault, ”Puglia, Le Parvi”, Cimaise, n.229, Paris 1994, p.61

Christopher Fynsk, ”Anonymous figures”, catalogo Abstracts of Anamnesis, New York 1995

Régis Durand, ”S.P.”, in catalogo del Printemps de Cahors, 1995

Jaques Derrida, ”Sauver le phénomènes”, Contretemps, n.1, Paris 1995, pp. 14-25

Thomas Levin, “On the Work of Salvatore Puglia,” BBC World Service, April 8, 1995

N.Cardano, ”Still Lives”, catalogo, Lo Studio, Roma 1996

Eduardo Cadava, ”And the image begins to disappear”, Issues in contemporary culture and aesthetics, Maastricht 2000, n. 10-11, pp. 284-285

C.Fynsk, ”An Art of the Possible”, in Infant Figures, Stanford 2000, pp. 147-164

Elly Stegeman, ”Verlichting”, Metropolis M, n. 4, Amsterdam 2000, p. ?

Dumon-Josset, “Passé composé”, Epok, Paris, n.53, février-mars 2005, p. 83

VV., Exposition Salvatore Puglia, hop!stacle, Paris, n. 1, juin 2005, p. 3

Simonetta Sergiacomi, “Le scritture ceramiche di S P”, Il Giardino di Adone, Roma, n. 10, 2007

Jean-Louis Poitevin, “Le geste de superposer”, Catalogue Groupe Novembre, Paris-Séoul, 2009

Zoran Janic, “Shadows and Ruines”, Lamed-E, n. 5, Winter 2009, Netanya, Israel, pp. 12-16

Daniela Goeller, “Gulliver à Lavéra”, TK-21, agosto 2012 (Internet)

Paola L. Cortes Rocca, “La lengua de la imagen”, Perfil, Buenos Aires, 23-12-2012

Serani, Le jardin des monstres, http://www.tk-21.com/TK-21-LaRevue-no-31-43#to_3

G. Carsoux, “Le jardin des monstres”, video, Arte, 2 mn 46 s, marzo 2014

Nathalie Gallon, Arles : “Eden de S.P. à la galerie Flair, L’Oeil de la photographie, 21-04-2015

Eric Karsenty, “Inventaire”, Fisheye magazine, 10-IX-2015

Nathalie Gallon, De l’épaisseur mémorielle, Association internationale des critiques d’art, 2018

Once upon a time, we were fully in Europe, Conversation with Zoran Janić, Antidot, 2019
.

Testi critici di accompagnamento a mostre personali

André Bernold, Rodolphe Burger, Falsapartenza, Strasbourg 1985

André Bernold, Ariane Chottin, Rodolphe Burger, Festina lente, Paris 1986

Régis Durand, ”S.P.: un temps revêtu de plomb”, Leçons d’anatomie, Paris 1992

Daniel Loayza, Stèles mobiles, Paris 1992

Nicoletta Cardano, ”A futura memoria…”, Aschenglorie, Rome 1993

Ariane Chottin, Hortus deliciarum, Paris 1994

Olivier Haener, Music on Bones, Sankt Petersburg 1994

Tom Levine, Abstracts of Anamnesis, New York 1995

Staffan Bengston, Actes, Strasbourg 1994

Katalina Timar, Kópeskönyvek, Budapest 1997

Nicole Lapierre, Laralia, Dale, Norge 1999

Rubén de la Nuez, Lapidarium, Bruxelles 2001

Rodolphe Burger, Museum d’Histoire Industrielle, Sainte Marie aux Mines, 2001

Daniel Loayza, Inventarium, Paris 2005

Daniel Loayza, E. S P. (exposition Ex voto), Paris 2006

Jean-Louis Poitevin, Identifications, galerie Sit down, Paris 2010

Daniel Loayza, O tempora…, galerie Sit down, Paris 2011

Francis Rousseau, Eden, galerie Flair, Arles 2015

Laura Serani, L’art de l’histoire, galerie Huit, Arles 2015

Nicole Lapierre, L’art des mémoires mêlées, galerie Sit down, Paris 2017

Elisabeth Couturier, Return to Eden, galerie Flair, Arles 2018
.

Articoli di stampa (scelta)

Gargiulo, ”Tra arazzi e inchiostri”, Il Mattino, Napoli, 18-XI-1987

F.M., ”S.P.: opere su carta”, Giorno e notte, n.21, Napoli, dicembre1988

Journal de Macao, février 1990 (in cinese)

J.C., ”Le “Museo” de Puglia”, Dernières Nouvelles d’Alsace, 10-XII-1992

Yrhne, ”Le temps blanc”, Taktik, Marseille, n.216, febbraio 1993

Hartmann, ”S.P.: un passé translucide et plombé…”, D. N.A., 7-I-1994

”Un imaginaire du passé”, L’Alsace, 9-I-1994

T.S., ”S.P.: de l’invisible au lisible”, D.N.A., Colmar,11-I-1994

Sod. Inf., “Inniostrazija….”, Nievskija Vremija, Saint Pétersbourg, 2-VIII-1994

Hartmann, ”S.P. se souvient des hommes”, D.N.A., Strasbourg, 18-I-1995

Raguz, ”S.P. avec “Actes””, Hébdoscope, Strasbourg, 18-I-1995

Verna, ”Images à la recherche du temps perdu”, La Marseillaise, 21-V-1995

Morvan, ”Images de l’autre: les belles infidèles”, Ouest-France, 18-IX-1995

DI GE., ”Le teche da museo di Puglia”, Il manifesto, Roma, 9-I-1997

Perfetti, ”S.P., Studio Bodoni”, Next, Roma, n.38, primavera 1997

W.B., ”Zerfallende Bilder in Palais Jalta”, Frankfurter Rundschau, 8-XII-98

C.A. Bucci, ”Il fascino caduco delle iconografie transitorie”, L’Unità, Roma, 2-III-99

Cestelli Guidi, ”L’arte incontra la storia”, Il manifesto, 9-III-99

Sele, ”Inspirierte av norske torvtak”, Firda, Norvegia, 26-07-1999

Hagoort, ”Magere man lost op in korrelig beeld”, Volkskrant, Amsterdam, 26-05-00

Mostbacher-Dix, ”Der Skulptur mit der Kamera auf der Spur”, Stuttgarter Zeitung, 27-06-00

“Des corps et des notes“, D.N.A., 21-09-01

Ritzenthaler, “Les signes de S.P.”, L’Alsace, 22-09-01

“Une nouvelle oeuvre au jardin Georges-Delaselle”, Ouest-France, 01-11-04

“Inventarium”, Metro, Paris, 06-04-05

Di Pietro, D. Monteforte, “Città unite tra immagini e suoni”, Il Giornale dell’Umbria, 22-09-06

Di Ge, “Puglia, oltre le formelle”, Il Manifesto, 29-11-06

“Dans les archives de Salvatore Puglia”, L’Alsace, 01-06-07

“Paris, Salvatore Puglia”, Azart Photo, Paris, janvier-mars 2010

C., “Sans autorisation”, Télérama sortir n. 3137, 24-02-10

“Identifications”, Officiel des spectacles, Paris, 24-02-10

Maisonneuve, “La mémoire, les histoires de S P …”, Sud-Ouest, 28-10-2010

Hartmann, “La singularité par trois”, Dernières Nouvelles d’Alsace, 15-03-2013

“Quand l’art fait surgir la mémoire”, Midi Libre, Nîmes, 03-06-2013

https://www.artcotedazur.fr/artistes,181/peinture,319/salvatore-puglia,9627.html

T. Gaillac, “École normale de Nîmes : la boîte à souvenirs”, Midi Libre, Nîmes, 05-05-2015

Fabre, “S.P. : une histoire de l’école normale de Nîmes”, La gazette, Nîmes, 07-05-2015

Anne-Frédérique Fer, Des intrus chez les Etrusques, Fineartfrance, settembre 2017

https://www.aboutartonline.com/2018/10/21/una-mostra-e-un-volume-alla-riscoperta-dellalta-tuscia-laziale-tra-arte-e-architettura/

.

Millenovecento (2018-2021)

Below are works from a new series on the Ex voto theme, featuring red fluorescent shapes painted on paper documents. The subject is, plainly, “my” XXth Century. The Ex voto series was created and exhibited from 2004 to 2006. This new series is photography based: a black and white image printed directly on glass is superimposed on a “re-painted” found paper.
.

2017 Civiltà romana 06 30x30

2019 Ara Poliphili 02 20x30

 

2019 Cranial nerves 02 30x40

.
Millenovecento, installation in progress (120×160 cm), October 2019:
Millenovecento parziale

Nella mia installazione del 2006, Ex voto, intervenivo con forme di colore sui miei propri disegni, così come su documenti originali trovati negli archivi e nei mercatini di quartiere. Il riferimento evidente di questo lavoro erano i tanti muri delle chiese italiane coperti di quadretti o di formelle di parti del corpo in argento. Nel mio caso, non si trattava tanto di rendere grazie a un salvatore intervento divino, quanto di presentare una parodia laica di questi memoriali.

La struttura a mosaico (o a « quadreria ») dell’installazione affermava che ogni pezzo, pur essendo unico e insostituibile, non poteva avere senso se non nel contesto di quelli che lo circondavano. La cornice di piombo, che costruivo nel concepire l’immagine, costituiva un tutt’uno con l‘immagine presentata.

Una dozzina di anni dopo il compimento di quel lavoro, ne presento una “ripresa”, a base fotografica stavolta. E stavolta l’installazione è più decisamente orientata sulla storia, la nostra comune storia intrecciata alla mia biografia. In questo senso “storicizzo” me stesso in quanto uomo che ha vissuto la maggior parte della sua vita nel secolo passato.

Non c’è una gerarchia delle immagini né per pregnanza né per qualità. A buone stampe analogiche di mie foto accosto ritagli di giornale, fotocopie, fotografie da archivi privati. A volte l’immagine è riprodotta su vetro e sovrapposta a documenti cartacei, altre volte è la fotografia su carta che fa da sfondo a un testo o a un grafico riprodotto su vetro.

Ogni volta è presente un passaggio di colore, un rosso luminescente, che crea uno sfalsamento della visione e che è, a tutt’oggi, un po’ la mia firma.

Quest’installazione di un centinaio di pezzi sarà doppiamente storica: difatti debbo interrompere il mio ventennale stile di lavoro. La ditta UCIC di Asti è recentemente fallita, ventiquattro fra suoi ventisei addetti si trovano in disoccupazione, e né io né i miei amici italiani riusciamo più a trovare, in qualche fondo di magazzino, l’insostituibile Lumen Rosso 26.

