Asylum 2001

An installation and a performance in Naples, at the Albergo dei Poveri, for the first Day of the memory (January 2001), recorded by Leonardo di Costanzo (short version: 6’46”).

.
Performance realized by the libera mente theater company.
.
And a few images (for the related text, refer to
Asylum English (2001)
and Asylum. Morale d’une installation muséographique (2010)


.

Febbraio 2023: nota per i cortesi lettori italofoni.

Durante la preparazione dell’evento del 27 gennaio 2001, a partire dal luglio precedente, ho tenuto un Giornale.
In parallelo appuntavo in un Taccuino le riflessioni suscitatemi dall’esperienza vissuta e registravo in un Bollettino gli scambi epistolari di tipo amministrativo.
Feci di questi testi paralleli una stampa A4 su tre registri, con un diverso carattere tipografico per ogni sezione. Intendevo così proporre una lettura aleatoria e occasionale dell’insieme, che avevo intitolato Documenti napoletani. Ho perso questo montaggio, tanto nella versione cartacea che in quella digitale. Mi rimangono il diario e il taccuino. Trascrivo qui quest’ultimo.

Taccuino napoletano

 

Taccuino 1999-2004

Ritrovato nel computer cercando altro, sorpreso al ritrovarmi capace di riflettere, anni fa. Il corpo principale di questi appunti sono i pensamenti intorno all’organizzazione, abbastanza difficile nella città di Napoli in cui talmente presente era la malavita organizzata, di un avvenimento sulla Shoah, una mostra “performativa”.

LUGLIO 1999

Théorème de l’incomplétude (Godel). Cosa vuoi farne, a parte un bell’occhieggiante titolo di lavoro?

Art’s work e ciò che chiamerei opera; è disinteressata, e incurante di lasciare o meno traccia di sé. Work of art è l’opera d’arte, tutto il suo scopo è la traccia.

Andare al di là del sentimento, o restarne al di qua, ma mai metterci i piedi dentro (come ho forse fatto in Laralia). In questo mio ultimo lavoro a forza di scomparire l’immagine è diventata cornice del paesaggio e soglia del mondo e questo va bene; ma anche la continua critica della rappresentazione può essere sentimentale.

Lavorare sui popoli nomadi, secondo l’idea di Buber (Moses, introduzione); si tratta di affermare il concetto di trapianto in contrasto con quello di integrazione.

Ornamentierung ist Verbrechen (Loos). Verbrechen ist Ornamentierung.

L’originalità è nell’approssimazione: quando vedi, nel preparare un’installazione, la riprovazione dei tecnici del suono o dei fotografi di professione, allora sei sulla buona strada.

Il vino è una necessità mascherata da piacere, così come il libro. Una buona cantina e una buona biblioteca ti terranno in vita.

Mi interessa sempre e solo il momento “appena prima” la catastrofe o l’evento, così come quello “appena dopo”; sono differenti stasi nel tempo. Un tempo è irrimediabilmente finito, quello successivo non ha ancora preso forma. Penso al crollo nella basilica di Assisi; la volta è venuta giù, la polvere non s’è ancora levata, non si sa ancora cosa sia successo. Nello shock tutto pare ancora riparabile.

Non ho compassione né interesse per le persone che non siano deboli. D’altro canto, delle persone deboli non posso occuparmene io.

Dice un’espressione di Basaglia (secondo l’infermiere Maurizio di Trieste, conosciuto sulla spiaggia di Praiano): “mettere fra parentesi la malattia”. Sarebbe a dire: dare una zona franca al malato, senza voler sapere chi è e senza voler sapere. Dargli uno spazio proprio e una porta, non chiusa né dall’interno né dall’esterno, con regole definite ma anche con la negoziazione di queste, perché le regole dipendono dalle individualità.

Garboli nella prefazione ai diari di Delfini (Torino 1982): “L’unica cosa certa dell’amicizia è che non è mai abbastanza.” Mi domando se non è lì che ho trovato la citazione che avevo trascritto nel carnet: “Sono leali le ferite inferte dalla freccia di un amico” (Proverbi, 27, 6).

In questo momento mi preoccupa, la questione. Ho scoperto che non c’è amicizia che sia incondizionata e questo mi destabilizza definitivamente. Come è possibile che le frecce lanciate da un amico non lo trasformino in un non-amico?

Il problema delle italiane (delle europee meridionali) è questa faccia espressiva. Ci vedi tutta l’autocommiserazione con cui considerano se stesse. A quelle del Nord, almeno, non si muove il viso e ci vedi solo buon senso e mancanza di sentimento di colpa.

Rivendicare la propria mancanza di identità. E’ una qualità, non una macchia.

I miei amici sono sparsi nel mondo e non si conoscono fra di loro, oppure non parlano la stessa lingua. Non ho, quindi, un territorio proprio, ma solo intersecazioni e, a volte, traduzioni. Come l’ambasciatore di me stesso tiro il filo delle distanze tra punti lontani e mi perdo nel percorrere questo filo. Mi pare che la ragione di tale dispersione sia in un movimento che è sul piano, sulla topografia piuttosto che nella profondità. Il mio luogo non è, certo, il pozzo di San Patrizio, in cui chi scende risale senza rifare lo stesso percorso e senza incontrare chi va in senso inverso.

Mi pare che, se non altro, non mi affatico più ad avere risentimenti. Lascio che le mie energie vengano consumate, semplicemente, dalla contemplazione del tempo che passa.

Gli uomini incontrati in prigione: erano, per lo più, brave persone. Quando non lo erano, erano idioti.

Un’architettura della conversazione. Sotto un paracadute appeso fra gli alberi, in uno spazio proprio e allo stesso tempo aperto a chiunque, senza condizioni. Non sarà accoglienza, perché l’ospite non porterà pericolo, ma almeno esercizio di ospitalità.

Stamperò il Blue Shield dell’Unesco su tante magliette bianche, e le spedirò a persone in zone di guerra. Così verranno protetti in quanto patrimoni culturali.

Quella è talmente paranoica che interpreta financo la respirazione del suo amante. Poi quello la lascia e lei non sa perché. Quell’altra non può avere, attualmente, che delle “relazioni leggere”, perché ha da scrivere una dissertazione. Preferisco l’onestà di C., che ha incontrato infine un uomo che è bello e intelligente ma, che vuoi, è anche antipatico.

