Millenovecento (2018-2024)

Below are works from a new series on the Ex voto theme, featuring red fluorescent shapes painted on paper documents. The subject is, plainly, “my” XXth Century. The Ex voto series was created and exhibited from 2004 to 2006. This new series is photography based: a black and white image printed directly on glass is superimposed on a “re-painted” found paper.
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2017 Civiltà romana 06 30x30

2019 Ara Poliphili 02 20x30

 

2019 Cranial nerves 02 30x40

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Millenovecento, installation in progress (120×160 cm), October 2019:
Millenovecento parziale

Nella mia installazione del 2006, Ex voto, intervenivo con forme di colore sui miei propri disegni, così come su documenti originali trovati negli archivi e nei mercatini di quartiere. Il riferimento evidente di questo lavoro erano i tanti muri delle chiese italiane coperti di quadretti o di formelle di parti del corpo in argento. Nel mio caso, non si trattava tanto di rendere grazie a un salvatore intervento divino, quanto di presentare una parodia laica di questi memoriali.

La struttura a mosaico (o a « quadreria ») dell’installazione affermava che ogni pezzo, pur essendo unico e insostituibile, non poteva avere senso se non nel contesto di quelli che lo circondavano. La cornice di piombo, che costruivo nel concepire l’immagine, costituiva un tutt’uno con l‘immagine presentata.

Una dozzina di anni dopo il compimento di quel lavoro, ne presento una “ripresa”, a base fotografica stavolta. E stavolta l’installazione è più decisamente orientata sulla storia, la nostra comune storia intrecciata alla mia biografia. In questo senso “storicizzo” me stesso in quanto uomo che ha vissuto la maggior parte della sua vita nel secolo passato.

Non c’è una gerarchia delle immagini né per pregnanza né per qualità. A buone stampe analogiche di mie foto accosto ritagli di giornale, fotocopie, fotografie da archivi privati. A volte l’immagine è riprodotta su vetro e sovrapposta a documenti cartacei, altre volte è la fotografia su carta che fa da sfondo a un testo o a un grafico riprodotto su vetro.

Ogni volta è presente un passaggio di colore, un rosso luminescente, che crea uno sfalsamento della visione e che è, a tutt’oggi, un po’ la mia firma.

Quest’installazione di un centinaio di pezzi sarà doppiamente storica: difatti debbo interrompere il mio ventennale stile di lavoro. La ditta UCIC di Asti è recentemente fallita, ventiquattro fra suoi ventisei addetti si trovano in disoccupazione, e né io né i miei amici italiani riusciamo più a trovare, in qualche fondo di magazzino, l’insostituibile Lumen Rosso 26.

2019 Z Lumen


Millenovecento, full installation, March 2021.
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The installation at the Gallery Sit down, Paris, October 2020-January 2021.


At the Gallery Troisième oeil, Bordeaux, March-May 2021.
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Here’s the artist’s comment on each piece:
Millenovecento 01-120 and Millenovecento 121-156.

In my 2006 installation, “Ex-voto“, I intervened with color shapes on my drawings, as well as on original documents found in the archives and in the neighborhood markets. The clear reference of this work were the walls of the Italian churches covered with small squares or panels of silver body parts. In my case, it was not so much a matter of giving thanks to a savior divine intervention, but of presenting a secular onthese memorials. The mosaic structura of the installation states that each piece, unique and irreplaceable, could not have meaning except in the context of those around it. The lead frame, which I built in conceiving the image, was one with the image presented. A dozen years after the completion of this work, I present a «shot», based on photography. This time the installation is more decidedly history-oriented, our common history intertwined with my biography. In this sense, I «historicize» myself as a man who lived most of his life in the past century. There is no hierarchy of images neither by the subtance nor by the quality. A good analogue prints of my photos alongside newspaper clippings, photocopies, photographs from private archives. Sometimes the image is reproduced on glass and superimposed on paper documents, other times it is the photograph on paper that is the background of a text or a graphic reproduced on glass. Each time there is a color change, a luminscent red, which creates an offset and which is, to date my signature.

Here a reminder of the
Ex voto installation, 2006 (200×350 cm):

Déjà, Espace Commines, Paris

DSCN0277

2006 Ex voto 01

Déjà 01

Déjà 02

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Fenomeni morbosi svariati (Anni Settanta, cinque)

Un quinto trittico sulla tematica degli anni Settanta.

Questa serie include: tre riproduzioni di scene del Miracolo dell’ostia consacrata di Paolo Uccello (1467-1468), sulle sei che comprende la tavola, in trasparenza su tre fondi derivati dagli archivi storici italiani, in particolare il Casellario Politico Centrale conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma.
I tre fondi: una trascrizione manuale della lettera sequestrata a un detenuto nelle carceri fasciste nel 1929 (negli anni 1977-1980 frequentavo quotidianamente l’Archivio per le mie ricerche sul movimento bracciantile di inizio secolo); la foto segnaletica di Antonio Gramsci del gennaio 1935, che ho trasformato su Photoshop a farne un logo alla Che Guevara; la riproduzione della prima pagina dell’indice informatico del Casellario, alla voce: ”detenuti politici”; il terzo elemento di fondo è la riproduzione di una tavola da Il Medioevo fantastico di Jurgis Baltrusaitis, che acquisii nel 1979 come documentazione per il mio studio della predella di Urbino (studio che divenne una tesi di specializzazione in storia che non ho mai presentato e che peraltro ho smarrito).
Quanto al primo piano del quadro: sono ben cosciente di aver parassitato la bellezza della predella di Urbino, che è del resto ciò che mi spinse a studiarla, quarant’anni fa, per potervi entrare dentro in un modo forse meno intrusivo di quello odierno.

Il titolo del trittico è estratto dalla celebre frase di Gramsci dai Quaderni del Carcere, ‘’La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati’ (Quaderno 3, XX, § 24).
L’interregno, nel mio lavoro che da tempo funziona come una stratigrafia al negativo (”per forza di porre” invece che ”per via di levare”), è semplicemente, un’altra, traslucida, dimensione.

Per la genesi di questa serie, vedi: http://salvatorepuglia.info/2023/12/i-mostri-di-gramsci-2023/.

Le fonti sono queste:

La foto segnaletica di Antonio Gramsci.
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La prima pagina dell’indice informatico del Casellario Politico Centrale, voce ”detenuto politico”.
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La trascrizione manuale di una lettera sequestrata a un antifascista detenuto, 1929.
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La riproduzione di due tavole da Il Medioevo fantastico di Jurgis Baltrusaitis, Milano 1979.
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Fenomeni morbosi svariati 01, 24×42, 2023.
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Fenomeni morbosi svariati 02, 24×42, 2023.
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Fenomeni morbosi svariati 03, 24×42, 2023.
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Note pour le lecteur francophone : pour un travail de synthèse de cette série, voir Fenomeni morbosi ter 02.

 

I mostri di Gramsci, 2023.

Ogni volta che ho cercato me stesso, ho trovato gli altri.
Ogni volta che li ho cercati, in loro non ho trovato
che me stesso straniero.
Che io sia il singolo-moltitudine?

Da: Mahmud Darwish, Murale, Milano 2005, traduzione dall’arabo di Fawzi al-Delmi.
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La frase di Gramsci, scritta nel carcere di Turi nel 1930 (fra il crack di Wall Street dell’ottobre del ’29 e l’affermazione del nazismo e dello stalinismo), ‘’La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati’’ diviene “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”, sui manifesti verdi e rossi comparsi per le vie di Roma nel dicembre 2018.

Il cambiamento lessicale è stato operato dall’artista cileno Alfredo Jaar, il quale, per una sua installazione sui pannelli di affissione pubblica del Comune di Roma, ha utilizzato una traduzione italiana della traduzione francese di Gramsci, la quale recita: ’Le vieux monde se meurt, le nouveau monde tarde à apparaître et dans ce clair-obscur surgissent les monstres’’ (vedi la sua intervista a Artribune :
https://www.artribune.com/arti-visive/street-urban-art/2018/12/cosa-significano-quei-manifesti-su-gramsci-che-hanno-invaso-roma/).
”La dichiarazione che ho usato per il mio intervento pubblico a Roma è una riflessione perfetta su quello che penso stia accadendo oggi in Italia”, dichiara ad Artribune l’artista Alfredo Jaar. “La frase originale di Gramsci era la seguente: La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. Questa dichiarazione è stata tradotta in molte lingue e la mia versione preferita era in francese: Le vieux monde se meurt, le nouveau monde tarde à apparaître et dans ce clair-obscur surgissent les monstres. Poi per caso, ho scoperto una versione italiana, traduzione di quella francese, che mi è piaciuta moltissimo perché al posto della parola interregno usa chiaroscuro, e al posto di i fenomeni morbosi più svariati usa mostri. Ho usato questa traduzione perché la trovo potente e poetica allo stesso tempo”. E così l’artista cileno ha realizzato manifesti verdi e rossi con caratteri in bianco che recitano: Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri, una citazione della prima metà del Novecento, ma purtroppo sempre attuale. “A certi studiosi di Gramsci potrebbe non piacere, ma come artista mi sono preso la licenza poetica di usarla” afferma Jaar. “In un certo senso, si è trattato di un pretesto per portare la voce e le idee di Gramsci nell’Italia di oggi, perché sento che è necessario più che mai.” (…)

Questa stessa traduzione francese che ha ispirato la versione di Jaar era stata ripresa da Edwy Plenel nel suo Dire non (Don Quichotte éditions, Paris 2014, pp. 17-18). Plenel è ben consapevole di avere scelto una versione poetica, che non tradisce però il senso originario della citazione gramsciana: ‘Il est des alarmes que leur pertinence transforme en sentences proverbiales, bien loin de leur contexte historique. Au risque, parfois, d’une perte d’intensité, où s’affadit l’inquiétude première. Ainsi de cette réflexion d’Antonio Gramsci dans ses Cahiers de prison sur la crise comme conflit entre un vieux monde en train de mourir et un nouveau monde pas encore né. ‘’La crise consiste justement dans le fait que l’ancien meurt et que le nouveau ne peut pas naître’’, écrit précisément, en 1930, le communiste italien, emprisonné par le fascisme jusqu’à sa mort en 1937. Or on occulte trop souvent la phrase qui suit, où gît l’essentiel : « Pendant cet interrègne, on observe les phénomènes morbides les plus variés ». Essentiel sur lequel, en revanche, insiste, non sans bonheur, une variante poétique, souvent citée bien que littéralement infidèle au texte original italien : « Le vieux monde se meurt, le nouveau tarde à apparaître et, dans ce clair-obscur, surgissent les monstres ».
Nous vivons ce surgissement des monstres, ces phénomènes morbides des temps de transition et d’incertitude qu’à tort, l’on s’est habitué à nommer crises, comme s’il s’agissait de fatalités, alors qu’ils mettent à l’épreuve notre capacité à échapper aux pesanteurs du présent et à réinventer les espérances du futur. Ils sont bien là, ces monstres, devant nous, défilant dans nos rues, envahissant nos médias, imposant leurs imaginaires de violence et de haine (…)’’

Vedi, per la dizione originaria italiana, il rimarchevole lavoro di trascrizione e messa a disposizione del pubblico intrapreso da Alberto Soave in

Passato e presente

Qui la citazione, ripresa dal sito di Soave, ricollocata nel suo contesto:
‘’L’aspetto della crisi moderna che viene lamentato come «ondata di materialismo» è collegato con ciò che si chiama «crisi di autorità». Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.’’
(Quaderno 3 (XX), § 24. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. A cura di Valentino Gerratana. Torino, Einaudi, 1975, volume I, p. 311. Ringrazio Eugenio Testa, compagno di strade romane, di manifestazioni e di frequentazioni dell’Istituto Gramsci di Paolo Spriano negli anni Settanta.)
‘’Morboso’’, in italiano, è, mi pare, semanticamente assai vicino al concetto di mostruosità, nel senso di un fenomeno patologico, o anormale, forse più esplicitamente che il ‘’morbide’’ francese. Con ‘’morbo’’ in italiano si designa volentieri una malattia infettiva o degenerativa.

Comunque sia, è evidente che tanto il tuttora anonimo traduttore francese, quanto l’artista Jaar e il pubblicista Plenel abbiano fatto riecheggiare nei mostri di Gramsci quelli del pittore Goya: ‘’il sonno della ragione genera mostri’’, ‘’El sueño de la razón produce monstruos’’, acquaforte del 1797 della serie Los caprichos, per la quale Francisco avrebbe lasciato questo commento: ‘’La fantasía abandonada de la razón produce monstruos imposibles: unida con ella es madre de las artes y origen de las maravillas’’, in una sorta di autocritica artistica o, come altri vedono, di apologia dell’Illuminismo. ‘’I fenomeni morbosi più svariati’’, per Goya, non implicano necessariamente un’alienità dei mostri da noi.

Già nella ripresa di Plenel (inizio 2014) i ‘’mostri’’ cui si fa riferimento sono quelli dell’estrema destra risorgente, con il suo corollario di odio e intollerenza nei confronti de ‘’l’altro’’. Jaar ha gli stessi riferimenti per l’Italia del 2018, così come molteplici citazioni inglesi dell’espressione gramsciana avevano accompagnato l’elezione di Trump nel dicembre 2016 (“The old world is dying, and the new world struggles to be born: now is the time of monsters”). Sempre però il mostro è alieno, anche se originario dello stesso corpo sociale. Cioè: ‘’noi’’ siamo normali e ‘’quelli’’ sono strani, o stranieri.

La difficoltà per me è già quella di dire ‘’noi’’, anche se, pur non volendolo, dentro a un ‘’noi’’ sono incluso: perché altrimenti, se sento ‘’quello è mussulmano’’ o ‘’quello è israeliano’’ o ‘’quello vota Le Pen’’, il mio primo moto non è di andare ad abbracciare la sua alterità, ma ho bisogno di un attimo di riflessione prima di includerlo nel mio panorama mentale e affettivo? (il mio ”noi”, eventualmente sarebbe quello di uno studente del Liceo classico statale Virgilio di Roma, figlio di repubblichini, che nell’anno 1972 era allo stesso tempo cattolico e comunista extraparlamentare; non mi pare che ce ne fossero due).

Il peso del mondo, 18×42, 2019 (elemento dell’installazione Millenovecento 2018-2021).

Il mio ‘’noi’’, all’altro estremo, sarebbe quello di un’umanità comune, quella cui fanno appello l’ONG La Cimade e Edwy Plenel all’indomani dell’adozione al parlamento francese (con i voti della destra e dell’estrema destra) di una legge contro l’immigrazione che avrà valore storico (19 dicembre 2023).
Mi piace ridire il “noialtri” del compagno di Manziana, che è un modo di dire “noi” che non conosco in altre lingue (neanche nel nosotros spagnolo e portoghese). Lo voglio leggere in altro modo che non l’identitario e caciarone ‘’noantri’’ (”fra di noi”): noi, altri.

Rivengo alla traduzione francese: « La crise consiste justement dans le fait que l’ancien meurt et que le nouveau ne peut pas naître : pendant cet interrègne on observe les phénomènes morbides les plus variés » (Cahiers de prison, traduction sous la responsabilité de Robert Paris, Gallimard, 1996 : Cahier 3, §34, p. 283).
Quanto a quella inglese, è certo che ‘’ now is the time of monsters’’ è ben più seducente che ‘’in this interregnum, a wide variety of morbid phenomena occur’’ (per una recente analisi anglofona della frase gramsciana rimando al saggio di Gilbert Achcar, ‘’Morbid Symptoms: What Did Gramsci Really Mean?’’, in: Notebooks: The Journal for Studies on Power, pubblicato Online nel febbraio 2022).
E Achcar, nel rimarcare l’imprecisione storica della diffusissima citazione (così come Plenel aveva sottolineato quella linguistica), riconosce la sua pertinenza nei tempi attuali: ‘’It is hence on the far right of the political spectrum that we are witnessing at present the most spectacular ‘morbid symptoms’ produced by the degeneration of capitalist politics. Applying Gramsci’s sentence to this reality is therefore legitimate, even if it is historically inaccurate.’’

Nell’aprile del 1979 acquisii il volume di Jurgis Baltrusaitis Il Medioevo fantastico, Milano, Adelphi, 1973 e Oscar Studio Mondadori 1977, che rimane a tutt’oggi una fonte d’ispirazione importante per il mio lavoro. Non so se ci troviamo in un nuovo Medioevo, ma la visione di quello dello storico dell’arte lituano, in cui mondi apparentemente separati e sconosciuti l’uno all’altro si rivelano teatri di scambio culturale, è una visione cui tengo tuttora.

Suppongo che il Baltrusaitis mi occorresse come appoggio iconografico per una ricerca in corso sulla predella dell’Ostia profanata di Paolo Uccello, ricerca che avrebbe dovuto divenire un Diplôme d’Études Approfondies à l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, ciò che mai non divenne, essendo stato il 1980 non solo l’anno del mio primo soggiorno a Parigi ma anche quello dei miei primi tentativi artistici.

Ripensando al Paolo Uccello che in quella fine degli anni Settanta mi occupava insieme con i prodigi mostruosi di Baltrusaitis, mi è chiaro ora che cercavo dalle parti della normalità e dell’alterità, del ‘’noi’’ e del ‘’loro’’.

Gli storici dell’arte, in particolare Marilyn Aronberg Lavin (1967) et Jean-Louis Schefer (2007) hanno mostrato come la predella di Urbino, che narra la storia di una donna ‘’gentile’’ che procura un’ostia consacrata a un usuraio ebreo, il quale tenta di distruggerla col fuoco e col ferro e infine viene scoperto e suppliziato insieme con la sua famiglia, mentre l’anima della donna, dopo una lotta fra angeli e demoni, viene malgrado tutto salvata dall’inferno, si inscrive in un programma degli ordini mendicanti di edificazione dei Monti di Pietà, in alternativa al monopolio dei prestiti su pegno da parte degli usurai, maggioritariamente ebrei. Si trattava inoltre di affermare il recente dogma della transustantazione (Decreto sull’Eucaristia, 1551). La stigmatizzazione dell’altro era necessaria a questo programma.

L’essere di ‘’noi’’ o di ‘’loro’’ lo vivevo costantemente in quegli anni. Essendo buona parte dei miei amici e mentori di origine ebraica, ed essendo quello in Italia il momento di un rinnovamento dell’identità ebraica, anche nella critica al governo israeliano, mi capitava di trovarmi fuori posto e imbarazzante per gli altri, in una cena o un pranzo fra amici, in cui evidentemente ‘’non c’entravo’’. Ricordo come, nel giugno del 1982, al momento dell’invasione del Libano e del massacro di Sabra e Shatila, mi trovai a sentirmi dire: ‘’ma allora sono gli ebrei!’’ (vedi, al soggetto: Andrea Maori, Marta Brachini, Ebraismo: ricostruire dalle macerie L’associazionismo ebraico e di amicizia verso Israele nelle informative di polizia, Nuovi equilibri, Viterbo 2013, in particolare l’analisi del dibattito, nel luglio 1982 sulle pagine de Il Manifesto, fra Giorgio Agamben e Rossana Rossanda e il successivo intervento su l’Unità di Natalia Ginzburg).

Venti anni dopo, il 1° maggio 2002 – mi trovavo a vivere in Francia – partecipai a una Tribune publique, nella sala della Laiterie di Strasburgo, in occasione del secondo turno delle elezioni presidenziali francesi e dell’appello a votare Chirac per impedire l’elezione di Le Pen. Si era numerosi sulla scena a intervenire, uno dopo l’altro con i mezzi d’espressione di cui ognuno disponeva. Un collega artista portò una marionetta fatta di pezzi di scarto, che faceva parlare come fosse un ventriloquo. Io fui tra gli ultimi a parlare, in un’aula che si stava svuotando. Un’amica ha conservato gli atti di quella giornata:
Salvatore Puglia – plasticien italien.
Je vous prends quelques secondes, puisque je crois que ce qui compte ici, plus que de convaincre les convaincus, c’est de faire un geste symbolique et exprimer un témoignage. La parole, plus qu’ici entre nous, devrait être portée à celui qui a voté Front national.
Je vous prends quelques secondes, qu’on m’a demandé d’intervenir ici en tant qu’‘’italien’’. Or, être italien ne m’a jamais particulièrement intéressé. Être français ne m’a jamais particulièrement intéressé non plus.
Plus généralement, c’est le ‘’nous’’, le ‘’être entre nous’’ qui ne m’a jamais intéressé. (Qui avvertii una palpabile freddezza, fra il pubblico, riunitosi proprio per affermare una prima persona plurale). Il y a des situations exceptionnelles, et celle-ci en est une, où le ‘’nous’’ compte pour quelque chose. J’aimerais que cette fois-ci le ‘’nous’’ soit le plus large possible.
Je ne voudrais pas, le 6 mai prochain, devoir revenir chez vous en disant ‘’oh vous les Français, alors que nous les Italiens… ‘’

Torno al Medioevo fantastico. L’interesse di quest’opera è che, alla luce della sua conoscenza dell’arte orientale, Baltrusaitis dimostra come mondi che non sapevano neanche di conoscersi erano influenzati reciprocamente, almeno sul piano delle immagini: nei mostri e nelle bizzarrie medievali erano onnipresenti i motivi dell’arte islamica, buddista, cinese, oltre evidentemente all’eredità dell’antichità greco-romana, fino al soggetto dell’incontro fra I tre vivi e i tre morti, il quale ci sarebbe venuto dal Tibet.

Melfi, chiesa rupestre di santa Margherita. Taluni vedono nelle tre figure di sinistra Federico II di Svevia e suoi familiari in abiti da falconiere (vedi il sito Visioni dell’aldilà).

Trascrivo dal primo capitolo, ‘’Grilli gotici’’: “L’Antichità greco-romana possiede due volti: da una parte, un mondo di dèi e di uomini dove tutto è eroico e nobile nello schiudersi di una vita possente e organica, e, dall’altra, un mondo di esseri fantastici dalle origini complesse, venuti spesso da molto lontano, e che presentano mescolanze di corpi e di nature eterogenee. Eppure si tratta della medesima visione di un’epopea fatta di elementi e aspetti molteplici, che costituiscono un universo completo e unico.
Non così è nella storia delle sue sopravvivenze. Il Medioevo, che non ha mai perso contatto con l’antico sostrato, si volge ora verso l’uno, ora verso l’altro di questi aspetti.’’ (p. 39 dell’edizione 1979, traduzione di massimo Oldoni).

Mi chiedo se questa citazione non possa in qualche modo richiamare l’idea dell’interregno gramsciano.
Mi dico anche che nell’anno 2023 non abbiamo perso il contatto con il nostro sostrato, i mostri in noi. Ma, nell’opera di Baltrusaitis, trovo e trovavo l’idea che il mostro – recondito o acquisito che sia, preesistente o accolto – non è necessariamente ‘’morboso’’ e, anche, che una parte di mostruosità sia necessaria per poter comprendere quella degli altri.

(Fermo immagine dal film di Dino Risi I mostri, 1963, unanimemente considerato una critica corrosiva delle certezze dell’Italia del boom economico.)

Ancora, alla fine di tutte queste divagazioni, non ho risolto il problema iniziale: quando e come i ”fenomeni morbosi” sono divenuti ”mostri” e ”l’interregno” un ”chiaroscuro”?
Ho trovato su Internet qualche vecchia cartolina, una francese non datata (ma dalla grafica piuttosto ”anni Settanta”, un’americana del 1982.

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Ho trovato anche una maglietta disponibile in nove colori diversi:

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Circolo Arci ”Il cosmonauta”, Viterbo, maggio 2022
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Infine, una nota positiva: la citazione di Gramsci, nella sua versione ”poetica”, è ancora e sempre d’attualità. I mostri, a forza di essere evocati, non fanno più tanta paura e possono ritrovarsi in un annuncio commerciale postato su Linkedin, a fine 2022:

‘’Créer des Mondes meilleurs avec et pour nos clients!”

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Concludo riproducendo la foto segnaletica di Antonio Gramsci eseguita il 29 gennaio 1935 e consultabile presso l’Archivio Centrale di Stato (Casellario Politico Centrale). Non è la stessa delle magliette alla ”Che Guevara” ma è lo stesso una bella foto.

Antonio Sebastiano Francesco Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937)

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Vietri sul mare, dicembre 2023.
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Nota. Mi permetto di rimandare ad alcuni lavori personali su questa tematica:

Bestiaire, 2023

Histoire des monstres bis, 2023

Nuovi mostri, 2023

Birds of Lent, 2022

Histoire des monstres, 2021-2022

Disegni di quaresima, 2020

Le jardin des monstres, 2014

Infine, il risultato di questo lavoro di preparazione sarà un trittico, il quinto di una recente serie sugli anni Settanta:

Fenomeni morbosi svariati

 

Affreschi rinvenuti: un rendiconto, 2023.