2019 Z Lumen


Millenovecento, full installation, March 2021.
.


The installation at the Gallery Sit down, Paris, October 2020-January 2021.


At the Gallery Troisième oeil, Bordeaux, March-May 2021.
.

Here’s the artist’s comment on each piece:
Millenovecento 01-120 and Millenovecento 121-156.

In my 2006 installation, “Ex-voto“, I intervened with color shapes on my drawings, as well as on original documents found in the archives and in the neighborhood markets. The clear reference of this work were the walls of the Italian churches covered with small squares or panels of silver body parts. In my case, it was not so much a matter of giving thanks to a savior divine intervention, but of presenting a secular onthese memorials. The mosaic structura of the installation states that each piece, unique and irreplaceable, could not have meaning except in the context of those around it. The lead frame, which I built in conceiving the image, was one with the image presented. A dozen years after the completion of this work, I present a «shot», based on photography. This time the installation is more decidedly history-oriented, our common history intertwined with my biography. In this sense, I «historicize» myself as a man who lived most of his life in the past century. There is no hierarchy of images neither by the subtance nor by the quality. A good analogue prints of my photos alongside newspaper clippings, photocopies, photographs from private archives. Sometimes the image is reproduced on glass and superimposed on paper documents, other times it is the photograph on paper that is the background of a text or a graphic reproduced on glass. Each time there is a color change, a luminscent red, which creates an offset and which is, to date my signature.

Here a reminder of the
Ex voto installation, 2006 (200×350 cm):

Déjà, Espace Commines, Paris

DSCN0277

2006 Ex voto 01

Déjà 01

Déjà 02

.

 

Rupestri-Citera (2018)

Carte geografiche antiche dell’isola di Citera sovrapposte a fotografie di grotte preistoriche e tombe etrusche. Non è la Neverland e non è l’Isola del tesoro.

2018 Rupestri-Citera 01 20x30

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

2018 Rupestri-Citera 03 20x30

 

Ruins in the Forest. Series B (2016-2017)

Spuglia lettera 1

 

spuglia-rnf-b-01

spuglia-rnf-b-02

spuglia-rnf-b-03

spuglia-rnf-b-04

spuglia-rnf-b-05

spuglia-rnf-b-06

spuglia-rnf-b-07

spuglia-rnf-b-08

Spuglia RnF B 09

spuglia-rnf-b-10

 

Spuglia lettera 2

 

 

Su una traduzione dal Petrarca (2016)

Copertina Sur une traduction

 

Una lettera senza risposta

 

Au conservateur du Musée-bibliothèque François Pétrarque
Fontaine de Vaucluse

Au conservateur du Musée du Petit Palais
Avignon

Da svariato tempo la mia pratica artistica ha preso a navigare fra la Scilla del testo letterario e la Cariddi dell’immagine dipinta. Da non molto abito nel sud della Francia, non lontano da Avignone e dalla Valchiusa del poeta toscano. Ho spesso visitato tanto quella località, quanto il palazzo dei Papi e la Certosa di Villeneuve les Avignon, ove restano gli ultimi affreschi conosciuti di Matteo Giovannetti.

Vorrei avere l’opportunità di mettere in opera il seguente progetto.

Prendendo come spunto un solo sonetto di Petrarca, certamente quello che nel Canzoniere porta il numero XIX (“Benedetto sia il giorno…”), ne riprodurrei il testo originale e varie, successive traduzioni, in francese e in tedesco *. Riprenderei la versione tedesca di Oskar Pastior e la traduzione che a sua volta un collettivo di scrittori ne fece a Royaumont nel 1990 (vedi la rivista Détail, Paris, n. 3/4, hiver 1991).

Ne risulteranno sei testi (compresa la mia propria versione italiana della versione di Pastior), riprodotti su vetri dal formato 32×32. Sarebbero stampati in carattere Courier, in continuo, come un telex. Sarà interessante vedere se, all’ultima traduzione, il testo iniziale risulterà irriconoscibile o se conserverà una traccia, un monogramma, della poetica petrarchesca.

I vetri stampati verrebbero sovrapposti a fotografie, fatte da me, degli affreschi di Matteo Giovannetti da Viterbo (inizio XIV-1369?) ad Avignone e a Villeneuve les Avignon. Come si sa Giovannetti fu il “direttore dei lavori” dei programmi iconografici ordinati dai Papi. E’ inconcebile immaginare che i due italiani non si siano frequentati, in particolare fra il 1343 e il 1353, quando il Petrarca assolveva a vari incarichi ufficiali nella città papale.

Le fotografie riprodurranno dettagli – ormai divenuti forme astratte – di affreschi rovinati o mutilati nel corso dei secoli. La scelta di questi fondi per i testi poetici non servirà solamente a mostrare le sopravvivenze di un’epoca data. Il fondo e il testo, cosi’ sovrapposti, si compenetreranno reciprocamente: non sarà possibile leggere l’uno indipendentemente dall’altro e si otterrà, spero, una successione di spostamenti nello sguardo dello spettatore.

Nell’installazione finale potrei presentare sei piccoli pannelli, accompagnati da altrettanti quadri con le riproduzioni, ben leggibili, dei testi.

Mi auguro che questo progetto possa trovare la vostra approvazione.
Cordiali e rispettosi saluti,

SP

Marzo 2012

* Queste le traduzioni « classiche » che riprodurrei: per il francese, quella di Fernard Brisset, consacrata dall’Académie Française nel 1933, e, per il tedesco, quella di Leo Graf Lanckoronski (Universal-Bibliothek Reclam, 1956).

01 recto

Spuglia sut 02

Spuglia sut 03

Spuglia sut 04

Spuglia sut 05

Spuglia sut 06

Intrusi in posti etruschi (2016)

(Etruscan Places, Intruders)

Spuglia Tarquinia B

Un testo introduttivo, sette scritture su carta Curious translucents 140 gr.
e sei stampe digitali d’arte al formato 15×15 su carta offset 350 gr.
50 esemplari firmati e numerati.

 

Spuglia Tarquinia B 01Tarquinia B 01. Caccia e Pesca/Ammassalik Inuit

 

Spuglia Tarquinia B 02
Tarquinia B 02. Caronti/Ainu

 

Spuglia Tarquinia B 03
Tarquinia B 03. Leonesse/breathing hole

 

Spuglia Tarquinia B 04
Tarquinia B 04. Fiore di Loto/Hopi e Ona

 

Spuglia Tarquinia B 05
Tarquinia B 05. Cacciatore/racial types

 

Spuglia Tarquinia B 06
Tarquinia B 06. Giocolieri/Kwakiutl

 

All’inizio l’antichità è stata per me una bocca d’anfora affiorante su un fondale sabbioso non più alto che tre metri. Mi ci avvicinavo con la fiocina cui avevo annodato uno straccio bianco. I polpi sono attratti dal bianco ed escono dalla loro tana preferita per avventarsi sul pezzetto di stoffa; è quello il momento di arpionarli; si tratta di una tecnica di caccia subacquea semplice e fruttuosa.
Dovevo avere sui quindici anni. Il fondale era quello del Porto Clementino, sul litorale di Tarquinia. Ancora non avevo visto le tombe dipinte.
Una volta tirai su un polpo insieme con il suo concavo rifugio e, quando mi indicarono un personaggio che pagava anche ventimila lire per un’anfora romana intera, mi spostai su altri fondi, di fronte al poligono militare di Pian dei Spilli, ove trovavo sui sei metri certe anfore tipo Dressel 1A o 1B. Con sagola e rullo di gomma mi ero fatto un rudimentale argano e potevo cavarmela da solo.
Già l’inverno successivo affittavo una moto da cross insieme con un amico, la domenica, e andavo alla ricerca di tombe etrusche nelle forre intorno a Blera e a Barbarano. Non eravamo i primi a entrarvi, ma ne riuscivamo sempre con qualche frammento di bucchero o di ceramica dipinta.
Nel febbraio del 1971 ci fu il terremoto di Tuscania. Con tre compagni mettemmo in macchina una pala trovata in garage e andammo a dare una mano. Alloggiavamo in tende militari e ci scaldavamo la sera con il “cordiale” in bustine di plastica che i marescialli ci distribuivano generosamente. Di giorno spalavamo le strade del centro storico ostruite dalle macerie; a volte, camminando raso al muro, entravamo in un appartamento sventrato: fotografie di famiglia in scatole da scarpe, ninnoli sparsi al suolo, centrini e pizzi coperti di calcinacci. Vidi i sarcofagi etruschi mutilati intorno alla piazza Basile: i defunti non erano stati decapitati dal terremoto ma dai tombaroli. Poi vidi l’abside smozzicato della più bella chiesa al mondo, la basilica romanica di San Pietro (è vero ricordo o mistura d’immagini? Chiese crollate ne ho viste anche in Irpinia nel 1980).
Più tardi, all’università, mi ero destinato a una carriera di etruscologo quando l’obbligo di superare un esame di tedesco dirottò altrove la mia attenzione; oltretutto si era sul più bello delle assemblee pugilistiche fra revisionisti come noi “amici del Manifesto” e le “Sturmtruppen” dell’Autonomia organizzata.
Nella vita ho fatto altro ma alle tombe di Tarquinia sono sempre tornato. Direi che le visito più di quella dei miei genitori, non me ne vogliano a male, loro e quell’altro.
Ci sono stato quando erano tutte accessibili, poi quando rimasero aperte secondo una rotazione annuale, e anche quando le hanno fatte visibili di là dei vetri blindati che ne sigillano l’ingresso. Confesso che, quando torno nella Tuscia, mi capita di lasciare moglie e figli in auto per scappare dieci minuti a rivederne una o due.
Lo scrittore britannico D. H. Lawrence (1885-1930) ne visitò un paio di dozzine fra un pomeriggio e una mattinata dell’aprile 1927 e ne descrisse quindici (Etruscan Places, pubblicato postumo nel 1932). La sua è la visione di una gioia di vivere e di un edonismo etruschi contrapposti all’austerità e al militarismo romani; è un’interpretazione di critica implicita al regime mussoliniano, che della potenza romana si voleva erede.
Alcune delle tombe in cui sono tornato recentemente furono visitate da Lawrence; le descriverò a modo mio.

Tarquinia B 00. Un poco strettino sotto i bassi soffitti della tomba 3713, Franz Boas mima, a beneficio dei costruttori di manichini presso il National Museum of Natural History, la cerimonia dell’hamatsa, la cosiddetta danza cannibale dei Kwakiutl della Colombia Britannica. A New York, nel 1895. Un poco impacciati nei loro abiti rossi di porpora slavati dal tempo che passa, danzatori etruschi del IV secolo a. C. lo accompagnano.