AGOSTO

Sarei un Okkasionalist, uno che si fa prendere volentieri “dalle occasioni e dagli spunti stimolanti” (J. Taubes). Certo, una teoria dell’occasionalismo non è proponibile. Trasformerebbe l’occasionale in sistematico.

Tornato nei luoghi della sua adolescenza, dopo lunga assenza, il nostro eroe ritorna rivisita ripercorre i luoghi. Sono sempre sono quelli, cosa vuoi che sieno divenuti.

Quando viene in questa città deve a volte attendere ore fra un appuntamento e l’altro. Allora siede in macchina, o cammina in tondo in una piazza di mercato. Il mercato è chiuso, permangono gli odori delle merci. Più forte degli altri e più corrotto quello di pesce. Uno degli appartamenti che aveva avuto, diciamo, venti anni prima? stava a un piano ammezzato e dava proprio su un mercato e sui banchi del pesce. Veniva la sua donna a trovarlo, o rientravano insieme, erano le prime settimane del loro amore, lei a volte rimaneva mezza nuda avanti a lui, col petto scoperto e alla vita ancora una gonna bianca lunga. Quando risente quest’odore di pesce putrefatto questa è l’immagine che gli torna.

Finora è sempre stato un ospite. Chissà se mai diverrà un ospitante. Forse in questa città dove ora torna, reduce. Comprerebbe allora buoni vini – quelli sarebbero gli unici contenuti del suo frigorifero – e avrebbe così di che offrire, se mai ne capitasse l’opportunità. Anche la casa con le finestre sul banco del pesce era una casa prestata. Ne era proprietario un amico di amici, cameriere di birreria, che tornava a notte fonda e, quando il nostro eroe era rimasto sveglio ad attenderlo, gli raccontava di non potere intendersi con i propri genitori, perché, vedi, loro sono socialisti e io comunista, cosa vuoi.

Nel parco, che è piuttosto una foresta, mi perdo e mi prende il panico. Attraverso valli in cui i tronchi caduti sono coperti di muschi così verdi da parere fluorescenti. Vedo funghi gialli, giallissimi, che non colgo. Calpesto pigne, edere e rami secchi. Distinguo infine un muro, che mi metto a seguire. Cammino sui rifiuti, da ciò capisco che c’è una strada lì dietro. Per raggiungerla debbo salire su un albero e da quello calarmi sul bordo del muro e saltare giù dall’altro lato. Mi faccio male alle caviglie, il muro era alto davvero. Risalgo la stradina e due metri più in là ecco un bel buco, ci sarebbe passato un rinoceronte.

Necessità delle cerimonie. Il momento in cui pianto la stele, o inchiodo l’opera al muro, o fisso il luogo dell’installazione. È quella la cesura, la dipartita e il battesimo. In Norvegia, sul monte, non potevo lasciar andare le steli rosse, una volta piantate, se non innaffiandole. Non avevo schnaps con me ma solo una lattina di birra tiepida, l’ho vuotata davanti alle steli e mi sono sentito più leggero.

Per la mostra sulla Shoah: preparare i preparatori. Ammettere solo gli studenti che siano stati preparati da professori che abbiano seguito un corso.

Inoltre: tutta la fase preparatoria dell’evento sarà scandita da riunioni settimanali, in un ristorante o in un bar; saranno riunioni teoriche, non pratiche. Dovrà essere come un laboratorio di fisica.

Da ora in poi, quando lavorerai, sarà per qualcosa che abbia un inizio e una conclusione visibile, qualcosa che assumi prendi e, una volta trasformato, lasci. Né regole, né programmi, né carriera; vivere in uno spazio temporale e non nel tempo lineare.

Pare che la chiesa armena celebri una festa dei Santissimi Traduttori. Vorrei candidarmi a tale santità.

Vedere come, alla fondazione di Roma, hanno istituito fuori delle mura un asylum, per accogliere criminali, sbandati e fuggitivi: Pare questa essere una misura autoprotettiva, oltre che altruistica. Difatti Romolo cercava popolazione per la città; forse quello era come il purgatorio dei forestieri.

Mundus patet: il mondo è aperto (nel fondare la città).

SETTEMBRE

Da quando lo lessi, diversi anni fa, mi ossessiona l’aneddoto sul vecchio Degas che, per passare le serate, prendeva l’omnibus da un capolinea all’altro. L’opera è buona perché porta dimenticanza, non perché sia la traccia o la testimonianza del tuo passaggio. Ma se è buona porta un ritorno postumo d’amor. Il carattere antipatico di Degas è noto, e odiose furono le sue posizioni politiche. Quando si vede il suo autoritratto con manichino di Lisbona, non si può non provare compassione; ma il quadro è buono, e l’autocommiserazione del soggetto è trascesa dalla qualità della pittura. La compassione diventa ammirazione.

Visions suaves et cauchemars incohérents (una didascalia da un film muto di Meliès). Ninfette in calzamaglia, dipinte di azzurro fotogramma per fotogramma, correvano qui e lì inseguite da diavoletti muniti di tridenti. Continuavano la loro corsa sott’acqua e finivano in bocca alla balena. Lì iniziava il vero rave party. La pancia della balena era un salone delle feste a prova di pressione, un vero safe haven, un asilo della fantasia. Ma dov’è l’asilo, dico io, che non sia allo stesso tempo una prigione?

L’opera d’arte è irresponsabile, ma non testimonia che della responsabilità.

L’incredibile –per ora- convergenza con la gente di Napoli. Si dice la stessa cosa in lingue diverse, e ci si intende al di là della lingua. I patti sono firmati all’atto dell’incontro, a una fermata di funicolare o, più spesso, davanti a un caffè. Scopro qui la diplomazia del caffè: quello che lo avrà offerto o riuscirà a pagarlo avrà imposto il proprio accento alla lingua comune. Con un forestiero come me, però, la lingua non è condivisa e il caffè non basta; hanno da farmi conoscere le migliori pizzerie.

A Napoli quando piove ti si chiede un passaggio sotto l’ombrello. Più di una volta signori per bene o garzoni di bar mi si sono accostati e hanno fatto un pezzo di via con me, chiacchierando fino a che a un cantone non si staccavano dalla mia protezione.

Se chiedono un passaggio sotto l’ombrello di uno sconosciuto, è perché sono talmente a casa propria, e perché sono al di là della buona educazione. Si può chiedere, o dare, credo, solo essendo maleducati. L’esigenza, così come l’offerta, si situano al di fuori della sfera dell’etichetta e della cortesia, ma sono un’espressione dello “stare di casa”.