Affreschi rinvenuti
Una mostra nella Sala Catasti dell’Archivio di Stato di Napoli
in dialogo con le pitture di Belisario Corenzio
28 aprile – 27 maggio 2023

Una stratificazione del lavoro riscoperto di Belisario Corenzio e del mio proprio lavoro. La pittura di inizio Seicento, il suo stato attuale, quadri miei e fotografie di dieci e trent’anni fa, la loro sovrapposizione alle riproduzioni degli affreschi, la visione nuova (una fra le tante possibili) del mio lavoro e anche di quello del pittore greco-partenopeo.
Una serie Corenzio-Robinson: fotografie del restauro in corso stampate su vetro e sovrapposte a mie foto di spiagge incontaminate o quasi. Una serie Corenzio-Gulliver: dettagli degli affreschi prima del restauro, giustapposti a quadri miei antichi di trent’anni, ritagliati e rilavorati. Una serie Corenzio-Hölderlin: la famosa lettera del poeta tedesco, alla soglia della pazzia, al suo amico Böhlendorf, riprodotta su vetro: qui la sua distorta visione dell’antichità si sovrappone alla scialbatura gialla che copriva le pitture di Belisario.
Altre piccole serie dalle fonti più miste: le riproduzioni dei pagamenti al Corenzio o degli articoli critici ottocenteschi, sovrapposti a mie foto di soggetto “rupestre”: abbazie abbandonate e riprese dalla natura, romitori medievali, necropoli etrusche; le incisioni dal bestiario di Ulisse Aldrovandi, il naturalista bolognese coevo del nostro; i Drum Songs, le sfide poetiche di Ammassalik in Groenlandia orientale.
Salvatore Puglia

Il lavoro di Salvatore è stratificazione di scritte, foto, stampe, interventi grafici, sovrapposizione di linguaggi, di tecniche, di epoche, di letterature. Per me la sua opera è l’equivalente artistico delle Macchie di Rorschach: un test proiettivo basato su stimoli visivi intenzionalmente ambigui, volutamente incompleti o, al contrario, ridondanti.
In questa fusione di segni chi osserva può fermarsi all’apparenza o lasciarsi guidare da racconti fantastici popolati da creature mitiche e illustrati da lingue sconosciute, può leggere e trovare storie sempre diverse, a seconda dell’umore di chi guarda, della luce che colpisce l’opera, del contesto in cui l’opera stessa è esposta. Sono opere dialoganti, parlano alle emozioni, al cuore e alla testa di ciascuno in modo diverso.
In questo trovo l’arte di Salvatore: nell’aprire con la sua opera alla possibilità di una storia, di un racconto, immaginifico o semplicissimo, che, per dirlo con le parole di una poetessa dell’oggi, “dell’arte quindi ha il rischio, l’improvvisazione, lo studio e la dimenticanza dello studio, la dedizione, la leggera e misurata follia, la precarietà, la vocazione, l’invasione nella vita quotidiana, la spellatura”.
Maria Teresa Volpe

Quale funzionario della Soprintendenza sono stato coinvolto, per molti anni, nel progetto di restauro, rifunzionalizzazione e fruizione dell’ex convento dei SS. Severino e Sossio, quale co-responsabile scientifico prima, progettista e direttore dei lavori poi. Il lasso di tempo che me ne sono occupato è paragonabile a quello di Ercole Lauria, solo per la durata temporale naturalmente, non certo per le capacità di trasformazione che l’ingegner Lauria seppe operare nel convento benedettino per trasformarlo nella sede di uno degli archivi più importanti d’Italia, perché nel complesso dei SS. Severino e Sossio si custodiscono i documenti di un Regno non solo di una città.
Molte sono le trasformazioni che Lauria ha operato, anche in quella che era la Sala del Capitolo che diventerà una delle sale dove si custodiscono i preziosi documenti, in particolare la Sala dei Catasti Onciari.
Purtroppo, la realizzazione delle librerie ha irrimediabilmente ma inconsapevolmente, perché gli affreschi erano stati in precedenza
scialbati, gli affreschi parietali che Belisario Corenzio aveva realizzato in questo ambiente fulcro nevralgico della vita del complesso monastico.
Certamente uno dei momenti più emozionanti della mia attività nel complesso è stato quello del rinvenimento degli affreschi di Belisario Corenzio, in quella che era stata la Sala del Capitolo. Il disvelamento dei volti, delle figure che quotidianamente avveniva sotto le mani sapienti delle restauratrici, che lentamente asportavano le pesanti mani di grigio e di giallo, è stata per mesi una gioia pressoché quotidiana, fino ad arrivare al risultato finale, con tante lacune certo, ma rivedere dei quadri rimasti nascosti per due secoli e dei quali non si aveva nemmeno notizia, è stato impagabile.
Per una singolare coincidenza, nella primavera del 2021, ero con Salvatore Puglia, che avevo accompagnato a recuperare delle opere a palazzo Spinelli, quando il direttore dei lavori in corso alla sede dell’Archivio di Stato, mi ha telefonato per invitarmi ad andare in cantiere, pur essendo oramai in pensione, perché voleva mostrarmi qualcosa che era emerso nel corso dei lavori. Ho quindi proposto a Salvatore di venire con me e, in quella occasione, anche per lui si sono svelati gli affreschi di Bellisario Corenzio stuzzicando e stimolando la sua creatività.
Ebbene, le opere di Salvatore Puglia, che permettono di intravedere, di scorgere, “nascosta” da scritte o da esili tessiture, l’opera di Corenzio, è come se consentissero agli osservatori di condividere quella che è stata la mia, la nostra emozione.
Claudio Procaccini

 

Cravos (Anni Settanta, tre).

Cravos, 2023, trittico, 24×42 l’unità, stampa numerica su carta, impression UVgel su PVC.

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Cravos 01
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Cravos 02
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Cravos 03
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Per questo terzo trittico ”storiografico” ho usato come fondo fermi immagine di una trasmissione pedagogica della radio-televisione portoghese (https://ensina.rtp.pt/artigo/a-fotografia-na-revolucao-de-abril/), del 2018, nella quale lo speaker si piazza all’interno dell’immagine, come fosse presente all’avvenimento. Questa sua tecnica si apparenta alla mia, di intrusione (o sovrapposizione) di immagini apparentemente incongrue, come i miei à-plat di colore degli anni Settanta.
I miei pastelli qui riprodotti datano probabilmente del 1978, data in cui mi recai a Lisbona per la prima volta e disegnavo, giorno dopo giorno, le linee del ponte di Setubal (oggi Ponte 25 de Abril), da ogni angolo e sotto ogni luce, anche qui seguendo la mia ispirazione ‘’liciniana’’.

Sulle fonti fotografiche utilizzate, vedi anche:
Fotos 25 de Abril 1974 e 1º de Maio Video 4K

 


(Foto: Ordem dos engenheiros)

 

 

For this third “historiographical” triptych, I used as background stills from a Portuguese radio-television pedagogical broadcast (https://ensina.rtp.pt/artigo/a-fotografia-na-revolucao-de-abril/), from 2018, in which the speaker places himself inside the image, as if he were present at the event. This technique of his relates to mine, of intrusion (or superimposition) of seemingly incongruous images, such as my 1970s color à-plats.
My pastels reproduced here probably date from 1978, the date when I went to Lisbon for the first time and drew, day after day, the lines of the Setubal Bridge (today the Ponte 25 de Abril), from every angle and under every light, again following my ”Licini/Klee” inspiration.

 

Taccuini scandinavi, 1999-2000.

 

1999

 Questa è l’altana sul mondo. Dalla cantina platonico-kafkiana eccomi ora alla colonna dello stilita. Tutti possono vedermi qui e non posso più nascondermi, sono splendente e luminoso in tutta la mia vulnerabilità.

Difronte al monte
E‘ dove mi trovo. E’ un monte come un altro, certo. Forse più di frequente annuvolato, a frange le nuvole lo risalgono, ne scavalcano la cresta, mi vengono innanzi, impazienti.

Difronte, difronte al monte al crepuscolo me ne sto.

Rosso

L’idea di stanotte nel dormiveglia: lavorare a un Bilderatlas, trasferendo su maioliche immagini scelte arbitrariamente, fissandole a muri di pozzolana rossa. Farsi un illimitato archivio personale. Un Kinderatlas, un Wilderatlas di immagini allegoriche, inferni e paradisi.

Ex abundantia cordis. Da dove vuoi che venga, altrimenti, l’arte?

Cattiveria e bontà; se la cattiveria è stupidezza, la bontà non è intelligenza.

Il corpo non ci appartiene, ma apparteniamo al corpo. Siamo l’abito che quello indossa.

Immensa nostalgia della pittura. Ma è andata, anche quella. Rimangono i quadri da guardare.

Non sono ancora arrivato – per quanto tardivo sia – all’epoca in cui le stagioni si assomigliano. Per questo posso ancora permettermi il mio dandismo sottoproletario.

Giorno dopo giorno in biblioteca e non trovo niente che mi ecciti al lavoro. Il motivo è semplice: non trovo ora eccitazione perché non trovo un soggetto che tocchi in me la molla del patetico (il patetico è per me l’autocompassione ironica).

Cosa vuoi che sia, se non un’opera di grafia: scolpire, incidere, tracciare, perforare, raschiare.

Fare male.

Alianto, pianta detta la fetente, che cresce in tutti i cortili e le fessure, che ho visto a Parigi e sulla costiera e a New York. Senza qualità ma di molte pretese.

Iacopo detto l’Indaco, il pittore ignavo di cui nessun lavoro rimane. Vasari: “Lavorò Jacopo molti anni in Roma, o per meglio dire stette molti anni in Roma, e vi lavorò pochissimo.”

Non c’è bisogno di vivere tutte le vite. Ne basta una, ma che sia voluta e scelta. Quella di qualcun altro, cioè.

Rivedere il lavoro sulle opere d’arte incartate durante la guerra alla luce della dichiarazione mussoliniana secondo cui i monumenti “devono giganteggiare nella loro necessaria solitudine”.

Ci sono, certo i naturalia nel mio lavoro e anche gli artificialia. Mancano i mirabilia, manca il coraggio dell’estremismo estetico.

Apotropaico: mostravano le natiche al diavolo, perché si riteneva costui non avesse il sedere. E’ vero che anch’io, nel mio piccolo, ho sempre diffidato di quelli che ce l’hanno piatto.

Non c’è stupido che non sia pedante; ma alcuni pedanti sono anche intelligenti.

“Sii vitale: sii il recipiente di una forma di vita, non aspettare di diventarne il contenuto.”

“Ah! Ridammi allora un nemico ideologico, e vedrai cosa ne farò!”

Ho sempre lavorato su tavoli da cucina, in case imprestate o in appartamenti vuoti. Gli è che quello è il luogo del lavoro e della composizione, subito vado lì quando entro in una casa e non ne voglio più uscire.

Transpontine. Al di là del fiume. Dall’altra parte. Lì dove difatto già stai.

Oggi ho scoperto che un morto si chiama, prima del suo decimo anniversario, una salma. Dopo si chiama resti mortali. La differenza è importante, perché influisce sostanzialmente sulla mancia da dare al custode del cimitero, in caso di riesumazione.

La musica mi sostiene perché mi paralizza.

Confrontarsi con la perdita della creatività come se fosse un angelo messaggero o finanche psicopompo.

Indosserei una nazione intera come un guanto, se non fosse che mi trovo male ovunque, cosa vuoi.

I versi imbecilli della canzonetta –“quest’amore è una camera a gas”– mostrano come anche l’incoscienza sia ignobile.

Irrlicht: fuoco fatuo e perdigiorno.

Riflessioni sulle rovine: quando si è circondati dalle macerie, come si possono immaginare “künstliche” Ruine? Come ci si può compiacere della fugacità, quando la sopravvivenza è il primo scopo?

Quello, il nazi-architetto, che avrebbe voluto evitare negli edifici monumentali il cemento armato, il quale non dava, una volta crollato, nessuna “ispirazione eroica”, ma solo “cumuli di macerie rugginose”; avrebbe voluto pertanto utilizzare solo pietra naturale che, disposta in modo studiato, avrebbe dato, a tempo debito, rovine simili a quelle romane. Questa era la “Theorie vom Ruinenwert”, la teoria del valore delle rovine. C’è da aggiungere che erano gelosi di Mussolini, il quale aveva avuto la fortuna di ereditare belle’e fatte tante rovine dei tempi imperiali.

Da tempo è caduta la frontiera fra arte e pubblicità. Per questo vogliono il riconoscimento immediato e del riconoscimento postumo se ne infischiano.

In Mandelstam (da Lamarck, Philosophie zoologique, 1809) l’idea di una scala evolutiva che può essere percorsa a ritroso. Da Dante invece (Inferno, XXXII, 4) Mandelstam prende il concetto dell’idea da cui la forma scaturisce, come liquido da una spugna spremuta. Potrei sottoscrivere.

Lavorare – specie qui in Norvegia, dove posso aggredire solo i tronchi d’albero – sull’attualità usando le più antiche tecniche. Ad esempio, commentare i fatti del giorno, presi dal giornale, con xilografie pazientemente incise.

Cerca una connessione fra l’allegorico e il rivelante (il monogrammatico, cioè). Se lavori sulla figura, dato che non puoi evitarla, essendo il tuo soggetto la storia, non puoi evitare neanche di fonderla nell’allegorico, specialmente quando la figura è piatta come un’icona.

Pigmenti mescolati a colle, a zone piatte di colore, su tavolette di legno. Per il piacere degli occhi.

Non avendo notizie da quelli del Comune, che dovevano procurare un proprietario di terre in cui piantare le steli, divento nervoso e poi vittima del mondo. Decido di caricare le steli di Laralia sul tetto dell’auto e portarle in viaggio in Toscana, dove le pianterei nei terreni di Pietro. Kolossoi norreni in terra straniera.

Quanto alle silhouettes ritagliate nel legno, le brucerò sulla collina e sarò il solo testimone dell’autodafé. Lo farò stasera.

Dico ciò a Foon Sham, che incontro sul viottolo, e mi risponde che sono uno stupido, l’arte è fatta per essere comunicata ed è mio dovere dire agli altri che c’è quest’arte. Lui chiamerà la gente e porterà birra e schnaps, e il rogo delle immagini sarà una festa.

Le storie non si decidono a finire, non finiscono mai, perciò non si ricomincia mai davvero.

2000

Théorème de l’incomplétude (Godel). Cosa vuoi farne, a parte un bel titolo di lavoro?

Art’s work e ciò che chiamerei opera; è disinteressata, e incurante di lasciare o meno traccia di sé. Work of art è l’opera d’arte, tutto il suo scopo è la traccia.

Andare al di là del sentimento, o restarne al di qua, ma mai metterci i piedi dentro (come ho forse fatto in Laralia). In questo mio ultimo lavoro a forza di scomparire l’immagine è diventata cornice del paesaggio e soglia del mondo e questo va bene; ma anche la continua critica della rappresentazione può essere sentimentale.

Lavorare sui popoli nomadi, secondo l’idea di Buber (Moses, introduzione); si tratta di affermare il concetto di trapianto in contrasto con quello di integrazione.

Ornamentierung ist Verbrechen (Loos). Verbrechen ist Ornamentierung.

L’originalità è nell’approssimazione: quando vedi, nel preparare un’installazione, la riprovazione dei tecnici del suono o dei fotografi di professione, allora sei sulla buona strada.

Il vino è una necessità mascherata da piacere, così come il libro. Una buona cantina e una buona biblioteca ti terranno in vita.

Mi interessa sempre e solo il momento “appena prima” la catastrofe o l’evento, così come quello “appena dopo”; sono differenti stasi nel tempo. Un tempo è irrimediabilmente finito, quello successivo non ha ancora preso forma. Penso al crollo nella basilica di Assisi; la volta è venuta giù, la polvere non s’è ancora levata, non si sa ancora cosa sia successo. Nello shock tutto pare ancora riparabile.

 Non ho compassione né interesse per le persone che non siano deboli. D’altro canto, delle persone deboli non posso occuparmene io.

Sarei un Okkasionalist, uno che si fa prendere volentieri “dalle occasioni e dagli spunti stimolanti” (J. Taubes). Certo, una teoria dell’occasionalismo non è proponibile. Trasformerebbe l’occasionale in sistematico.

Garboli nella prefazione ai diari di Delfini (Torino 1982): “L’unica cosa certa dell’amicizia è che non è mai abbastanza.” Mi domando se non è lì che ho trovato la citazione che avevo trascritto nel carnet: “Sono leali le ferite inferte dalla freccia di un amico” (Proverbi, 27, 6).

In questo momento mi preoccupa, la questione. Ho scoperto che non c’è amicizia che sia incondizionata e questo mi destabilizza definitivamente. Come è possibile che le frecce lanciate da un amico non lo trasformino in un non-amico?

Per il lavoro di Copenhagen: scrivere sui muri “Maria ti amo” in russo e Museum a lato di tutti i luoghi di cui conservi memoria. Scrivi all’Unesco perché te li protegga con il suo Blue Shield.

Il problema delle italiane (delle europee meridionali) è questa faccia espressiva. Ci vedi tutta l’autocommiserazione con cui considerano se stesse. A quelle del Nord, almeno, non si muove il viso e ci vedi solo buon senso e mancanza di sentimento di colpa.

Rivendicare la propria mancanza di identità. E’ una qualità, non una macchia.

I miei amici sono sparsi nel mondo e non si conoscono fra di loro, oppure non parlano la stessa lingua. Non ho, quindi, un territorio proprio, ma solo intersecazioni e, a volte, traduzioni. Come l’ambasciatore di me stesso tiro il filo delle distanze tra punti lontani e mi perdo nel percorrere questo filo. Mi pare che la ragione di tale dispersione sia in un movimento che è sul piano, sulla topografia piuttosto che nella profondità. Il mio luogo non è, certo, il pozzo di San Patrizio, in cui chi scende risale senza rifare lo stesso percorso e senza incontrare chi va in senso inverso.

Mi pare che, se non altro, non mi affatico più ad avere risentimenti. Lascio che le mie energie vengano consumate, semplicemente, dalla contemplazione del tempo che passa.

Gli uomini incontrati in prigione: erano, per lo più, brave persone. Quando non lo erano, erano idioti.

Un’architettura della conversazione. Sotto un paracadute appeso fra gli alberi, in uno spazio proprio e allo stesso tempo aperto a chiunque, senza condizioni. Non sarà accoglienza, perché non vi sarà pericolo, ma almeno esercizio di ospitalità.

Stamperò il Blue Shield dell’Unesco su tante magliette bianche, e le spedirò a persone in zone di guerra. Così verranno protetti in quanto patrimoni culturali.

Quella è talmente paranoica che interpreta financo la respirazione del suo amante. Poi quello la lascia e lei non sa perché. Quell’altra non può avere, attualmente, che delle “relazioni leggere”, perché ha da scrivere una dissertazione. Poverina. Meglio di tutte C., che ha incontrato infine un uomo che è bello e intelligente ma, che vuoi, è anche antipatico.

Tornato nei luoghi della sua adolescenza, dopo lunga assenza, il nostro eroe ritorna rivisita ripercorre i luoghi. Sono sempre sono quelli, cosa vuoi che sieno divenuti.

Quando viene in questa città deve a volte attendere ore fra un appuntamento e l’altro. Allora siede in macchina, o cammina in tondo in una piazza di mercato. Il mercato è chiuso, permangono gli odori delle merci. Più forte degli altri e più corrotto quello di pesce. Uno degli appartamenti che aveva avuto, diciamo, venti anni prima? stava a un piano ammezzato e dava proprio su un mercato e sui banchi del pesce. Veniva la sua donna a trovarlo, o rientravano insieme, erano le prime settimane del loro amore, lei a volte rimaneva mezza nuda avanti a lui, col petto scoperto e alla vita ancora una gonna bianca lunga, quando risente quest’odore di pesce putrefatto questa è l’immagine che gli torna.

Finora è sempre stato un ospite. Chissà se mai diverrà un ospitante. Forse in questa città dove ora torna, reduce. Comprerebbe allora buoni vini – quelli sarebbero gli unici contenuti del suo frigorifero – e avrebbe così di che offrire, se mai ne capitasse l’opportunità.. Anche la casa con le finestre sul banco del pesce era una casa prestata. Ne era proprietario un amico di amici, cameriere di birreria, che tornava a notte fonda e, quando il nostro eroe era rimasto sveglio ad attenderlo, gli raccontava di non potere intendersi con i propri genitori, perché, vedi, loro sono socialisti e io comunista, cosa vuoi.

Nel parco, che è piuttosto una foresta, mi perdo e mi prende il panico. Attraverso valli in cui i tronchi caduti sono coperti di muschi così verdi da parere fluorescenti. Vedo funghi gialli, giallissimi, che non colgo. Calpesto pigne, edere e rami secchi. Distinguo infine un muro, che mi metto a seguire. Cammino sui rifiuti, da ciò capisco che c’è una strada lì dietro. Per raggiungerla debbo salire su un albero e da quello calarmi sul bordo del muro e saltare giù dall’altro lato. Mi faccio male alle caviglie, il muro era alto davvero. Risalgo la stradina e due metri più in là ecco un bel buco, ci sarebbe passato un rinoceronte.

Necessità delle cerimonie. Il momento in cui pianto la stele, o inchiodo l’opera al muro, o fisso il luogo dell’installazione. E’ quella la cesura, la dipartita e il battesimo. In Norvegia, sul monte, non potevo lasciar andare le steli rossi, una volta piantate, se non innaffiandole. Non avevo schnaps con me ma solo una lattina di birra tiepida, l’ho vuotata davanti alle steli e mi sono sentito più leggero.

Diario boreale, interrotto, 1999.

 

21 maggio, Berlino. Domattina presto la partenza. Sono nervoso, perché vedo le chiazze d’acqua e d’olio del cambio sotto il motore dell’automobile, ma non c’è più tempo per il meccanico e fino a martedì, per via delle feste di Pentecoste, tutto è chiuso.

            Dormirei male, perciò prenderò un sonnifero. Mi pare, a parte questo, di avere pensato a tutto. Nell’auto ci sono due ruote di scorta, e i cavetti per la batteria, e le catene da neve, e gli attrezzi, e la cinghia di ricambio, e una tanica da cinque litri per la benzina, perché lì i distributori saranno rari.

            Anche, ho pensato al cibo. Pare che lì se ne trovi poca scelta e a caro prezzo. Un peperone può costare diecimila lire. Ciò vuol dire che la mia automobile vale 100 peperoni. Il peperone sarà la mia unità di misura.

            Ho preso, dunque, due piantine di basilico, e aglio e limone per l’aroma; molto olio e sale per l’acqua della pasta. Soprattutto, ho nascosto ovunque nella vettura tutto il liquore che ho potuto comprare: un flacone per l’acqua distillata contiene grappa, una bottiglia di whisky sta fra lo schienale e il sedile, tre bottiglie di vino hanno trovato posto dentro un tubo da disegni. Pare che lì i negozi di liquori – i monopoli – siano assenti per intere regioni, per superfici vaste come il Lazio o la Toscana e la gente può guidare per notti intere alla ricerca di un monopolio aperto. Una bottiglia del vino più scadente costa due peperoni. Ma troverò maniere per farmi spedire alcool dall’Italia; perché la solitudine senza alcool porta al panico. Non è che sia contro le situazioni estreme, ma occorre raddoppiarle, altrimenti ti schiacciano loro.

            Un’altra riserva che ho fatto è stata quella di sesso. Voglio dire, non è che il sesso mi venga incontro così all’angolo della Kantstrasse e, d’altronde, la relazione con C. è tanto incommensurabilmente profonda quanto inesorabilmente verginale: ma gli è che, ho pensato, vado a stare in un paese in cui ci sarà proibizionismo e dell’uno e dell’altro. Perciò sono entrato in un sex-shop vicino alla stazione e quindi in una cabina (sono tutte in fila, davvero come cabine di uno stabilimento balneare, e quando una è occupata c’è fuori la luce rossa accesa), ho messo una moneta nella gettoniera e ho guardato per un quarto d’ora i film pornografici, cercando di registrare bene le immagini, di farmi una riserva negli occhi. Non m’è costato che un peperone. C’era quella dei tre sulle scale, lei lo prendeva nel culo da quello che stava tre gradini sotto, mentre prendeva in bocca quello che stava tre gradini sopra. Questa sì che è una ginnastica, direbbe Kuba, l’amico polacco per cui scopare è come fare ginnastica. E, d’altronde, ho sempre pensato che c’è una bontà profonda nella pornografia o, meglio, nell’atto sessuale inteso come mero e gratuito scambio di piacere. La pornografia è insomma la più democratica fra le forme moderne dell’accumulazione capitalistica.

            22 maggio, sabato. Alle sei e trenta Christine è già in cucina e prepara il caffè. Un breve commiato e parto. Nel primo pomeriggio sono già in Danimarca, l’auto pare andare.

            Piove, non so cosa fare. O il traghetto stanotte e due giorni di viaggio per strade di montagna, o un traghetto per Bergen domani e una mezza giornata di auto fino a Dale.

            Quando sarò a metà Danimarca telefonerò in Norvegia per sapere com’è il tempo.

            Non trovo nessuno, decido di andare diritto a nord e prendere comunque il traghetto. D’altronde, già non piove e il vento forte porta e riporta le nuvole. L’autostrada si fa bene, è sgombra e liscia. Bellissimi gli ultimi sessanta chilometri prima del porto di Hirtsals, per una strada di campagna, diritta diritta verso il nord e l’orizzonte aperto. Guido piano, con il finestrino abbassato per sentire il rumore del vento.

            Al porto, compro il biglietto. Vento e freddo, cielo grigio, spazio orizzontale. Questo posto odora già d’Islanda.

            C’è una spiaggia oltre il porto. Metto la giacca a vento e seggo su un sasso a bere una birra – sarà sempre una di meno per i doganieri norvegesi.

            A un chilometro circa dalla spiaggia c’è un bel faro su un’altura, dove mi porto per far passare il tempo prima dell’imbarco. Giro un poco lì vicino e sto per andarmene quando scopro, uno dopo l’altro, non so quanti bunker e camminamenti camuffati nella collina. Ne visito diversi (ancora il fascino della monumentale disumanità tedesca) e, non è solo l’attrazione per il presidio, il ridotto, trovo che abbiano una terribile bellezza questi cubi e parallelepipedi di cemento armato. Torno alla macchina a prendere la torcia elettrica e la macchina fotografica, esploro alcune casematte; in una c’è ancora, scritta col gesso sul muro, una lista della spesa; nessuna compassione. Nella torretta di un cannone, a lato di una chiazza di vomito, è rimasta al suolo una rudimentale pipa per l’haschisch, fatta di una bottiglia di plastica della coca cola con un tubo di gomma infilato dentro. Estetica del dopoguerra.