Tarquinia B 01. Sulla soglia della tomba della Caccia e della Pesca un poeta Inuit ritma la sua canzone da duello sul tamburo di pelle di foca, mentre le due spose di Ayukutok si schermiscono davanti all’obiettivo di William Thalbitzer, ad Ammassalik, nell’estate del 1903. Un giovane etrusco caccia uccelli a colpi di fionda. “Here is the real Etruscan liveliness and naturalness”, direbbe D. H. Lawrence.

Tarquinia B 02. I due Caronti variopinti che sorvegliano la porta degli Inferi hanno trovato dei compagni: sono Ainu, la minoranza etnica che abita l’isola giapponese di Hokkaido. L’antropologo “scientifico” che li aveva presi e fotografati come “tipi caucasici”, autore nel 1940 dell’utile opuscolo Comment reconnaître et expliquer le Juif? finì abbattuto dalla Resistenza francese nel 1944 e sicuramente sta in inferno.

Tarquinia B 03. Nella tomba delle Leonesse è in atto un festino; si danza, si suona il flauto, si consumano bevande inebrianti. I delfini saltano in un mare cinerino, mentre un cacciatore groenlandese si apposta presso il foro che ha scavato nel ghiaccio. Una foca vi si avvicinerà presto per prendere fiato. Sulla parete di destra, flemmatico, un uomo reclinato mostra al cortese pubblico un bianco “uovo della resurrezione”.

Tarquinia B 04. Nella camera del Fiore di Loto i guerrieri Hopi acconciati perbenino si producono per Aby Warburg in danze tradizionali, nel 1896, in Nuovo Messico. All’altro capo dell’America e qualche anno dopo un indigeno Ona della Patagonia sistema la sua acconciatura prima di compiere il rituale fallico di fronte al missionario e fotografo Martin Gusinde. Un leone e una pantera fanno loro compagnia. La parete è nuda, è un fondale adatto.

 Tarquinia B 05. La tomba del Cacciatore è ornata come fosse un padiglione di caccia e le sue quinte sono percorse in fila indiana da leoni, tori, fagiani, cervi, cani e cavalieri. In questo spazio si sono radunati vari tipi di cinesi. Si mostrano di fronte e di profilo ma non sono tanto riconoscibili, i motivi a scacchi del soffitto e le punteggiature sui muri ne confondono i tratti. Ma non si è tutti eguali lì sotto, uomini e animali confusi?

Tarquinia B 06. Nella tomba dei Giocolieri una ragazza mantiene un candelabro in equilibrio sul capo, mentre un giovane tenta di impilarvi dei dischetti; il defunto, seduto tranquillo sulla destra, li osserva. Due notabili Kwakiutl posano nei loro paramenti da cerimonia. È l’estate 1904. Approntano il tradizionale potlatch, in cui spezzeranno scudi di rame e distribuiranno coperte di lana e piatti inglesi, senza attenderne contropartita.

TB01 calques

 

Spuglia-Etruscan copertina detail

 

Anabasis. Natura manufatta (2016)

Anabasis. Natura manufatta. Un testo e sei stampe digitali d’arte al formato A5 su carta offset 350 gr.
99 esemplari firmati e numerati.

Anabasis copertina

Spuglia Anabasis 03

Spuglia Anabasis 06

Spuglia PN 01 Vallerosa

Spuglia PN 02 Valentano

Spuglia PN 03 Alès

Spuglia PN 04 Laval-Pradel

 Anabasis
Natura manufatta

 

1. Sull’altopiano.

Di anabasi Rigoni Stern ne ebbe due, una grande e una piccola. La prima fu la ritirata di Russia, nel gennaio 1943; Rigoni era uno dei 60.000 Alpini partiti, su ordine di Mussolini, a occupare l’Unione sovietica, e uno dei 20.000 che ne tornò. La seconda fu la sua fuga solitaria dalla prigionia tedesca, nell’aprile 1945; per una decina di giorni errò nelle foreste di Stiria e Carinzia, nutrendosi di bacche, uova di uccello e lumache, finché non incontrò, su un passo delle Alpi, un avamposto di partigiani italiani.
Mario Rigoni Stern (1921-2008) è uno dei miei padri, con Nuto Revelli (1919-2004) e Vittorio Foa (1910-2008). E fra i miei padri è colui che ha più approfondito la tematica del rapporto dell’uomo con la natura. Il soggetto della foresta, “logo” della natura (la foresta prealpina annichilita dalle bombe austriache e italiane fra il 1915 e il 1918 e poi ricostruita, ad esempio dell’artificiale che si confonde con il naturale) è centrale nella sua opera di scrittore.
Il bosco è per Rigoni “luogo di salvamento” (introduzione a Boschi d’Italia, Roma 1993), mentre la città è divenuta luogo di “solitudine spirituale”, dove “la barbarie si cela fin dentro il cuore degli uomini”. Rigoni riprende qui gli argomenti di Giambattista Vico (Principi di scienza nuova, 1725) ma dà loro un’inflessione più umanista e, alla fine, conciliante. Se l’uomo vuole sopravvivere “insieme con” la natura, deve essere capace di prelevarne la sua parte, senza intaccarne il capitale. Era forse tale ragionamento un modo di giustificare la sua passione di cacciatore d’urogalli?
Lontano tanto da un antagonismo di matrice illuminista quanto da una nostalgia romanticheggiante (sul confronto fra queste due “strade del pensiero” vedi: Robert Pogue Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà, Milano 1995), Rigoni esprime piuttosto un sobrio panteismo umanista: la “buona” foresta non è, secondo lui, quella che cresce spontaneamente e selvaggiamente; è quella che l’uomo, da bravo giardiniere, amministra e cura.
L’altopiano dei Sette Comuni è il luogo delle origini e del ritorno di Rigoni. Nel vagare, da turista, in quelle terre, ho registrato qualche immagine di siti naturali in cui sono visibili, a ben guardare, le tracce della guerra: i camminamenti crollati, i crateri aperti dalle bombe. Ritrovo in queste immagini il soggetto del mio lavoro precedente sul rupestre: si può parlare qui di siti “rupestri”, anche se non è la creatività dell’uomo che ha lasciato le sue impronte, ma la sua ingegneria diabolica?

I lavori che portano il titolo “Anabasis” nascono dalla sovrapposizione di queste fotografie e di immagini d’archivio: gli Alpini in ritirata nella neve di Russia, le postazioni dei fanti e i boschi dell’Altopiano sventrati dopo una battaglia d’artiglieria.

2. Paesaggi nuovi.

Ho intitolato “paesaggi nuovi” questi lavori recenti: gli è che descrivono, non senza un riferimento ironico al paesaggismo romantico, luoghi in cui la frontiera fra naturale e artificiale è quanto mai indistinta e riconoscibile, forse, solo dall’occhio esperto del geologo o del botanico.
Ciò che è certo è che non si sa chi dei due antagonisti, l’uomo o la natura, preceda o segua l’altro, né chi alla fine l’avrà vinta. Salvo che la vittoria dell’uno significherebbe la distruzione di entrambi e sarebbe quindi preferibile se finissero per intendersi.

PN 01 Vallerosa (provincia di Viterbo, Italia).
Una cava di travertino dismessa. Nell’ampio bacino lasciato dagli scavi, dalle pareti bianche verticali, si è creato un microclima ed è ricresciuta una vegetazione lussureggiante e diversa. C’è chi dice che, in primavera, vi si possano catalogare trenta varietà di orchidee selvatiche. Il luogo è davvero tornato alla natura: nello scostare gli arbusti per raggiungerlo può capitare di imbattersi in un grosso cinghiale. A me è capitato, ma non so chi abbia avuto più paura: lui è fuggito da una parte ed io da quella opposta.

PN 02 Valentano (provincia di Viterbo, Italia).
Una cava di pozzolana (il lapillo vulcanico rosso, usato in passato per rivestire i muri di Roma). Dava una buona immagine dell’inferno, e fu usata come scenario per un paio di film medievaleggianti. Dopo l’abbandono delle attività estrattive, i suoi terrazzamenti sono stati ripiantati e gli alberi giovani non nascondono ancora la regolarità dei tagli nella collina. Al sito non si può più accedere, perché nel fondovalle è ricresciuto un sottobosco inestricabile.

PN 03 Alès (Gard, Francia).
Una montagna artificiale, un terril, formatosi con le scorie accumulate in decenni di sfruttamento delle miniere di carbone, alla periferia della città di Alès. Sarebbe forse passata inosservata fra le altre alture, a parte la sua curiosa forma conica, se nel 2004 un incendio di foresta non l’avesse denudata. Trasmesso dalle radici degli abeti ripiantati per nasconderla, l’incendio è arrivato al cuore della collina stessa, che sta ancora bruciando a fuoco lento e inestinguibile.

PN 04 Laval-Pradel (Gard, Francia).
Un grosso sito minerario nelle Cévennes, sfruttato intensamente negli anni ’70-’90 del secolo scorso, e per l’apertura del quale venne deviata su svariati chilometri una strada storica, le chémin de Régordane, che unisce la Loira e la Camargue sulla via di Compostela. Vi si sono formati tre laghi e grandi anfiteatri scavati dai bulldozer, sui quali ora l’Office National des Forêts sta ripiantando alberi. L’accesso all’area è proibito, e vi sono entrato clandestinamente. Il comune di Alès, dopo aver lasciato cadere un progetto più ecologico di “village cévénol”, prevede di farne un parco di divertimenti per “sport meccanici” (quad, cross, jet-ski, paintball); in ognuno dei tre laghi verrebbero immessi e si pescherebbero (sportivamente) specie di pesci differenti.

Dopo la natura artefatta, la natura manufatta.

Spuglia-Anabasis-copertina detail

In Tuscia, land paintings (2016)

Alcuni interventi artistici in una natura “storicizzata”. Un’edizione a tiratura limitata (99 esemplari firmati e numerati): un testo e sei stampe Fine Art digitali formato 15×20 su carta offset da 350 gr.