L’arte è terapia solo per gli artisti. Per gli altri è passatempo.

L’inutilità del risentimento (Deleuze): non si è contro qualcosa, si è qualcos’altro.

La trasparenza va in una sola direzione. Non si può rendere trasparente qualcosa che all’origine non lo è, ma si può moltiplicare la stratificazione latente nelle trasparenze originarie.

La trasparenza è la qualità dell’opera d’arte. E’ quella che permette la traduzione. Se il kitsch, nella sua incapacità di distanza dal suo modello originale, permette solo il movimento da A a B e da B ad A, la trasparenza è quella che permette alla traduzione il movimento da A a B e da B a C e cosivvia.

Si può tradurre solo qualcosa che è trasparente all’origine, che già porta in sé la possibilità di traduzione. Ecco perché è così difficile occuparsi dello Sterminio. Non c’è niente da tradurre in quella storia.

The palpable truth. Il capitolo 57 di Moby Dick inizia con la seguente scena: un mendicante zoppo scende le vie del porto di Londra con un cartello al collo, su cui è dipinto l’episodio in cui aveva perso la gamba. Il lupo di mare è diventato l’icona del quadro che porta al collo.

OTTOBRE

Domenica. Mi svegliano presto le voci nel vicolo. Poi tacciono a lungo, ma ormai sono seduto al tavolo di cucina, a fissare assonnato la fiamma blu sotto la macchinetta del caffè. È il primo giorno senza impegni da quando sono a Napoli. Prendo la macchina fotografica, esco per i quartieri deserti, scendo al porto a fotografare cani randagi. Fotografo solo quelli stesi accanto alle porte e sulle soglie, i giacenti socievoli.

Ieri mi hanno detto all’Albergo dei poveri: la camorra c’è e bisogna patteggiare con loro. Hanno impedito che i lavori di ristrutturazione iniziassero nell’ala che occupano, dove hanno un loro quartier generale, e hanno la possibilità di entrare nell’altra, dove dovrà esserci la mostra.

Serata in vico Pazzariello. Come tutti i giorni a quest’ora, quello dalla bella voce si mette in finestra a cantare. Mi fa compagnia mentre mi cucino pasta e lenticchie.

Avevo appuntamento all’Albergo dei poveri ed ero lì puntuale. Con quelli del teatro abbiamo visitato i locali, immensi nudi e devastati. Dopo ci siamo riuniti e tutto sembrava impossibile, poi a forza di parlare qualcosa sembrava possibile. Certo, ci vorrebbe un esaltato assoluto per riuscire in questo tipo di avventure, non un demotivato saturnino come me.

Vado, per la via dei Tribunali, all’Albergo. Mi fermo davanti alla chiesa della Misericordia ma non entro. Da uno spiraglio del portone vedo che stanno dicendo messa davanti all’altare con il quadro di Caravaggio. Penso che quel quadro, il suo quadro più rumoroso, dice che anche per lui Napoli era “troppo”.

Ecco cos’è l’Albergo dei poveri: è un maestoso edificio barocco, la cui facciata è lunga non meno di trecentocinquanta metri. Al centro appare uno scalone monumentale, che conduce all’ingresso principale. Tale ingresso, così come quasi tutta la facciata, è sbarrato da un muro di cemento alto più di due metri. A sinistra e a destra, alle due estremità del muro, si aprono due accessi al livello della piazza, fiancheggiati da cassonetti della spazzatura quasi sempre rovesciati al suolo. Due lunghi antri illuminati al neon conducono ai labirintici spazi dell’Albergo. In quello di sinistra entrano spesso automobili con faretti blu sul tetto; sono quelle dei funzionari del tribunale che hanno lì i loro uffici. A quello di destra non si può accedere con tranquillità; sembra, insieme con tutta quell’ala, appartenere a un’altra giurisdizione.

C’è poi una zona centrale, quella del cortile a croce e di alcune sale che danno sulla piazza, la cui pertinenza territoriale pare ancora indefinita e soggetta a misteriose mutazioni. Il Comune vi organizza un paio di spettacoli l’anno, il resto del tempo la zona sembra aperta a chiunque. Questa zona era quella che doveva inizialmente ospitare la mostra.

Ieri Peppe ha preso le chiavi di due stanzoni e –attento a che quelli del tribunale non lo vedessero- me li ha aperti. Sono due enormi sale a volta, due grandi grottoni con quattro lucarne in alto, sporchi e coperti di rifiuti. Lì faremo la mostra, mostra che si trasformerà in centro di documentazione e laboratorio sulle intolleranze.

Vado nella capitale per il fine settimana, per prendere spazio e trovare distrazione dalla situazione napoletana. All’arrivo alla stazione, tocco i soldi nella tasca e faccio per mettermi in fila davanti all’ufficio cambi. Poi mi sovvengo che il denaro di Napoli vale anche a Roma, non è quello un paese straniero.

Ci sono mattinate libere. Invece che rimanere nella mia cabina di pilotaggio a telefonare a gente che non richiama e ad ascoltare i colpi del macellaio sotto casa (colpi sempre doppi sul ceppo: il primo più forte e sordo, il secondo un fratello minore del primo, quasi un rimbalzo), meglio andare, ad esempio, in biblioteca, meglio passare il tempo nella bella biblioteca universitaria, al primo piano del cortile delle statue. Cerco nel catalogo i primi autori che mi vengono in mente, capito su un non troppo impegnativo L’ironia di Jankélévitch. “L’ipocrita, dice Kierkegaard, è il malvagio che vuole sembrare buono, mentre l’ironista sarebbe il buono che assume un atteggiamento cattivo”. Anche a me, nel mio piccolo, pare che quello che reagisce al mondo con ironia lo fa per proteggere la propria vulnerabilità, ma è anche qualcuno che vive nella rappresentazione di sé, e perciò non vive.

NOVEMBRE

E a me, quando arriva il bonus del flipper, il regalo che non ti aspetti? Quando non lo aspetti, certo.

Città torva e sublime. Qui non c’è zona franca fra stati di prostrazione e stati di esaltazione.

In via dei Banchi Nuovi, le ante di ferro di un negozio si aprono a fare da vetrina ai lati dell’ingresso. Sui ripiani stretti stretti stanno flaconi di creme e di lozioni. C’è anche un’illuminazione al neon (quanto amano il glauco neon, a Napoli). Queste teche movibili fanno pensare ai polittici a scomparti, sono quasi tanto complesse quanto il Grünewald di Colmar. Nessuna facciata rimarrà senza raffigurazione o esposizione.