            Il traghetto parte all’una di notte. Nell’attesa, in coda con le altre auto, bevo un’altra birra. Non mi aiuta però a dormire. Una volta sulla nave, anche se mi sono disteso su un canapè, il freddo e le risate di quelli che giocano alle slot-machines mi tengono sveglio.

            M’addormento verso le cinque, alle sei l’altoparlante mi sveglia.

            Alla dogana mi controllano, perché trovano singolare un uomo solo in una vetturetta italiana, ma sono fortunato, è l’uomo e non la donna che guarda nel bagagliaio, dà appena uno sguardo al cofano che mi ha fatto aprire.

            Guido per un’ora in una specie di fondovalle svizzero. A 60 chilometri da Kristiansand abita la sorella di uno incontrato a Berlino. Fa la ceramista e sta con un cileno. Costui è stato tirato fuori dalle carceri sudamericane grazie ad Amnesty International, e non è mai tornato al suo paese. Pare che ne abbia passate, lì. Sta qui da vent’anni e lavora all’ospizio degli anziani del villaggio. Curioso come si sia trovato a vivere nel luogo simmetrico al Cile: simile superficie e posizione geografica, ma nell’emisfero opposto.

            Altri cento chilometri e sono atteso, in una casa che dà sulla stessa valle, dai genitori della ragazza. È una coppia di anziani tedeschi che vive con un figlio grande e un po’ ritardato, in una casa presso la strada, in un borgo qualunque. Entrambi sono artisti, dipingono. Il ragazzo m’attendeva in bicicletta sulla strada, mi ha sorriso ma io ho tirato oltre, cosa ne sapevo, quello m’era parso, appunto, l’idiota del villaggio. Quando sono tornato nel senso inverso, perché non trovavo la casa, s’è proprio sbracciato. Non ne passano tante di auto con la targa Roma per di lì, mi ha detto.

            Volevo rimanere venti minuti e sono rimasto due ore. La tavola era apparecchiata, abbiamo mangiato e chiacchierato e quando sono partito mi hanno messo in mano una busta con i resti, più pane imburrato e due mele. Io avevo portato una bottiglia di vino.

            La strada sale per le montagne, finisce la Svizzera e iniziano le rocce, i muschi e i licheni, gli alberi scheletrici e i laghetti mezzo ghiacciati. Nevica, per un po’. La strada ridiscende, si mette a piovere. Ma non c’è quasi traffico e la pioggia è tutta per me, non ci sono gli schizzi delle altre auto a impedire la vista. La mia scivola bene e, non so perché, tutti questi monti e nevi e piogge non mi angosciano. Si vede che qui l’uomo ha a che fare con ciò da sempre. Non che la Norvegia mi faccia – già – simpatia.

            Arrivo a Odda a metà pomeriggio. Sono 350 chilometri da Kristiansand, sto a metà percorso. Potrei continuare, ma credo che sarebbe pericoloso, sono troppo stanco. Mi fermo qui, perché dovrebbe esserci un Ostello aperto. Ma mi dicono che è stato requisito per ospitare i profughi kossovari. I turisti possono alloggiare all’albergo, allo stesso prezzo dell’ostello. Ho una stanza col bagno e la doccia, il cui pavimento è riscaldato. C’è un bel lettino bianco. Forse ora provo a dormire, perché fuori piove forte e, del resto, la cittadina pare islandese, nella sua confortevole fredda modernità.

            24 maggio, lunedì. Fresco e disposto, parto alle otto. A cento all’ora faccio una strada stretta, lungo la costa di un fiordo che è uno dei luoghi più belli che abbia mai visto: è una valle coperta di frutteti e sparsa di case di legno. Arrivo al traghetto; c’è da aspettare tre quarti d’ora.

            Dall’altra parte del fiordo la strada sale a tornanti fra immense pareti di roccia, cascate, laghi neri. Piove e non mi fermo. Si sale ancora, e mi trovo in mezzo al bianco. Per trenta chilometri guido fra due pareti di neve. Un tunnel, e dopo quattro chilometri mi trovo in una valle sul mare. Una chiesa romanica, prati coperti di fiori gialli.

            Un secondo traghetto da aspettare. Arrivo che è appena partito, debbo aspettare un’ora e mezzo. Poco male. Salgo sull’altura di Vagsnes, ad ammirare la statua, alta 13 metri, di Friedrich, eroe vichingo. Venne offerta e inaugurata dal Kaiser Guglielmo, molto amato dai norvegesi perché veniva qui in vacanza con il suo yacht imperiale. Forse questo monumento segna il punto più settentrionale raggiunto dal kitsch. In ogni modo è la sua più grande realizzazione.

            Poco fuori Balestrand, uscito dal ferry, c’è una jeep avanti a me che cammina piano e mi fa innervosire. Infine l’autista mette la freccia e mi fa segno di fermarmi. Scende e viene a me, è grande e grosso e barbuto: “cosa ci fa lei qui?” mi chiede in un italiano con accento, direi, friulano; “è quello che mi chiedo anch’io”, gli rispondo. Ci si spiega: è un tedesco, nato in Spagna, che ha vissuto vent’anni in Italia e vive in Norvegia con la moglie marocchina; è capocantiere in una cava di granito, e oggi che è giorno di festa si è fatto, malgrado la pioggia, il giro della penisola in auto, 300 chilometri di strada per passare il tempo. Promette bene.

            Mi accomiato, ma dopo trenta chilometri, a Hoyvanger, rischio di addormentarmi e cerco un bar; a un incrocio, rieccoli. Stavolta accetto l’invito a prendere il caffè, nel loro appartamentino moderno e un po’ triste.

            Riparto, seguo una costa che è magnifica, infine viene l’ora di passare la montagna e andare sull’altro lato, all’ospizio, al presidio.

            25 maggio, martedì. L’avventura, in certo senso, è già finita. Nel posto efficiente e lussuoso, dalle dieci macchine utensili pronte all’uso, dai cento attrezzi ben fissati sulla propria forma disegnata col pennarello, dallo studio vasto e ridipinto di fresco, come vuoi che lavori, in questa bella scatola accanto alle altre scatole, fra meeting, coffe-break ed escursioni culturali, come vuoi che metta qualcosa alle pareti e la mostri? Quest’atmosfera “collaborativa”, che temevo di trovare, è tutto quello che mi allontana dal lavoro. Ma sono tutti così gentili, e qualcosa alla fine la farò. Oppure terrò nascosto quello che ho portato e lo mostrerò alla fine, come se lo avessi fatto qui.

            C’è un altro fatto, che pure m’aspettavo. Su cinque artisti, c‘è una sola donna, è islandese, non mi piace e conosce di certo T.; non desidero che costei sappia dove mi trovo: sarebbe capace di presentarsi qui.

            Ho passato il pomeriggio, dopo la riunione conviviale con caffè e certe immonde paste (qui il cibo è di una tristezza luttuosa: impacchettato, conservato e, in genere, informe: pallette di patate, polpette di pesce; magari qui mi passa la malattia del würstel, essendo il suo gusto qui al di là del disgusto stesso), nello studio vuoto e che ho voglia di lasciare vuoto. Ho spostato il grande tavolo di sbieco davanti alla vetrata e mi ci sono appisolato. A forza di fare niente, mi è venuto in mente un lavoro: otto grandi e strette barre di legno (30 X 240 cm), con incise silhouette di guerrieri norreni (vichinghi, cioè) anamorfizzate; le stesse figure incise possono poi essere riprodotte su tele, stoffe, carte. Questo, sì, sarebbe un lavoro da tre mesi. Per farmene un’idea ritaglio e appunto alla parete tre forme di carta Kraft.

            Verso sera vado all’edificio principale, dove pure abita il gestore del luogo insieme con la famiglia, e dove c’è la sala biliardo, arredata come un casino di caccia inglese; lì c’è il televisore che dovrebbe prendere tutti i canali del mondo, ma non riesco a farlo funzionare. Torno alla casa, la serata si annuncia vuota, bicchierino dopo bicchierino ingurgito un quarto delle mie riserve di alcool. Accendo il computer, che si trova sul tavolo difronte alla porta-finestra, orientata all’opposto dello studio (qui dà a est); scrivo solo un titolo: Difronte al monte.

            26 maggio, mercoledì. È una buona tecnica lasciare qualcosa allo studio, così ci si viene.

            Un’altra idea per il lavoro, che avevo già da prima, è quella di fare il percorso inverso della comunicazione, e cioè dalla velocità alla lentezza, dall’internet alla prima forma di riproduzioni in serie, la xilografia. Prenderei foto di attualità dai giornali e le inciderei su legno, per poi stamparle su carta o stoffa.

            Dopo un’altra riunione, mi portano in paese ad aprirmi un conto, dove versano la prima mensilità. Tutto è particolarmente rapido e semplice; tutti si conoscono; la cassiera della banca è, evidentemente, la moglie del tecnico che lavora al Centro, e cosivvia. C’è un solo bar, una casetta carina a due piani, dove andrò stasera a vedere com’è. Una piscina, la cui entrata costa un peperone e mezzo, la posta, due supermercati, la polizia, la biblioteca municipale con l’internet. Un porticciolo per il ferry-boat, una fabbrichetta di scarpe bruttine, una di coltelli. Una miniatura di mondo.

            27 maggio, giovedì. Con lo scultore islandese a Forde, il capoluogo di provincia. E’ una cittadina americana, potrebbe essere nel Vermont. C’è financo un semaforo. Un negozio di fotocopie, una biblioteca, una piscina, un negozio di cornici e articoli di belle arti.

            L’islandese non è antipatico; il suo lavoro, che già avevo visto al suo paese, è terribile; ci si accanisce con la motosega dalle sette di mattina alle nove di sera. Per pudore, quando lo incrocio davanti all’edificio degli studi, non lo guardo, né lui né quello che fa.

            Nel pomeriggio mi porto al collegio della Croce Rossa, a dodici chilometri di qui, per nuotare alla piscina e incontrare un professore d’arte che mi insegnerà come incidere il legno (mia iniziativa personale). Un altro posto lussuoso incastonato in fondo a un fiordo. Rimarrei lì? A insegnare (ma cosa?) a questo centinaio di studenti venuti da tutti il mondo?

            28 maggio, venerdì. Torno al collegio, per chiedere alla bibliotecaria di poter prendere in prestito i loro libri, e per avere in visione i giornali internazionali che lì arrivano.

            Dopo un passaggio alla biblioteca comunale, dove ho trovato una grossa collezione di foto storiche, ho chiaro cosa farò qui: sceglierò otto ritratti di gente del luogo, li “anamorfizzerò” alla fotocopiatrice, li inciderò su lunghe tavole di legno, che infiggerò al suolo come steli, e da cui trarrò immagini su stoffa. Poi, o mi riporto tutto ciò a Parigi, o lo lascio qui in regalo.

            Nel pomeriggio incido, per prova, la mia prima xilografia. Me ne viene una vescica al palmo della mano destra, per lo sfregamento dello scalpello, ma la cosa, a parte ciò, si può fare. Vado al supermercato prima che chiuda, a comprarmi un paio di birre (mezzo peperone l’una). Ma no, stanno tutte coperte sotto un telo di plastica nera, è già il fine settimana e non si possono più comprare.

            29 maggio, sabato. E già, lavoro. Sperimento incisioni su legno, dopo essermi fasciato la mano. Provo le macchine da falegname per prepararmi le tavolette. Ho deciso di riprodurre fotografie antropometriche su tavola, per rifare all’indietro il percorso della riproduzione (le xilografie, come dicevo, sono state le prime forme di riproduzione meccanica in occidente, hanno iniziato a Firenze intorno al 1370 per fare le carte da gioco).

31 maggio, lunedì. In biblioteca a scegliere fotografie da stampare. Alla casa degli handicappati, dove hanno l’unica fotocopiatrice laser del paese.

            Al lavoro; incido e stampo una fotografia di inizio secolo, nell’intento di ripercorre a ritroso la funzione segnaletica dell’immagine e cercare, in questa riproduzione della riproduzione, sempre più appiattente, un qualche segno essenziale di individualità. Farò, nell’attesa di lavorare alle grandi steli, sei di queste incisioni.

            Dalla gita dell’altroieri con l’islandese, in cima al monte, dove abbiamo lasciato i nostri nomi nel quadernetto, nel barattolo sotto le pietre, ho ancora dolori alle gambe. Un dito raschiato dalla livellatrice, la mano destra non ancora guarita.

            1° giugno. Quattro ritratti segnaletici riprodotti su legno. Mi servono fra le due e le tre ore ognuno. Ceno presto e alle otto torno al lavoro. Piove sempre, ma penso ancora che questo luogo è la rappresentazione del paradiso su terra, con tutta la noia che un paradiso non può non portare con sé.

            4 giugno. Siccome il mio studio è il più lontano dall’ingresso degli atelier, ci vado col carrello, come se fosse uno skateboard. Sono diventato abile, faccio curve a 180 gradi finendo solo raramente contro il muro. Cappio ho male alla mano e poca voglia di lavorare. Vago con infimi pretesti fra la casa e l’atelier.

            5 giugno. Una trasferta a Forde, per l’inaugurazione di una mediocre mostra in un ambiente ovviamente provinciale. Grande tristezza e noia; ora so che se amo la città è per via dell’eros, che manca del tutto in posti come questo.

            In un caffè e poi a casa del direttore del Centro, a chiacchierare bevendo vino. Tutt’a un tratto vedo come tutto questo comfort e questa buona volontà umanitaria non corrispondono a una ricchezza umana, a un tormento di un qualche tipo, e si svuota ancora il mio stare qui. Tre mesi mi paiono ora davvero troppi.

6 giugno. Torno a Forde in auto alla ricerca del cappello che ieri ho lasciato cadere sul piazzale del parcheggio. Un’ora ad andare e una a tornare, ma il tempo non costa (la benzina sì, per quanto sempre meno di un cappello nuovo).

            8 giugno, martedì. Sono già stanco di questo posto. Ora aspetto agosto. Ma le incisioni su legno sono una piccola scoperta, anche ideologica, e il fatto che le stampe possano essere facilmente offerte agli amici mi incita a essere meno svogliato di quanto non sarei.

            Mercoledì 9 giugno. Cappio è finito il vino. La grappa ordinata ai genitori e spedita con il DHL è stata fermata alla dogana.

Ho fatto due piccole serie in due giorni, una sulle Opere di misericordia, l’altra come “studi di drappeggio”, a partire da fotografie che avevo fatto alle statue dei musei capitolini. Queste incisioni non sono né interessanti esteticamente, né forti visualmente, ma sono “giuste” ideologicamente.

Piove ancora e sempre. Sono le sei di pomeriggio, ma potrei andarmene a dormire.

10 giugno, giovedì. Confusioni di questi giorni. La strana impressione di non essere benvenuto nel luogo dove dovrei avere una borsa, in Olanda (dove, infine, ho capito che avrò appuntamento per un colloquio martedì prossimo); le cose bloccate qui: il legno che non trovo, le fotografie che non vengono riprodotte. Poi, quando ho detto al direttore che sarei andato in Italia, dopo l’Olanda, per spendere meno in viaggi e non ripetere le partenze, l’ho sentito contrariato, perché ora appunto “deve” organizzare delle gite sociali e vuole tutti gli artisti qui. Perciò ho frettolosamente cercato nuove possibilità di volo per la sola Amsterdam; ne ho trovato uno non eccessivamente caro, ma debbo partire già sabato, questo mi va bene, e passare tre notti in albergo. Mi farà bene stare in una città. Debbo, però, preparare un discorso su cosa voglio fare all’accademia olandese, e non so cosa voglio fare lì. Cerco solo il denaro per sopravvivere, ma questo non posso dirlo.

11 giugno. Inizia a diventare una necessità questa di salire al monte. Ancora non sono arrivato in cima, dove ero stato i primi giorni con l’islandese, ma ogni volta ci arrivo più vicino. Poi torno, completamente sudato, faccio la doccia e mi sento bene, con un’energia di un tipo che non conoscevo, e che potrebbe benissimo espletarsi in atti sessuali.

13 giugno, domenica. In un bar di Amsterdam, a mezzogiorno. Partito ieri mattina alle sette da Dale, in auto. Guidato per tre ore fino a Bergen, camminato per la città (infine, semafori, negozi e perfino un mercato del pesce!), portatomi all’aeroporto, lasciata l’auto al parcheggio (al ritorno, che sarà martedì sera, dovrò correre per non perdere l’ultimo traghetto, che lascia Oppedal all’una di notte), preso un aereo, sbarcato ala stazione centrale di Amsterdam, cercato un albergo per le vie intorno, ma è sabato sera, la città è piena di inglesi che guardano attruppati le prostitute nelle vetrine, non si trova un posto, esausto accetto una camera in un hotel caro, che dà su una via tranquilla, ma la stanza è sul retro e su una via pedonale, la gente che passa ride e urla fino alle tre di notte, domenica mattina lascio l’hotel e cammino per la città (vivrei qui? Sì, subito, con un lavoro qualunque e un salario e una donna, sì, subito), decido di andare già oggi a Maastricht, a vedere com’è, prepararmi per l’esame e trovare un posto più economico dove dormire.

14 giugno, lunedì. Alla biblioteca universitaria di Maastricht, cercando di concentrarmi su ciò che potrei dire domani, rileggendo vecchie cose scritte, tentando di formulare una mia propria ideologia. Cappio, così non so cosa direi e non so neanche cosa penso e se penso. Questa gita di tre giorni, che mi sarà costata quanto un mese di borsa, non la rimpiango, in ogni caso.

15 giugno. Nell’attesa di essere esaminato, la testa vuota, leggo o fingo di leggere il De Bello Gallico in latino, rubato in una libreria di Berlino.

Sul treno, dopo l’esame, tornando ad Amsterdam. Nota: le olandesi ci hanno le gambe lunghe.

18 giugno. È arrivato il legno che avevo ordinato, ma non è quello che volevo: queste sono tavole di pino, certo, ma hanno tagliato un albero e me lo hanno consegnato fresco fresco, mi pare troppo fresco per poterlo già lavorare.

Ci lavoro ugualmente, con impazienza. È un legno maledetto, difficile da piallare, a volte troppo duro, a volte troppo tenero.

Alla fine, ne cavo fuori un’immagine e una nuova vescica alla mano destra. Non so cosa pensare del risultato. Paiono, più che spiriti ancestrali, immagini di Épinal.

La serata, come al solito, la si passa davanti a uno schermo: che sia il computer, o il televisore, o la stufa. Pur non avendo stanchezza e rimanendo alzato fino alle due, leggere non m’accattiva; è l’irrequietezza del cervello vuoto.

            Alla tivù si vedono trattori in viaggio, carichi di famiglie e di masserizie. Albanesi che tornano a casa, o serbi che la lasciano? Come saperlo, quando non capisci la lingua dello speaker?

            21 giugno, lunedì. Mi confronto, in questi giorni, con i materiali dell’arte popolare (Folk Art), come il legno (ma potrebbe essere l’argilla, o il vetro) e vedo come tutta la storia che portano con sé è dominante e schiaccia il mio lavoro, portandolo sul piano dell’illustrativo e dell’aneddotico. Mi pare che solo rinunciando all’abilità tecnica si possa imporre il proprio tema e il proprio discorso. Altrimenti, si può fare solo ciò che fa l’arte popolare, e cioè: riprodurre i modelli.

            Esempio (ma che apre a molti altri ragionamenti): c’è qui vicino un mastro, uno dei pochi artigiani che ha il riconoscimento di maestro nell’incisione del legno. Ogni tanto i musei lo chiamano, per riprodurre le carene scolpite delle navi vichinghe (mille anni fa, cioè), che sono grandi come alberi e completamente intarsiate. Recentemente gliene hanno commissionata una particolarmente difficile, piena di ghirigori complicati. Era quasi alla fine di non so quante settimane di lavoro quando, nell’incidere una voluta un po’ stretta, lo scalpello gli è sfuggito e scivolando ha sbracato tutto il lavoro già fatto. Tutto era da ricominciare. Ma va a vedere l’originale, e c’era esattamente lo stesso sbraco allo stesso punto, esattamente uguale.

            Che interpretazione dai di questo?

  1. La filosofica, e cioè che nella ripetizione c’è l’identificazione.
  2. La tecnica, e cioè che il più esperto mastro e il più affilato scalpello non possono superare la resistenza di un dato materiale in un dato tracciato, e firmano così il limite delle proprie possibilità?

III. L’esoterica, e cioè che, per fare lo stesso errore, il mastro vichingo e l’artigiano norvegese dovevano avere lo stesso grado di fatica e di affilatura dello strumento.

  1. La storica, eccetera. E quale è la tua?

26 giugno, sabato. Ci sono state un paio di giornate assolate, e alcuni avvenimenti sociali. Due barbecue con tutti gli artisti e il direttore, in cui si è mangiato carne di agnello e bevuto abbastanza. Qualcosa, frammenti di pensiero, vengono fuori da queste discussioni. Quando ti chiedono, per esempio, cosa cerchi qui, e devi rispondere che ti attendi l’inatteso.

            Siamo stati, domenica scorsa, in un viaggio di quasi due ore ad andare e due a tornare, a visitare una cosiddetta „città del libro “: difatto, una cittadina, un villaggio, un agglomerato direi, dove in quasi ogni garage e cantina erano esposti e messi in vendita libri usati; quasi tutti in norvegese, ma ce n’erano di russi e inglesi e francesi. Tutto questo era piuttosto dolce: uno spruzzo di case su un fiordo isolato, intorno a un unico albergo di fine secolo, costruito per gli escursionisti inglesi che scalavano il ghiacciaio sovrastante e poi prendevano il tè nel salone, comodi comodi nelle belle poltrone di cuoio; questi libri, ovunque intorno, sono stati come un puntello per l’anima. Pare che esistano una decina di queste „città dei libri “, quasi tutte in Europa del nord.

            Il cinese (uno degli artisti è un cinese di Macau, che vive negli Stati Uniti da una venticinquina d’anni ma parla ancora un inglese abbastanza incomprensibile) m’ha portato a Forde ieri, dove volevo far riparare il fax e lui voleva comprarsi una canna da pesca; ho pagato cento peperoni per far aprire il fax e sentirmi dire che non era riparabile. La consolazione è stata nel salmone fresco e i gamberi che ci siamo comprati al supermercato, che lì è molto più fornito di quello di Dale. È anche lui, il cinese, come tutti qui, una brava persona, che ha lasciato la famiglia nel Maryland e lavora tanto accanitamente quanto l’islandese che è partito, e che è financo affettuoso; ma, ecco, non c’è tanto da dirsi. Col danese m’intendo bene, ma sta quasi sempre con la figlia piccola e la moglie, la prendono questa come una vacanza e mancano le occasioni di incontro.

            Forse, se non vado in Italia, me ne vado a Bergen in soggiorni vari e brevi, per vedere gente e i tipi cittadini

            27 giugno, domenica. Questa settimana è stata la più triste ma anche la più ricca. La solitudine e l’astinenza sessuale mi pesano, per quanto quasi ogni sera abbia incontrato gente e ben mangiato; non ha quasi mai piovuto e al crepuscolo c’erano colori splendidi nel cielo.

M’è venuta la malattia della montagna; ogni giorno provo il bisogno di uscire e camminare, addirittura correre fra i sassi e gli arbusti; sono uscite brevi, che non durano mai più di due ore. Un paio di volte mi sono immerso nell’acqua gelida di un torrente; quando torno giù e c’è ancora tempo per incidere un poco di legno (non so cosa pensare di questo lavoro sulle steli, so solo che le pianterò nella montagna, prima di ripartire).

            Ieri sera siamo stati invitati, io e il cinese, dalla coppia di artisti svedesi che avevo trovato abbastanza scorbutici e che hanno un bambino cui permettono assolutamente tutto; avevano comprato due chili di cozze e volevano spartirle con noi; le hanno servite –in mio onore – accompagnate da spaghetti senza niente, spezzati in due e sciapi. Ma il tipo, dopo un paio di bottiglie, si è un po’ aperto; ha raccontato come, dopo essere stato una specie di vedette alla biennale di Venezia del 1993, non ha sopportato di essere al centro dell’attenzione pubblica, sviluppando una psicosi che lo ha portato a tre anni di ospedale; il suo lavoro, per quanto celebrato, mi risulta freddino: sono, per esempio, tante seppie di silicone rosa allineate su tavoli di compensato ben carteggiato, dietro tendine di plastica rossa. Questo artista, che – dice – non vende un’opera da otto anni e pur campa bene, è uno di questi compilatori di dossier che vive di borse di studio e della venerazione socialdemocratica nei confronti degli artisti; questo non vuol dire che non possa avere le sue brave psicosi. In ogni modo, la serata con le cozze, gli artisti svedesi e il cinese è stata molto meno calorosa e intensa di quella che avevo passato, uno dei primissimi giorni, con i gamberi i danesi e l’islandese: si parlava lì lo stesso linguaggio, per quanto diversi fossimo.

Forse non andrò per nulla in Italia; non mi dispiace di evitare il caldo, ma avrei fatto cose utili e incontrato quegli amici che alla fine non verranno qui.

            Siamo andati a pesca, stasera, con gli altri artisti. A pesca nel senso più volgare: siamo scesi con due auto, accompagnati da uno del luogo; abbiamo parcheggiato sul lato della strada, dopo neanche cinque chilometri e, senza neanche allontanarci, appoggiandoci alle macchine, abbiamo lanciato le lenze nell’acqua del fiordo. Era vergognoso e un po’ disgustoso: non c’era un lancio senza un pesce, quasi sempre grosso, che abboccasse, che andava poi liberato dall’amo e sgozzato sul posto. Era peggio di un laghetto di “pesca sportiva”, ed era il mare. Con l’uomo del luogo (che è di madre danese e, pur vivendo lì, sulle terre di famiglia, da otto anni, è ancora considerato un “ospite”) siamo saliti alla fattoria sopra la strada; è abitata da due anziani fratelli, celibi, che vivono allevando pecore; abbiamo regalato loro due bei pesci ma, al momento di andarcene, ci hanno messo in mano due monete da venti corone.