 

In Tuscia set

 

Spuglia copertina In Tuscia

 

B Land paintings 12 2014

spuglia nella selva antica 01

D Rupestre 00 2012

E Eden 04 2014

F La Nova 06 2015

G Romitorio 00 2015

 

In Tuscia, land paintings

Un sito rupestre: ivi si tratta della natura che, già sfruttata dall’uomo per farne opera, riprende i suoi diritti e non lascia l’opera dell’uomo che come traccia. La Tuscia è piena di questi luoghi; è come se non solo civiltà e abbandono si succedessero a ondate secolari, ma l’una fosse la condizione dell’altra. La Tuscia è un posto solitario. E sono le attività dell’uomo solitario che lasciano – o lasciano immaginare – le impronte più inattese.
Se il termine “rupestre” definisce forme d’arte fatta su o con le rocce (le tombe, i santuari, i graffiti, le pitture), può anche essere impiegato per descrivere i manufatti inselvatichiti, quando divengono parte della natura circostante.
Per l’artista, si tratta di re-intervenire sugli elementi naturali che sono stati fatti forma dall’intervento umano e stanno riscrivendo la propria storia. Rupestre è il punto in cui natura e storia s’incrociano: per l’artista non si tratta tanto di lavorare orizzontalmente nello spazio, quanto di avere come materia il tempo, in una pratica di stratificazione che sarebbe come uno scavo archeologico, ma al negativo. Sedimentare dopo aver individuato.

Land paintings, 2011-2016
Sono salito all’insediamento protostorico delle Sorgenti della Nova, dove gli uomini si sono succeduti per millenni, utilizzando gli spazi organizzati da coloro che erano passati prima di loro. Rimanevano visibili, ai miei occhi profani, le tracce di una vita ridotta a mera sussistenza: il nerofumo dei focolai sulle volte, i fori nelle pareti di tufo, che servivano a incastrare i tralicci dei giacigli di strame.
Poi sono stato in siti abbandonati e che lascerei al loro abbandono, come fossero rovine artificiali di epoca romantica (perché occorrerebbe salvare il passato a tutti i costi? e quale sarebbe il momento del passato che vorremmo cristallizzare?): Santa Maria di Sala nel comune di Farnese, Castel d’Asso in quello di Viterbo, Castro in quello di Ischia.
Ho chiamato Land paintings i lavori derivati da queste peregrinazioni. In una citazione parodistica della Land art americana, Land painting si potrebbe tradurre come “pittura sul (con il) terreno”. E’ una pratica che risponde agli stessi miei interrogativi sulla presenza dell’artista nello spazio storico. Già ho voluto definire questa posizione riusando il termine “rupestre”.
Spesso, negli anni recenti, mi sono trovato a esplorare i luoghi della Tuscia, così come facevo da adolescente. Tuttavia negli anni recenti non andavo a mani vuote: portavo con me una forma, una specie di foglia d’olivo, o di lingua, fatta di lattice impregnato di pigmenti rossi fluorescenti. La posavo al suolo e la fotografavo: la tomba etrusca, divenuta romitorio medievale, divenuto ovile, divenuto rifugio antiaereo, divenuto nascondiglio di amanti furtivi, accoglieva un ultimo segno di passaggio, come il testimone di una corsa a staffetta.
Nei miei lavori precedenti il segno intrusivo era una maniera di impedire la fruizione dell’immagine nella sua interezza e di infrangere la saturazione propria di ogni fotografia. Il colore fluorescente aveva come la funzione di aprire una breccia nell’immagine e nella sua storicità. Ora, lasciando direttamente sul luogo un segno e fotografandolo, l’opera torna a farsi in quel momento di presenza. Ma contrariamente a ciò che fa la Land art, il luogo non è trasformato: è solo “segnato”.

Romitorio, 2011-2015
Se si percorre la valle del fiume Fiora, nell’alto Lazio, appena a Sud della frontiera con la Toscana, e si sale e scende per ripe franate dopo esondazioni recenti, e ci s’inoltra in macchie boscose aggrovigliate come giungle, si possono raggiungere un paio di romitori, o luoghi per eremiti, che sono sopravvissuti ai secoli, grazie al loro isolamento e al poco interesse che hanno suscitato presso le generazioni successive.
Ecco Poggio Conte: oltrepassata una cascatella che forniva l’acqua potabile ai monaci, si possono vedere i resti di due minuscole celle, cui conducono scalette ardue scavate nel tufo, e una chiesetta rupestre d’ispirazione cistercense. L’interno di questa – nonostante l’oculo scavato nella facciata – è completamente buio: se si scattano fotografie, sarà con il flash e a caso, e solo lo sviluppo svelerà i frammenti superstiti delle pitture che ne decoravano la volta.
Si scoprirà che questo eremita del XIII o XIV secolo (forse un monaco di origine francese?) ha dipinto le vele con motivi decorativi decisamente prosaici, certo ispirati a tappezzerie o a pavimenti, che fanno pensare più a un design d’interni che a un esercizio di venerazione e di contemplazione.
La natura sta pian piano ritornando: le muffe coprono fiori di giglio, grifoni rossi e certe forme falliche. Scompare pian piano il lavoro dell’uomo solitario che passò mesi e anni a scolpire e coprire di colori la volta di un antro scuro, nella consapevolezza che a pochi sarebbe stato dato di ammirarli mai.
Alle mie intrusive foto al flash ho sovrapposto, come una trama leggibile in controluce, un sonetto tratto dal Canzoniere di Francesco Petrarca. Vi si parla, in belle metafore, d’impagabili sofferenze d’amore. Forse fu scritto mentre il pittore di Poggio Conte dipingeva. L’ho riportato senza intervalli né a capo, come un telex.

Nella selva antica, 2014
Probabilmente l’ultimo visitatore di un giardino dell’Eden è stato Dante Alighieri. Nessuna foresta, neanche la selva concresciuta fra le formazioni vulcaniche del Lamone può essere oggi chiamata “primordiale”. Anche la conservazione della natura è un fatto artificiale. Nella riserva naturale Selva del Lamone le tracce della “civiltà” sono visibili ovunque: mura di recinzione crollate, resti di pavimentazione romana, solchi scavati dai carri dei carbonai, cumuli di pietre che furono torri etrusche e, infine, le strisce rosse e bianche della segnaletica escursionistica.
Questa non è certo la natura descritta da Leopardi, la crudele deità che nelle sue manifestazioni distruttive non si preoccupa certo del destino umano (Dialogo della natura e di un islandese, 1824). Questa è una “riserva”, un posto in cui il “primigenio” è solo reminiscenza.
Le mie foto della Selva sono riprodotte su supporti trasparenti e sovrapposte a variazioni personali di graffiti preistorici: sono i segni di un’era in cui l’umanità iniziava appena ad affrancarsi dal mondo naturale. L’unica differenza con quei disegni è la tecnologia della riproduzione: non ocra rossa a piene mani ma Pantone 17-1463 TPX sullo schermo.

Eden, 2014-2015
Luoghi della civiltà etrusca, rovine parzialmente conservate, ove la natura è tornata predominante. Fotografie stampate su supporti trasparenti, che lasciano leggere un passo dantesco oppure decifrare una carta dell’IGM che potrebbe riferirsi a quel luogo, oppure a un altro.
I versi di Dante vengono dall’ultimo canto del Purgatorio: il poeta vi descrive una “selva antica” che non è altro se non il paradiso terrestre, ove una volta l’uomo ha vissuto in stato di grazia. Come una parodia, vi ho sovrapposto delle silhouette di animali selvatici, riprese dalle tavole dell’Histoire naturelle di Georges-Louis Leclerc de Buffon; le ho cucite con il filo rosso, in una tecnica di riproduzione lenta, imprecisa e imperfetta.
La visione illuministica di Buffon è quella dell’uomo vittorioso sulla natura, assecondato dai suoi fedeli mammiferi domestici, il cavallo, il cane. Ora sappiamo che il prezzo di questa vittoria, se l’uomo portasse l’Illuminismo alle sue estreme conseguenze, sarebbe il ritorno di una natura irriconoscibile, corrotta e deformata, in cui forse ci sopravvivrebbe solamente l’infimo animale dal Buffon disprezzato: la mosca cavallina o peggio, il tafano bovino.

Spuglia-copertina-In-Tuscia detail

Nella selva antica (2014)

a. Sull’Altipiano. Qualcuno mi aveva detto che i miei lavori sul tema del rupestre richiamavano il libro di Robert Harrison Pogue sulle foreste (Stanford 1992 e Garzanti 1995). Mi sono procurato quel libro, l’ho letto e per lungo tempo non ne ho fatto niente. Il concetto che ne ho tratto è che la foresta è un’invenzione dell’uomo, è un fatto culturale. Intanto ripensavo ai miei numi tutelari adottivi, quelli della generazione ormai scomparsa che ha vissuto da giovane la seconda guerra mondiale, i Nuto Revelli, i Primo Levi. L’ultimo a sopravvivere fu Mario Rigoni Stern (1921-2008). Rigoni, nato ad Asiago, località marcata fino alla distruzione dagli avvenimenti della prima guerra mondiale, volle diventare, nel clima di retorica nazionalistica del primo dopoguerra, militare di professione; ma presto maturo’ la convinzione dell’ingiustizia della guerra, convinzione che si confermo’ nell’odissea del corpo di spedizione italiano in Russia, nella disastrosa ritirata del gennaio 1943 e, successivamente, negli anni di internamento in un campo di concentramento militare tedesco.
La tematica del bosco, quel bosco annichilito dalle bombe austriache e italiane fra il 1915 e il 1918 e successivamente ricostruito dall’uomo, esempio dell’artificiale che ritorna faticosamente naturale, è centrale nell’opera letteraria di Rigoni.
Nel vagare, da turista, per le sue terre, ho registrato qualche immagine di foreste in cui sono, a ben guardare, visibili le tracce della guerra: i camminamenti crollati, i crateri aperti dalle bombe. Ritrovo qui il soggetto del mio lavoro precedente sul rupestre: sono questi siti “rupestri”, anche se non è la creatività dell’uomo che ha lasciato le sue impronte, ma la sua ingegneria diabolica?
E cosa hanno a che fare queste fotografie con le rime in cui Dante descrive la sua entrata nel paradiso terrestre, la “selva antica”, alla sommità del monte del Purgatorio e il suo incontro con Matelda, giardiniera di quel parco privo di peccato originale?

ap14s

spuglia-nella-selva-antica-03

b. Nel Lamone. Dante è stato certamente l’ultimo visitatore del giardino dell’Eden. Nessuna foresta, neanche la foresta antica sorta sulle formazioni vulcaniche della Tuscia, neanche la Selva del Lamone si puo’ dire originaria. Ovunque si troveranno le tracce della “civiltà” umana: i muri di cinta diruti, i resti di pavimentazione stradale, i solchi dei carri dei carbonai, i mucchi di pietre che furono muraglie etrusche e oggi le strisce di pittura bianca e rossa della sentieristica.
Le mie fotografie sono riprodotte su supporti trasparenti e sovrapposte alle riproduzioni di petroglifi preistorici (quelli del Nevada sono i più antichi ritrovati sul continente nordamericano): sono i segni di un’epoca in cui l’uomo iniziava appena ad appropriarsi della natura. Se sono riprodotti con l’acrilico rosso fluorescente, è perchè di segnaletica si tratta; quello che cambia rispetto a diecimila anni fa, è la tecnologia della riproduzione.

