I
Nel corso della seconda guerra mondiale Napoli soffrì l’occupazione nazista solamente per venti giorni, prima che la rivolta popolare e l’avanzata degli Alleati inducessero le truppe tedesche ad abbandonare la città. Non ci fu quindi il tempo di organizzare una sistematica persecuzione della popolazione ebrea e “solo” quattordici ebrei napoletani, catturati in altre regioni d’Italia, morirono nel quadro del progetto di sterminio razziale.
Occuparsi della Shoah a Napoli significa, di conseguenza, appellarsi, nella speranza che sia condivisa, a una coscienza universale, piuttosto che a una comune e riconosciuta esperienza storica.
In riferimento a quanto detto e tenuto conto della particolare situazione in cui sono stato chiamato a intervenire, la mia esperienza napoletana non può essere presa come un exemplum di allestimento storiografico e museografico ma, piuttosto, come un’esperienza da raccontare.
L’evento in questione ebbe luogo nel gennaio 2001 all’Albergo dei Poveri di Napoli, edificato a partire dalla metà del Settecento dal re Carlo III, su progetto di Ferdinando Fuga e sul modello di simili istituzioni europee dell’età barocca. Si tratta di una costruzione incompiuta: solo tre delle cinque ali previste vennero innalzate, e monconi di mura a cielo aperto testimoniano della chiesa cruciforme prevista nel cortile centrale. Nonostante l’interruzione dei lavori, troppo costosi per essere sostenuti più a lungo dalla monarchia borbonica, il “Palazzo Fuga” rimane uno dei più grandi edifici d’Europa e presenta apparentemente la più lunga facciata che esista. La sua tipologia architettonica, descritta a suo tempo da Michel Foucault come il modello della fabbrica e del penitenziario allo stesso tempo, è espressione di una utopia autoritaria che costituisce uno degli aspetti dell’epoca illuministica. Questi luoghi di segregazione erano intesi come strumenti di pulizia sociale del territorio: invalidi, mendicanti, orfani, prostitute, anziani, giovani delinquenti, “zitelle” di tutto il regno venivano raccolti e concentrati qui, tanto per essere sottratti alla pubblica vista che per essere trasformati in mano d’opera di modico costo.
L’Albergo dei Poveri napoletano avrebbe dovuto nei progetti iniziali ospitare fino a ottomila persone (a tanto era stimato lo strato più marginale della popolazione) ma non arrivò ad accoglierne che quattromila allo stesso tempo, presentando comunque, prima di essere progressivamente svuotato, il carattere di una cittadella autonoma, con le proprie amministrazioni, cucine, manifatture e l’annesso cimitero dalle 365 fosse. Nel 1980, infine, il terremoto causò la parziale distruzione di un’ala e la morte di undici anziani lì ricoverati e ciò segnò di fatto la chiusura dell’edificio in quanto asilo per i poveri; vi rimasero però alcuni uffici amministrativi e le sedi di diverse attività “informali”. Fra il 1980 e il 1990 il palazzo fu letteralmente saccheggiato di arredi e mobilia e l’aspetto che presenta ora è quello di una magnifica e labirintica rovina. Recentemente, con finanziamenti pubblici ricavati dal gioco del lotto, sono iniziati lavori di consolidamento statico, e si attende la definizione di un piano di recupero e di utilizzazione di questo immenso edificio, che appartiene al Comune di Napoli.
Questo era dunque il sito in cui si era previsto di organizzare un evento di commemorazione dell’Olocausto. Va ora menzionato il momento epocale in cui un tale evento ha luogo.