            Il resto della serata lo si è passato sul piazzale davanti agli studi, a sventrare pesci (non meno di trenta chili, penso io), e a discutere su come prepararli; è stato in fondo un bel momento.

            3 luglio. Confusione di generi: girando le zucchine nel tegame – per la cena collettiva di stasera, da me promossa – penso alla consistenza del lattice che ho steso sulle tavole di legno; stendendo il lattice, mi pare che odori del pesce che oggi ho pescato e ucciso; mi domando cosa mi passerebbe per la testa se avessi sotto le mani un corpo di donna.

            Ha piovuto di continuo negli ultimi giorni ed è stata dura; non si poteva uscire né per pescare né per camminare. Mi consolavo con il commissario Rex, il cane lupo del feuilleton televisivo austriaco, lo trasmettono la sera tardi. Penso che lo guardo perché si svolge in una città europea, di cui riconosco tanti angoli, e gli attori parlano una forma di lingua tedesca che comprendo abbastanza. Rex, in sé stesso, è noioso e zuccheroso, ma i tipi dei poliziotti sono abbastanza simpatici, fascisti appena appena.

La Buoncostume remix (Anni Settanta, due).

Anni Settanta, trittico due.
42×20 cm il pezzo, cornice in piombo, 2023
(riporto alla trielina su vetro, stampa UVgel su PVC, stampa digitale su carta).

Tre delle foto d’identificazione della Buoncostume romana dei primi anni Settanta, recuperate da un catalogo sfuggito al sequestro del materiale espositivo della galleria Il Museo del Louvre (mostra prevista per il gennaio-marzo 2008, sequestrata prima dell’apertura).

Ho conservato, rispetto al lavoro da cui provengono (La Buoncostume suite, 2009) i vetri su cui avevo trasferito alla trielina pagine del libro di grammatica in uso nelle Scuole per i contadini dell’Agro Romano (primo Novecento), che furono il soggetto della mia tesi di laurea nel 1978. Il soggetto del mio dattiloscritto, di cui ho perso traccia, era il movimento ‘’verso il popolo’’ di pittori e intellettuali romani di ispirazione tolstoiana e socialista, che andavano a diffondere l’istruzione presso i contadini nomadi della campagna romana.

Ho aggiunto un elemento nuovo: la riproduzione di certi miei disegni al pastello a cera, il cui modo ‘’à-plat’’ era ispirato a certi quadri astratti di Licini, il pittore che più ammiravo in quegli anni. Osvaldo Licini (1894-1958), artista ‘’marchigiano-parigino’’, operò a cavallo di vari movimenti artistici fra le due guerre, prima di definire un proprio stile singolare, una pittura poetica che ne fa a mio avviso il Paul Klee italiano (forse insieme con Fausto Melotti). Soprattutto mi affascinavano i suoi personaggi, gli olandesi volanti, le Amalassunte, gli Angeli ribelli che, appunto, mi richiamavano il benjaminiano Angelus Novus di Klee (1920).

I colori che usavo per le mie prime pitture erano poi simili a quelli dei grossi maglioni a strisce che indossavo, ordinati a un’amica non ancora femminista.

La Buoncostume remix 01-03, 42×20 apiece, 2023.
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La Buoncostume suite 01-06, 42×20 apiece, 2009.
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Forme, tryptic, 18×12 cm apiece, 1979
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Via del Paradiso, Roma, 1980. Tre opere: un montaggio di fotografie dipinte (tre amici a Londra), cocci di bottiglia infissi nel cemento e sormontatati da un telo dipinto d’azzurro, un ”mobile” uccello alla Braque. Sulla sedia un proiettore di diapositive, con il quale  proiettai dalla finestra i miei primi acquerelli sul muro laterale della chiesa di S. Andrea della Valle.
………

Three identification photos of Roman Vice Squad from the early 1970s, retrieved from a catalog that escaped the seizure of exhibition material from the gallery The Louvre Museum (exhibition planned for January-March 2008, seized before opening).

I kept, with respect to the work from which they came (The Vice suite, 2009) the glass on which I had transferred to trichloroethylene pages from the grammar book in use in the Schools for the peasants of the Agro Romano (early twentieth century), which were the subject of my dissertation in 1978. The subject of my typescript, of which I have lost track, was the ”to the people” movement of Tolstoyan and socialist-inspired Roman painters and intellectuals who went to spread education among the nomadic peasants of the Roman countryside.

I added a new element: the reproduction of certain of my drawings in wax pastel, whose ”à-plat” manner was inspired by certain abstract paintings by Licini, the painter I most admired in those years. Osvaldo Licini (1894-1958), a ”Marche-parisian” artist, worked at the crossroads of various artistic movements between the two wars, before defining his own singular style, a poetic painting that makes him in my opinion the Italian Paul Klee (perhaps together with Fausto Melotti). Above all, I was fascinated by his characters, the Flying Dutchmen, the Amalassunte, the Rebel Angels, which, precisely, reminded me of Klee’s Benjaminian Angelus Novus (1920).

Translated with www.DeepL.com/Translator (free version)

Wallflowers remix (Anni Settanta, uno).

Anni Settanta, triptych one.
32×32 cm apiece, lead frame, 2023.
(trichloroethylene transfer on glass, Fun and Fancy colors on glass, Istituto Geografico Militare map, pencils).

All’alba dei miei settant’anni, inizio un lavoro sugli anni Settanta, il decennio dei miei vent’anni. Penso che si svilupperà per trittici e spero di completarne tre o quattro.
Il primo trittico è una ripresa di un lavoro del 2010 che era a sua volta una ripresa della tematica dell’identificazione: Wallflowers remix.
Ho raschiato via la carta da parati che faceva da fondo, in allegoria del fondo quadrettato in uso nei commissariati di polizia, a certi ritratti della Buoncostume romana, abbandonati nella spazzatura di fronte alla Questura a fine 2007, ritrovati da un libraio-gallerista romano ed esposti neanche una giornata, prima che i Carabinieri mandati dalla Sovrintendenza non li sequestrassero insieme con tutto il materiale espositivo, cataloghi compresi.
Ho sostituito la carta da parati con carte militari dell’IGM ritagliate nel formato del quadro, 32×32 cm. Questi ritagli cartografano siti in cui, in pochi chilometri quadrati, sono accaduti avvenimenti marcanti del decennio 1970: il delitto di Castelporziano (10 agosto 1975), l’assassinio di Pier Paolo Pasolini (2 novembre 1975), il festival di poesia sulla spiaggia di Capocotta (28-30 giugno 1979), in cui vidi Allen Ginsberg, inascoltato da tutti i giovani proletari intenti a bombardare il palco con lattine di birra ripiene di sabbia, intonare all’organetto il suo Kaddish Father Death Blues.
Sulle carte ho apposto timbri inchiostrati di rosso, da me scavati nelle pietre saponarie riportate dalla Cina, oppure ordinati ad artigiani ambulanti di Canton in un soggiorno del 1990: segni senza senso, oppure scritture brevi, Wallflowers, Ashbox, Nequid nimis, o la mia firma trascritta in caratteri cinesi.
Ho anche copiato a mano frasi che mi girano nella testa ossessive da almeno un trentennio: non dicere ille secrita abboce (catacombe di Domitilla, VIIIe secolo), alexamenos sebetai theos (graffito sul Palatino a didascalia del disegno di un cristiano in atto di preghiera, la testa d’asino e le braccia aperte), perimeno, ananke, όχι Ιθάκη, όχι όλες οι περιπέτεa (no, Itaca no, non un’altra avventura, dalla  poesia ”Trasparenza” di Yannis Ritsos nel Pietre, Ripetizioni, Sbarre, Milano, Feltrinelli, 1978 che tanto leggevo).
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Anni Settanta 01, Idroscalo, 32×32, 2023.
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Anni Settanta 02, Castelporziano, 32×32, 2023.
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Anni Settanta 03, Capocotta, 32×32, 2023.
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At the dawn of my seventies, I am beginning a work on the 1970s, the decade of my twenties. I think it will develop in triptychs and I hope to complete three or four of them.
The first triptych is a reprise of a 2010 work that was itself a reprise of the theme of identification: Wallflowers remix.
I scraped off the wallpaper that served as the background, in allegory of the checkered background in use in police stations, to certain portraits of Roman Vice squad, abandoned in the trash in front of the Questura in late 2007, found by a Roman bookseller-gallerist and exhibited not even a day, before the Carabinieri sent by the Superintendence did not seize them together with all the exhibition material, including catalogs.
I replaced the wallpaper with IGM military maps cut out in the picture format, 32×32 cm. These cutouts map sites where, in a few square kilometers, marking events of the 1970s happened: the Castelporziano crime (August 10, 1975), the murder of Pier Paolo Pasolini (November 2, 1975), the Capocotta beach poetry festival (June 28-30, 1979), in which I saw Allen Ginsberg, unheard by all the young proletarians intent on bombarding the stage with sand-filled beer cans, singing his Kaddish Father Death Blues on the harmonium.
On the papers I stuck red-inked stamps, either carved by me from soapstone brought back from China, or ordered from itinerant artisans in Canton during a 1990 stopover: nonsense signs, or short writings, Wallflowers, Ashbox, Nequid nimis, or my signature transcribed in Chinese characters.
I have also copied by hand phrases that have been running around in my head obsessively for at least thirty years: non dicere ille secrita abboce (Domitilla catacombs, 8th century), alexamenos sebetai theos (graffito on the Palatine captioning a drawing of a Christian in the act of prayer, donkey’s head and arms outstretched), perimeno, ananke, όχι στην Ιθάκη, όχι σε αυτές τις περιπέτειες (no to Ithaca, no to all these vicissitudes, from a poem by Yannis Ritsos in Pietre, Ripetizioni, Sbarre, Milano, Feltrinelli, 1978 that I used to read so much).
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Wallflowers remix 02, 32×32, 2010.
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Wallflowers remix 04, 32×32, 2010.
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Wallflowers remix 06, 32×32, 2010.
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À l’aube de mes soixante-dix ans, je commence un travail sur les années soixante-dix, la décennie de mes vingt ans. Je pense qu’il se développera en triptyques et j’espère en réaliser trois ou quatre.
Le premier triptyque est une reprise d’une œuvre de 2010 qui était elle-même une reprise du thème de l’identification : Wallflowers remix.
J’ai gratté le papier peint qui servait de fond (en allégorie du fond à carreaux utilisé dans les commissariats pour les portraits de la Brigade de Mœurs), portraits abandonnés dans les ordures devant la Questura fin 2007, retrouvés par un libraire-galeriste romain et exposés pendant à peine une journée, avant que les carabiniers envoyés par la Surintendance ne les saisissent avec tout le matériel de l’exposition, y compris les catalogues.
J’ai remplacé le papier peint par des cartes militaires IGM découpées au format de mon image, 32×32 cm. Ces découpages représentent les lieux où, sur quelques kilomètres carrés, se sont déroulés des événements marquants des années 1970 : le crime de Castelporziano (10 août 1975), l’assassinat de Pier Paolo Pasolini (2 novembre 1975), le festival de poésie de la plage de Capocotta (28-30 juin 1979), où j’ai vu Allen Ginsberg, ignoré de tous les jeunes prolétaires qui bombardaient la scène de canettes de bière remplies de sable, chanter son Kaddish Father Death Blues à l’accordéon.
Sur les cartes, j’ai apposé des tampons à l’encre rouge, soit sculptés par mes soins dans des pierres à savon ramenées de Chine, soit commandés à des artisans itinérants de Canton lors d’un séjour en 1990 : des signes sans signification, ou de courts écrits, Wallflowers, Ashbox, Nequid nimis, ou ma signature transcrite en caractères chinois.
J’ai également recopié à la main des phrases qui tournent dans ma tête de manière obsessionnelle depuis au moins trente ans : non dicere ille secrita abboce (catacombes de Domitilla, VIIIe siècle), alexamenos sebetai theos (graffito sur le Palatin légendant un dessin d’un chrétien en train de prier, tête d’âne et bras tendus), perimeno, ananke, όχι στην Ιθάκη, όχι σε αυτές τις περιπέτειες (non à Ithaque, non à toutes ces vicissitudes, d’après un poème de Yannis Ritsos dans Pietre, Ripetizioni, Sbarre, Milano, Feltrinelli, 1978 que je lisais beaucoup).

(Traduction automatique de l’italien : https://www.deepl.com/translator#it/fr/)

 

 

 

 

Dante all’università per stranieri (2017-2023)

Spuglia Dante 01

Spuglia Siena 01

La sede di un’università per stranieri pare il luogo indicato per un’installazione artistica che ha per soggetto l’opera dantesca, che è come il “logo” della lingua italiana.

Come alludere meglio alla sua perennità, e allo stesso tempo alla precarietà dei tempi storici e della trasmissione letteraria, se non trasferendo il testo su maioliche, su materiale da costruzione?

Trascrivere manualmente un canto a scelta per ogni cantico; l’incertezza e l’imprevedibilità della scrittura a pennello su un supporto permanente quale la piastrella è l’aspetto contradditorio, quindi interessante, di una tale installazione.

L’idea della trascrizione di testi letterari mi viene da un lato come un tentativo di parodia della cultura popolare (i proverbi sulle mattonelle appese nelle sale da pranzo) e dall’altro dalla lettura di un breve testo di Walter Benjamin. Lo scrittore tedesco confronta lettura e trascrizione; la prima è come sorvolare in aereo una strada: se ne ha una vista d’insieme ma non se ne ha l’esperienza; per conoscere davvero un tragitto occorre percorrerlo a piedi, così come fa l’amanuense che ricopia un manoscritto antico.

La mia è una grafia pessima. Il tentativo di addomesticarla va insieme a quest’idea del necessario conservare e tramandare. E il supporto ceramico è forse più duraturo della carta e finanche dei vari mezzi informatici di stoccaggio.

Tre canti della Commedia, uno per cantica, sono trascritti piastrella per piastrella, una terzina per pezzo. In tal modo il filologo del futuro potrà ricostruire almeno qualche rima completa del testo dantesco. E l’archeologo del futuro dovrà capire perché testi letterari fossero parte delle mura di un grosso edificio rivestito anch’esso di mattoncini in cortina.

Il formato “zoccolo” (10×20 centimetri) permette di riprodurre una terzina intera; ho vegliato, una volta scelta una delle varie edizioni possibili, a evitare ogni refuso, nel processo abbastanza laborioso del lavoro in officina. La mia sola licenza artistica: ho scritto in continuità lineare, come nel flusso di un telex, senza rispettare il verso né l’a capo.

Un canto a scelta per ogni cantica: rosso per l’Inferno, naturalmente; verde ramino per il Purgatorio; azzurro per il Paradiso, evidentemente. Un piano di scale per ogni canto: possono essere percorse in senso ascendente o discendente. Ma la gerarchia dantesca non è rispettata: il Purgatorio si troverà al piano superiore e il Paradiso in quello intermedio. La realtà che viviamo merita di farsi trovare ai piani alti.

Salvatore Puglia, novembre 2017

PS: nel maggio 2018 sono state aggiunte un centinaio di maioliche, nelle varie lingue insegnate all’università, come contrappunto al testo dantesco.

Spuglia_Dante_02

Spuglia_Dante_01

Spuglia Siena 04

Spuglia Siena 05(Foto: M. Vedovelli)

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L’installazione è stata poi ripresa, nel 2022 e 2023, con la produzione di diverse maioliche intitolate a personalità letterarie, sistemate a prossimità delle aule a loro dedicate. Vedi anche:
Articolo sull’inaugurazione dell’aula magna, settembre 2022.

See also the short video (2017):
Dante all’università per stranieri

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Rovine nella selva (2023)

Si tratta della terza versione (febbraio 2023) di un lavoro vecchio di quasi dieci anni, mai mostrato in Italia, se non parzialmente (Confronto su Castro, 2018).
Mi sento piuttosto convinto della prima parte (Ruins in the Forest, series A), in cui sovrapponevo il testo dantesco del Purgatorio a foto di siti archeologici nella Tuscia.
La seconda (Ruins in the Forest, series B) mancava forse di qualcosa. Non mi bastava la sovrapposizione di mappe escursionistiche alle mie immagini di rovine e reperti ormai integrati nello spazio naturale. Mi pareva che un nuovo elemento  di artificialità fosse necessario, e credo di averlo trovato nell’apposizione delle lettere di una singola frase, Et in Arcadia [ego]. La Selva del Lamone non è l’Arcadia, certo, e SP non è Poussin. Diciamo che questo Rovine nella selva è un esercizio di imitazione.
Ho anche cambiato la carta topografica che costituisce il fondo dell’immagine: al posto di una carta escursionistica della Tuscia ho messo carte dell’Istituto Geografico Militare degli anni Cinquanta, il cui soggetto non corrisponde con i luoghi da me fotografati.


Rovine nella selva 01, Vallerosa, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 02, Fratenuti, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 03, Sutri, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 04, Rofalco, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 05, Pian di Civita, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 06, Poggio Conte, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 07, Norchia, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 08, Grotta Porcina, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 09, Castro, 2022, 30×40.
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Rovine nella selva 10, Vulci, 2022, 30×40.
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Nella selva antica

Da qualche anno lavoro sul tema della natura soggetta alla civiltà (e viceversa). Nelle fotografie che faccio in giro per l’Europa c’è sempre un elemento naturale che   predomina sulla compresenza di manufatti ridotti a tracce e segni.

Ho ripreso in mano Dante, in particolare i versi della Commedia in cui parla della selva antica, che non è altro che una rappresentazione del paradiso terrestre. Ho trattato in modo allegorico questo soggetto dell’Eden perduto e non ancora ritrovato; l’ho sviluppato in due serie di quadri, una serie A e una serie B, che mostro faccia a faccia.

La prima serie presenta dieci stampe digitali su vetro, in un formato 30×40 orizzontale (se affeziono questo formato quasi A3, è che mi fa pensare a un approccio da amanuense del lavoro artistico: “raccolto”, per non dire “ispirato”). Attraverso l’immagine resa in tal modo trasparente, si intravede il testo di Dante, il Canto XXVIII del Purgatorio, riprodotto su buona carta e in continuo, senza a capo. E’ questo il Canto in cui il poeta, accomiatatosi da Virgilio, si trova nel giardino delizioso da cui i primi peccatori sono stati cacciati; così perfetto questo giardino che anche gli animali ne sono assenti.

Elemento naturale ed elemento umano sono qui indiscernibili, fusi in quella che potrebbe essere una visione del mondo dopo il passaggio dell’uomo, un mondo tornato foresta primordiale. Non si sa se un pescatore di perle venuto da un’altra galassia potrebbe ritrovarvi le ossa divenute coralli, gli occhi diventati perle, neanche impiegando la tecnologia anti-scientifica preconizzata da Hannah Arendt: perforazione contro stratigrafia, nella necessaria distruzione del passato che permette di estrarne ciò che è “prezioso e raro”.

Di fronte a questa sequenza ho concepito un’altra linea di stampe su vetro, dello stesso formato; in questi lavori il fattore umano è più marcatamente presente. Si intravedono soprattutto vestigia monumentali, più “strutturate”, perdute nella natura, ancora riconoscibili anche se forse non più ricostruibili. Di là dalla fotografia si riconoscono carte topografiche ritagliate e rimesse insieme: potrebbero, o forse no, tracciare la localizzazione di questi improbabili paradisi terrestri.

Su ogni carta ho vergato una lettera, in carattere Bodoni: E, T, I, N, A, R, C, A, D, I, A, l’ultima I essendo raddoppiata dall’immagine di un bastone dipinto di rosso, affossato nel pavimento della ex cattedrale di Castro.

Mi provo a oscillare fra una certa “bellezza” dell’immagine e il suo carattere ammonitore. Niente vi cerco di spettacolare o di drammatico, ma penso aleggi da quelle parti una qualche inquietudine: un sentimento che ci accomuna e ci fa “umana cosa”.

Ciao ciao,

SP
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Serie completata il 30 aprile 2022.


Giovanni Francesco Barbieri (Il Guercino), Et in Arcadia ego, 1618-1622, dettaglio, Roma, Galleria Barberini.
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Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1637-1638, dettaglio, Parigi, Museo del Louvre.

 

 

Naples April-May 2023

Affreschi rinvenuti

Una mostra nella Sala Catasti dell’Archivio di Stato di Napoli
in dialogo con le pitture di Belisario Corenzio

Piazzetta Grande Archivio 5

Dal 28 aprile al 27 maggio 2023

Dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18, il sabato dalle 10 alle 13

Affreschi rinvenuti

Una proposta espositiva per l’Archivio di Stato di Napoli

Ciò che propongo alla direzione dell’Archivio di Stato di Napoli è allo stesso tempo un’investigazione da storico e un intervento d’artista. Secondo una pratica che mi è usuale, intenderei sovrapporre, alle immagini delle pitture di Belisario Corenzio recentemente riscoperte nella ex sala del Capitolo, riproduzioni di testi d’epoca e fotografie fatte da me. Su questi differenti strati apporrei interventi di colore.

Sarebbe il mio un approccio evidentemente personale: una stratificazione dell’opera riscoperta di Belisario Corenzio e del mio proprio lavoro. L’affresco di inizio Seicento, il suo stato attuale, quadri miei di dieci e trent’anni fa, la loro sovrapposizione alle foto degli affreschi, la visione nuova (una fra le tante possibili) del mio lavoro e anche di quello del pittore greco-partenopeo.

Potrei sviluppare questo dialogo in tre, quattro serie di quadri di medio formato (fra il 44×106 e il 32×44), per mostrare i quali occorrerebbero quattordici-quindici metri lineari, in un qualunque luogo all’interno dell’Archivio, purché le pareti siano chiare e adeguatamente illuminate.

Una serie Corenzio-Robinson: fotografie del restauro in corso stampate su vetro e sovrapposte a mie foto di spiagge incontaminate o quasi (nella mia pratica artistica uso spesso miei lavori passati, senza un rapporto esplicativo con le iconografie su cui intervengo).

Una serie Corenzio-Gulliver: dettagli degli affreschi prima del restauro, giustapposti a quadri miei antichi di trent’anni, ritagliati e rilavorati.

Una serie Corenzio-Hölderlin: la famosa lettera del poeta tedesco al suo amico Böhlendorf riprodotta su vetro: qui la sua distorta visione dell’antichità si accavallerebbe alla scialbatura gialla che copriva le pitture di Belisario.

Una piccola serie dalle fonti più miste: le riproduzioni dei pagamenti al Corenzio, o degli articoli critici ottocenteschi, sovrapposti a mie foto di soggetto “rupestre”: abbazie abbandonate e riprese dalla natura, romitori medievali, necropoli etrusche.

Il contrasto, e forse la confusione di queste sovrapposizioni mi paiono elementi interessanti da proporre al cortese pubblico dell’Archivio di Stato, che cerca piuttosto schiarimento e spiegazione dalle cose del passato. Il mio è un percorso d’artista: più che interpretazione o spiegazione, propongo dubbi e (spero fertile) confusione.

4 agosto 2022

 

 

Il pieghevole in consultazione alla mostra:
Affreschi rinvenuti pieghevole_SMALL

 

 

 

 

La strada delle annurche, 2023.

La strada delle annurche Poesie (1973-2020) è il titolo della raccolta poetica di Marco Rossi-Doria, a cura e con una prefazione di Franco Vitelli, per le edizioni Studium di Roma (2023).

Gli inchiostri che accompagnano la raccolta datano della fine degli anni Ottanta, quando resi visita a Marco in Kenya, ove insegnava alla scuola elementare italiana. Li ho recentemente ripresi in una sorta di remix, quando mi ha chiesto di illustrare anche questo suo ultimo volume.

Dalla prefazione di Franco Vitelli:

NOTIZIA PER IL LETTORE

Il presente volume, sotto il titolo La strada delle annurche, raccoglie la produzione poetica di Marco Rossi-Doria strutturata in cinque sezioni che occupano lo spazio-tempo che va dal 1973 al 2020. L’autore, in verità, ha fatto un uso parsimonioso dell’espressione in versi e ha mostrato sempre una certa ritrosia nei confronti di un lavoro di sistemazione; ha dovuto cedere, infine, alle insistenze esterne che reclamavano la bontà dell’iniziativa.

Di ciascuna sezione, con titolazione d’autore, se ne dà in seguito notizia specifica, qui basti accennare al fatto che il libro raccoglie in successione cronologica poesie edite e inedite, riuscendo così a dare una fisionomia intera. 

Terra di nessuno comprende 16 poesie degli anni 1973-1983. Esse sono già riunite in una plaquette in carta d’Amalfi pubblicata a Napoli da Forum nel 1984 in 239 esemplari numerati, con 4 acquerelli di Salvatore Puglia. La poesia Generazione è stata anche pubblicata in «Linea d’Ombra», febbraio 1989, p. 64. Rispetto alla plaquette, nella versione odierna l’autore ha apportato alcuni cambiamenti riguardanti la diversa misura dei versi, l’aggiunta o sostituzione di titoli, l’eliminazione di una poesia e di alcune dediche.

Il poemetto Laerte è stato composto tra il 1983 e il 1986 e pubblicato da Cesare Garboli su «Paragone/Letteratura», ottobre 1987, pp. 8-29.

Su proposta di Michel Deguy, Laerte è poi uscito su Po&sie (n. 47, 4° trimestre 1988), tradotto in francese da Caroline Peyron.