spuglia-nsa01

spuglia-nella-selva-antica2

Il parco dei mostri e l’ombra del luogo (2013)

Il parco dei mostri e l’ombra del luogo
lavori a base fotografica
2010-2013

Rupestri, 2011-2012
Il soggetto “rupestre”: si tratta della natura utilizzata dall’uomo per farne opera, che riprende i suoi diritti non lasciando l’opera dell’uomo che sotto forma di traccia. La Tuscia è piena di questi luoghi; è come se non solo civiltà e abbandono si succedessero a ondate secolari, ma l’una fosse la condizione dell’altra. E sono le l’attvità dell’uomo solitario che lasciano – o lasciano immaginare – le impronte più inconsuete.
Sono salito all’insediamento protostorico delle Sorgenti della Nova, dove gli uomini si sono succeduti per millenni, utilizzando gli spazi organizzati da coloro che erano passati prima di loro. Rimanevano visibili, ai miei occhi profani, le tracce di una vita ridotta a mera sussistenza: il nerofumo dei focolai sulle volte.
Poi sono stato in siti abbandonati e che lascerei al loro abbandono, come fossero rovine artificiali di epoca romantica (perchè occorrerebbe salvare il passato a tutti i costi? e quale sarebbe il momento del passato che vorremmo cristallizzare?): Santa Maria di Sala nel comune di Farnese, Castel d’Asso in quello di Viterbo, Castro in quello di Ischia.

On Dissipation, 2011
Al ritorno da una peregrinazione infruttuosa alla ricerca di rovine “romantiche” m’imbattei in questa edicola, nelle vicinanze dell’abitato di Ischia di Castro. Un affresco secentesco, una vergine da un lato, un dannato fra le fiamme infernali dall’altro, entrambi sfregiati senza pietà, a più riprese, da adolescenti o invasati dei secoli successivi, e ancora rimane la traccia, il monogramma della pittura, che dice tutto cio’ che voleva dire all’origine.

Ex voto Remix, 2009-2010
Immagini di Ex voto etruschi, prese da cartoline e illustrazioni di libri. Questi reperti (ormai: reliquie), testimoni di guai di salute e di pene di cuore, estratti dal loro contesto tombale, presentati nei musei, posati su moquette colorate, repertoriati per categorie, sono qui ripresi e riprodotti su vetro, sovrapposti a vecchie pitture “alla cinese” dell’autore (S. P.), senza alcuna intenzione di analogia. Ritorneremo giocattoli?

A fresco Remix, 2010-2012
Fotografie di canopi, contenitori a forma di testa umana, sovrapposti a dettagli di affreschi trecenteschi, i cui frammenti sono ancora visibili sulle mura della distrutta città di Castro. Non si puo’ vedere l’uno se non attraverso l’altro, eppure non li lega un rapporto analogico ma solo uno “sfasamento” dello sguardo.

A fresco/Tuscia, 2012
Sovrapposte a quello che rimane degli affreschi di Santa Maria intra muros, a Castro, alcune silhouettes nere di animali, tratte da un prontuario portoghese di fine ‘800. Gli animali disegnano un passaggio fra i dettagli delle pitture e i muri che ancora li sostengono.

Romitorio (Hermitage), 2011
Se si percorre la valle del Fiora, nell’alto Lazio, appena a Sud della frontiera con la Toscana, e si sale e scende per ripe franate dopo alluvioni recenti, e ci si inoltra in macchie boscose aggrovigliate come giungle, si possono raggiungere un paio di romitori, o luoghi per eremiti, che sono sopravvissuti ai secoli, grazie al loro isolamento e al poco interesse che hanno suscitato presso le generazioni successive.
Ecco Poggio Conte: oltrepassata una cascatella che forniva l’acqua potabile ai monaci, si possono vedere i resti di due minuscole celle, cui conducono scalette ardue scavate nel tufo, e una chiesetta rupestre di ispirazione cistercense. L’interno di questa – malgardo l’oculo scavato nella facciata – è completamente buio: se si fanno fotografie, sarà a caso, e solo lo sviluppo svelerà i frammenti superstiti delle pitture che ne decoravano la volta.
Si scoprirà che questo eremita del XIII o XIV secolo (forse un monaco di origine francese?) ha dipinto le vele con motivi decorativi decisamente prosaici, certo ispirati a tappezzerie o a pavimenti, che fanno pensare più a un design d’interni che a un esercizio di venerazione e di contemplazione.
La natura sta pian piano riprendendo i suoi diritti, le muffe coprono fiori di giglio, grifoni rossi e certe forme falliche. Scompare pian piano il lavoro dell’uomo solitario che passo’ mesi – o anni – a coprire di colori questo antro scuro, nella consapevolezza che a pochi sarebbe stato dato di ammirarli mai.
Alle mie intrusive foto al flash ho sovrapposto, come una trama leggibile in controluce, un sonetto tratto dal Canzoniere di Francesco Petrarca. Vi si parla, in belle metafore, di impagabili sofferenze d’amore. L’ho trascritto come un telex.

Marmo, 2011-2012
L’autunno scorso ero sceso in Italia per fare fotografie sul tema della natura sfruttata dall’uomo. Intendevo costituirmi uno stock di immagini su cui lavorare durante l’inverno. Il viaggio fu un fallimento dal punto di vista lavorativo, perchè era il momento delle grandi piogge e inondazioni in alta Toscana, e ne sono uscito solo con quattro fotografie, fatte in mezzo alle nuvole, alle cave di Carrara. Poi ci fu un passaggio in Maremma, a San Bruzio, ove il marmo è fissato in uno stato intermedio, di rovina conservata, non più minacciata dalla natura, anzi circondata dalla cultura, quella dell’olivo. Il ritorno in Francia, essendo le autostrade liguri interrotte, fu laborioso, con deviazioni per l’Appennino e la pianura padana, e qualche altra foto: a Modena, le immagini della civiltà che ci fonda come Italiani, le statue della cattedrale, le foto degli uomini della resistenza, “a perenne ricordo”. Le ho qui sovrapposte a quelle di Carrara.

In Tuscia, 2012
Il ponte San Pietro dopo un’alluvione autunnale, il sito etrusco di Rofalco dopo gli scavi, l’inestricabile selva del Lamone attraverso la quale un sentiero è stato tracciato. Le fotografie sono state riprodotte su vetro e poi sovrapposte a pitture bianche, su cui l’acrilico fluorescente crea uno sfalsamento di piani e, forse, una traccia modernità a cui il luogo sarebbe altrimenti sfuggito.

Nel parco, 2012
Una famiglia romana in gita nell’alta Tuscia, verso al fine degli anni ’60. Delle venti persone raffigurate nel filmino super 8 di quella giornata, solamente due o tre vivono ancora. Ritorno sui luoghi che hanno ascoltato quei gridi e quelle risate, che hanno visto quegli scherzi puerili e quei giochi di adulti. Sulle statue che non si possono più scalare, sui gradini che non si possono più calpestare, cosa rimane di quel breve passaggio?

Giovannetti fluo, 2013
Nella città natale del pittore dei papi è rimasto solo un affresco certamente realizzato da lui, nella chiesa di Santa Maria Nuova. Vi si ritrovano i begli azzurri e le forme slanciate dei santi di Avignone e di Villeneuve-les-Avignon.
La cornice metallica li trasforma in vetrate, le immagini sovrapposte li sottraggono alla loro temporalità, le zone rosse li riportano nel nostro tempo.

Lavori recenti (2010-2012)

Robinson a Rosignano, 2011

Spiagge idilliche, di sabbia anormalmente bianca, immagini da cartolina. Sul fondo, un’escrescenza industriale. In sovrapposizione, incisioni tratte dal Robinson di Defoe, eroe illuministico, che sbarca sulla sua isola incontaminata. E, riprodotte con colori da vetro, tavole con reperti di scavi archeologici in Groenlandia e graffiti rupestri del Nevada. Non c’è nessun rapporto – se non autobiografico – fra i diversi strati. Eventualmente, un richiamo alla storia dell’arte: i Capricci grotteschi di Piranesi, i Paesaggi con rovine del primo Romanticismo.

d-robinson-01

Marmo, 2011-2012

L’autunno scorso ero sceso in Italia per fare fotografie sul tema della natura sfruttata dall’uomo. Intendevo costituirmi uno stock di immagini su cui lavorare durante l’inverno. Il viaggio fu un fallimento dal punto di vista lavorativo, perchè era il momento delle grandi piogge e inondazioni in alta Toscana, e ne sono uscito solo con quattro fotografie, fatte in mezzo alle nuvole, alle cave di Carrara. Poi ci fu un passaggio in Maremma, a San Bruzio, ove il marmo è fissato in uno stato intermedio, di rovina conservata, non più minacciata dalla natura, anzi circondata dalla cultura, quella dell’olivo. Il ritorno in Francia, essendo le autostrade liguri interrotte, fu laborioso, con deviazioni per l’Appennino e la pianura padana, e qualche altra foto: a Modena, le immagini della civiltà che ci fonda come Italiani, le statue della cattedrale, le foto degli uomini della resistenza, “a perenne ricordo”. Le ho qui sovrapposte a quelle di Carrara.

marmo-01-03-copy

Rupestri, 2011-2012

Da un pochino mi interesso al soggetto “rupestre”: la natura utilizzata dall’uomo per farne opera, che riprende i suoi diritti non lasciando l’opera dell’uomo che sotto forma di traccia. La Tuscia è piena di questi luoghi; è come se non solo civiltà e abbandono si succedessero a ondate secolari, ma l’una fosse la condizione dell’altra. E sono le attività dell’uomo solitario che lasciano – o lasciano immaginare –  le impronte più inconsuete. L’estate scorsa ho visitato il romitorio di Poggio Conte, luogo di malagevole accesso. Era talmente buio che facevo le foto al flash, e solo allora vedevo per un attimo il mio soggetto; cosi’ ho mancato la vela più interessante, quella con i segni falllici (o mi sbaglio?); cosa ci facevano in un santuario cistercense, per quanto quei motivi decorativi potessero essere ispirati a tappezzerie francesi coeve?
Sono salito all’insediamento protostorico delle Sorgenti della Nova, dove gli uomini si sono succeduti per millenni, utilizzando gli spazi organizzati da coloro che erano passati prima di loro. Rimanevano visibili, ai miei occhi profani, le tracce di una vita ridotta a mera sussistenza: il nerofumo dei focolai sulle volte, i fori nelle pareti di  tufo, che servivano a incastrare i tralicci dei giacigli.
Poi sono stato in siti abbandonati e che lascerei al loro abbandono, come fossero rovine artificiali di epoca romantica (perchè occorrerebbe salvare il passato a tutti i costi? e quale sarebbe lo stato del passato che vorremmo salvare?): Santa Maria di Sala nel comune di Farnese, Castel d’Asso in quello di Viterbo, Castro in quello di Ischia.