DICEMBRE

Le due o tre frasi del Mosé di Buber che mi fanno il giro della testa da diversi mesi e ancora non si posano. Il libro di Buber l’avevo comprato al mercato di Fiumicino, a una bancarella su cui tutto costava duemila lire, libri di caccia e pesca cucina e calciobalilla mischiati a opere filoteologicoesoteriche e biografie di Stalin Hitler Kennedy Luther King.

“Il nomadismo crea cultura, nel senso preciso del termine, là dove non deve integrarsi con una cultura dominante e dove non deve sopraffare altre culture l’una dopo l’altra, ma dove ottiene spazio e tranquillità per crearne una propria.”

“La tradizione è per sua natura trasformazione della forma; trasformazione e conservazione si compiono nella stessa corrente; mentre la mano completa l’opera, l’orecchio è teso a cogliere gli echi del passato…”

Je suis exposé ou il faut que je m’expose? Tutta lì la questione, dichiara Vattimo al convegno di Parigi sulla «giudeità».

L’impegno della “non mostra” sulla Shoah sarà né di “mostrare” né di “rappresentare”, ma di “proiettare” il fatto storico (che non è più l’unico né l’ultimo, su questo il mondo mi ha fatto cambiare idea).

Non c’è simmetria fra memoria e oblio, perché entrambi sono fatti di una stessa materia. Quello che può dare loro una forma è la poetica. L’installazione, la cornice di una “mostra” è tale poetica.

GENNAIO 2001

Sera. Aprendomi una bottiglia di rosso con un cavatappi che porta il nome di un ristorante mi viene in mente mio padre, da sempre un appassionato ubbiditore, che in tutta la sua vita ha praticato, e non ne porta poca fierezza, un’unica trasgressione: un furto sistematico e comunque annunciato e che creava grande affanno e tremore alla famiglia tutta, il furto delle caraffe. Quelle stanno lì, nei ristoranti popolari e di provincia, per farsi rubare dai clienti come lui; perché, altrimenti, ci scriverebbero sopra il nome e l’indirizzo del locale, assortito talvolta di sentenze sugose quali “quando bevo ‘sto vinello me rinasce l’uccello”? E, certo, sarebbe sufficiente chiederne una al cameriere e, peraltro, mi domando se non fosse ciò che mio padre di nascosto da noi facesse. Chissà, forse nessun cameriere armato di forchettone è mai corso dietro la millecento azzurra targata CT, che lasciava dietro di sé nuvole di polvere sui viottoli di campagna, e nessuna pattuglia della Polstrada si è appostata per cogliere il ladro di caraffe recidivista. Tanto affanno per nulla?

Pascal, quando scrive “ho avuto un pensiero, ma mi è passato e non ricordo quale era; scrivo che è passato” non rinuncia alla vanità di dire che ha avuto un pensiero, uno supplementare, di cui non possiamo essere partecipi. Fa così mostra di avarizia. Sarebbe stato più generoso tenersi per sé questo piccolo fallimento.

Invece io consegno qui che sono un appassionato della proprietà. Scorro e riscorro con sensuale piacere le pagine del vocabolario Zingarelli e sempre sono grato che la proprietà del dire abbia il suo testo canonico. Sono felice per un attimo, quando un animatore della radio dice “insieme con”, invece che “insieme a”, come fanno ormai quasi tutti. E’ tale attenzione rigorosa che trasforma le sgrammaticature in vezzi: come quando, ad esempio, dico “financo” invece che “finanche”.

Rientro nel Nord. Questa è la vita a schegge. So tutto dei falegnami di Bologna o dei commercianti di asfalto di San Pietroburgo o dei ferramenta di Copenhagen, ma tale conoscenza non verrà né trasmessa né riutilizzata. L’unica cosa che riappare per miracolo, a ogni passaggio di confine, è l’uso della lingua straniera. E’ tutto ciò di cui posso menar vanto.

Taccuino 2002 all’indietro

La polvere dei ricordi.

Il materiale comune, che non riesce ad assumere una forma, anche fra amici. Ci si accende allora una sigaretta.

Da Avital, 17-11-01: “Still, unconditional hospitality is more than ever necessary as it becomes an impossible concept…”

Marzo 2004

Ieri ho fatto una scoperta, e cioè che l’attrazione per le persone attanagliate dalla sofferenza mentale, che lascia loro poco spazio per lo sguardo sull’altro – al di là della dipendenza fisica – si trasforma in dipendenza dai loro stati e scrutamento dei loro volti nell’attesa del passaggio che li renda opachi ed estranei. Non è tanto una vocazione masochistica e un desiderio di sottrazione da sé e affondamento nell’incorreggibile altrui, quanto il ripercorrimento della dipendenza dagli stati imprevedibili e totalitari di mia madre.

Dicembre 2004

Finita anche questa.

Sempre giro e rigiro intorno alla questione scrittura: mio padre ha ragione. Sarei stato fatto per quello, il resto è frivolo, è sopravvivenza, e non a caso dai via tutto e non ti rimane traccia di ciò che hai fatto. Hai vissuto, hai vivacchiato, hai sopravvissuto.

 

Asylum (2001)

I

Nel corso della seconda guerra mondiale Napoli soffrì l’occupazione nazista solamente per venti giorni, prima che la rivolta popolare e l’avanzata degli Alleati inducessero le truppe tedesche ad abbandonare la città. Non ci fu quindi il tempo di organizzare una sistematica persecuzione della popolazione ebrea e “solo” quattordici ebrei napoletani, catturati in altre regioni d’Italia, morirono nel quadro del progetto di sterminio razziale.
Occuparsi della Shoah a Napoli significa, di conseguenza, appellarsi, nella speranza che sia condivisa, a una coscienza universale, piuttosto che a una comune e riconosciuta esperienza storica.
In riferimento a quanto detto e tenuto conto della particolare situazione in cui sono stato chiamato a intervenire, la mia esperienza napoletana non può essere presa come un exemplum di allestimento storiografico e museografico ma, piuttosto, come un’esperienza da raccontare.