Giallonapoli riunisce 27 poesie scritte tra il 1984 e il 1988.

Di queste, tre (La dimora distante, Altri venuti (diverso titolo di Ziggurat), Giallo napoli) sono state stampate a Strasburgo nell’autunno del 1987, con grafica di Philippe Poirier, in un quaderno in carta da imballaggio in 349 copie numerate, titolato Giallo Napoli. Qui erano presenti anche poesie di Salvatore Di Natale e Pasquale Sica, con cinque inchiostri di Salvatore Puglia e un testo di Fabrizia Ramondino.

Nello stesso anno, sempre a Strasburgo, altre dieci poesie, in versione italiana e francese  – Port Bou, mezzogiorno, Selene e le sue compagne, non è la collera Eterna, mé at cori (diverso titolo di Balsamo), PilatoEstremo, Il fantasma nelle stanze (con testo ridotto), il geco che rivedo, da aggiungere  – sono apparse in edizione numerata in 100 copie (Dix poèmes de Marco Rossi-Doria), su carta povera, con disegni di Philippe Poirier.

 

 

 

Camminare sui cocci di Vietri, Montechiaro 2003.

Una performance meticolosamente preparata, documentata da un anonimo spettatore sabato 28 settembre 2003, poche ore prima del famoso black-out della “notte bianca”. Attrezzature da imbonitore posate a una a una sul tappeto: catene, corde, bottiglia di petrolio e stoppini. Infine due racchette da ping pong e qualche elastico. Il vasellame rotto della ditta Solimene di Vietri sul Mare, sottratto nottetempo fuori della fabbrica, trasportato in due grossi sacchi di plastica e sparso al suolo come il tappeto di braci ardenti di un’ordalia vichinga.

Commento del figlio dei padroni di casa: “per superare il letto di cocci hai usato lo strumento più leggero e inatteso” fra tutto l’armamentario da fachiro che avevo esibito. SP

 

Mamotii, 1988-2004.

I lavori della serie Inchiostri-Mamotii sono stati eseguiti durante e al ritorno da due viaggi, in Kenya e nelle Cina meridionale. Presentano quindi due influenze incrociate, quella dei paesaggi africani e quella della pittura cinese. Il supporto usato è invariabilmente la carta da acquarello della Cartiera Amatruda di Amalfi, mentre i colori sono di ogni tipo: inchiostro da penna stilografica per la sua tendenza a diluirsi nell’acqua, caffè, laterite sciolta nella colla vinilica.

I Mamotii* sono figure indistinte, che rimangono larvali e non hanno ancora raggiunto una forma articolata. Potrebbe trattarsi degli alti termitai visibili lungo la strada del lago Turkana, oppure delle sagome dei nomadi che percorrono quella savana, oppure di personaggi mitologici. Per lo più, a suggerire un possibile dialogo fra questi personaggi di natura diversa, in ogni inchiostro figurano almeno due forme.

Negli anni ’90 ho declinato questi disegni in forme sculturali, con il piombo fuso nel tegamino in cucina e colato nelle forme scavate nel mastice da vetraio, oppure con il silicone trasparente da idraulico. Ho anche usato giri di stoppini incerati (Kerzendocht) comprati nei negozi di articoli religiosi in Baviera.

*Il termine mamozio (à la napolitaine) mi viene da un uso fra amici, quando di qualcuno si voleva dire che era un “diverso”, un qualcosa di informe e indistinto ma pure presente, un pò come i monacielli che abitano le vecchie grandi case e gli hunchback inglesi e i gobbetti tedeschi (di cui parla Hannah Arendt nel suo saggio su Walter Benjamin), e quelli che mi sono permesso di ribattezzare Odradek, in un lavoro dal titolo La preoccupazione del padre di famiglia.
Pare che l’espressione venga dalla statua di un Mamotius, ritrovata a Pozzuoli su un sito soggetto al bradisismo, scultura tutta mutilata e forse corrosa dalle emanazioni sulfuree.

 

Asylum 2001

An installation and a performance in Naples, at the Albergo dei Poveri, for the first Day of the memory (January 2001), recorded by Leonardo di Costanzo (short version: 6’46”).

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Performance realized by the libera mente theater company.
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And a few images (for the related text, refer to
Asylum English (2001)
and Asylum. Morale d’une installation muséographique (2010)


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Febbraio 2023: nota per i cortesi lettori italofoni.

Durante la preparazione dell’evento del 27 gennaio 2001, a partire dal luglio precedente, ho tenuto un Giornale.
In parallelo appuntavo in un Taccuino le riflessioni suscitatemi dall’esperienza vissuta e registravo in un Bollettino gli scambi epistolari di tipo amministrativo.
Feci di questi testi paralleli una stampa A4 su tre registri, con un diverso carattere tipografico per ogni sezione. Intendevo così proporre una lettura aleatoria e occasionale dell’insieme, che avevo intitolato Documenti napoletani. Ho perso questo montaggio, tanto nella versione cartacea che in quella digitale. Mi rimangono il diario e il taccuino. Trascrivo qui quest’ultimo.

Taccuino napoletano

 

Nuovi mostri (2023)

Nuove foto di siti costieri, le saline di Aigues Mortes o lo stagno di Thau, nel sud della Francia. Alcune riproduzioni dall’opera di Ulisse Aldrovandi (vedi il mio Histoires des monstres, 2021), neglette a una prima selezione. Trattasi ancora di mostri marini. Una quantità di “firme” al timbro inchiostrato di rosso, da me scavate nelle pietre saponarie riportate dalla Cina trent’anni fa. E, come quarant’anni fa, segni inintelligibili a matita o al pastello a cera, scritture improbabili. Il tutto ripassato col pennello intinto nel fondo di caffè e infine qualche schizzo d’inchiostro di china. Servire su un letto di alghe.


Nuovi mostri 01A, 2023, 30×42.
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Nuovi mostri 02, 2023, 30×42.
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Nuovi mostri 03A, 2023, 30×42.
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Nuovi mostri 04, 2023, 30×42.
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Nuovi mostri 05, 2023, 30×42.
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New photos of coastal sites, the salt pans of Aigues Mortes or the Thau Lagoon, in the south of France. Some reproductions from the work of Ulysses Aldrovandi (see my Histoires des monstres, 2021), not included in a previous selection. The subject is once again sea monsters. A number of red-inked stamp ‘signatures’ I excavated from soapstones brought back from China thirty years ago. And, as forty years ago, unintelligible marks in pencil or wax crayon, improbable writings. All brushed over with a brush dipped in coffee grounds and finally a few splashes of Indian ink. Serve on a bed of seaweed.
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Le monstre de Brignogan-Plage, 2023, 20×30.

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Le monstre de Mèze 02,
2023, 20×30.
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Le monstre du Gardon, 2023, 20×30.
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Les monstres de Mèze, 2023, 20×30.
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Nouvelles photos de sites côtiers, des salines d’Aigues Mortes ou de l’étang de Thau, dans le sud de la France. Quelques reproductions de l’œuvre d’Ulisse Aldrovandi (voir mes Histoires des monstres, 2021), négligées lors d’une première sélection. Ce sont toujours des monstres marins. J’ai réutilisé, en “signature”, des tampons creusés dans des pierres à savon ramenées de Chine il y a trente ans. Et, comme il y a quarante ans, des marques inintelligibles au crayon ou au crayon de cire, des écritures improbables. Éclabousser le tout avec un pinceau trempé dans du marc de café et enfin quelques garnitures à l’encre de Chine. Servir sur un lit d’algues.

 

 

 

Galatina giugno 1961 (2022-2023)

Questo è il grande giorno delle tarantate. Una volta l’anno esse scrollano il peso e il tormento del loro numero anonimo nella società e della privazione di diritti elementari, e possono recitare la loro disperazione davanti a una folla di spettatori.

I tarantati dicono di sentire la noia all’inizio del male, male che viene curato con le cadenze di una musica fortemente ritmata e continua, e con la danza della piccola taranta, la tarantella. Gli strumenti musicali di cura sono: violino, fisarmonica, tamburello. Il violinista fa il barbiere, il tamburellista è contadino, il suonatore di fisarmonica mette i morti sotto terra.

E il 28 giugno di ogni anno, sotto il sole, mentre i carri portano un suono cupo di solchi lacerati, di torrenti, pietra su pietra colore del fuoco, vanno le tarantate, e quelle che sono state liberate del male, nella cappella di San Paolo, con la speranza di ascoltare, dal forte labbro del Santo, una parola che annienti ogni forza malefica sulla croce di due pietre.


2022, Galatina 04, 20×30.

Giungono altre donne. La speranza di guarire si ripercuote sulla loro anima, ogni anno. Il morso, come il rimorso, è aspro da sottomettere.

Qui, il tarantismo comincia la sua morte. Interdetta dalla pietà cristiana, la musica la danza, disarticolata la disciplina del ritmo e della melodia, moltiplicate le possibilità di contagio di queste frane della psiche fra il formicolio delle ammalate, il tarantismo, nella cappella di San Paolo, è già nella sua parabola di crisi.

Quello che poteva sembrare oleografia o folklore entra ora nel campo della cura neurologica. Nell’evoluzione del mondo di oggi, quest’antica eredità del medioevo consuma ormai il suo ultimo tempo.

(Estratti dal commento di Salvatore Quasimodo per il documentario di Gianfranco Mingozzi, La Taranta (18′ 32”, 1962, musiche originali registrate da Diego Carpitella; fotografia di Ugo Piccone; consulenza di Ernesto de Martino).


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2022, Galatina 09, 20×30.
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La prima parte della scaletta presentata da Mingozzi, scrupolosamente rispettata da Quasimodo (da Gianfranco Mingozzi, La Taranta, Lecce 2009, p. 36).

* Per un’analisi del testo di Quasimodo vedi: Héloïse Moschetto, “Dall’esorcismo al trasumanar : le tarantolate di Salvatore Quasimodo”, Babel [web], 42, 2020.

** La scrittrice e fotografa Suzanne Doppelt si è ispirata al documentario di Mingozzi per il suo Meta donna (Paris, P.O.L, 2020).
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Il titolo di questi lavori è Galatina. Il formato è 20×30 cm. I quadretti sono numerati nell’ordine, da 01 a 09.
La tecnica: screenshot stampati in UV su celluloide, tasselli di puzzle dipinti all’acrilico, carta topografica ritagliata.
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Series completed June 28, 2022, at La Verrière, France.
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Work resumed in March 2023, with the addition of six new pieces:


2023, Galatina 10, 20×30.
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2023, Galatina 11, 20×30.
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2023, Galatina 12, 20×30.
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2023, Galatina 13, 20×30.
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2023, Galatina 14, 20×30.
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2023, Galatina 15, 20×30.

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Der Reichstagssturm (2022)

A thesis on contemporary history.

I vuoti lasciati da un T-Rex dipinto di rosso fluorescente.
Gli Hostile Hopi che resistevano all’imperialismo americano, all’inizio del ventesimo secolo.
Un puzzle le cui tessere sono andate disperse. Un esperimento sull’andatura dei gibboni.
La presa del Reichstag da parte dell’Armata Rossa, in un ciclo pittorico celebrativo del Karlshorst Museum di Potsdam.

Les vides laissés par un T-Rex peint en rouge fluo.
Les Hostile Hopi qui résistent à l’impérialisme américain au début du 20e siècle.
Un puzzle dont les pièces ont été dispersées. Une expérience sur la démarche des gibbons.
La prise du Reichstag par l’Armée rouge, dans un cycle de peintures commémoratives au Karlshorst Museum de Potsdam.

The gaps left by a T-Rex painted in fluorescent red.
The Hostile Hopi resisting American imperialism, early 20th century.
A puzzle whose pieces have been scattered. An experiment on the gait of gibbons.
The taking of the Reichstag by the Red Army, in a commemorative painting cycle at the Karlshorst Museum in Potsdam.


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Der Reichstagssturm 01, 2022, 22,5×30.
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Der Reichstagssturm 02, 2022, 22,5×30.

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Bello! Opere nuove? C’è spiegone?
SC

Ah no, òpiri d’arti sunnu!
Lo spiegone è che la Storia è complessa e confusa.
Comunque il tirannosauro a pezzi è l’impero sovietico, o forse anche il puzzle.
Il tentativo di rimettere insieme i pezzi si urta alla resistenza degli Hopi, oppure a quelle dei gibboni, che non vogliono stare al gioco.
E la visione della storia è imbrogliata da ogni elemento successivo, come un’archeologia all’incontrario.
E alla fine non ci si capisce niente ma forse c’è un bell’effetto pirotecnico.
SP

Keams Canyon, May 1896 (2021)

Un recente impegno, in risposta alla sollecitazione di un mio amico che lavora nel campo dell’educazione e mi chiedeva un lavoro sulla scolarizzazione nel secolo XIX.

Eccoti la mia idea. Penso a una serie di sei-otto lavori (formati 30×40 e 30×30) sui bambini Hopi alla scuola industriale di Keams Canyon nel 1896.
Come avrai visto dal mio testo sul sito (Hostile Hopi, italiano) la scolarizzazione era una tappa importante per l’assimilazione degli indiani d’America. Andando a scuola, non potevano più parlare la loro lingua, dovevano cambiare nome, vestirsi all’occidentale e naturalmente seguire il catechismo. La scuola era lontana dai villaggi quindi tornavano raramente a casa.
Gli Hopi finirono per dividersi in due fazioni, gli Hostile, che volevano rimanere sulla Mesa e continuare le pratiche tradizionali e che rifiutavano di mandare i figli a scuola; e i Friendlies, che accettavano la scuola e anche di andare ad abitare nelle casette nuove in pianura.
Nella primavera del 1894 quasi tutti resistettero all’attribuzione di lotti individuali e chiesero ai “Washington Chiefs” di continuare a coltivare in modo comunitario. La loro petizione non ebbe mai risposta ma la lottizzazione non funzionò.
Nel novembre di quell’anno intervenne l’esercito degli US per mettere i bambini a scuola in modo forzato, e diciannove padri di famiglia renitenti vennero imprigionati e deportati ad Alcatraz per un anno.
Alla fine la scissione ci fu davvero, nel 1906, quando il villaggio di Oraibi si divise fisicamente in due. I Friendlies rimasero a Oraibi e gli Hostile fondarono un nuovo villaggio, Hotevilla.
Nella primavera del 1896 lo storico dell’arte tedesco Aby Warburg visitò il villaggio di Oraibi, oltre alla scuola industriale di Keam’s Canyon. A Oraibi assistette a una danza rituale, la Hemis Kachina, che non era quella che fu poi il soggetto della sua famosa conferenza di Kreuzlingen (“Il rituale del serpente”, pubblicato in italiano in aut aut del Gennaio-aprile 1984).
Durante i suoi soggiorni presso gli Hopi Warburg non pare avere avuto conoscenza degli avvenimenti degli anni precedenti; in ogni modo non li menziona e sulla questione dell’educazione occidentale ha una posizione ambigua, come si può evincere dagli ultimi paragrafi della sua conferenza. Altri hanno già interpretato e preso posizione al riguardo. Ma è evidente che la sua superficiale adesione alla luminosità dell’insegnamento occidentale contraddice il suo pessimismo “leopardiano” rispetto alle conseguenze del progresso importato dalla modernità.
Per questa mia nuova serie, lavoro a strati.
Un primo strato è trasparente ed è la riproduzione di una foto fatta da Aby Warburg al Keams Canyon. Un secondo strato è la riproduzione della petizione comunitaria del marzo 1894, rivolta ai “Washington Chiefs” e firmata da ognuno con il disegno del suo totem, e la relativa spiegazione. Il terzo strato è la mia ripresa, grossolana e profana, di alcune di queste “firme-totem”, a mo’ di tatuaggio rosso fluorescente.
Esistono due altre foto di Warburg, fatte nella stessa occasione. Una rappresenta Thomas Keam davanti casa, l’altra il Canyon dove si trovava la scuola. Keam era un ex militare irlandese stabilitosi in Arizona, dove aveva aperto un emporio e fungeva da mediatore fra gli Hopi e il governo americano. Ma non penso di intervenire su queste ultime immagini, che mi paiono « fuori tema ».
Apporrò al disotto dei miei lavori le didascalie del libro da cui ho tratto le foto di Warburg (B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier.  Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998).
La questione che pone questa serie di lavori è certo speciale e non comparabile con quelle che voi educatori affrontate oggi. Dovevano i bambini Hopi essere mandati a scuola o dovevano essere lasciati alla loro comunità e alla loro cultura? Oppure era possibile una strada intermedia?
Apparentemente nell’America fra i due secoli questo non era possibile.

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KC 01. Alunne Hopi con il loro insegnante, Mr. Neel, di fronte alla Moki (Hopi) Industrial School al Keam’s Canyon, Arizona, nel maggio 1896. Queste foto vennero scattate da Warburg al termine del suo soggiorno nel territorio Hopi.
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KC 02. Alunne Hopi e alunne occidentali nel Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
 Le alunne della Scuola industriale Moki (Hopi) stazionano su una roccia; il gruppo è composto da bambine indiane, ad eccezione di una bambina occidentale (facilmente riconoscibile dall’abito bianco).
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KC 03. Genitori Hopi che riportano i figli da scuola, Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
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KC 04. Allievi Hopi della Industrial School di Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896.
I bambini indiani venivano vestiti in abiti occidentali. Warburg aveva chiesto loro di illustrare una storia per vedere se il pensiero simbolico continuava a vivere in popoli che non erano pienamente « civilizzati » dal punto di vista della civiltà occidentale. Questi ritratti erano intesi come documentazione del suo esperimento, il che potrebbe spiegare la posa «antropometrica» di queste fotografie.
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K5 05. Allievo della Moki (Hopi) Industrial School a Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896. Per gli studenti della Industrial School, cappelli e vestiti erano parte dell’uniforme quotidiana: la scuola era in internato e si trovava a miglia di distanza dai loro villaggi.
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KC 06. Allievi della Moki (Hopi) Industrial School. In questo doppio ritratto, il più grande dei due sembra estremamente consapevole. La mano appoggiata ai fianchi e lo sguardo puntato sul fotografo rivelano una fierezza non intaccata dagli abiti che gli sono stati imposti.
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Below is my response to a request from my friend M., who asked to elaborate an art project on the subject of education in the 19th century. 

This is my proposal. Six works (30×40 cm and 30×30 cm) on Hopi children at the Keams Canyon Industrial School in 1896.
As you have noted in my recent text (Hostile Hopi, English), schooling was an important stage in the assimilation of Native Americans. On their way to school, they could no longer speak their language, they had to change their names, dress Western and of course follow the catechism. The school was far from the villages so they rarely returned home.
The Hopi ended up splitting into two factions, the “Hostiles, who wanted to remain on the Mesa and continue traditional practices and refused to send their children to school; and the “Friendlies », who accepted the school and even went to live in new houses on the plains.
In the spring of 1894 almost everyone resisted the attribution of individual plots and asked the “Washington Chiefs” to be allowed to cultivate them communally. Their petition was never answered, but for several reasons the government’s land allotment program did not work out.
In November of that year, the US army intervened to force the children into school, and nineteen defying fathers were imprisoned and deported to Alcatraz for one year.
In 1906, the split was exacerbated , when the village of Oraibi was divided into two. The “Friendlies”, remained in Oraibi while the “Hostiles” founded a new village, Hotevilla.
In the spring of 1896, German art historian Aby Warburg visited the village of Oraibi, as well as the industrial school at Keams Canyon. In Oraibi he attended a ritual dance, the Hemis Kachina, which was not the subject of his famous lecture in Kreuzlingen (“The Snake Dance”, published in Italian in aut aut, January-April 1984).
During his stays with the Hopi, Warburg does not appear to have been aware of the events of previous years; in any case he does not mention them, and on the question of Western education his position is ambiguous, as reflected in the final paragraphs of his conference. Others have examined this matter and taken position. But it is evident that his superficial adherence to the enlightened nature of Western teaching values contradicts his “Leopardian” pessimism regarding the consequences of any sort of progress resulting from modernity.
In my new series, I work in layers. A first layer is transparent and reproduces a photo taken by Aby Warburg at Keams Canyon. A second layer is a reproduction of the community petition of March 1894, addressed to the “Washington Chiefs” and signed by each member of the community with the design of his totem, and its explanation. The third layer is my crude imitation of some of these “totem-signatures”, resembling red fluorescent tattoos.

There are two other photos taken  by Warburg on the same occasion: one of Thomas Keam in front of his house, the other of the canyon where the school was located. Born in England, Keam served in the US army eventually settling in Arizona, where he operated a trading post and acted as a mediator between the Hopi and the US government. But I do not expect  to use these last two images, which I consider to be insufficiently relevant.
However, I will place underneath my artworks the captions published in the book containing Warburg’s photos (B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier.  Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998).
The question posed by this series of works is quite particular and unlike those that educators, like yourself, face today. Should the Hopi children have be forced  to attend faraway schools or should they have to be left in their community in contact with their culture? Or was an intermediate solution possible?

Apparently in late-nineteenth century America, this was not an option.

 

See also: https://slate.com/human-interest/2013/07/hopi-petition-asks-government-to-allow-communal-land-owning-to-continue.html

https://books.google.fr/books?id=EHrML-IMEfIC&pg=PA114&dq=hopi+moqui+allotments&hl=en&sa=X&ei=xkHfUbbkIcazyQHFvoHoDQ&redir_esc=y#v=onepage&q=hopi%20moqui%20allotments&f=false

 

 

 

 

Hostile Hopi (2017-2021)

Spuglia Hostile Hopi 02

Il testo che segue, se può interessare qualcuno, è la premessa a un lavoro che sto compiendo, l’intervento cioè su alcune fotografie scattate da Aby Warburg nella primavera del 1896, nel Nord-Est dell’Arizona (USA).*

Gli Hopi sono una tribù amerindiana stabilitasi all’incirca mille anni fa (chi dice nell’ottavo secolo, chi dice nel tredicesimo) nei territori desertici situati fra il Nuovo Messico, il Colorado e l’Arizona. Attualmente autogovernano una ridotta riserva all’interno della più vasta riserva Navajo. Abitano (abitavano) villaggi di case trogloditiche raggruppate su altipiani rocciosi, le mesa.
Il primo contatto degli Hopi con gli Occidentali risale al 1540, quando il conquistador Francisco Vàzquez de Coronado venne a sapere della loro esistenza e ne fece un primo censo. In seguito i conquistatori spagnoli intrapresero la loro conversione al cattolicesimo. Nel 1629 trenta frati francescani approdarono nel loro territorio.
Nel 1680 ebbe luogo la grande rivolta dei Pueblo e degli Hopi uniti, che gli spagnoli misero vent’anni a domare.
Alla fine di quel secolo l’unico villaggio che i missionari erano riusciti a convertire era quello di Awatowi. Nell’inverno 1700-1701 squadre scelte provenienti dagli altri villaggi Hopi attaccarono Awatowi. Tutti gli uomini furono uccisi, le donne e i bambini trasferiti negli altri villaggi, le case bruciate sino alle fondamenta. Gli spagnoli rinunciarono alla colonizzazione degli Hopi e la loro presenza divenne sporadica.
Il primo contatto con i nuovi occupanti, gli Stati Uniti d’America, avvenne nel 1850 (due anni dopo la conclusione della guerra in cui gli USA incorporarono il 55% del territorio messicano).
Nel 1875 Loololma (o Lololomai secondo altre dizioni), capo del villaggio di Oraibi (considerato il più tradizionale fra gli insediamenti Hopi) fu condotto a Washington per incontrarvi il presidente degli Stati Uniti. Ne rientrò convinto della necessità di far costruire scuole, per poter accedere al livello di civiltà degli americani ed essere capaci di produrre grandi quantità di granturco, l’alimento base degli Hopi.
Nel 1887 fu edificata una prima scuola al Keams Canyon. Rappresentava una vera impresa di conversione e, in seguito a una forma di resistenza passiva, accolse pochi alunni (1); finché nel 1890 truppe federali, sotto la minaccia dell’arresto dei loro genitori, non vi condussero a forza i bambini.
Nel 1893 fu aperta una nuova scuola a Oraibi. L’anno successivo un gruppo di genitori rifiutò di mandarvi i figli. L’esercito americano intervenne, arrestò diciannove padri e li deportò nella prigione di Alcatraz, dove rimasero detenuti per diversi mesi (novembre 1894-settembre 1895) (2).
Nel 1906 infine, in conseguenza di conflitti intercomunitari che si focalizzavano sulla questione dell’educazione oltre che su quella del possesso delle terre, il villaggio si scisse: i “collaboratori” (“friendlies”) rimasero a Oraibi; mentre i “resistenti (“hostiles”), sotto la guida di Lomahongyoma, capo del clan del Ragno, fondarono un nuovo insediamento, Hotevilla.