rupestre-definitivo

On Dissipation, 2011

Al ritorno da una peregrinazione infruttuosa alla ricerca di rovine “romantiche” m’imbattei in questa edicola, nelle vicinanze dell’abitato di Ischia di Castro. Un affresco secentesco, una vergine da un lato, un dannato fra le fiamme infernali dall’altro, entrambi sfregiati senza pietà, a più riprese, da adolescenti o invasati dei secoli successivi, e ancora rimane la traccia, il monogramma della pittura, che dice tutto cio’ che voleva dire all’origine.

on-dissipation-01

Romitorio (Hermitage), 2011

Se si percorre la valle del Fiora, nell’alto Lazio, appena a Sud della frontiera con la Toscana, e si sale e scende per ripe franate dopo alluvioni recenti, e ci si inoltra in macchie boscose aggrovigliate come giungle, si possono raggiungere un paio di romitori, o luoghi per eremiti, che sono sopravvissuti ai secoli, grazie al loro isolamento e al poco interesse che hanno suscitato presso le generazioni successive.
Quello di Poggio Conte è particolarmente interessante. Oltrepassata una cascatella che forniva l’acqua potabile ai monaci, si possono vedere i resti di due minuscole celle, cui conducono scalette ardue scavate nel tufo, e una chiesetta rupestre di ispirazione cistercense. L’interno di questa – malgardo l’oculo scavato nella facciata – è completamente buio: se si fanno fotografie, sarà a caso, e solo lo sviluppo svelerà i frammenti superstiti delle pitture che decoravano le vele della volta.
Cio’ che è conservato lo è grazie all’umidità costante di questa grotta scavata, e forse grazie al fatto che non si tratta di affreschi, più facilmente asportabili. Le dodici immagini degli Apostoli, difatti (e quella, acefala, del Cristo), che sono forse precedenti e che coprivano tutte le pareti della cappella, vennero asportate – insieme con i lastroni di tufo che le sopportavano – negli anni Sessanta. Sei vennero recuperati dai Carabinieri alla frontiera con la Svizzera; le rimanenti sette si trovano ancora presso “un noto collezionista elvetico”.
Ma questo eremita del XIII o XIV secolo, forse un monaco di origine francese, forse un cavaliere errante disceso da cavallo (chissà?) ha dipinto la volta con motivi decorativi decisamente prosaici, certo ispirati a tappezzerie o a pavimenti, che fanno pensare più a un design d’interni che a un esercizio di venerazione e di contemplazione.
La natura sta pian piano riprendendo i suoi diritti, le muffe coprono fiori di giglio e grifoni rossi. Scompare pian piano il lavoro dell’uomo solitario che passo’ mesi – o anni – a coprire di colori questa grotta oscura, nella consapevolezza che a pochi sarebbe stato dato di ammirarli mai.
Alle mie intrusive foto al flash ho sovrapposto un testo che potrebbe essere coevo,  scritto da un letterato italiano che viveva in Provenza: il sonetto XXXVIII del Canzoniere di Francesco Petrarca. Vi si parla, in belle metafore, di impagabili sofferenze d’amore. L’ho trascritto come un telex.

romitorio-01-02

Ex voto Remix, 2009-2010

Immagini di Ex voto etruschi, prese da cartoline e illustrazioni di libri. Questi reperti (ormai: reliquie), testimoni di guai di salute e di pene di cuore, estratti dal loro contesto tombale, presentati nei musei, posati su moquette colorate, repertoriati per categorie, sono qui ripresi e riprodotti su vetro, sovrapposti a vecchie pitture “alla cinese” dell’autore (S. P.), senza alcuna intenzione di analogia. “Ritorneremo giocattoli?”

ex-voto-remix-02-03

A fresco Remix, 2010-2011

Fotografie di canopi, contenitori a testa umana di ceneri, sovrapposti a dettagli di affreschi trecenteschi, i cui frammenti sono ancora visibili sulle mura della distrutta città di Castro. Non si puo’ vedere l’uno se non attraverso l’altro, eppure non li lega un rapporto analogico ma solo uno “sfasamento” dello sguardo.

a-fresco-remix

Phantombilder, 2010

Dopo aver concluso un lavoro sulle immagini di identificazioni del secolo scorso (Carnets anthropométriques) ho cercato nuovi soggetti legati alla questione della posa e del ritratto. Le identificazioni poliziesche che avevo ri-lavorato erano ritratti fotografici di persone che avrebbero preferito non essere prese in foto. Ma, nolenti o volenti, erano soggetti in carne e ossa, che esprimevano qualcosa in più di quello per cui erano fotografati, e che ho cercato di ritrovare.
Gli identikit attuali della polizia tedesca, facilmenente reperibili su Internet, sono montaggi fotografici molto sofiscati ma, allo stesso tempo, non sono fotografie. Non riproducono alcun soggetto reale e la loro natura è virtuale. Si direbbe che la Unheimlichkeit dell’immagine fotografica è qui raddoppiata. Malgrado la verosimiglianza tecnica, manca la scintilla di vita a questi ritratti. Manca l’imperfezione, l’asimmetria propria a ogni viso umano. Questi personaggi paiono cadaveri cogli occhi aperti. Cosa potro’ riuscire a far dir loro?

phantombilder

Zoo, 1997-2011

Il giardino zoologico di Roma, prima della trasformazione in “Bioparco” e in un giorno di scarso pubblico. Le gabbie fotografate durante l’assenza del loro inquilino, fermate nello stato d’attesa. Una velatura di colore, un rosa “antico” ad accentuare un effetto di straniamento. Molti anni dopo, un passaggio successivo: tornano gli animali che avrebbero potuto occupare quei luoghi, ma tornano come effigi cucite, col filo rosso o con quello nero, da un artigiano maldestro.

zoo-06-copy

La preoccupazione del padre di famiglia (1999-2008)

lppf-01

Esslingen 2000

lppf-03

Rome 2003

lppf-02

Malborghetto 2004

lppf-04

lppf-05

Acicastello 2007

lppf-06

lppf-07

Burning man 2008

lppf-08

lppf-09

Daegu 2008

lppf-10

lppf-11

La preoccupazione del padre di famiglia
1999-2004
Inchiostro tipografico su seta (170×50 cm)
Circa 20 pezzi, dimensione dell’opera variabile secondo il sito dell’installazione

Il lavoro nominato La preoccupazione del padre di famiglia è un episodio di fotografia della storia.

Lungi dal trattare con fini dimostrativi i soggetti offerti dal passato storico, Puglia li riprende esaltandone in modo parodistico la loro natura fantomatica.
In quest’opera, in particolare, sono ri-presentate su un supporto leggero e volatile, in contraddizione col loro soggetto, delle immagini tratte dalle ricerche antropologiche sviluppate all’università di Uppsala, in Svezia, negli anni, ’20, ricerche tese a definire i tipi razziali e a dimostrarne l’esistenza stessa.

La fragile testimonianza della fotografia diviene qui una sorta di derisoria iconicità.

La presentazione di queste figure sotto forma di vessillo è un ulteriore processo deformante. Queste banderuole di seta, sparse nel deserto e svolazzanti alla minima brezza, segnalano semplicemente la presenza del passato e la nostra responsabilità nei suoi confronti: hic est historia.

Autopresentazione (2006)

Il mio programma artistico, da una quindicina d’anni a questa parte, è quello di riprendere la “nostra” storia attraverso un procedimento di trasformazione estetica.

Nel ri-presentare le immagini, trovate o create che siano, conferisco loro un’ombra. Questa è talvolta più leggibile delle immagini stesse, che sono sovrapposte e confuse, così come accade spesso nel lavorio della memoria.

Ma, più che un’arte della memoria, questo lavoro intende essere una fotografia della storia. Così come la nostra storia, esso si aggira nello spazio fra ciò che è perduto e ciò che rimane, fra ciò che è mostrato e ciò che resta celato, fra indizi reinterpretati e reperti frammentari. Il suo punto centrale è la convinzione che tanto la storia quanto le immagini non dovrebbero mai essere lasciate a se stesse, e che debbano essere sottoposte a misure radicali di metamorfosi.

Quanto al mio approccio metodologico, esso consiste nel mettere in relazione un determinato soggetto con un determinato materiale, lasciando all’espressione dell’uno e dell’altro, all’interno di una cornice formale costrittiva, una certa casualità di combinazione.

All’inizio, le lastre radiografiche ritagliate creavano sui documenti originali un gioco d’ombra e di luce, di trasparenza e d’opacità che tendeva a ingannare l’inevitabile saturazione dell’immagine.
In seguito ho riprodotto gli stessi documenti su supporti trasparenti, semplici fogli di acetato. Li ho sovrapposti ad altri documenti, che “non hanno niente a che vedere”, o a vecchi lavori personali, ritagliati, ridipinti. Ho nascosto queste immagini sotto griglie metalliche, fra due vetri, le ho allontanate dai muri, perché una qualunque fonte di luce le trasformasse in ombre.
Nell’ombra ritrovavo il primo stadio della riproduzione. E nella riproduzione ho continuato a lavorare: utilizzando materiali d’industria quali le gelatine, il PVC, gli acrilici fluorescenti intendevo sottrarre all’icona la sua originalità, la sua aura, presentandola come un simulacro. Inoltre questi materiali mi permettevano di trasfigurare un soggetto triviale, oppure di banalizzare un soggetto roboante.

Se la riproduzione funziona come un arnese di conservazione, ciò va insieme con una necessaria perdita. Essendo in ogni modo persa l’immagine primaria, rimangono le infinite possibilità di ricrearla con la nostra immaginazione.

The Postcard (Terni 2006-Seoul 2009)

the-postcard-00

the-postcard-011
Saint-Ouen, France *
.

 

the-postcard-021

the-postcard-031

the-postcard-041
Terni, Italy *
.

La colonna sonora dell’installazione (Philippe Poirier, The Postcard, 8’29”):

.


.

seul-01

the-postcard-061

seul-03

the-postcard-081
Seoul, Corea ***

.