L’evento in questione ebbe luogo nel gennaio 2001 all’Albergo dei Poveri di Napoli, edificato a partire dalla metà del Settecento dal re Carlo III, su progetto di Ferdinando Fuga e sul modello di simili istituzioni europee dell’età barocca. Si tratta di una costruzione incompiuta: solo tre delle cinque ali previste vennero innalzate, e monconi di mura a cielo aperto testimoniano della chiesa cruciforme prevista nel cortile centrale. Nonostante l’interruzione dei lavori, troppo costosi per essere sostenuti più a lungo dalla monarchia borbonica, il “Palazzo Fuga” rimane uno dei più grandi edifici d’Europa e presenta apparentemente la più lunga facciata che esista. La sua tipologia architettonica, descritta a suo tempo da Michel Foucault come il modello della fabbrica e del penitenziario allo stesso tempo, è espressione di una utopia autoritaria che costituisce uno degli aspetti dell’epoca illuministica. Questi luoghi di segregazione erano intesi come strumenti di pulizia sociale del territorio: invalidi, mendicanti, orfani, prostitute, anziani, giovani delinquenti, “zitelle” di tutto il regno venivano raccolti e concentrati qui, tanto per essere sottratti alla pubblica vista che per essere trasformati in mano d’opera di modico costo.
L’Albergo dei Poveri napoletano avrebbe dovuto nei progetti iniziali ospitare fino a ottomila persone (a tanto era stimato lo strato più marginale della popolazione) ma non arrivò ad accoglierne che quattromila allo stesso tempo, presentando comunque, prima di essere progressivamente svuotato, il carattere di una cittadella autonoma, con le proprie amministrazioni, cucine, manifatture e l’annesso cimitero dalle 365 fosse. Nel 1980, infine, il terremoto causò la parziale distruzione di un’ala e la morte di undici anziani lì ricoverati e ciò segnò di fatto la chiusura dell’edificio in quanto asilo per i poveri; vi rimasero però alcuni uffici amministrativi e le sedi di diverse attività “informali”. Fra il 1980 e il 1990 il palazzo fu letteralmente saccheggiato di arredi e mobilia e l’aspetto che presenta ora è quello di una magnifica e labirintica rovina. Recentemente, con finanziamenti pubblici ricavati dal gioco del lotto, sono iniziati lavori di consolidamento statico, e si attende la definizione di un piano di recupero e di utilizzazione di questo immenso edificio, che appartiene al Comune di Napoli.

Questo era dunque il sito in cui si era previsto di organizzare un evento di commemorazione dell’Olocausto. Va ora menzionato il momento epocale in cui un tale evento ha luogo.
Schematizzando grossolanamente, si può dire che ci sono state tre fasi del riconoscimento storico della Shoah. La prima, fra la fine della seconda Guerra mondiale e la metà degli anni Settanta, è stata segnata da un relativo silenzio intorno alla persecuzione degli ebrei; si ebbero, certo, momenti di intenso dibattito, in particolare in occasione del processo Eichmann, e importanti libri vennero pubblicati (Levi, Wiesel, Hilberg). Una seconda fase, negli anni Settanta e Ottanta, vide una diffusione della consapevolezza di quanto accadde, in concomitanza con gli opposti fenomeni del revisionismo storico e di una produzione visiva –e soprattutto televisiva, come la serie americana Holocaust- che toccò un largo pubblico (è interessante notare come le più diffuse denominazioni per ciò che accadde agli ebrei europei nel corso dell’ultima Guerra vengano da film: oggi viene considerato più corretto usare il “lanzmaniano” termine Shoah). Nella terza fase, che stiamo traversando oggi, assistiamo da un lato alla istituzionalizzazione della memoria, insieme con una sorta di saturazione di questa che porta, fra l’altro, a fenomeni quali il sorgere di voci che dicono come gli ebrei stiano “esagerando” con questa storia.1

Nel gennaio 2000 quarantacinque nazioni avevano inviato i loro rappresentanti a Stoccolma, a una conferenza in cui venne presa la decisione di commemorare, ogni 27 gennaio, giorno anniversario della liberazione di Auschwitz, lo sterminio degli ebrei europei. Il parlamento italiano legiferò a questo proposito nel luglio successivo, e la legge dello Stato n. 211 consacrò la Giornata della Memoria come avvenimento istituzionale, con particolare menzione delle istituzioni scolastiche.
Gli animatori di un organismo sportivo attivo già da trent’anni nei locali dell’ex Albergo dei Poveri e impegnato nel recupero sociale dei giovani del quartiere circostante ebbero notizia dell’approvazione della legge e associarono immediatamente il luogo del loro impegno alla prevista ricorrenza: l’Albergo, difatti, era stato per più di due secoli un luogo di reclusione e di sofferenza, le cui tracce erano ancora visibili sui suoi muri scrostati e in tutta la sua struttura cadente. Si trattava, dunque, di un sito “ideale” per una tale commemorazione. “Troppo ideale”, pensai io, quando, interpellato da un amico che aveva fatto da agente nella loro ricerca di un artista, andai a Napoli a visitare l’edificio. E mi domandavo perché era necessario un artista, per animare la commemorazione di una “giornata della memoria”. La risposta che mi detti fu che, di fronte a un avvenimento razionalmente inesplicabile ed emotivamente intollerabile, si tende a fare appello all’inesplicabile ed emozionale fatto della creazione artistica.
Accade ciò: un luogo che appartiene solo a se stesso e alla propria memoria incontra un tempo della memoria che ha le proprie ragioni di essere. Ma dai due termini composti insieme, in un movimento che, a partire dall’empatia, tende all’identificazione, può facilmente scaturire un avvenimento altamente kitsch. E cosa è il kitsch, se non una rappresentazione che rimane, a partire dall’emozione e dal buon sentimento, sempre legata e subordinata al proprio soggetto e non raggiunge mai una forma autonoma e liberata? E l’Albergo dei Poveri non era, nel suo magnifico e oppressivo disfacimento, appunto il luogo “ideale” per una ulteriore kitschificazione dello sterminio degli ebrei?
La difficoltà, per qualcuno chiamato a curare un evento in un tale luogo e a proposito di un tale soggetto era proprio il fatto che alcune analogie formali, pur nella fondamentale incomparabilità dei due fatti storici, erano riconoscibili: l’attitudine igienica e paranoica verso le identità marginali e differenti, una certa “manifatturizzazione” del loro trattamento, la pratica di separazione e di segregazione. Ma appunto l’amalgama delle diverse persecuzioni e sofferenze andava evitato; allo stesso tempo andavano eluse tanto la litania commemorativa quanto la mera presentazione di documenti.
Ammetto che ero forse più interessato al luogo che al soggetto. In quel periodo mi stavo occupando di concetti quali rifugio, riparo, accoglienza e, avendo montato, nel maggio precedente, nei Paesi Bassi, un “paracadute” che era stato un esercizio fallito di ospitalità incondizionata, mi domandavo come immaginare un rifugio che non fosse allo stesso tempo una prigione. D’altro canto non volevo “fare arte su” un soggetto così definitivo che, oltretutto, non era solo uno fra i tanti orrori del passato e del presente. Un tale fatto doveva essere lasciato, pensavo, alla propria storicità o al proprio interrogativo sulla storia stessa e non trattato come un soggetto “artistico”. Una “messa in forma”, tuttavia, era necessaria, che la si chiamasse “cura”, “design” o “installazione”: la questione era quella di dare, alla lettera, una cornice alla ri-presentazione della catastrofe. Come si sa, la cornice è l’elemento intermedio che stabilisce la comunicazione fra il quadro e lo spazio in cui viene posto.