Nell’inverno 1895-1896 Aby Warburg, dopo un soggiorno allo Smithsonian Institute di Washington, visita diversi villaggi amerindiani del Nuovo Messico e assiste ad alcune cerimonie (ma non alla danza dei Serpenti). Da Albuquerque va a Laguna, poi ad Acoma; a San Ildefonso vede la danza delle Antilopi. A fine aprile 1896, dopo un soggiorno in California, è di ritorno nei territori Hopi dell’Arizona. Dopo due giorni di viaggio in calesse nel deserto, arriva al Keams Canyon e di lì raggiunge Walpi e Oraibi. In quest’ultimo luogo assiste alla danza humiskatcina.
Quindi Warburg si trova a Oraibi al più tardi sette mesi dopo il rilascio dei diciannove “hostile” dall’isola di Alcatraz. Se nel resoconto del suo viaggio (la famosa conferenza del 25 aprile 1923 a Kreuzlingen) (3) non fa menzione di questo episodio, sembra difficile che non ne sia venuto a conoscenza. E, se tutto il suo testo gira intorno alla questione del conflitto fra “l’anima” Hopi e la cultura occidentale e l’aspetto dell’educazione vi è più volte toccato, egli non pare essere stato al corrente dei metodi di educazione forzata praticati dal governo federale statunitense. Egli cita solo la difficoltà con cui il capo del villaggio di Acoma riesce a far entrare in chiesa i riluttanti Indianer.
Infine, la figura 27 del “PowerPoint” di Kreuzlingen mostra un piccolo gruppo di scolari “graziosamente abbigliati e coi grembiulini”, che non credono più ai “demoni pagani”. Ma a quest’osservazione, apparentemente ironica, segue un’affermazione lapidaria: “I bambini stanno dinnanzi a una caverna. Condurli alla luce, è il compito non solo della scuola americana, bensì dell’umanità in generale”.
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Le prime quattro foto che seguono illustrano le differenti fasi dell’arresto e dell’internamento dei diciannove genitori Hopi (fra cui si riconosce, in posizione centrale, il capo della fazione “resistente”, Lomahongyoma). Le due successive sono state scattate con l’apparecchio Kodak di Warburg: vi si può riconoscere il maestro Neel con due alunne e i bambini di fronte alla grotta da cui la civiltà occidentale si adopera ad estrarli.

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Nota gennaio 2023: questa piccola ricerca ha dato luogo a una serie di lavori, in cui sovrapponevo le foto fatte da Warburg a Oraibi, le pagine di una petizione dei capi Hopi per la terra in comune e i disegni da me imitati delle loro firme: Keams Canyon 1896.
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(1) “The Keams Canyon School was organized to teach the Hopi youth the ways of European-American civilization. It forced them to use English and give up their traditional ways. The children were made to abandon their tribal identity and completely take on European-American culture. They received haircuts, new clothes, took on Anglo names, and learned English. The boys learned farming and carpentry skills, while the girls were taught ironing, sewing and “civilized” dining. The school also reinforced European-American religions.”
Questa citazione, così come le informazioni che precedono e buona parte di quelle che seguono, è tratta dall’articolo di wikipedia “en.wikipedia.org/wiki/Hopi”.

(2) Su questa vicenda e per le relative quattro fotografie da me riprodotte vedi il sito web del parco nazionale di Alcatraz: www.nps.gov/alca/learn/historyculture/hopi-prisoners-on-the-rock.htm.
Vedi anche: S. Rushfort, S. Upham, A Hopi social History, Austin, Texas, 1992; M. S. Gilbert, Education beyond the Mesas: Hopi Students at Sherman Institute, 1902-1929, Lincoln, Nebraska, 2010; H. C. James, Pages from Hopi History, Tucson, Arizona, 1974; Peter M. Whiteley, Deliberate Acts, Changing Hopi Culture Through the Oraibi Split, The University of Arizona Press, Tucson, 1988.

(3) A. Warburg, “Il rituale del serpente”, aut aut, 199-200, gennaio-aprile 1984, pp. 17-39; vedi anche il fondamentale B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier. Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998. E senza dimenticare Aby M. Warburg, Images from the region of the Pueblo Indians of North America, Translated with an interpretive essay by Michael P. Steinberg, Ithaca and London, 1995. Non male il David Freedberg, “Pathos at Oraibi: What Warburg did not see“, in Lo sguardo di Giano: Aby Warburg fra tempo e memoria, ed. C. Cieri Via e P. Montani, Torino 2004), pp. 569-611.

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hopi-1

hopi-3

hopi-5

hopi-6
I diciannove “renitenti” ad Alcatraz.

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warburg 01

warburg 02
Bambini scolarizzati, con il maestro e davanti alla grotta di cui alla Fig. 27 del Rituale del serpente. Foto di Warburg (1896). Da B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier. Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998.
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Petizione per la terra comune, marzo 1894.

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I simboli dei capi religiosi.

 


2021, Keams Canyon 00, 40×30. Dove utilizzo le due immagini precedenti.

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Le pagine finali della conferenza di Kreuzlingen (1923), in “Il rituale del serpente”,  aut aut, Gennaio-aprile 1984.

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E due foto più tardive (1905):


(Southwest Museum Collection, Los Angeles, CA, USA)

 

 

 

 

Elementi biografici

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Mostre personali   (*Catalogo)

1985 Falsapartenza, Galerie ADEAS, Strasbourg

1987 A sea-change, Centro Ellisse, Naples

1988 Ash-boxes, Galerie FNAC, Strasbourg

         Galerie Escapade, Paris

1990 Small Talks, Instituto Cultural de Macau, Macao *

  1.   Kein Marternbild. Institut culturel français, Naples

1992 Leçons d’anatomie, Galerie FNAC, Paris *

        Museo, Galerie Alternance, Strasbourg *

1993 Par les yeux du langage, Atelier du chocolat, Marseille *

         Aschenglorie, Lo Studio, Rome

         Über die Schädelnerven, Galerie Alternance, Strasbourg

1994 Figure humaine, Espace Lézard, Colmar

         Hortus deliciarum, Le Parvi, Paris

         Music on Bones, Galeria 21, Sankt Petersburg

         Actes, Tribunal administratif, Strasbourg

1995 Abstracts of Anamnesis, Onassis Center, New York *

         Histoire de l’oeil, Lo Studio, Rome *

         L’image de l’autre, Galerie Artem, Quimper, France *

         Trönur, Galerie Alternance, Strasbourg

1996 Still Lives, Lo Studio, Rome *

1997 Kópeskönyvek , Vizivarosi Galeria, Budapest

1998 3bisF, Aix en Provence

         Centre d’Art Albert Chanot, Clamart, France

         Stationen, Palais Yalta, Francoforte *

1999 Iconografie transitorie, Lo Studio, Rome*

         Bilder, Fotogalerie Wien *

         Deutsche Menschen, Maison Heinrich Heine, Paris

2000 Project: Personal monuments, Overgaden, Copenhagen

         A Parachute, Jan Van Eyck Academie, Maastricht

2001 Museum d’histoire industrielle, Société industrielle, Sainte Marie aux Mines

2003 La philosophie dans le boudoir, 3A, Roma

         Sei lezioni di panneggio, Galleria Del Borgo, Rome*

2004 Six leçons de drapé, Moments d’art, Paris

            Filmini, Borgotsunami, Rome

            Antiquarium, Galleria Del Borgo, Rome

2005 Inventarium, Fnac Montparnasse, Paris*

2006 Futuro postumo, Fortezza di Montepulciano

         Quattro pose statuarie, Lo Studio, Rome*

2007 Travaux 2001-2007, atelier Burger, Sainte Marie aux Mines

2008 Ex voto, Galerie Atypic, Toulouse

2009 Time drip, galleria s.t., Rome

         L’Illustrazione Italiana, galerie EOF, Paris

2010 Identifications, galerie Sit down, Paris

         Identifications, galerie Le troisième oeil, Bordeaux

2011 L’art de la copie, Salle d’exposition du lycée Daudet, Nîmes

         SP O tempora, galerie Sit down, Paris

2012 Rupestri, Alessandro Carbone Arte, Roma

         Rupestres, galerie Le troisième oeil, Bordeaux

2013 Il parco dei mostri e l’ombra del luogo, Atelier Morbiducci, Rome

2014 Le jardin des monstres, galerie Sit down, Paris

         Giovannetti fluo, ESPE, Nîmes

         Robinson a Rosignano, Atelier Morbiducci, Rome

2015 Eden, galerie Flair, Arles

         62 rue Vincent Faita : une histoire, ESPE, Nîmes

         Inventaire, galeries Sit down et Huit, Arles

2016 Land paintings, Atypic, Toulouse

2017 Des intrus chez les étrusques, galerie Sit down, Paris

2018 Transit, Etant donné, Nîmes

         Return to Eden, FLAIR galerie, Arles

2020  Millenovecento, Sit down, Paris

2021 Millenovecento, Troisième oeil, Bordeaux
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Mostre di gruppo

1987 Masques d’artistes, La Malmaison, Cannes

1989 Délire de livres, Centre culturel, Boulogne-Billancourt

1993 Im Licht der Schatten, Siegburg, R.F.A.

         Une autre mémoire, Mai de la Photo, Reims

1994 Ecrit matière d’artistes, Conseil général, Digne, Francia

1995 Contretemps, Galerie Kiron, Parigi

         Printemps de Cahors, Cahors, Francia

         Seconda Triennale di fotografia creativa, Jyväskylä, Finlandia

         Ecrits…. Montpellier

1996 Biennale, San Pietroburgo

         Mois Off de la Photo, Parigi

1997 The Shadow, Magyar Fotográfiai Múzeum, Kecskémet, Ungheria

         Groupe Novembre, Artsenal II, Parigi

1999 L’image en mémoire, Maison des Arts, Bordeaux

         Groupe Novembre, Artsenal I, Parigi

2000 Models of resistance, Overgaden, Copenhagen

         Fotoplastiken, Galerie im Heppächer, Esslingen, Germania

2001 The air palpably thickens…, Hedda, Maastricht

2002 La fotografia fra storia e poesia, Galleria Le stelline, Milano

2006 Une autre photographie…, Château de Saint Ouen

         Traversée d’art, Saint-Ouen

            Déjà, Espaces Commines, Paris

2007 Intrecci, Castello normanno, Acicastello, Sicilia

         La trasparenza, L’impronta, Roma

         Dix ans de photographie plasticienne, Galerie 89, Parigi

2008 Attesa, Galerie Frédéric Moisan, Parigi

         La chute ou la lutte, Kaplan’s Project, Napoli

2009 Paris-Séoul, groupe Novembre, Seoul

2012 A quoi rêvent-ils?, galerie Sit down, Parigi

         Le temps des lucioles, Hôtel de Sauroy, Parigi

         Ubu Styx, galerie 17, Parigi

2013 L’intonation de la lucidité, In extremis, Strasburgo

2015 Play Vallée, C’est dans la vallée, Sainte Marie aux Mines

2016 Histoire naturelle, La Frontiera, Parigi

         Omnibus circus, Hotel de Sauroy, Parigi

2017 InCadaquès fotofestival, Spagna

2018 Fotolimo festival, Cerbère-Port Bou

         Confronto su Castro, galleria AOC58, Roma
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Cura di mostre

Via dalle immagini – Leaving Pictures, Roma 1999

Memoria e storia. La rappresentazione dello sterminio degli ebrei, Napoli 2001

Promemoria, palazzo Lercari, Taggia (Imperia), 2005
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Installazioni in situ

Laralia, Dale i Sunnfjord, Norvegia, 1999

La storia, Albergo dei poveri, Napoli, 2001

Impalcatura, Teatro Festival, Parma, 2002

Arredamento, Albergo dei poveri, Napoli, 2002

La preoccupazione del padre di famiglia, Festival di Malborghetto, 2004

Memoria e storia, Albergo del Purgatorio, Naples, 2001

Glances across Europe, dieci steli in altrettante località europee, 2002-04

Postcard 02-03, festival Esterni, Terni, 2006

Wallflowers, 53 Nôtre Dame, Nîmes, 2012

Mémoire de l’immigration, Collège de Manduel, Francia, 2013

Les Justes du Gard, collège Révolution, Nîmes, 2014

Aux professeurs et anciens élèves…, Lycée Daudet, Nîmes, 2014

Dante all’università, Università per stranieri di Siena, 2017
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Collezioni e commesse pubbliche

Galeries Photo FNAC, Parigi

Alvar Aalto Museo, Jyväskylä, Finlandia

Fonds National d’Art Contemporain, Parigi

Service ophtalmologique-pédiatrique, Hôtel-Dieu, Parigi

Comune di Fjaler, Norvegia

Artothèque, Strasburgo

ESPE, Nîmes
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Scenografie

2001: The Conqueror Worm, Teatro Festival, Parma

2004: Passion érotique des étoffes chez la femme, Théâtre des deux Rives, Rouen
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Residenze e borse di studio

1999: Nordisk Kunstnarsenter, Dale i Sunnfjord, Norvegia

1999-2001: Jan Van Eyck Academie, Maastricht, Paesi Bassi

2005-2006: Mains d’oeuvres, Saint-Ouen, Francia

2013: Collège de Manduel, Francia
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Cortometraggi video

1991   Museo, 03:30, con Jean-Baptiste Mathieu

1999   Laralia, 03:40, con Nikolaus Lingström

Un échange public, 07:53

An etiquette lesson, 05:50

Ou bien… ou bien, 05:21

2001   Asylum, 07:51, (con Leonardo Di Costanzo)

            Leaving Pictures, 14:40

            Travelling Fiumicino, 18:00

            Coliseum Pantomime, 08: 55 (versione corta: 05:00)

2006 Ex voto 14:00
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Illustrazioni, copertine, interventi grafici

Marco Rossi-Doria, Terra di nessuno, Napoli 1984, illustrazioni

Kat Onoma, Cupid, album 33 giri, 1986, copertina

VV, Giallo Napoli, Strasbourg 1987, disegni

André Bernold, Cahier de conversation, Strasbourg 1988, illustrazioni e grafica

Quelques poètes en mars, Paris 1991, illustrazioni e copertina

”Gloses”, Détail, n. 3, Paris 1991-92, disegni

Christopher Fynsk, Language and relation, Stanford 1996, copertina

VV, Jardins d’hiver. Littérature et photographie, Paris 1997, copertina

Deltio, n. 11, Atene 1997, copertina

Crossings, n. 3, Binghamton 1999, copertina

Communications, n. 70, Paris 2000, copertina

Ecrire court, Strasbourg 2001, copertina

Vacarme, Paris, n. 22, Inverno 2003, illustrazioni

Vacarme, Paris, n. 23, Primavera 2003, illustrazioni

Theodor W. Adorno, Can one live after Auschwitz? Stanford 2003, copertina

A propos de Rodolphe Burger, DVD Séquence Fnac, Paris 2004, copertina

Piero Calamandrei, Futuro postumo, Montepulciano 2004, copertina e illustrazioni

Il Manifesto, calendario 2006, copertina

Piero Calamandrei, La lapide della discordia, Montepulciano 2006, copertina

Les Carnets du paysages, nn. 13 et 14, 2007, p. 204, illustrazione

Il museo verso una nuova identità, convegno, Roma 2007, manifesto

Nimes sources adultes, revue numérique, nn. 5 e 6, 2009, immagini con testo

Ecrire l’histoire, n. 5, Parigi 2010, copertina

Wilderatlas, collezione Orteluque n. 14, Venusdailleurs, Nîmes 2013, cinque stampe

L’évolution psychiatrique, avril-juin 2013, copertina

Play Kat Onoma, 2015, Cover art e manifesto,

David Wills, Inanimation, Minnesota University Press, 2015, copertina

Les mises en scène du divers. OIC, Université laval, Quebec, novembre 2018
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Conferenze e presentazioni

Tradurre e imitare, Escola das Belas Artes, Macao, 1990

Telegrams, Binghamton, State University, USA, 1993

Sauver les phénomènes, Ecole Normale Supérieure, Paris 1994

Abstracts of abstracts of Anamnesis, Onassis Center, New York 1995

Ecole des Beaux Arts, Aix en Provence, 1997

Asylum, JVE Academie, Maastricht, 2001

A-museum, JVE Academie, Maastricht, 2001

Un museo della memoria?, Università di Urbino, 2001

Phantombilder, Università Di Tella, Buenos Aires, 2012 e Aberdeen (GB), 2013

Transient Monuments, Princeton, 2014

In the Underbrush, Providence, 2015

Les visages, les images et leur vérité, Ecole des arts décoratifs, Strasbourg, 2015

Tirages limités, Galerie From point to point, Nîmes, 2016

Findlinge. Images trouvées, images adoptées, Museo della marionetta, Palermo, 2019
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 Pubblicazioni a carattere storico-artistico

”Ainda sobre a pintura macaense”, Comercio de Macau, 2-XI-1991

Contre l’image, à travers l’image, catalogo mostra Colmar 1994

”Vie de Gustav Ammassallik”, Révue de littérature générale, Paris,1996, pp.

”Abstracts of Abstracts of Anamnesis”, Any, New York 1996, n. 15, pp. 55-57

”L’art de la radiographie”, Vacarme, n. 8, Paris1999, pp. 61-62

Via dalle immagini/Leaving Pictures, Salerno 1999 (cura e saggio introduttivo)

”Translator’s scratching”, Issues in contemporary culture…, Maastricht 2000, n. 10-11, pp. 79-91

”Digressions of the Resistance”, Hype_text, Maastricht 2000

”Costruzione di un paracadute”, Lo sciacallo.com, n. 2, estate 2000

“Displaced Translations”, Issues in contemporary culture…, Maastricht 2001, n. 12, pp. 77-82

“1930 circa”, Vacarme, n. 23, Paris 2003, pp. 101-103

“Traduzioni trasparenti”, Testo a fronte, Milano, 2003, pp.

“Excursus”, Vacarme, n. 25, Paris 2003, pp. 69-75

“Des errances croisées”, Vacarme, n. 30, Paris 2004, pp. 114-117

“Rencontres imaginées”, L’île de Batz, n. 117, 2005, p. 8

“Asylum. Morale d’une installation muséographique”, Ecrire l’histoire,n. 5, Paris 2010

“Interpretare storia e natura attraverso l’immagine”, About art on line, gennaio 2019

“Images trouvées, images adoptées”, AM, Antropologia museale, n. 43, Palermo, 2019
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Periodici e opuscoli autoprodotti

Forum, rivista dattiloscritta, quindici numeri fra il 1983 e il 1999

Monsieur B, di André Bernold, con Philippe Poirier, Strasburgo 1986

Poesie di Marco Rossi-Doria, con Philippe Poirier, Strasburgo 1987

Personal Monuments, Copenhagen 2000

Collecting Figures, Roma 2001

Rendiconto, Roma 2002

Sur ses propres pas, Parigi 2002

Libretto, Praiano 2002

Quindici ritratti, Praiano 2002

Divers matériaux, Parigi 2002

Asylon, Roma 2002

Le intrecciate erranze, Feuilleton 01 e 02, Piano di Sorrento 2003

Macchine parlanti. 1930 circa, Parigi 2003

La filosofia nel boudoir, Roma 2003

Quatre thèses sur l’esthétique du fascisme, Parigi 2003

Scritture ceramiche, Salerno 2005 (grafica: Menabò)

In Tuscia, Anabasis, Etruscan Places, Sur une traduction, edizioni a tiratura limitata, 2016

Ruins in the Forest, Transit, edizioni a tiratura limitata, 2017
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Pubblicazioni a carattere letterario o saggistico

”Un’anima del purgatorio”, Linea d’ombra, Milano,n.33, dic.1988, pp.82-83

Hours. Quattro poesie, Nairobi 1990

”Une vie. Nana Frasina”, Vacarme, n. 12, Paris 2000, pp. 98-100

“Builders of Monuments”, Mediamatic, n. 10, pp. 3-5, Amsterdam 2001

“La grande mêlée”, In extremis, Strasbourg, dicembre 2001

“Un été au camp d’internement de Saint Nicolas de Campagnac”, Mediapart, 15-06-2016
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Pubblicazioni a carattere storiografico

“Uno sciopero dei braccianti del suburbio romano nel settembre 1906”, Agricoltura e lotta di classe, Roma, Giugno 1978, pp. 110-117

”Operai e contadini nella grande guerra”, Quaderni storici, 40, Ancona 1979, pp. 364-365

”Enti ‘inutili’ e storia sociale del Novecento”, Quaderni storici, 41, Ancona 1979, pp. 782-786

”Le scuole per i contadini dell’Agro romano”, Roma 1911, Roma 1980, pp.199-208

”Conflittualità, controllo , mediazione in un quartiere di Roma intorno al 1848”, Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso, Roma 1983-84, VII, pp. 225-244

“Pouvoirs officiels et ordre coutumier : les “Caporioni” à Rome au XIXe siècle”, in: AA.VV., Maintien de l’ordre et polices en France et en Europe au XIXe siècle, Paris 1987, pp. 301-308
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Articoli critici su S. P.

Pierre Alféri, ”Aschenglorie”, in catalogo della mostra Par les yeux du langage, Marseille 1993

Philippe Lacoue-Labarthe, ”Museo”, Bloc-Notes, Bellinzona, Svizzera, n.28-29, 1993, pp. 53-57

Martine Arnault, ”Puglia, Le Parvi”, Cimaise, n.229, Paris 1994, p.61

Christopher Fynsk, ”Anonymous figures”, catalogo Abstracts of Anamnesis, New York 1995

Régis Durand, ”S.P.”, in catalogo del Printemps de Cahors, 1995

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Testi critici di accompagnamento a mostre personali

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Ariane Chottin, Hortus deliciarum, Paris 1994

Olivier Haener, Music on Bones, Sankt Petersburg 1994

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Staffan Bengston, Actes, Strasbourg 1994

Katalina Timar, Kópeskönyvek, Budapest 1997

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Rubén de la Nuez, Lapidarium, Bruxelles 2001

Rodolphe Burger, Museum d’Histoire Industrielle, Sainte Marie aux Mines, 2001

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Daniel Loayza, E. S P. (exposition Ex voto), Paris 2006

Jean-Louis Poitevin, Identifications, galerie Sit down, Paris 2010

Daniel Loayza, O tempora…, galerie Sit down, Paris 2011

Francis Rousseau, Eden, galerie Flair, Arles 2015

Laura Serani, L’art de l’histoire, galerie Huit, Arles 2015

Nicole Lapierre, L’art des mémoires mêlées, galerie Sit down, Paris 2017

Elisabeth Couturier, Return to Eden, galerie Flair, Arles 2018
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Articoli di stampa (scelta)

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F.M., ”S.P.: opere su carta”, Giorno e notte, n.21, Napoli, dicembre1988

Journal de Macao, février 1990 (in cinese)

J.C., ”Le “Museo” de Puglia”, Dernières Nouvelles d’Alsace, 10-XII-1992

Yrhne, ”Le temps blanc”, Taktik, Marseille, n.216, febbraio 1993

Hartmann, ”S.P.: un passé translucide et plombé…”, D. N.A., 7-I-1994

”Un imaginaire du passé”, L’Alsace, 9-I-1994

T.S., ”S.P.: de l’invisible au lisible”, D.N.A., Colmar,11-I-1994

Sod. Inf., “Inniostrazija….”, Nievskija Vremija, Saint Pétersbourg, 2-VIII-1994

Hartmann, ”S.P. se souvient des hommes”, D.N.A., Strasbourg, 18-I-1995

Raguz, ”S.P. avec “Actes””, Hébdoscope, Strasbourg, 18-I-1995

Verna, ”Images à la recherche du temps perdu”, La Marseillaise, 21-V-1995

Morvan, ”Images de l’autre: les belles infidèles”, Ouest-France, 18-IX-1995

DI GE., ”Le teche da museo di Puglia”, Il manifesto, Roma, 9-I-1997

Perfetti, ”S.P., Studio Bodoni”, Next, Roma, n.38, primavera 1997

W.B., ”Zerfallende Bilder in Palais Jalta”, Frankfurter Rundschau, 8-XII-98

C.A. Bucci, ”Il fascino caduco delle iconografie transitorie”, L’Unità, Roma, 2-III-99

Cestelli Guidi, ”L’arte incontra la storia”, Il manifesto, 9-III-99

Sele, ”Inspirierte av norske torvtak”, Firda, Norvegia, 26-07-1999

Hagoort, ”Magere man lost op in korrelig beeld”, Volkskrant, Amsterdam, 26-05-00

Mostbacher-Dix, ”Der Skulptur mit der Kamera auf der Spur”, Stuttgarter Zeitung, 27-06-00

“Des corps et des notes“, D.N.A., 21-09-01

Ritzenthaler, “Les signes de S.P.”, L’Alsace, 22-09-01

“Une nouvelle oeuvre au jardin Georges-Delaselle”, Ouest-France, 01-11-04

“Inventarium”, Metro, Paris, 06-04-05

Di Pietro, D. Monteforte, “Città unite tra immagini e suoni”, Il Giornale dell’Umbria, 22-09-06

Di Ge, “Puglia, oltre le formelle”, Il Manifesto, 29-11-06

“Dans les archives de Salvatore Puglia”, L’Alsace, 01-06-07

“Paris, Salvatore Puglia”, Azart Photo, Paris, janvier-mars 2010

C., “Sans autorisation”, Télérama sortir n. 3137, 24-02-10

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Maisonneuve, “La mémoire, les histoires de S P …”, Sud-Ouest, 28-10-2010

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https://www.artcotedazur.fr/artistes,181/peinture,319/salvatore-puglia,9627.html

T. Gaillac, “École normale de Nîmes : la boîte à souvenirs”, Midi Libre, Nîmes, 05-05-2015

Fabre, “S.P. : une histoire de l’école normale de Nîmes”, La gazette, Nîmes, 07-05-2015

Anne-Frédérique Fer, Des intrus chez les Etrusques, Fineartfrance, settembre 2017

https://www.aboutartonline.com/2018/10/21/una-mostra-e-un-volume-alla-riscoperta-dellalta-tuscia-laziale-tra-arte-e-architettura/

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Taccuino 1999-2004

Ritrovato nel computer cercando altro, sorpreso al ritrovarmi capace di riflettere, anni fa. Il corpo principale di questi appunti sono i pensamenti intorno all’organizzazione, abbastanza difficile nella città di Napoli in cui talmente presente era la malavita organizzata, di un avvenimento sulla Shoah, una mostra “performativa”.

LUGLIO 1999

Théorème de l’incomplétude (Godel). Cosa vuoi farne, a parte un bell’occhieggiante titolo di lavoro?

Art’s work e ciò che chiamerei opera; è disinteressata, e incurante di lasciare o meno traccia di sé. Work of art è l’opera d’arte, tutto il suo scopo è la traccia.