The Postcard

Un intervento d’artista intorno al gemellaggio Terni-Saint Ouen

Terni e Saint Ouen sono governati da due amministrazioni che hanno deciso, alla fine degli anni ’50, di gemellarsi. Il motivo di tale scelta era un’evidente analogia nella storia e nella composizione sociale delle due città, entrambe industriali, entrambe colpite dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, entrambe amministrate da partiti rappresentanti la classe operaia. Ancora in questi anni i destini delle due città sono simili, con la chiusura di taluni complessi industriali e la necessaria riconversione degli spazi urbani.

Fino ad ora i rapporti fra le due città sono stati incentrati intorno a scambi culturali episodici (gite scolastiche, partecipazioni di artisti a mostre di gruppo, partite di calcio, eccetera). Negli ultimi anni sono emerse, tuttavia, due realtà parallele alle istituzioni locali: a Saint Ouen ha aperto nel 2001 Mains d’oeuvres, un centro d’arte multimediale che accetta artisti in residenza sulla base di progetti che si rivolgono alla popolazione. Nello stesso tempo, a Terni, la ex Siri è sulla strada di diventare un luogo aperto all’attività di artisti internazionali.

L’installazione di S. Puglia esplora il concetto di tipico: cosa è che definisce visivamente uno spazio pubblico e l’identità locale che su quello si ancora? Esistono degli standard, degli elementi visivi che possono designare la specificità di un luogo, agli occhi dei suoi stessi abitanti? E il tipico, il caratteristico di un luogo, non è allo stesso tempo un generico interscambiabile?

Per verificare questa ipotesi Puglia ha percorso rapidamente, in bicicletta e a piedi, i centri urbani di Terni e di Saint Ouen. Ha fotografato, senza un vero criterio di scelta, i luoghi più comuni e i più “tipici”: crocicchi, piazze, semafori, parcheggi, statue, monumenti.
Ne ha ricavato due serie di diapositive che vengono proiettate in un lento diaporama di immagini parallele e sovrapposte, carte postali anodine di una serata “proiezione” al ritorno da un viaggio in un paese esotico.

Ai due lati di questa proiezione, su due pareti opposte, appaiono due strani mostri. Si tratta di due “caratteristici” monumenti di ognuna delle due città. Nel corso delle sue deambulazioni, difatti, Puglia ha scelto nel modo più casuale due sculture che non rappresentano altro che l’epoca e lo spirito in cui sono state edificate, ma che vengono qui presentate come delle icone arbitrarie: più che della rappresentatività estetica di uno spazio pubblico, esse rendono conto della soggettività di una scelta artistica.

Le sculture riprodotte sono parti di due monumenti più complessi. L’uno è la figura giacente di un vecchio, nello Square Marmottan a Saint Ouen; l’altro è un bassorilievo che sovrasta il monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, a Terni.

Entrambe le sculture sono appiattite e scomposte. Sono state riprodotte usando centinaia di piccole fotografie 10×10, con un effetto di “pixellizzazione”. Si tratta di fotografie fatte con un apparecchio di plastica di fabbricazione tedesca, un Carena 51, che dà stampe di formato quadrato. Queste immagini non mostrano vedute delle due città, ma tutti i luoghi visitati dall’artista nel corso degli ultimi quindici anni, ovunque sul pianeta. Si tratta quindi di un rumore di fondo. Nella stessa maniera, la composizione musicale di Philippe Poirier, che accompagna la successione delle immagini, presenta una sorta di “suono del mondo”.

L’aspetto autobiografico della pratica artistica e la ricerca su un luogo di lavoro (come è lo spazio urbano) si compongono in questa installazione multiforme.

 

Quattro pose statuarie (2006)

Fra le decine di disegni che Annamaria Morbiducci mi ha mostrato, ho deciso di confrontarmi con gli schizzi preparatori per le quattro formelle bronzee che Publio eseguì, intorno al 1928, per due porte della Casa madre dei mutilati di guerra, a Roma.

Il tema a lui assegnato dalla committenza (la stessa ANMIG, ovverosia l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra) era piuttosto costrittivo: si trattava di celebrare la vittoria in guerra (1915-18) delle varie Armi, di terra, di mare e d’aria.
Che siano dunque rappresentate in atteggiamento “terrifico” oppure statico, queste Vittorie, rigorosamente alate, hanno comunque a che fare con nemici mostruosi e maneggiano gladi, spade, saette e arpioni.

Lo stile delle formelle morbiducciane mi pare essere al passo con i propri tempi: riecheggia un classicismo sintetico non esente da influssi art-déco.
La coeva plastica francese, quella di un Bourdelle ad esempio, potrebbe esserne una fonte d’ispirazione.
Ma in quegli anni potremmo incontrare in ogni capitale europea testimonianze scultoree siffatte (con l’eccezione, forse, di Berlino, ancora avanguardistica in arte, non ancora messa al passo d’oca).
Non si può tuttavia sostenere che, in questo caso, l’arte di Morbiducci sia arte di regime. La costruzione e le successive committenze della Casa madre, se hanno accompagnato gli anni del consolidamento del fascismo, non ne sono ancora completamente influenzate, quanto a tematiche e a retoriche.
Si può parlare piuttosto di una visione ideologica della Prima guerra mondiale come compimento post-risorgimentale dell’unità della nazione. Tale visione era comune anche presso intellettuali e artisti di origine liberale e di pratica antifascista (quali, fra gli altri, Giovanni Amendola e Piero Calamandrei).

Sia come sia, Morbiducci si mise all’opra nel modo più tradizionale, preparando le sue sculture con una serie di bozzetti e di schizzi, a matita e a pastello, dal vivo.
Visto il carattere un poco accademico di tali pose, è evidente come esse fossero una sorta di pensiero plastico in fieri, che gli permise la sintesi statuaria, formalmente piuttosto riuscita, delle quattro formelle bronzee.

E’ dunque con questo “pensiero plastico in fieri” che mi confronto, considerando i disegni delle Vittorie per quello che sono, e cioè un momento di passaggio, una transizione fra idea ed esecuzione.
Ed è proprio il loro carattere di non-opera, o opera incompiuta, che mi autorizza a sovrapporre loro altre non-opere, o altre opere incompiute, usando delle tecniche frammentarie in mio possesso: sovrapposizioni, sbordamenti, stratificazioni, trasparenze.

In particolare, ho concepito la serie di quattro grandi formati denominata Trasparenze P.M: 1928, che riproduce direttamente le formelle (trasformandole da elementi decorativi a presenze monumentali), come un confronto, appena accennato, con la coeva arte europea: ho immaginato che si richiedesse la stessa prestazione ad artisti costruttivisti, dadaisti, surrealisti, astratti. Le linee sinuose di Morbiducci vengono così interrotte o coperte da segni brutali e talvolta malaccorti che a quelle avanguardie fanno richiamo.
I materiali da me scelti, prodotti dell’industria di massa, contrastano con la preziosità e la perennità del bronzo: fotocopie su carta, reti di zanzariera, teloni di plastica, pannelli di policarbonato, cere da asilo d’infanzia.

Le formelle celebrative della vittoria divengono in tal modo il monumento effimero della forma mutilata.

trasparenze-2

trasparenze-3-4

quattro-pose-01

quattro-pose-03

Promemoria (Taggia 2005)

Una mostra “performativa”?

Ciò che la mostra di Taggia sul patrimonio culturale e i rischi sismici si propone è costituire un esempio di “memoria performativa”. E’ la proposta di una testimonianza fondata sì sull’indagine storica, sulla ricostruzione per quanto possibile accurata dei fatti avvenuti, ma che non è solo conservazione di conoscenze acquisite: è trasformazione di queste in avvenimento, manifesto, manifestazione e – eventualmente – drammatizzazione. E’ un approccio alle cose del passato e alla loro ri-creazione che richiede metodi e pratiche provenienti dal campo dell’estetica, e che intende superare l’alternativa tra memoria e oblio (bisogna conservare e testimoniare tutto il passato, oppure si può omettere e dimenticare qualcosa, per consentire una pacificazione di vecchie contese?). E’ un’alternativa falsa perché ognuno di questi termini – memoria e oblio – contiene l’altro in sé, lo implica necessariamente.

La mostra organizzata a Taggia nel gennaio-febbraio 2005 nasce da un evento, il terremoto del febbraio 1887, che costituisce una ferita nella storia e nella terra della Liguria di ponente. Evidenziare quanto e come tale ferita sia stata risanata è suo compito. Si vedrà come l’intreccio di reminiscenza e dimenticanza (con una certa prevalenza della seconda) ha creato l’aspetto attuale di quel territorio, assumendo nei fatti una funzione “performativa”.
Il tentativo di restituire allo sguardo ciò che è avvenuto in quell’anno e nei cento che lo hanno seguito – così come quello di mostrare lo stato di quei beni che l’uomo ha impiantato in questi luoghi – non può presentarsi come una mera opera di archiviazione e catalogazione. Per quanto le metafore dell’archivio e del catalogo siano sempre presenti nel percorso dell’esposizione Promemoria, si è preferito quella di “cantiere”. Così come lo stato delle nostre conoscenze è un continuo movimento di farsi e disfarsi, e la geografia stessa di queste terre è fatta di costruzioni e demolizioni, una mostra che vuole rendere conto di ciò non può avere una forma conclusa, né proporre un discorso finito. Una mostra che parla di ferite nel territorio, di cesure nella storia e dei modi e delle opportunità di risanarle o meno, non può non avere lati spigolosi, muri sbrecciati, voci dissonanti. L’aspetto performativo che si menzionava è quella pratica di trasformazione del materiale documentario che – nel renderlo leggibile sotto luci diverse – costituisce l’operazione critica di se stessa e del proprio oggetto.
A questo scopo – con un metodo che è allo stesso tempo filologico ed estetico – si sono usati i mezzi audiovisivi della nostra epoca: gli apparecchi fotografici digitali, i registratori, le videocamere. Nostro intento era precisamente superare il carattere dimostrativo e didattico di un’esposizione scientifica per farne un rendiconto, esaustivo per quanto possibile, ma aperto all’interpretazione – e all’emozione – di un pubblico che è il diretto interessato.