Giunsi a Napoli, quindi,avendo in mente un paio di riferimenti. Innanzitutto un articolo di Gianni Vattimo, “L’impossible oubli”, pubblicato negli atti del convegno di Royaumont sugli Usages de l’oubli, gli usi dell’oblio (Paris 1988). A partire dal testo di Nietzsche su “l’utilità e il danno della storia” Vattimo suggerisce come, in un periodo quale l’attuale, che vede una autentica “febbre storica”, un tale eccesso andrebbe non solo riconosciuto ma anche estremizzato, piuttosto che rifugiarsi nella dimenticanza attraverso o la religione o l’arte vista come opera “unica, istantanea, classica”. L’idea di una creazione smemorata, debitrice di una estetica dell’utopia, non può ormai più essere proposta.
Il secondo testo che portavo con me era un recente articolo di Régine Robin, “La mémoire saturée”, la memoria satura, pubblicato in L’inactuel del settembre 1998. Régine Robin è una ricercatrice francese che ha lavorato estensivamente sulla relazione fra memoria e invenzione; nell’articolo che ho menzionato, ad esempio, ricorda come, alla liberazione dei campi, alcune immagini fotografiche furono il risultato di una messa in scena. La posizione di Robin riguardo alla rappresentazione della Shoah è che si dovrebbero stabilire spazi di meditazione e riflessione, piuttosto che tentare di ricreare l’esperienza traumatica. Ciò che blocca la trasmissione, nelle istituzioni ufficiali della memoria quali il Washington Holocaust Memorial Museum, è “l’eccesso di immagini e di spiegazioni”. Si dovrebbe, piuttosto, aprire un terzo spazio, uno spazio “spettrale”, che potrebbe introdurre sia all’accettazione dell’eredità che alla sua trasmissione.
Infine, avevo con me il testo che conteneva le parole più celebri e più citate a proposito della possibilità di un’arte dopo l’Olocausto: Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben ist barbarisch, “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbarico”, scriveva nel 1949 in “Kulturkritik und Gesellschaft”2 Theodor Wiesengrund Adorno. “Attraverso il principio estetico della stilizzazione… un fato inimmaginabile appare di nuovo come se avesse un senso e, nella rimozione di una parte dell’orrore, viene trasfigurato”, riaffermava in una trasmissione radiofonica del 1962, pubblicata tre anni dopo3. Non mi dilungherò sul dibattito intorno a queste righe4, ma vorrei rammentare la poco menzionata revisione del filosofo tedesco. Ecco quanto afferma, in uno dei suoi ultimi scritti: “Il dolore incessante ha tanto diritto ad esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia. Invece non è falsa la questione meno culturale, se dopo Auschwitz si possa ancora vivere…”5. E, più in là: “Dopo Auschwitz non c’è parola che venga dall’alto, neanche una parola teologica, che sia nel suo diritto, a meno che non incorra in una qualche trasformazione”6. Nel disegnare le linee dell’installazione napoletana del 27 gennaio mi sono lasciato autorizzare da questo spiraglio aperto intorno al concetto di trasformazione, a questo singolo aggettivo, verwandelt, che ho parafrasato in modo così prolisso.