Andare al di là del sentimento, o restarne al di qua, ma mai metterci i piedi dentro (come ho forse fatto in Laralia). In questo mio ultimo lavoro a forza di scomparire l’immagine è diventata cornice del paesaggio e soglia del mondo e questo va bene; ma anche la continua critica della rappresentazione può essere sentimentale.

Lavorare sui popoli nomadi, secondo l’idea di Buber (Moses, introduzione); si tratta di affermare il concetto di trapianto in contrasto con quello di integrazione.

Ornamentierung ist Verbrechen (Loos). Verbrechen ist Ornamentierung.

L’originalità è nell’approssimazione: quando vedi, nel preparare un’installazione, la riprovazione dei tecnici del suono o dei fotografi di professione, allora sei sulla buona strada.

Il vino è una necessità mascherata da piacere, così come il libro. Una buona cantina e una buona biblioteca ti terranno in vita.

Mi interessa sempre e solo il momento “appena prima” la catastrofe o l’evento, così come quello “appena dopo”; sono differenti stasi nel tempo. Un tempo è irrimediabilmente finito, quello successivo non ha ancora preso forma. Penso al crollo nella basilica di Assisi; la volta è venuta giù, la polvere non s’è ancora levata, non si sa ancora cosa sia successo. Nello shock tutto pare ancora riparabile.

Non ho compassione né interesse per le persone che non siano deboli. D’altro canto, delle persone deboli non posso occuparmene io.

Dice un’espressione di Basaglia (secondo l’infermiere Maurizio di Trieste, conosciuto sulla spiaggia di Praiano): “mettere fra parentesi la malattia”. Sarebbe a dire: dare una zona franca al malato, senza voler sapere chi è e senza voler sapere. Dargli uno spazio proprio e una porta, non chiusa né dall’interno né dall’esterno, con regole definite ma anche con la negoziazione di queste, perché le regole dipendono dalle individualità.

Garboli nella prefazione ai diari di Delfini (Torino 1982): “L’unica cosa certa dell’amicizia è che non è mai abbastanza.” Mi domando se non è lì che ho trovato la citazione che avevo trascritto nel carnet: “Sono leali le ferite inferte dalla freccia di un amico” (Proverbi, 27, 6).

In questo momento mi preoccupa, la questione. Ho scoperto che non c’è amicizia che sia incondizionata e questo mi destabilizza definitivamente. Come è possibile che le frecce lanciate da un amico non lo trasformino in un non-amico?

Il problema delle italiane (delle europee meridionali) è questa faccia espressiva. Ci vedi tutta l’autocommiserazione con cui considerano se stesse. A quelle del Nord, almeno, non si muove il viso e ci vedi solo buon senso e mancanza di sentimento di colpa.

Rivendicare la propria mancanza di identità. E’ una qualità, non una macchia.

I miei amici sono sparsi nel mondo e non si conoscono fra di loro, oppure non parlano la stessa lingua. Non ho, quindi, un territorio proprio, ma solo intersecazioni e, a volte, traduzioni. Come l’ambasciatore di me stesso tiro il filo delle distanze tra punti lontani e mi perdo nel percorrere questo filo. Mi pare che la ragione di tale dispersione sia in un movimento che è sul piano, sulla topografia piuttosto che nella profondità. Il mio luogo non è, certo, il pozzo di San Patrizio, in cui chi scende risale senza rifare lo stesso percorso e senza incontrare chi va in senso inverso.

Mi pare che, se non altro, non mi affatico più ad avere risentimenti. Lascio che le mie energie vengano consumate, semplicemente, dalla contemplazione del tempo che passa.

Gli uomini incontrati in prigione: erano, per lo più, brave persone. Quando non lo erano, erano idioti.

Un’architettura della conversazione. Sotto un paracadute appeso fra gli alberi, in uno spazio proprio e allo stesso tempo aperto a chiunque, senza condizioni. Non sarà accoglienza, perché l’ospite non porterà pericolo, ma almeno esercizio di ospitalità.

Stamperò il Blue Shield dell’Unesco su tante magliette bianche, e le spedirò a persone in zone di guerra. Così verranno protetti in quanto patrimoni culturali.

Quella è talmente paranoica che interpreta financo la respirazione del suo amante. Poi quello la lascia e lei non sa perché. Quell’altra non può avere, attualmente, che delle “relazioni leggere”, perché ha da scrivere una dissertazione. Preferisco l’onestà di C., che ha incontrato infine un uomo che è bello e intelligente ma, che vuoi, è anche antipatico.

AGOSTO

Sarei un Okkasionalist, uno che si fa prendere volentieri “dalle occasioni e dagli spunti stimolanti” (J. Taubes). Certo, una teoria dell’occasionalismo non è proponibile. Trasformerebbe l’occasionale in sistematico.

Tornato nei luoghi della sua adolescenza, dopo lunga assenza, il nostro eroe ritorna rivisita ripercorre i luoghi. Sono sempre sono quelli, cosa vuoi che sieno divenuti.

Quando viene in questa città deve a volte attendere ore fra un appuntamento e l’altro. Allora siede in macchina, o cammina in tondo in una piazza di mercato. Il mercato è chiuso, permangono gli odori delle merci. Più forte degli altri e più corrotto quello di pesce. Uno degli appartamenti che aveva avuto, diciamo, venti anni prima? stava a un piano ammezzato e dava proprio su un mercato e sui banchi del pesce. Veniva la sua donna a trovarlo, o rientravano insieme, erano le prime settimane del loro amore, lei a volte rimaneva mezza nuda avanti a lui, col petto scoperto e alla vita ancora una gonna bianca lunga. Quando risente quest’odore di pesce putrefatto questa è l’immagine che gli torna.

Finora è sempre stato un ospite. Chissà se mai diverrà un ospitante. Forse in questa città dove ora torna, reduce. Comprerebbe allora buoni vini – quelli sarebbero gli unici contenuti del suo frigorifero – e avrebbe così di che offrire, se mai ne capitasse l’opportunità. Anche la casa con le finestre sul banco del pesce era una casa prestata. Ne era proprietario un amico di amici, cameriere di birreria, che tornava a notte fonda e, quando il nostro eroe era rimasto sveglio ad attenderlo, gli raccontava di non potere intendersi con i propri genitori, perché, vedi, loro sono socialisti e io comunista, cosa vuoi.

Nel parco, che è piuttosto una foresta, mi perdo e mi prende il panico. Attraverso valli in cui i tronchi caduti sono coperti di muschi così verdi da parere fluorescenti. Vedo funghi gialli, giallissimi, che non colgo. Calpesto pigne, edere e rami secchi. Distinguo infine un muro, che mi metto a seguire. Cammino sui rifiuti, da ciò capisco che c’è una strada lì dietro. Per raggiungerla debbo salire su un albero e da quello calarmi sul bordo del muro e saltare giù dall’altro lato. Mi faccio male alle caviglie, il muro era alto davvero. Risalgo la stradina e due metri più in là ecco un bel buco, ci sarebbe passato un rinoceronte.

Necessità delle cerimonie. Il momento in cui pianto la stele, o inchiodo l’opera al muro, o fisso il luogo dell’installazione. È quella la cesura, la dipartita e il battesimo. In Norvegia, sul monte, non potevo lasciar andare le steli rosse, una volta piantate, se non innaffiandole. Non avevo schnaps con me ma solo una lattina di birra tiepida, l’ho vuotata davanti alle steli e mi sono sentito più leggero.

Per la mostra sulla Shoah: preparare i preparatori. Ammettere solo gli studenti che siano stati preparati da professori che abbiano seguito un corso.

Inoltre: tutta la fase preparatoria dell’evento sarà scandita da riunioni settimanali, in un ristorante o in un bar; saranno riunioni teoriche, non pratiche. Dovrà essere come un laboratorio di fisica.

Da ora in poi, quando lavorerai, sarà per qualcosa che abbia un inizio e una conclusione visibile, qualcosa che assumi prendi e, una volta trasformato, lasci. Né regole, né programmi, né carriera; vivere in uno spazio temporale e non nel tempo lineare.

Pare che la chiesa armena celebri una festa dei Santissimi Traduttori. Vorrei candidarmi a tale santità.

Vedere come, alla fondazione di Roma, hanno istituito fuori delle mura un asylum, per accogliere criminali, sbandati e fuggitivi: Pare questa essere una misura autoprotettiva, oltre che altruistica. Difatti Romolo cercava popolazione per la città; forse quello era come il purgatorio dei forestieri.

Mundus patet: il mondo è aperto (nel fondare la città).

SETTEMBRE

Da quando lo lessi, diversi anni fa, mi ossessiona l’aneddoto sul vecchio Degas che, per passare le serate, prendeva l’omnibus da un capolinea all’altro. L’opera è buona perché porta dimenticanza, non perché sia la traccia o la testimonianza del tuo passaggio. Ma se è buona porta un ritorno postumo d’amor. Il carattere antipatico di Degas è noto, e odiose furono le sue posizioni politiche. Quando si vede il suo autoritratto con manichino di Lisbona, non si può non provare compassione; ma il quadro è buono, e l’autocommiserazione del soggetto è trascesa dalla qualità della pittura. La compassione diventa ammirazione.

Visions suaves et cauchemars incohérents (una didascalia da un film muto di Meliès). Ninfette in calzamaglia, dipinte di azzurro fotogramma per fotogramma, correvano qui e lì inseguite da diavoletti muniti di tridenti. Continuavano la loro corsa sott’acqua e finivano in bocca alla balena. Lì iniziava il vero rave party. La pancia della balena era un salone delle feste a prova di pressione, un vero safe haven, un asilo della fantasia. Ma dov’è l’asilo, dico io, che non sia allo stesso tempo una prigione?

L’opera d’arte è irresponsabile, ma non testimonia che della responsabilità.

L’incredibile –per ora- convergenza con la gente di Napoli. Si dice la stessa cosa in lingue diverse, e ci si intende al di là della lingua. I patti sono firmati all’atto dell’incontro, a una fermata di funicolare o, più spesso, davanti a un caffè. Scopro qui la diplomazia del caffè: quello che lo avrà offerto o riuscirà a pagarlo avrà imposto il proprio accento alla lingua comune. Con un forestiero come me, però, la lingua non è condivisa e il caffè non basta; hanno da farmi conoscere le migliori pizzerie.

A Napoli quando piove ti si chiede un passaggio sotto l’ombrello. Più di una volta signori per bene o garzoni di bar mi si sono accostati e hanno fatto un pezzo di via con me, chiacchierando fino a che a un cantone non si staccavano dalla mia protezione.

Se chiedono un passaggio sotto l’ombrello di uno sconosciuto, è perché sono talmente a casa propria, e perché sono al di là della buona educazione. Si può chiedere, o dare, credo, solo essendo maleducati. L’esigenza, così come l’offerta, si situano al di fuori della sfera dell’etichetta e della cortesia, ma sono un’espressione dello “stare di casa”.

L’arte è terapia solo per gli artisti. Per gli altri è passatempo.

L’inutilità del risentimento (Deleuze): non si è contro qualcosa, si è qualcos’altro.

La trasparenza va in una sola direzione. Non si può rendere trasparente qualcosa che all’origine non lo è, ma si può moltiplicare la stratificazione latente nelle trasparenze originarie.

La trasparenza è la qualità dell’opera d’arte. E’ quella che permette la traduzione. Se il kitsch, nella sua incapacità di distanza dal suo modello originale, permette solo il movimento da A a B e da B ad A, la trasparenza è quella che permette alla traduzione il movimento da A a B e da B a C e cosivvia.

Si può tradurre solo qualcosa che è trasparente all’origine, che già porta in sé la possibilità di traduzione. Ecco perché è così difficile occuparsi dello Sterminio. Non c’è niente da tradurre in quella storia.

The palpable truth. Il capitolo 57 di Moby Dick inizia con la seguente scena: un mendicante zoppo scende le vie del porto di Londra con un cartello al collo, su cui è dipinto l’episodio in cui aveva perso la gamba. Il lupo di mare è diventato l’icona del quadro che porta al collo.

OTTOBRE

Domenica. Mi svegliano presto le voci nel vicolo. Poi tacciono a lungo, ma ormai sono seduto al tavolo di cucina, a fissare assonnato la fiamma blu sotto la macchinetta del caffè. È il primo giorno senza impegni da quando sono a Napoli. Prendo la macchina fotografica, esco per i quartieri deserti, scendo al porto a fotografare cani randagi. Fotografo solo quelli stesi accanto alle porte e sulle soglie, i giacenti socievoli.

Ieri mi hanno detto all’Albergo dei poveri: la camorra c’è e bisogna patteggiare con loro. Hanno impedito che i lavori di ristrutturazione iniziassero nell’ala che occupano, dove hanno un loro quartier generale, e hanno la possibilità di entrare nell’altra, dove dovrà esserci la mostra.

Serata in vico Pazzariello. Come tutti i giorni a quest’ora, quello dalla bella voce si mette in finestra a cantare. Mi fa compagnia mentre mi cucino pasta e lenticchie.

Avevo appuntamento all’Albergo dei poveri ed ero lì puntuale. Con quelli del teatro abbiamo visitato i locali, immensi nudi e devastati. Dopo ci siamo riuniti e tutto sembrava impossibile, poi a forza di parlare qualcosa sembrava possibile. Certo, ci vorrebbe un esaltato assoluto per riuscire in questo tipo di avventure, non un demotivato saturnino come me.

Vado, per la via dei Tribunali, all’Albergo. Mi fermo davanti alla chiesa della Misericordia ma non entro. Da uno spiraglio del portone vedo che stanno dicendo messa davanti all’altare con il quadro di Caravaggio. Penso che quel quadro, il suo quadro più rumoroso, dice che anche per lui Napoli era “troppo”.

Ecco cos’è l’Albergo dei poveri: è un maestoso edificio barocco, la cui facciata è lunga non meno di trecentocinquanta metri. Al centro appare uno scalone monumentale, che conduce all’ingresso principale. Tale ingresso, così come quasi tutta la facciata, è sbarrato da un muro di cemento alto più di due metri. A sinistra e a destra, alle due estremità del muro, si aprono due accessi al livello della piazza, fiancheggiati da cassonetti della spazzatura quasi sempre rovesciati al suolo. Due lunghi antri illuminati al neon conducono ai labirintici spazi dell’Albergo. In quello di sinistra entrano spesso automobili con faretti blu sul tetto; sono quelle dei funzionari del tribunale che hanno lì i loro uffici. A quello di destra non si può accedere con tranquillità; sembra, insieme con tutta quell’ala, appartenere a un’altra giurisdizione.

C’è poi una zona centrale, quella del cortile a croce e di alcune sale che danno sulla piazza, la cui pertinenza territoriale pare ancora indefinita e soggetta a misteriose mutazioni. Il Comune vi organizza un paio di spettacoli l’anno, il resto del tempo la zona sembra aperta a chiunque. Questa zona era quella che doveva inizialmente ospitare la mostra.

Ieri Peppe ha preso le chiavi di due stanzoni e –attento a che quelli del tribunale non lo vedessero- me li ha aperti. Sono due enormi sale a volta, due grandi grottoni con quattro lucarne in alto, sporchi e coperti di rifiuti. Lì faremo la mostra, mostra che si trasformerà in centro di documentazione e laboratorio sulle intolleranze.

Vado nella capitale per il fine settimana, per prendere spazio e trovare distrazione dalla situazione napoletana. All’arrivo alla stazione, tocco i soldi nella tasca e faccio per mettermi in fila davanti all’ufficio cambi. Poi mi sovvengo che il denaro di Napoli vale anche a Roma, non è quello un paese straniero.

Ci sono mattinate libere. Invece che rimanere nella mia cabina di pilotaggio a telefonare a gente che non richiama e ad ascoltare i colpi del macellaio sotto casa (colpi sempre doppi sul ceppo: il primo più forte e sordo, il secondo un fratello minore del primo, quasi un rimbalzo), meglio andare, ad esempio, in biblioteca, meglio passare il tempo nella bella biblioteca universitaria, al primo piano del cortile delle statue. Cerco nel catalogo i primi autori che mi vengono in mente, capito su un non troppo impegnativo L’ironia di Jankélévitch. “L’ipocrita, dice Kierkegaard, è il malvagio che vuole sembrare buono, mentre l’ironista sarebbe il buono che assume un atteggiamento cattivo”. Anche a me, nel mio piccolo, pare che quello che reagisce al mondo con ironia lo fa per proteggere la propria vulnerabilità, ma è anche qualcuno che vive nella rappresentazione di sé, e perciò non vive.

NOVEMBRE

E a me, quando arriva il bonus del flipper, il regalo che non ti aspetti? Quando non lo aspetti, certo.

Città torva e sublime. Qui non c’è zona franca fra stati di prostrazione e stati di esaltazione.

In via dei Banchi Nuovi, le ante di ferro di un negozio si aprono a fare da vetrina ai lati dell’ingresso. Sui ripiani stretti stretti stanno flaconi di creme e di lozioni. C’è anche un’illuminazione al neon (quanto amano il glauco neon, a Napoli). Queste teche movibili fanno pensare ai polittici a scomparti, sono quasi tanto complesse quanto il Grünewald di Colmar. Nessuna facciata rimarrà senza raffigurazione o esposizione.

DICEMBRE

Le due o tre frasi del Mosé di Buber che mi fanno il giro della testa da diversi mesi e ancora non si posano. Il libro di Buber l’avevo comprato al mercato di Fiumicino, a una bancarella su cui tutto costava duemila lire, libri di caccia e pesca cucina e calciobalilla mischiati a opere filoteologicoesoteriche e biografie di Stalin Hitler Kennedy Luther King.

“Il nomadismo crea cultura, nel senso preciso del termine, là dove non deve integrarsi con una cultura dominante e dove non deve sopraffare altre culture l’una dopo l’altra, ma dove ottiene spazio e tranquillità per crearne una propria.”

“La tradizione è per sua natura trasformazione della forma; trasformazione e conservazione si compiono nella stessa corrente; mentre la mano completa l’opera, l’orecchio è teso a cogliere gli echi del passato…”

Je suis exposé ou il faut que je m’expose? Tutta lì la questione, dichiara Vattimo al convegno di Parigi sulla «giudeità».

L’impegno della “non mostra” sulla Shoah sarà né di “mostrare” né di “rappresentare”, ma di “proiettare” il fatto storico (che non è più l’unico né l’ultimo, su questo il mondo mi ha fatto cambiare idea).

Non c’è simmetria fra memoria e oblio, perché entrambi sono fatti di una stessa materia. Quello che può dare loro una forma è la poetica. L’installazione, la cornice di una “mostra” è tale poetica.

GENNAIO 2001

Sera. Aprendomi una bottiglia di rosso con un cavatappi che porta il nome di un ristorante mi viene in mente mio padre, da sempre un appassionato ubbiditore, che in tutta la sua vita ha praticato, e non ne porta poca fierezza, un’unica trasgressione: un furto sistematico e comunque annunciato e che creava grande affanno e tremore alla famiglia tutta, il furto delle caraffe. Quelle stanno lì, nei ristoranti popolari e di provincia, per farsi rubare dai clienti come lui; perché, altrimenti, ci scriverebbero sopra il nome e l’indirizzo del locale, assortito talvolta di sentenze sugose quali “quando bevo ‘sto vinello me rinasce l’uccello”? E, certo, sarebbe sufficiente chiederne una al cameriere e, peraltro, mi domando se non fosse ciò che mio padre di nascosto da noi facesse. Chissà, forse nessun cameriere armato di forchettone è mai corso dietro la millecento azzurra targata CT, che lasciava dietro di sé nuvole di polvere sui viottoli di campagna, e nessuna pattuglia della Polstrada si è appostata per cogliere il ladro di caraffe recidivista. Tanto affanno per nulla?

Pascal, quando scrive “ho avuto un pensiero, ma mi è passato e non ricordo quale era; scrivo che è passato” non rinuncia alla vanità di dire che ha avuto un pensiero, uno supplementare, di cui non possiamo essere partecipi. Fa così mostra di avarizia. Sarebbe stato più generoso tenersi per sé questo piccolo fallimento.

Invece io consegno qui che sono un appassionato della proprietà. Scorro e riscorro con sensuale piacere le pagine del vocabolario Zingarelli e sempre sono grato che la proprietà del dire abbia il suo testo canonico. Sono felice per un attimo, quando un animatore della radio dice “insieme con”, invece che “insieme a”, come fanno ormai quasi tutti. E’ tale attenzione rigorosa che trasforma le sgrammaticature in vezzi: come quando, ad esempio, dico “financo” invece che “finanche”.

Rientro nel Nord. Questa è la vita a schegge. So tutto dei falegnami di Bologna o dei commercianti di asfalto di San Pietroburgo o dei ferramenta di Copenhagen, ma tale conoscenza non verrà né trasmessa né riutilizzata. L’unica cosa che riappare per miracolo, a ogni passaggio di confine, è l’uso della lingua straniera. E’ tutto ciò di cui posso menar vanto.

Taccuino 2002 all’indietro

La polvere dei ricordi.

Il materiale comune, che non riesce ad assumere una forma, anche fra amici. Ci si accende allora una sigaretta.

Da Avital, 17-11-01: “Still, unconditional hospitality is more than ever necessary as it becomes an impossible concept…”

Marzo 2004

Ieri ho fatto una scoperta, e cioè che l’attrazione per le persone attanagliate dalla sofferenza mentale, che lascia loro poco spazio per lo sguardo sull’altro – al di là della dipendenza fisica – si trasforma in dipendenza dai loro stati e scrutamento dei loro volti nell’attesa del passaggio che li renda opachi ed estranei. Non è tanto una vocazione masochistica e un desiderio di sottrazione da sé e affondamento nell’incorreggibile altrui, quanto il ripercorrimento della dipendenza dagli stati imprevedibili e totalitari di mia madre.

Dicembre 2004

Finita anche questa.

Sempre giro e rigiro intorno alla questione scrittura: mio padre ha ragione. Sarei stato fatto per quello, il resto è frivolo, è sopravvivenza, e non a caso dai via tutto e non ti rimane traccia di ciò che hai fatto. Hai vissuto, hai vivacchiato, hai sopravvissuto.

 

Rupestri-Citera (2018)

Carte geografiche antiche dell’isola di Citera sovrapposte a fotografie di grotte preistoriche e tombe etrusche. Non è la Neverland e non è l’Isola del tesoro.

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Ruins in the Forest. Series B (2016-2017)

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Spuglia lettera 2

 

 

Su una traduzione dal Petrarca (2016)

Copertina Sur une traduction

 

Una lettera senza risposta

 

Au conservateur du Musée-bibliothèque François Pétrarque
Fontaine de Vaucluse

Au conservateur du Musée du Petit Palais
Avignon

Da svariato tempo la mia pratica artistica ha preso a navigare fra la Scilla del testo letterario e la Cariddi dell’immagine dipinta. Da non molto abito nel sud della Francia, non lontano da Avignone e dalla Valchiusa del poeta toscano. Ho spesso visitato tanto quella località, quanto il palazzo dei Papi e la Certosa di Villeneuve les Avignon, ove restano gli ultimi affreschi conosciuti di Matteo Giovannetti.

Vorrei avere l’opportunità di mettere in opera il seguente progetto.

Prendendo come spunto un solo sonetto di Petrarca, certamente quello che nel Canzoniere porta il numero XIX (“Benedetto sia il giorno…”), ne riprodurrei il testo originale e varie, successive traduzioni, in francese e in tedesco *. Riprenderei la versione tedesca di Oskar Pastior e la traduzione che a sua volta un collettivo di scrittori ne fece a Royaumont nel 1990 (vedi la rivista Détail, Paris, n. 3/4, hiver 1991).

Ne risulteranno sei testi (compresa la mia propria versione italiana della versione di Pastior), riprodotti su vetri dal formato 32×32. Sarebbero stampati in carattere Courier, in continuo, come un telex. Sarà interessante vedere se, all’ultima traduzione, il testo iniziale risulterà irriconoscibile o se conserverà una traccia, un monogramma, della poetica petrarchesca.

I vetri stampati verrebbero sovrapposti a fotografie, fatte da me, degli affreschi di Matteo Giovannetti da Viterbo (inizio XIV-1369?) ad Avignone e a Villeneuve les Avignon. Come si sa Giovannetti fu il “direttore dei lavori” dei programmi iconografici ordinati dai Papi. E’ inconcebile immaginare che i due italiani non si siano frequentati, in particolare fra il 1343 e il 1353, quando il Petrarca assolveva a vari incarichi ufficiali nella città papale.

Le fotografie riprodurranno dettagli – ormai divenuti forme astratte – di affreschi rovinati o mutilati nel corso dei secoli. La scelta di questi fondi per i testi poetici non servirà solamente a mostrare le sopravvivenze di un’epoca data. Il fondo e il testo, cosi’ sovrapposti, si compenetreranno reciprocamente: non sarà possibile leggere l’uno indipendentemente dall’altro e si otterrà, spero, una successione di spostamenti nello sguardo dello spettatore.

Nell’installazione finale potrei presentare sei piccoli pannelli, accompagnati da altrettanti quadri con le riproduzioni, ben leggibili, dei testi.

Mi auguro che questo progetto possa trovare la vostra approvazione.
Cordiali e rispettosi saluti,

SP

Marzo 2012

* Queste le traduzioni « classiche » che riprodurrei: per il francese, quella di Fernard Brisset, consacrata dall’Académie Française nel 1933, e, per il tedesco, quella di Leo Graf Lanckoronski (Universal-Bibliothek Reclam, 1956).

01 recto

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Intrusi in posti etruschi (2016)

(Etruscan Places, Intruders)

Spuglia Tarquinia B

Un testo introduttivo, sette scritture su carta Curious translucents 140 gr.
e sei stampe digitali d’arte al formato 15×15 su carta offset 350 gr.
50 esemplari firmati e numerati.