Schematizzando grossolanamente, si può dire che ci sono state tre fasi del riconoscimento storico della Shoah. La prima, fra la fine della seconda Guerra mondiale e la metà degli anni Settanta, è stata segnata da un relativo silenzio intorno alla persecuzione degli ebrei; si ebbero, certo, momenti di intenso dibattito, in particolare in occasione del processo Eichmann, e importanti libri vennero pubblicati (Levi, Wiesel, Hilberg). Una seconda fase, negli anni Settanta e Ottanta, vide una diffusione della consapevolezza di quanto accadde, in concomitanza con gli opposti fenomeni del revisionismo storico e di una produzione visiva –e soprattutto televisiva, come la serie americana Holocaust- che toccò un largo pubblico (è interessante notare come le più diffuse denominazioni per ciò che accadde agli ebrei europei nel corso dell’ultima Guerra vengano da film: oggi viene considerato più corretto usare il “lanzmaniano” termine Shoah). Nella terza fase, che stiamo traversando oggi, assistiamo da un lato alla istituzionalizzazione della memoria, insieme con una sorta di saturazione di questa che porta, fra l’altro, a fenomeni quali il sorgere di voci che dicono come gli ebrei stiano “esagerando” con questa storia.1
Nel gennaio 2000 quarantacinque nazioni avevano inviato i loro rappresentanti a Stoccolma, a una conferenza in cui venne presa la decisione di commemorare, ogni 27 gennaio, giorno anniversario della liberazione di Auschwitz, lo sterminio degli ebrei europei. Il parlamento italiano legiferò a questo proposito nel luglio successivo, e la legge dello Stato n. 211 consacrò la Giornata della Memoria come avvenimento istituzionale, con particolare menzione delle istituzioni scolastiche.
Gli animatori di un organismo sportivo attivo già da trent’anni nei locali dell’ex Albergo dei Poveri e impegnato nel recupero sociale dei giovani del quartiere circostante ebbero notizia dell’approvazione della legge e associarono immediatamente il luogo del loro impegno alla prevista ricorrenza: l’Albergo, difatti, era stato per più di due secoli un luogo di reclusione e di sofferenza, le cui tracce erano ancora visibili sui suoi muri scrostati e in tutta la sua struttura cadente. Si trattava, dunque, di un sito “ideale” per una tale commemorazione. “Troppo ideale”, pensai io, quando, interpellato da un amico che aveva fatto da agente nella loro ricerca di un artista, andai a Napoli a visitare l’edificio. E mi domandavo perché era necessario un artista, per animare la commemorazione di una “giornata della memoria”. La risposta che mi detti fu che, di fronte a un avvenimento razionalmente inesplicabile ed emotivamente intollerabile, si tende a fare appello all’inesplicabile ed emozionale fatto della creazione artistica.
Accade ciò: un luogo che appartiene solo a se stesso e alla propria memoria incontra un tempo della memoria che ha le proprie ragioni di essere. Ma dai due termini composti insieme, in un movimento che, a partire dall’empatia, tende all’identificazione, può facilmente scaturire un avvenimento altamente kitsch. E cosa è il kitsch, se non una rappresentazione che rimane, a partire dall’emozione e dal buon sentimento, sempre legata e subordinata al proprio soggetto e non raggiunge mai una forma autonoma e liberata? E l’Albergo dei Poveri non era, nel suo magnifico e oppressivo disfacimento, appunto il luogo “ideale” per una ulteriore kitschificazione dello sterminio degli ebrei?
La difficoltà, per qualcuno chiamato a curare un evento in un tale luogo e a proposito di un tale soggetto era proprio il fatto che alcune analogie formali, pur nella fondamentale incomparabilità dei due fatti storici, erano riconoscibili: l’attitudine igienica e paranoica verso le identità marginali e differenti, una certa “manifatturizzazione” del loro trattamento, la pratica di separazione e di segregazione. Ma appunto l’amalgama delle diverse persecuzioni e sofferenze andava evitato; allo stesso tempo andavano eluse tanto la litania commemorativa quanto la mera presentazione di documenti.
Ammetto che ero forse più interessato al luogo che al soggetto. In quel periodo mi stavo occupando di concetti quali rifugio, riparo, accoglienza e, avendo montato, nel maggio precedente, nei Paesi Bassi, un “paracadute” che era stato un esercizio fallito di ospitalità incondizionata, mi domandavo come immaginare un rifugio che non fosse allo stesso tempo una prigione. D’altro canto non volevo “fare arte su” un soggetto così definitivo che, oltretutto, non era solo uno fra i tanti orrori del passato e del presente. Un tale fatto doveva essere lasciato, pensavo, alla propria storicità o al proprio interrogativo sulla storia stessa e non trattato come un soggetto “artistico”. Una “messa in forma”, tuttavia, era necessaria, che la si chiamasse “cura”, “design” o “installazione”: la questione era quella di dare, alla lettera, una cornice alla ri-presentazione della catastrofe. Come si sa, la cornice è l’elemento intermedio che stabilisce la comunicazione fra il quadro e lo spazio in cui viene posto.