Quando arrivai all’Albergo dei Poveri capii come quella “chiamata” cui avevo risposto era nato da un malinteso linguistico, da una traduzione scorretta. Mi fu evidente che lì si diceva “artista” all’antica. Così come mia madre chiamava artista un cantante d’opera o un attore di cinema, a Napoli si intendeva per artista una persona della scena, un uomo di spettacolo. Diverse discussioni e controversie nacquero da questo malinteso, che ora non rimpiango, perché capii che, se si vuole “rastrellare largo” occorre in parte rinunciare alle proprie radicalità estetiche o ideologiche. Una parte performativa della Giornata ci fu, ma limitata all’inaugurazione della mostra, e non si ebbero, come mi era stato prospettato all’inizio, bande di giovani del quartiere vestiti a strisce che bloccavano gemendo il traffico di piazza Carlo III, in una performance certo suggestiva, ma che avrebbe espresso tutto quell’approccio mimetico che intendevo evitare.
Scegliemmo di non montare niente che avrebbe espresso un atteggiamento di compassione o di commozione, precisamente perché questo atteggiamento porta a solidarizzare di volta in volta con la vittima di turno, dimenticando la specificità del fatto storico -e accadde di fatto che gli avvenimenti in Israele e in Palestina mettessero in pericolo la tenuta stessa della Giornata sulla Shoah. Per la serata inaugurale decidemmo di lasciare il sito nello stato in cui lo avevamo trovato e di dargli una diversa vita per alcune ore, con la diffusione di voci registrate nella strada e scene simili a tableaux vivants che, invece di insistere sulla ricorrenza o cercare verosimiglianza, producessero un mancamento di senso, uno spiazzamento del visitatore; questi avrebbe dovuto trovarsi, piuttosto, di fronte a una “presenza dell’assenza”, a un riconoscimento della perdita e a una consapevolezza della fragilità delle tracce. Cercavamo un approccio allegorico, nella volontà però di evitare l’assoluta presa di distanza cui l’allegoria può indurre; occorreva che si sentisse una poiesis, un lavoro in corso.
L’esposizione permanente fu montata in un contesto meno rumoroso. Non facemmo “allestimenti” di sala, non ridipingemmo i muri né vi appendemmo pannelli. Quanto alle suppellettili, usammo quelle che trovammo nell’edificio stesso, rimanenze delle sue precedenti funzioni. Insieme con i giovani che ci aiutavano nell’installazione penetrammo nei locali abbandonati dell’Albergo, camminammo su tappeti di carte d’archivio gettate al suolo perché non avevano interessato i saccheggiatori e ci impadronimmo di quello che ci avevano lasciato: lavagne, banchi di scuola, poltrone di cinema, tavolacci, scaffalature. Portammo i mobili negli spazi della mostra e vi riponemmo il materiale documentario raccolto fino ad allora. Pulimmo sommariamente le sale e installammo computer, stampanti, videoproiettori. I locali rimasero così come li avevamo trovati, nudi, trasparenti verso la storia. Installammo una collezione: raccogliemmo e rendemmo accessibili fotocopie di documenti originali, film, libri, gli originali delle leggi razziali, e raccolte di dati e connessioni internet. Il risultato fu che molti visitatori furono offesi o delusi dalla “mostra”, perché non c’era “niente da vedere”, mentre altri, pochi, tornarono giorno dopo giorno, servendosi degli strumenti che erano stati messi a disposizione.
Pensavamo che, invece di riproporre la ninna nanna consolatoria del dovere di memoria, avremmo dovuto dare un struttura al lavoro anamnestico. Il principio della mostra permanente era un principio di relazione. Non c’era nulla da vedere, se la gente non voleva vedere nulla. C’era da usare il luogo e le suppellettili, era possibile prendere un libro e fotocopiarlo, prendere una cassetta video e visionarla, o usare i computer per visitare in Internet i siti dedicati alla Shoah. Avremmo offerto strumenti di ricerca e di educazione invece che agnizione emotiva. Per ciò fare, soggetto della mostra sarebbe stata, invece che il genocidio degli ebrei in quanto tale, la sua rappresentazione in letteratura, musica, cinema, teatro, arte visiva, nelle sue differenti forme. Avremmo posto la questione della rappresentabilità senza proporre una soluzione, ma avremmo reso disponibile tutto il materiale che era stato prodotto in Italia fra il 1945 e il 2000, lasciando il visitatore libero di consultare e utilizzare questo materiale. Confidavamo nel fatto che la cornice stessa della mostra, il cui principio ci pareva abbastanza trasparente, sarebbe stato preso come un invito all’interpretazione. Invece di gridare allo scandalo della storia, avremmo tenuto conto di tutti i depositi, le stratificazioni, i residui e i lavori che la storia ci aveva lasciato.
Lo scopo dell’evento napoletano non era quello di “preservare” la memoria –continuo a pensare che ogni tentativo di preservare ha necessariamente un rapporto con la contraffazione ed è quindi uno dei territori del kitsch, e considero ancora il kitsch come una forma di cattiva arte. Quell’installazione non intendeva neanche “toccare” emotivamente –per quanto creda che non ci sia nulla di riprovevole nel voler “toccare”, sia nella disciplina artistica che in quella storica.
Il nostro compito non era quello di indicare modelli etici –diciamo, erigere un monumento-, né quello di raccogliere prove e dimostrazioni –diciamo, costruire un museo. Ciò che veniva raccolto e collocato negli spazi dell’Albergo dei Poveri era un insieme di documenti scelti della rappresentazione, di prodotti scritti o visivi che avevano a che fare con lo specifico soggetto della Shoah in Italia. Nel corso di questo procedimento di reperimento, raccolta e messa a disposizione in un particolare quadro, gli oggetti venivano visti come strumenti di un potenziale confronto intellettuale. Quello che alla fine venne presentato era una “collezione installata”, un montaggio o una meccanica di documenti, era una proiezione della storia.

II

Ma cosa ha a che fare tutto ciò con la mia pratica di artista, e cosa mi decide a parlare in questo luogo del mio proprio lavoro artistico? Un solo elemento è comune a tutte le installazioni e le azioni che ho menzionato e che menzionerò: il fatto di lavorare, secondo una pratica di appropriazione e metamorfosi, su un soggetto storicamente definito.
Ma è possibile confrontarsi allo stesso tempo “esteticamente” e “veracemente” con la storia? E’ dato un approccio che sia allo stesso tempo logico e lirico e che, al di là della estetizzazione della memoria e al di là della mera testimonianza, passi per un uso, necessariamente irrispettoso, dei sedimenti rimastici?
O dovremmo invece tenerci al rispetto dei nostri antenati –siano stati essi vittime, esecutori o “solo” spettatori- e alla conservazione di quello che ci hanno lasciato? Dovremmo costruire altri musei? Oppure dovremmo ancora edificare memoriali ammonitori e opere d’arte responsabili? O monumenti sopra i monumenti, come parodie di quelle opere d’arte coperte dai sacchi di sabbia durante l’ultima guerra?
I monumenti sono cose che puntano il dito verso una qualche direzione, esprimono la fiducia nel fatto che si possa puntare il dito, che ci siano lezioni da dare e insegnamenti da ricevere, ed esempi storici da additare a condanna o emulazione. Esprimono, anche, la convinzione che il corpo sociale possa essere modellato dal richiamo alla memoria. Così come i musei, i monumenti sono invenzioni utopistiche oltre che nazionalistiche. Per parafrasare il Leopardi dello Zibaldone, un monumento è sempre speranzoso e ottimistico, nel suo indirizzarsi a un futuro che si considera delineato e che è incarnato nell’icona dell’identità collettiva. Un monumento è sempre a qualcosa. Un monumento che fosse con qualcosa sarebbe disinteressato al punto di divenire invisibile. Questo è il monumento che immagino. Mi domando se non è una sorta di essere “con” che mi interessa nella “ripresa” del passato. Non si tratta solamente dell’uso di materiali e di strumenti originali; si tratterebbe di un tale uso che, dalla saturazione stessa e dall’inconoscibilità delle memorie farebbe emergere frammenti di anamnesi e creerebbe una nuova forma fatta dei fantasmi di quel materiale. Potrebbe questo essere un fruttuoso tradimento, se potesse metterci in contatto con il passato, al di là del ricordo e al di là della rappresentazione?