La mostra di Taggia è divisa in tre parti. Esse rispecchiano da una parte le opportunità e le costrizioni del luogo che la ospita – il palazzo Lercari – e rispettano dall’altra il principio della nostra “museografia”: fare con ciò che si trova, lavorare con le disponibilità umane, gli spazi e i materiali locali, intersecare le nostre conoscenze e le nostre pratiche con quelle di chi sul posto vive. Il rapporto che abbiamo cercato sia con l’amministrazione comunale che con il Circolo culturale tabiese che con tutte le persone incontrate è nato da questa convinzione: non si tratta tanto di restituire al territorio le informazioni che dal territorio si sono prese – sebbene “messe in forma” -, quanto di riesaminare insieme con coloro che qui vivono qualche aspetto della nostra temporanea presenza.
Un altro principio ha guidato il lavoro della mezza dozzina di persone che hanno montato l’esposizione: se esistono competenze specifiche, non ci sono mansioni separate. Tutti partecipano all’elaborazione concettuale e tutti danno una mano al montaggio. Ognuno sa cosa gli altri stanno facendo; un’idea di interscambiabilità si sostituisce, per quanto possibile, a quella di specializzazione. Questo è il motivo per cui l’allestimento della mostra di Taggia è stato firmato collettivamente.

Alcune note, infine, sulla struttura di Promemoria.
C’è una prima sala, che abbiamo battezzato Deposito. Questo è il luogo in cui il problema “si pone”, senza che per esso venga accennata alcuna soluzione. Immagini dei luoghi percorsi dalla nostra ricerca, materiale sparso e sedimentato, scarti del nostro lavoro che in negativo danno la forma della mostra, fotografie di edifici danneggiati: “c’è un problema”.
La seconda sala di palazzo Lercari è stata nominata Museo. E’ questo un luogo in cui si presentano documenti. L’allegoria è quella di un museo di storia locale “à l’ancienne”, in cui vengono raccolti, senza distinzioni gerarchiche o di qualità estetica, tutti gli oggetti e i dati che hanno a che fare con un determinato luogo o avvenimento, in questo caso il terremoto del 1887. Dalla profusione di documenti scaturisce l’immaginazione di ciò che un tale avvenimento ha potuto significare, e come possa continuare a essere presente malgrado il tempo trascorso e le necessarie ricostruzioni. Questa sala ospita quindi i materiali di archivio di carattere audiovisivo che abbiamo potuto rintracciare. Tali materiali già indicano alcune delle modalità in cui può rivivere un luogo colpito dalla catastrofe.
Si passa alla terza stanza, il Laboratorio. Così come tutta l’esposizione, essa è stata pensata secondo i principi di sovrapposizione e sbordatura. Così come il presente storico è fatto di stratificazioni, aggiunte, omissioni, riappropriazioni e dimenticanze, i materiali del cantiere che è la grande sala di palazzo Lercari si confondono a tratti fra di loro, si distinguono, tornano a confondersi.
I diversi supporti documentari o elaborati sbordano l’uno sull’altro: i paesaggi fotografici di Vittore Fossati, le fotografie digitali dell’UR8, le carte topografiche e geologiche, le immagini aeree. Si è voluta platealmente dare l’immagine di un intreccio da dipanare, di un diagramma da decifrare. Si è affidato questo “sdipanamento” alle storie esemplari di alcuni oggetti, a quattro microstorie che illustrano in altrettanti film punteggiati da didascalie sonore i modi diversi che hanno gli oggetti di sopravvivere ai cataclismi naturali e all’incuria (o alla cura) dell’uomo per le cose che ha ereditato.
La morale di queste storie è che non c’è una soluzione data al problema posto in partenza, ma tante soluzioni parziali e diverse. La mostra si conclude in questo modo, con un appello all’attenzione e alla cura.

Salvatore Puglia
Gennaio 2005

taggia-01-02

taggia-03

taggia-04

taggia-05

taggia-06

taggia-07

taggia-08

IRWIP (2005)

Comunicazione: “Il test pseudo-isocromatico di Ishihara e la sua variante Puglia”

1.
Nel 1917 il medico militare e futuro decano dell’Università Imperiale di Tokyo, professor Shibaru Ishihara (1879-1963), che era stato allievo di Stock a Jena, di Axenfeld a Freiburg im Breisgau e di von Hess a Monaco di Baviera prima di essere costretto a tornare in patria allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, mise a punto un sistema di riconoscimento del daltonismo che è tuttora praticato, e di cui tutti coloro che hanno passato la tre giorni per il servizio militare sono a conoscenza.
In una serie di dischi colorati con svariati inchiostri (fino a nove diversi) vengono tracciati cerchi e punti di dimensione e luminosità variabile, fatto che rende indistinguibile, se non per il tipo di colore, un determinato segno che si celasse nell’insieme. Ad esempio, un daltonico deuteropatico difficilmente distinguerà un segno rosso su di un fondo a dominante verde.
Il test cosiddetto “pseudo-isocromatico” di Ishihara – la cui versione completa è costituita di 38 tavole – è particolarmente affidabile (al 98%) nell’individuazione delle discromatopsie ereditarie dei protanopi e dei deuteranopi.
Le tavole da 1 a 25 presentano dei numeri arabi. I numeri sono i segni la cui lettura è comune a occidentali e orientali, ed è certo questo il motivo per cui sono stati impiegati nella versione internazionale del test; né le lettere dell’alfabeto latino, né i pittogrammi cinesi, né i geroglifici egizi sarebbero stati altrettanto utilizzabili.
Le tavole da 26 a 38 sono pensati per gli analfabeti o i bambini: vi sono tracciati percorsi sinuosi, che vanno seguiti dall’esaminando con l’uso di una penna o di un dito.

2.
La serie di lavori che qui umilmente propongo formano una variante culturale al test di Ishihara. Essa è applicabile tanto agli illetterati quanto alle persone alfabetizzate di ogni razza e colore: occorre giusto che esaminante e esaminando si intendano nel chiamare le cose con il loro nome.
Per finalizzare la mia umile proposta, ho riadattato una prova per bambini dalla vista offesa, correntemente in uso nei servizi oftalmici degli ospedali francesi: trattasi del test optometrico di R. Rossano e J-B. Weiss-Inserm, che prevede il riconoscimento di alcune icone familiari alla nostra infanzia: autovettura, bicicletta, cane, albero, gallina, falce di luna.
Non è senza una qualche fierezza che propongo l’uso del mio test per le deficienze cromatiche. In quanto pittore e – beninteso – specialista della percezione, della visione e – conseguentemente – del colore, non potevo non rivolgermi con empatia a quell’8% della popolazione mondiale che – in media – non distingue pertinentemente tutta la tavolozza del mondo che ci circonda, e quest’umile sintesi Ishihara-Rossano-Weiss-Inserm-Puglia lo aiuterà meglio a realizzare ciò che si sta perdendo.

Futuro postumo, 2004.

… un immenso deserto lunare …

Per questo mio lavoro di accompagnamento iconografico al testo di Piero Calamandrei ho usato un principio di stratificazione, a partire da tre elementi documentari contemporanei fra di loro, che ho disposto come livelli parzialmente compenetrati. I tre livelli si coprono reciprocamente oppure si leggono l’uno malgrado l’altro. Più che sostegno reciproco, insomma, c’è contraddizione fra i vari strati. Il forte chiaroscuro e una certa rudezza della composizione sottolineano questo principio.
Come sfondo delle illustrazioni a Futuro postumo ho scelto fotografie tratte da un volume, Romantisches Deutschland, pubblicato in quegli stessi anni ‘50 in cui lo scrittore concepiva il suo racconto della fine dell’uomo. Le immagini di questo album fotografico mostrano una Germania del secondo dopoguerra nella quale nulla sembra essere avvenuto. Non vi è alcuna traccia visibile delle distruzioni del conflitto né degli eventi epocali che su quella terra erano occorsi. Una tale descrizione a-temporale e fermata pare appunto denunciare, suo malgrado, quei luoghi dell’occidente come la scena finale della narrazione storica progressiva.
Mi è parso opportuno scegliere un tale sfondo per le mie sovrapposizioni: così come in quelle immagini del dopoguerra non esiste traccia della catastrofe avvenuta, allo stesso modo nel testo di Calamandrei la distruzione avviene senza traccia visibile, se non è l’improvvisa assenza del fattore umano. E nelle immagini di Romantisches Deutschland – nella rinuncia a mostrare un contesto storico – sono proprio i “personaggi” a mancare. Non ci sono uomini in quelle sontuose fotografie, e tanto meno tracce della contemporaneità. Questo aspetto, insieme con quello dell’assenza di ogni approccio al passato che non fosse quello di una sorta di conservazione aprioristica del “patrimonio culturale”, mi ha autorizzato a trasformare quei documenti iconografici: li ho ingranditi fino a sgranarli – rendendoli astratti e fantomatici – e li ho deformati – allungandoli in una sorta di anamorfosi che è un modo di reintrodurre un aspetto di precarietà in un’immagine data una volta per tutte.
A questi fondi ho sovrapposto tavole, fotografie e disegni tratti dalle enciclopedie dell’epoca (in particolare le appendici 1949-1960 dell’Enciclopedia italiana) e illustranti i progressi delle scienze e delle tecniche; fra tutti ho scelto quelli che mi richiamavano le “magnifiche sorti” della tecnologia occidentale. La mia ricerca lessicale si è svolta spuntando il testo di Calamandrei e traendone gli accostamenti forse meno letterali ma più rispondenti a un immaginario fantascientifico di quegli anni: “raggio di azione”, “deserto lunare”, “giroscopio stratosferico”, “matematica sublime”, “disgregazione atomica per risonanza”, “musica atomica”.
Il terzo elemento delle sovrapposizioni è stato fornito dal manoscritto stesso di Piero: ho utilizzato piuttosto l’aspetto grafico della sua scrittura, che allo stesso tempo rivela una sorta di precisa spontaneità e mostra i ripensamenti e le cancellature sui fogli che l’autore si trovava sotto mano. Non c’è corrispondenza descrittiva fra documento e illustrazione; ho usato la grafia riprodotta piuttosto come un leitmotiv. Il riferimento diretto al testo – come si deve in un libro illustrato – è fornito dalla didascalia a stampa che accompagna ogni immagine.

stampe_futuro2

stampe_futuro3

stampe_futuro4

stampe_futuro6

stampe_futuro7

stampe_futuro8

Ces estampes sont une partie des illustrations au récit fantastique de Piero Calamandrei Futuro postumo, testi inediti 1950, Le Balze, Montepulciano, 2004, où l’écrivain imagine un monde d’où le genre humain – à la suite de la catastrophe nucléaire – serait absent. Elles présentent trois couches superposées: les paysages vides de Romantisches Deutschland, ouvrage photographique paru dans les années ’50; des fragments du manuscrit de Calamandrei, qui date de 1950; des planches techniques d’après des encyclopédies parues en ces mêmes années ou bien issues d’ouvrages anthropologiques (Le geste et la parole d’André Leroi-Gourhan, notamment).