Giunsi a Napoli, quindi,avendo in mente un paio di riferimenti. Innanzitutto un articolo di Gianni Vattimo, “L’impossible oubli”, pubblicato negli atti del convegno di Royaumont sugli Usages de l’oubli, gli usi dell’oblio (Paris 1988). A partire dal testo di Nietzsche su “l’utilità e il danno della storia” Vattimo suggerisce come, in un periodo quale l’attuale, che vede una autentica “febbre storica”, un tale eccesso andrebbe non solo riconosciuto ma anche estremizzato, piuttosto che rifugiarsi nella dimenticanza attraverso o la religione o l’arte vista come opera “unica, istantanea, classica”. L’idea di una creazione smemorata, debitrice di una estetica dell’utopia, non può ormai più essere proposta.
Il secondo testo che portavo con me era un recente articolo di Régine Robin, “La mémoire saturée”, la memoria satura, pubblicato in L’inactuel del settembre 1998. Régine Robin è una ricercatrice francese che ha lavorato estensivamente sulla relazione fra memoria e invenzione; nell’articolo che ho menzionato, ad esempio, ricorda come, alla liberazione dei campi, alcune immagini fotografiche furono il risultato di una messa in scena. La posizione di Robin riguardo alla rappresentazione della Shoah è che si dovrebbero stabilire spazi di meditazione e riflessione, piuttosto che tentare di ricreare l’esperienza traumatica. Ciò che blocca la trasmissione, nelle istituzioni ufficiali della memoria quali il Washington Holocaust Memorial Museum, è “l’eccesso di immagini e di spiegazioni”. Si dovrebbe, piuttosto, aprire un terzo spazio, uno spazio “spettrale”, che potrebbe introdurre sia all’accettazione dell’eredità che alla sua trasmissione.
Infine, avevo con me il testo che conteneva le parole più celebri e più citate a proposito della possibilità di un’arte dopo l’Olocausto: Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben ist barbarisch, “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbarico”, scriveva nel 1949 in “Kulturkritik und Gesellschaft”2 Theodor Wiesengrund Adorno. “Attraverso il principio estetico della stilizzazione… un fato inimmaginabile appare di nuovo come se avesse un senso e, nella rimozione di una parte dell’orrore, viene trasfigurato”, riaffermava in una trasmissione radiofonica del 1962, pubblicata tre anni dopo3. Non mi dilungherò sul dibattito intorno a queste righe4, ma vorrei rammentare la poco menzionata revisione del filosofo tedesco. Ecco quanto afferma, in uno dei suoi ultimi scritti: “Il dolore incessante ha tanto diritto ad esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia. Invece non è falsa la questione meno culturale, se dopo Auschwitz si possa ancora vivere…”5. E, più in là: “Dopo Auschwitz non c’è parola che venga dall’alto, neanche una parola teologica, che sia nel suo diritto, a meno che non incorra in una qualche trasformazione”6. Nel disegnare le linee dell’installazione napoletana del 27 gennaio mi sono lasciato autorizzare da questo spiraglio aperto intorno al concetto di trasformazione, a questo singolo aggettivo, verwandelt, che ho parafrasato in modo così prolisso.
Quando arrivai all’Albergo dei Poveri capii come quella “chiamata” cui avevo risposto era nato da un malinteso linguistico, da una traduzione scorretta. Mi fu evidente che lì si diceva “artista” all’antica. Così come mia madre chiamava artista un cantante d’opera o un attore di cinema, a Napoli si intendeva per artista una persona della scena, un uomo di spettacolo. Diverse discussioni e controversie nacquero da questo malinteso, che ora non rimpiango, perché capii che, se si vuole “rastrellare largo” occorre in parte rinunciare alle proprie radicalità estetiche o ideologiche. Una parte performativa della Giornata ci fu, ma limitata all’inaugurazione della mostra, e non si ebbero, come mi era stato prospettato all’inizio, bande di giovani del quartiere vestiti a strisce che bloccavano gemendo il traffico di piazza Carlo III, in una performance certo suggestiva, ma che avrebbe espresso tutto quell’approccio mimetico che intendevo evitare.