Ma a cosa potrebbe somigliare un monumento non assertivo e non identitario?
Avendo posto questa domanda a me stesso, mi trovai a essere invitato a partecipare a una mostra di gruppo dal titolo Models of Resistance, mostra che ebbe luogo a Copenhagen, l’anno scorso. Quella città era stata il teatro, alcuni anni prima, di mie esperienze. Non appena ritornatovi uscii nottetempo e segnai i punti di cui mi ricordavo. Qualcosa lì era accaduto: vi applicai il simbolo dei monumenti protetti dalle Nazioni Unite, il Blue Shield, che è per le opere d’arte ciò che la Croce Rossa è per gli esseri viventi. Percorrendo le vie alla ricerca dei luoghi del passato marcavo la segnaletica di una anamnesi personale che non era più degna di attenzione di qualunque altra.
Più che un gesto artistico, era il mio un esperimento: i simboli dell’Unesco si trovarono mescolati a tutti i segni che, in un ambiente urbano, indicano locazioni, zone, funzioni, reminiscenze. Avrebbero forse provocato la curiosità di qualche passante. Si trattava di un’attitudine da intruso, di un’appropriazione di prerogative appartenenti ad altri enti. Al contrario del gesto avanguardistico che innalza allo statuto di arte ciò che all’origine non lo è, questa diffusione di tracce era una chiamata retorica alla democratizzazione della memoria, che non può essere rappresentata da un iconico, significante, sublimante memoriale. Non è un caso se il dossier che inviai all’Unesco, con una documentazione fotografica e la richiesta di includere i miei monumenti personali nel patrimonio mondiale, non ottenne risposta.

“Non c’è un kitsch che finisca con una domanda. Ogni kitsch finisce con un’affermazione.”7 Concordo con questa asserzione di Saul Friedländer, ma penso anche che non si dovrebbe aver paura del kitsch. Lo si potrebbe, ad esempio, prendere come uno degli elementi di un lavoro, insieme con altri, così come successive riproduzioni di un oggetto si allontanano dal loro modello al punto di divenire un altro originale. E potrei immaginare, anche, un’opera così assolutamente kitsch da divenire un pezzo d’arte, o una interrogazione sulla natura dell’arte.
Pochi musei sono concepiti in modo tale che la circolazione al loro interno susciti interrogativi invece che convinzioni, e dia anche spazio a quella ambivalenza che, secondo Vittorio Foa, è un buon terreno per un processo di interpretazione8. Fino a una quindicina di anni fa la maggior parte dei musei storici era pensata come luogo di conservazione o di narrativa unificante; negli ultimi tempi è invece vincente la tendenza che li concepisce come imprese di intrattenimento culturale, in cui la peggior cosa che possa accadere a un visitatore sarebbe quella di annoiarsi.
Ma, conservativo o ludico che sia, un museo che non sia discorsivo non può interessarci. L’unico museo accettabile è quello che preserva, più che l’integrità degli oggetti del passato, l’immaginazione dello spettatore. Un tale museo sarebbe capace di interpellare la propria funzione, considerando il visitatore stesso come “un soggetto storico”9 e rispettando la sua libertà intellettuale. Un tale museo prenderebbe se stesso come un oggetto storicamente determinato e potrebbe accettare anche la propria estinzione. La questione è, quindi, quella del grado di democrazia all’interno del museo; questo grado è davvero basso, se vi andiamo come in pellegrinaggio e dobbiamo seguire percorsi guidati e strutture processionarie che non consentono erranza né deviazione.
Mi chiedo perché mi piace usare questo aggettivo, kitsch, a riguardo della maggior parte dei musei: è perché si schierano per una visione derivativa e progressiva dei fatti storici, o perché sviluppano la narrativa stessa che giustifica la loro esistenza? Oppure si tratta della fittizia relazione fra oggetti che hanno perso il loro valore d’uso e una sede ricostruita, relazione inventata che interrompe il prolungamento di questi oggetti nel tempo? Un archivio, invece, non può essere kitsch: un archivio è il deposito “naturale” dei documenti morti, è un luogo di funzione, non di rappresentazione. Un archivio, in quanto tale, non si può mostrare: non sarebbe leggibile, e come opera somiglierebbe al massimo a una installazione di arte contemporanea. Si potrebbero mostrare, forse, i depositi, le riserve del museo. Se ogni museo è il frutto di una narrativa utopistica e l’espressione di una finzione ricostruttiva, l’esibizione della sua riserva può svelare il negativo di quella narrativa e di quella finzione?

L’ultimo episodio che vorrei menzionare qui è un museo di due giorni, una installazione recente presso la Société Industrielle di Sainte Marie aux Mines, in Francia. La sede della Società, fondata fra il XIX° e il XX° secolo, in piena epoca positivista e durante l’età d’oro dell’industria tessile, ospitava una serie di interessanti collezioni archeologiche, naturalistiche e geologiche, che con spirito illuministico erano state donate dai capitani d’impresa locali. Con il declino dell’industria tessile e la chiusura di molte fabbriche la regione entrò in un periodo di decadenza, nel quale si trova tuttora, e le collezioni finirono, semi-dimenticate, nelle soffitte dell’edificio. Lì le ritrovammo quando fummo invitati a intervenire in quello spazio. Da questo deposito decidemmo di tirar fuori una collezione, e di presentarla come un Kunstkabinett: come è noto, gli oggetti raccolti in un gabinetto di curiosità sono esposti senza rispondere a una gerarchia interna e senza rispettare un metodo sistematico di classificazione.
In francese la parola latina museum indica solo un museo di storia naturale. Questa è la ragione per cui intitolai la mia installazione Museum d’histoire industrielle: come una promessa che doveva essere disillusa –poiché non c’era storia industriale da vedere in quegli spazi- ma anche come un’allegoria di ciò che la vita trascorsa di quel luogo era divenuta. Un segno finanche troppo leggibile di questo approccio era un circolo di animali impagliati disposto nell’unica sala ancora utilizzata, la sala riunioni. Al centro di un altro ambiente sistemai in cerchio, su altrettante sedie, i ritratti degli ex presidenti della Società. In uno spazio al pianoterra, che era un cantiere, collocai un anello di sedie e tavoli in formica, pronti per una eventuale riunione. Stavo tentando, in qualche maniera, di mescolare i tempi fra di loro e con i luoghi. Mescolai anche rimanenze del mio proprio lavoro con i reperti archeologici ordinati nelle vetrine: qualcuno sarebbe stato attento al punto di chiedersi cosa fosse “vero” e cosa “falso”?
Spostavo oggetti da uno spazio all’altro in fretta e improvvisando. Stavo movendo e ricomponendo in diverso ordine materie originali “di una certa epoca”. Sapevo che stavo sistemando segni che non erano destinati a una qualche spiegazione. Agivo da invitato, così come ero stato a Napoli e a Copenhagen: essendo estraneo a una tradizione locale e volutamente ignaro delle sue regole, ero libero di agire nel malinteso. E dal malinteso nasceva una nuova materia.

ps: le nove note previste nel testo arriveranno in un secondo tempo.