 

Spuglia Tarquinia B 01Tarquinia B 01. Caccia e Pesca/Ammassalik Inuit

 

Spuglia Tarquinia B 02
Tarquinia B 02. Caronti/Ainu

 

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Tarquinia B 03. Leonesse/breathing hole

 

Spuglia Tarquinia B 04
Tarquinia B 04. Fiore di Loto/Hopi e Ona

 

Spuglia Tarquinia B 05
Tarquinia B 05. Cacciatore/racial types

 

Spuglia Tarquinia B 06
Tarquinia B 06. Giocolieri/Kwakiutl

 

All’inizio l’antichità è stata per me una bocca d’anfora affiorante su un fondale sabbioso non più alto che tre metri. Mi ci avvicinavo con la fiocina cui avevo annodato uno straccio bianco. I polpi sono attratti dal bianco ed escono dalla loro tana preferita per avventarsi sul pezzetto di stoffa; è quello il momento di arpionarli; si tratta di una tecnica di caccia subacquea semplice e fruttuosa.
Dovevo avere sui quindici anni. Il fondale era quello del Porto Clementino, sul litorale di Tarquinia. Ancora non avevo visto le tombe dipinte.
Una volta tirai su un polpo insieme con il suo concavo rifugio e, quando mi indicarono un personaggio che pagava anche ventimila lire per un’anfora romana intera, mi spostai su altri fondi, di fronte al poligono militare di Pian dei Spilli, ove trovavo sui sei metri certe anfore tipo Dressel 1A o 1B. Con sagola e rullo di gomma mi ero fatto un rudimentale argano e potevo cavarmela da solo.
Già l’inverno successivo affittavo una moto da cross insieme con un amico, la domenica, e andavo alla ricerca di tombe etrusche nelle forre intorno a Blera e a Barbarano. Non eravamo i primi a entrarvi, ma ne riuscivamo sempre con qualche frammento di bucchero o di ceramica dipinta.
Nel febbraio del 1971 ci fu il terremoto di Tuscania. Con tre compagni mettemmo in macchina una pala trovata in garage e andammo a dare una mano. Alloggiavamo in tende militari e ci scaldavamo la sera con il “cordiale” in bustine di plastica che i marescialli ci distribuivano generosamente. Di giorno spalavamo le strade del centro storico ostruite dalle macerie; a volte, camminando raso al muro, entravamo in un appartamento sventrato: fotografie di famiglia in scatole da scarpe, ninnoli sparsi al suolo, centrini e pizzi coperti di calcinacci. Vidi i sarcofagi etruschi mutilati intorno alla piazza Basile: i defunti non erano stati decapitati dal terremoto ma dai tombaroli. Poi vidi l’abside smozzicato della più bella chiesa al mondo, la basilica romanica di San Pietro (è vero ricordo o mistura d’immagini? Chiese crollate ne ho viste anche in Irpinia nel 1980).
Più tardi, all’università, mi ero destinato a una carriera di etruscologo quando l’obbligo di superare un esame di tedesco dirottò altrove la mia attenzione; oltretutto si era sul più bello delle assemblee pugilistiche fra revisionisti come noi “amici del Manifesto” e le “Sturmtruppen” dell’Autonomia organizzata.
Nella vita ho fatto altro ma alle tombe di Tarquinia sono sempre tornato. Direi che le visito più di quella dei miei genitori, non me ne vogliano a male, loro e quell’altro.
Ci sono stato quando erano tutte accessibili, poi quando rimasero aperte secondo una rotazione annuale, e anche quando le hanno fatte visibili di là dei vetri blindati che ne sigillano l’ingresso. Confesso che, quando torno nella Tuscia, mi capita di lasciare moglie e figli in auto per scappare dieci minuti a rivederne una o due.
Lo scrittore britannico D. H. Lawrence (1885-1930) ne visitò un paio di dozzine fra un pomeriggio e una mattinata dell’aprile 1927 e ne descrisse quindici (Etruscan Places, pubblicato postumo nel 1932). La sua è la visione di una gioia di vivere e di un edonismo etruschi contrapposti all’austerità e al militarismo romani; è un’interpretazione di critica implicita al regime mussoliniano, che della potenza romana si voleva erede.
Alcune delle tombe in cui sono tornato recentemente furono visitate da Lawrence; le descriverò a modo mio.

Tarquinia B 00. Un poco strettino sotto i bassi soffitti della tomba 3713, Franz Boas mima, a beneficio dei costruttori di manichini presso il National Museum of Natural History, la cerimonia dell’hamatsa, la cosiddetta danza cannibale dei Kwakiutl della Colombia Britannica. A New York, nel 1895. Un poco impacciati nei loro abiti rossi di porpora slavati dal tempo che passa, danzatori etruschi del IV secolo a. C. lo accompagnano.

Tarquinia B 01. Sulla soglia della tomba della Caccia e della Pesca un poeta Inuit ritma la sua canzone da duello sul tamburo di pelle di foca, mentre le due spose di Ayukutok si schermiscono davanti all’obiettivo di William Thalbitzer, ad Ammassalik, nell’estate del 1903. Un giovane etrusco caccia uccelli a colpi di fionda. “Here is the real Etruscan liveliness and naturalness”, direbbe D. H. Lawrence.

Tarquinia B 02. I due Caronti variopinti che sorvegliano la porta degli Inferi hanno trovato dei compagni: sono Ainu, la minoranza etnica che abita l’isola giapponese di Hokkaido. L’antropologo “scientifico” che li aveva presi e fotografati come “tipi caucasici”, autore nel 1940 dell’utile opuscolo Comment reconnaître et expliquer le Juif? finì abbattuto dalla Resistenza francese nel 1944 e sicuramente sta in inferno.

Tarquinia B 03. Nella tomba delle Leonesse è in atto un festino; si danza, si suona il flauto, si consumano bevande inebrianti. I delfini saltano in un mare cinerino, mentre un cacciatore groenlandese si apposta presso il foro che ha scavato nel ghiaccio. Una foca vi si avvicinerà presto per prendere fiato. Sulla parete di destra, flemmatico, un uomo reclinato mostra al cortese pubblico un bianco “uovo della resurrezione”.

Tarquinia B 04. Nella camera del Fiore di Loto i guerrieri Hopi acconciati perbenino si producono per Aby Warburg in danze tradizionali, nel 1896, in Nuovo Messico. All’altro capo dell’America e qualche anno dopo un indigeno Ona della Patagonia sistema la sua acconciatura prima di compiere il rituale fallico di fronte al missionario e fotografo Martin Gusinde. Un leone e una pantera fanno loro compagnia. La parete è nuda, è un fondale adatto.

 Tarquinia B 05. La tomba del Cacciatore è ornata come fosse un padiglione di caccia e le sue quinte sono percorse in fila indiana da leoni, tori, fagiani, cervi, cani e cavalieri. In questo spazio si sono radunati vari tipi di cinesi. Si mostrano di fronte e di profilo ma non sono tanto riconoscibili, i motivi a scacchi del soffitto e le punteggiature sui muri ne confondono i tratti. Ma non si è tutti eguali lì sotto, uomini e animali confusi?

Tarquinia B 06. Nella tomba dei Giocolieri una ragazza mantiene un candelabro in equilibrio sul capo, mentre un giovane tenta di impilarvi dei dischetti; il defunto, seduto tranquillo sulla destra, li osserva. Due notabili Kwakiutl posano nei loro paramenti da cerimonia. È l’estate 1904. Approntano il tradizionale potlatch, in cui spezzeranno scudi di rame e distribuiranno coperte di lana e piatti inglesi, senza attenderne contropartita.

TB01 calques

 

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Anabasis. Natura manufatta (2016)

Anabasis. Natura manufatta. Un testo e sei stampe digitali d’arte al formato A5 su carta offset 350 gr.
99 esemplari firmati e numerati.

Anabasis copertina

Spuglia Anabasis 03

Spuglia Anabasis 06

Spuglia PN 01 Vallerosa

Spuglia PN 02 Valentano

Spuglia PN 03 Alès

Spuglia PN 04 Laval-Pradel

 Anabasis
Natura manufatta

 

1. Sull’altopiano.

Di anabasi Rigoni Stern ne ebbe due, una grande e una piccola. La prima fu la ritirata di Russia, nel gennaio 1943; Rigoni era uno dei 60.000 Alpini partiti, su ordine di Mussolini, a occupare l’Unione sovietica, e uno dei 20.000 che ne tornò. La seconda fu la sua fuga solitaria dalla prigionia tedesca, nell’aprile 1945; per una decina di giorni errò nelle foreste di Stiria e Carinzia, nutrendosi di bacche, uova di uccello e lumache, finché non incontrò, su un passo delle Alpi, un avamposto di partigiani italiani.
Mario Rigoni Stern (1921-2008) è uno dei miei padri, con Nuto Revelli (1919-2004) e Vittorio Foa (1910-2008). E fra i miei padri è colui che ha più approfondito la tematica del rapporto dell’uomo con la natura. Il soggetto della foresta, “logo” della natura (la foresta prealpina annichilita dalle bombe austriache e italiane fra il 1915 e il 1918 e poi ricostruita, ad esempio dell’artificiale che si confonde con il naturale) è centrale nella sua opera di scrittore.
Il bosco è per Rigoni “luogo di salvamento” (introduzione a Boschi d’Italia, Roma 1993), mentre la città è divenuta luogo di “solitudine spirituale”, dove “la barbarie si cela fin dentro il cuore degli uomini”. Rigoni riprende qui gli argomenti di Giambattista Vico (Principi di scienza nuova, 1725) ma dà loro un’inflessione più umanista e, alla fine, conciliante. Se l’uomo vuole sopravvivere “insieme con” la natura, deve essere capace di prelevarne la sua parte, senza intaccarne il capitale. Era forse tale ragionamento un modo di giustificare la sua passione di cacciatore d’urogalli?
Lontano tanto da un antagonismo di matrice illuminista quanto da una nostalgia romanticheggiante (sul confronto fra queste due “strade del pensiero” vedi: Robert Pogue Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà, Milano 1995), Rigoni esprime piuttosto un sobrio panteismo umanista: la “buona” foresta non è, secondo lui, quella che cresce spontaneamente e selvaggiamente; è quella che l’uomo, da bravo giardiniere, amministra e cura.
L’altopiano dei Sette Comuni è il luogo delle origini e del ritorno di Rigoni. Nel vagare, da turista, in quelle terre, ho registrato qualche immagine di siti naturali in cui sono visibili, a ben guardare, le tracce della guerra: i camminamenti crollati, i crateri aperti dalle bombe. Ritrovo in queste immagini il soggetto del mio lavoro precedente sul rupestre: si può parlare qui di siti “rupestri”, anche se non è la creatività dell’uomo che ha lasciato le sue impronte, ma la sua ingegneria diabolica?

I lavori che portano il titolo “Anabasis” nascono dalla sovrapposizione di queste fotografie e di immagini d’archivio: gli Alpini in ritirata nella neve di Russia, le postazioni dei fanti e i boschi dell’Altopiano sventrati dopo una battaglia d’artiglieria.

2. Paesaggi nuovi.

Ho intitolato “paesaggi nuovi” questi lavori recenti: gli è che descrivono, non senza un riferimento ironico al paesaggismo romantico, luoghi in cui la frontiera fra naturale e artificiale è quanto mai indistinta e riconoscibile, forse, solo dall’occhio esperto del geologo o del botanico.
Ciò che è certo è che non si sa chi dei due antagonisti, l’uomo o la natura, preceda o segua l’altro, né chi alla fine l’avrà vinta. Salvo che la vittoria dell’uno significherebbe la distruzione di entrambi e sarebbe quindi preferibile se finissero per intendersi.

PN 01 Vallerosa (provincia di Viterbo, Italia).
Una cava di travertino dismessa. Nell’ampio bacino lasciato dagli scavi, dalle pareti bianche verticali, si è creato un microclima ed è ricresciuta una vegetazione lussureggiante e diversa. C’è chi dice che, in primavera, vi si possano catalogare trenta varietà di orchidee selvatiche. Il luogo è davvero tornato alla natura: nello scostare gli arbusti per raggiungerlo può capitare di imbattersi in un grosso cinghiale. A me è capitato, ma non so chi abbia avuto più paura: lui è fuggito da una parte ed io da quella opposta.

PN 02 Valentano (provincia di Viterbo, Italia).
Una cava di pozzolana (il lapillo vulcanico rosso, usato in passato per rivestire i muri di Roma). Dava una buona immagine dell’inferno, e fu usata come scenario per un paio di film medievaleggianti. Dopo l’abbandono delle attività estrattive, i suoi terrazzamenti sono stati ripiantati e gli alberi giovani non nascondono ancora la regolarità dei tagli nella collina. Al sito non si può più accedere, perché nel fondovalle è ricresciuto un sottobosco inestricabile.

PN 03 Alès (Gard, Francia).
Una montagna artificiale, un terril, formatosi con le scorie accumulate in decenni di sfruttamento delle miniere di carbone, alla periferia della città di Alès. Sarebbe forse passata inosservata fra le altre alture, a parte la sua curiosa forma conica, se nel 2004 un incendio di foresta non l’avesse denudata. Trasmesso dalle radici degli abeti ripiantati per nasconderla, l’incendio è arrivato al cuore della collina stessa, che sta ancora bruciando a fuoco lento e inestinguibile.

PN 04 Laval-Pradel (Gard, Francia).
Un grosso sito minerario nelle Cévennes, sfruttato intensamente negli anni ’70-’90 del secolo scorso, e per l’apertura del quale venne deviata su svariati chilometri una strada storica, le chémin de Régordane, che unisce la Loira e la Camargue sulla via di Compostela. Vi si sono formati tre laghi e grandi anfiteatri scavati dai bulldozer, sui quali ora l’Office National des Forêts sta ripiantando alberi. L’accesso all’area è proibito, e vi sono entrato clandestinamente. Il comune di Alès, dopo aver lasciato cadere un progetto più ecologico di “village cévénol”, prevede di farne un parco di divertimenti per “sport meccanici” (quad, cross, jet-ski, paintball); in ognuno dei tre laghi verrebbero immessi e si pescherebbero (sportivamente) specie di pesci differenti.

Dopo la natura artefatta, la natura manufatta.

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In Tuscia, land paintings (2016)

Alcuni interventi artistici in una natura “storicizzata”. Un’edizione a tiratura limitata (99 esemplari firmati e numerati): un testo e sei stampe Fine Art digitali formato 15×20 su carta offset da 350 gr.

 

In Tuscia set

 

Spuglia copertina In Tuscia

 

B Land paintings 12 2014

spuglia nella selva antica 01

D Rupestre 00 2012

E Eden 04 2014

F La Nova 06 2015

G Romitorio 00 2015

 

In Tuscia, land paintings

Un sito rupestre: ivi si tratta della natura che, già sfruttata dall’uomo per farne opera, riprende i suoi diritti e non lascia l’opera dell’uomo che come traccia. La Tuscia è piena di questi luoghi; è come se non solo civiltà e abbandono si succedessero a ondate secolari, ma l’una fosse la condizione dell’altra. La Tuscia è un posto solitario. E sono le attività dell’uomo solitario che lasciano – o lasciano immaginare – le impronte più inattese.
Se il termine “rupestre” definisce forme d’arte fatta su o con le rocce (le tombe, i santuari, i graffiti, le pitture), può anche essere impiegato per descrivere i manufatti inselvatichiti, quando divengono parte della natura circostante.
Per l’artista, si tratta di re-intervenire sugli elementi naturali che sono stati fatti forma dall’intervento umano e stanno riscrivendo la propria storia. Rupestre è il punto in cui natura e storia s’incrociano: per l’artista non si tratta tanto di lavorare orizzontalmente nello spazio, quanto di avere come materia il tempo, in una pratica di stratificazione che sarebbe come uno scavo archeologico, ma al negativo. Sedimentare dopo aver individuato.

Land paintings, 2011-2016
Sono salito all’insediamento protostorico delle Sorgenti della Nova, dove gli uomini si sono succeduti per millenni, utilizzando gli spazi organizzati da coloro che erano passati prima di loro. Rimanevano visibili, ai miei occhi profani, le tracce di una vita ridotta a mera sussistenza: il nerofumo dei focolai sulle volte, i fori nelle pareti di tufo, che servivano a incastrare i tralicci dei giacigli di strame.
Poi sono stato in siti abbandonati e che lascerei al loro abbandono, come fossero rovine artificiali di epoca romantica (perché occorrerebbe salvare il passato a tutti i costi? e quale sarebbe il momento del passato che vorremmo cristallizzare?): Santa Maria di Sala nel comune di Farnese, Castel d’Asso in quello di Viterbo, Castro in quello di Ischia.
Ho chiamato Land paintings i lavori derivati da queste peregrinazioni. In una citazione parodistica della Land art americana, Land painting si potrebbe tradurre come “pittura sul (con il) terreno”. E’ una pratica che risponde agli stessi miei interrogativi sulla presenza dell’artista nello spazio storico. Già ho voluto definire questa posizione riusando il termine “rupestre”.
Spesso, negli anni recenti, mi sono trovato a esplorare i luoghi della Tuscia, così come facevo da adolescente. Tuttavia negli anni recenti non andavo a mani vuote: portavo con me una forma, una specie di foglia d’olivo, o di lingua, fatta di lattice impregnato di pigmenti rossi fluorescenti. La posavo al suolo e la fotografavo: la tomba etrusca, divenuta romitorio medievale, divenuto ovile, divenuto rifugio antiaereo, divenuto nascondiglio di amanti furtivi, accoglieva un ultimo segno di passaggio, come il testimone di una corsa a staffetta.
Nei miei lavori precedenti il segno intrusivo era una maniera di impedire la fruizione dell’immagine nella sua interezza e di infrangere la saturazione propria di ogni fotografia. Il colore fluorescente aveva come la funzione di aprire una breccia nell’immagine e nella sua storicità. Ora, lasciando direttamente sul luogo un segno e fotografandolo, l’opera torna a farsi in quel momento di presenza. Ma contrariamente a ciò che fa la Land art, il luogo non è trasformato: è solo “segnato”.

Romitorio, 2011-2015
Se si percorre la valle del fiume Fiora, nell’alto Lazio, appena a Sud della frontiera con la Toscana, e si sale e scende per ripe franate dopo esondazioni recenti, e ci s’inoltra in macchie boscose aggrovigliate come giungle, si possono raggiungere un paio di romitori, o luoghi per eremiti, che sono sopravvissuti ai secoli, grazie al loro isolamento e al poco interesse che hanno suscitato presso le generazioni successive.
Ecco Poggio Conte: oltrepassata una cascatella che forniva l’acqua potabile ai monaci, si possono vedere i resti di due minuscole celle, cui conducono scalette ardue scavate nel tufo, e una chiesetta rupestre d’ispirazione cistercense. L’interno di questa – nonostante l’oculo scavato nella facciata – è completamente buio: se si scattano fotografie, sarà con il flash e a caso, e solo lo sviluppo svelerà i frammenti superstiti delle pitture che ne decoravano la volta.
Si scoprirà che questo eremita del XIII o XIV secolo (forse un monaco di origine francese?) ha dipinto le vele con motivi decorativi decisamente prosaici, certo ispirati a tappezzerie o a pavimenti, che fanno pensare più a un design d’interni che a un esercizio di venerazione e di contemplazione.
La natura sta pian piano ritornando: le muffe coprono fiori di giglio, grifoni rossi e certe forme falliche. Scompare pian piano il lavoro dell’uomo solitario che passò mesi e anni a scolpire e coprire di colori la volta di un antro scuro, nella consapevolezza che a pochi sarebbe stato dato di ammirarli mai.
Alle mie intrusive foto al flash ho sovrapposto, come una trama leggibile in controluce, un sonetto tratto dal Canzoniere di Francesco Petrarca. Vi si parla, in belle metafore, d’impagabili sofferenze d’amore. Forse fu scritto mentre il pittore di Poggio Conte dipingeva. L’ho riportato senza intervalli né a capo, come un telex.

Nella selva antica, 2014
Probabilmente l’ultimo visitatore di un giardino dell’Eden è stato Dante Alighieri. Nessuna foresta, neanche la selva concresciuta fra le formazioni vulcaniche del Lamone può essere oggi chiamata “primordiale”. Anche la conservazione della natura è un fatto artificiale. Nella riserva naturale Selva del Lamone le tracce della “civiltà” sono visibili ovunque: mura di recinzione crollate, resti di pavimentazione romana, solchi scavati dai carri dei carbonai, cumuli di pietre che furono torri etrusche e, infine, le strisce rosse e bianche della segnaletica escursionistica.
Questa non è certo la natura descritta da Leopardi, la crudele deità che nelle sue manifestazioni distruttive non si preoccupa certo del destino umano (Dialogo della natura e di un islandese, 1824). Questa è una “riserva”, un posto in cui il “primigenio” è solo reminiscenza.
Le mie foto della Selva sono riprodotte su supporti trasparenti e sovrapposte a variazioni personali di graffiti preistorici: sono i segni di un’era in cui l’umanità iniziava appena ad affrancarsi dal mondo naturale. L’unica differenza con quei disegni è la tecnologia della riproduzione: non ocra rossa a piene mani ma Pantone 17-1463 TPX sullo schermo.

Eden, 2014-2015
Luoghi della civiltà etrusca, rovine parzialmente conservate, ove la natura è tornata predominante. Fotografie stampate su supporti trasparenti, che lasciano leggere un passo dantesco oppure decifrare una carta dell’IGM che potrebbe riferirsi a quel luogo, oppure a un altro.
I versi di Dante vengono dall’ultimo canto del Purgatorio: il poeta vi descrive una “selva antica” che non è altro se non il paradiso terrestre, ove una volta l’uomo ha vissuto in stato di grazia. Come una parodia, vi ho sovrapposto delle silhouette di animali selvatici, riprese dalle tavole dell’Histoire naturelle di Georges-Louis Leclerc de Buffon; le ho cucite con il filo rosso, in una tecnica di riproduzione lenta, imprecisa e imperfetta.
La visione illuministica di Buffon è quella dell’uomo vittorioso sulla natura, assecondato dai suoi fedeli mammiferi domestici, il cavallo, il cane. Ora sappiamo che il prezzo di questa vittoria, se l’uomo portasse l’Illuminismo alle sue estreme conseguenze, sarebbe il ritorno di una natura irriconoscibile, corrotta e deformata, in cui forse ci sopravvivrebbe solamente l’infimo animale dal Buffon disprezzato: la mosca cavallina o peggio, il tafano bovino.

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Nella selva antica (2014)

a. Sull’Altipiano. Qualcuno mi aveva detto che i miei lavori sul tema del rupestre richiamavano il libro di Robert Harrison Pogue sulle foreste (Stanford 1992 e Garzanti 1995). Mi sono procurato quel libro, l’ho letto e per lungo tempo non ne ho fatto niente. Il concetto che ne ho tratto è che la foresta è un’invenzione dell’uomo, è un fatto culturale. Intanto ripensavo ai miei numi tutelari adottivi, quelli della generazione ormai scomparsa che ha vissuto da giovane la seconda guerra mondiale, i Nuto Revelli, i Primo Levi. L’ultimo a sopravvivere fu Mario Rigoni Stern (1921-2008). Rigoni, nato ad Asiago, località marcata fino alla distruzione dagli avvenimenti della prima guerra mondiale, volle diventare, nel clima di retorica nazionalistica del primo dopoguerra, militare di professione; ma presto maturo’ la convinzione dell’ingiustizia della guerra, convinzione che si confermo’ nell’odissea del corpo di spedizione italiano in Russia, nella disastrosa ritirata del gennaio 1943 e, successivamente, negli anni di internamento in un campo di concentramento militare tedesco.
La tematica del bosco, quel bosco annichilito dalle bombe austriache e italiane fra il 1915 e il 1918 e successivamente ricostruito dall’uomo, esempio dell’artificiale che ritorna faticosamente naturale, è centrale nell’opera letteraria di Rigoni.
Nel vagare, da turista, per le sue terre, ho registrato qualche immagine di foreste in cui sono, a ben guardare, visibili le tracce della guerra: i camminamenti crollati, i crateri aperti dalle bombe. Ritrovo qui il soggetto del mio lavoro precedente sul rupestre: sono questi siti “rupestri”, anche se non è la creatività dell’uomo che ha lasciato le sue impronte, ma la sua ingegneria diabolica?
E cosa hanno a che fare queste fotografie con le rime in cui Dante descrive la sua entrata nel paradiso terrestre, la “selva antica”, alla sommità del monte del Purgatorio e il suo incontro con Matelda, giardiniera di quel parco privo di peccato originale?

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b. Nel Lamone. Dante è stato certamente l’ultimo visitatore del giardino dell’Eden. Nessuna foresta, neanche la foresta antica sorta sulle formazioni vulcaniche della Tuscia, neanche la Selva del Lamone si puo’ dire originaria. Ovunque si troveranno le tracce della “civiltà” umana: i muri di cinta diruti, i resti di pavimentazione stradale, i solchi dei carri dei carbonai, i mucchi di pietre che furono muraglie etrusche e oggi le strisce di pittura bianca e rossa della sentieristica.
Le mie fotografie sono riprodotte su supporti trasparenti e sovrapposte alle riproduzioni di petroglifi preistorici (quelli del Nevada sono i più antichi ritrovati sul continente nordamericano): sono i segni di un’epoca in cui l’uomo iniziava appena ad appropriarsi della natura. Se sono riprodotti con l’acrilico rosso fluorescente, è perchè di segnaletica si tratta; quello che cambia rispetto a diecimila anni fa, è la tecnologia della riproduzione.

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