Scegliemmo di non montare niente che avrebbe espresso un atteggiamento di compassione o di commozione, precisamente perché questo atteggiamento porta a solidarizzare di volta in volta con la vittima di turno, dimenticando la specificità del fatto storico -e accadde di fatto che gli avvenimenti in Israele e in Palestina mettessero in pericolo la tenuta stessa della Giornata sulla Shoah. Per la serata inaugurale decidemmo di lasciare il sito nello stato in cui lo avevamo trovato e di dargli una diversa vita per alcune ore, con la diffusione di voci registrate nella strada e scene simili a tableaux vivants che, invece di insistere sulla ricorrenza o cercare verosimiglianza, producessero un mancamento di senso, uno spiazzamento del visitatore; questi avrebbe dovuto trovarsi, piuttosto, di fronte a una “presenza dell’assenza”, a un riconoscimento della perdita e a una consapevolezza della fragilità delle tracce. Cercavamo un approccio allegorico, nella volontà però di evitare l’assoluta presa di distanza cui l’allegoria può indurre; occorreva che si sentisse una poiesis, un lavoro in corso.
L’esposizione permanente fu montata in un contesto meno rumoroso. Non facemmo “allestimenti” di sala, non ridipingemmo i muri né vi appendemmo pannelli. Quanto alle suppellettili, usammo quelle che trovammo nell’edificio stesso, rimanenze delle sue precedenti funzioni. Insieme con i giovani che ci aiutavano nell’installazione penetrammo nei locali abbandonati dell’Albergo, camminammo su tappeti di carte d’archivio gettate al suolo perché non avevano interessato i saccheggiatori e ci impadronimmo di quello che ci avevano lasciato: lavagne, banchi di scuola, poltrone di cinema, tavolacci, scaffalature. Portammo i mobili negli spazi della mostra e vi riponemmo il materiale documentario raccolto fino ad allora. Pulimmo sommariamente le sale e installammo computer, stampanti, videoproiettori. I locali rimasero così come li avevamo trovati, nudi, trasparenti verso la storia. Installammo una collezione: raccogliemmo e rendemmo accessibili fotocopie di documenti originali, film, libri, gli originali delle leggi razziali, e raccolte di dati e connessioni internet. Il risultato fu che molti visitatori furono offesi o delusi dalla “mostra”, perché non c’era “niente da vedere”, mentre altri, pochi, tornarono giorno dopo giorno, servendosi degli strumenti che erano stati messi a disposizione.
Pensavamo che, invece di riproporre la ninna nanna consolatoria del dovere di memoria, avremmo dovuto dare un struttura al lavoro anamnestico. Il principio della mostra permanente era un principio di relazione. Non c’era nulla da vedere, se la gente non voleva vedere nulla. C’era da usare il luogo e le suppellettili, era possibile prendere un libro e fotocopiarlo, prendere una cassetta video e visionarla, o usare i computer per visitare in Internet i siti dedicati alla Shoah. Avremmo offerto strumenti di ricerca e di educazione invece che agnizione emotiva. Per ciò fare, soggetto della mostra sarebbe stata, invece che il genocidio degli ebrei in quanto tale, la sua rappresentazione in letteratura, musica, cinema, teatro, arte visiva, nelle sue differenti forme. Avremmo posto la questione della rappresentabilità senza proporre una soluzione, ma avremmo reso disponibile tutto il materiale che era stato prodotto in Italia fra il 1945 e il 2000, lasciando il visitatore libero di consultare e utilizzare questo materiale. Confidavamo nel fatto che la cornice stessa della mostra, il cui principio ci pareva abbastanza trasparente, sarebbe stato preso come un invito all’interpretazione. Invece di gridare allo scandalo della storia, avremmo tenuto conto di tutti i depositi, le stratificazioni, i residui e i lavori che la storia ci aveva lasciato.
Lo scopo dell’evento napoletano non era quello di “preservare” la memoria –continuo a pensare che ogni tentativo di preservare ha necessariamente un rapporto con la contraffazione ed è quindi uno dei territori del kitsch, e considero ancora il kitsch come una forma di cattiva arte. Quell’installazione non intendeva neanche “toccare” emotivamente –per quanto creda che non ci sia nulla di riprovevole nel voler “toccare”, sia nella disciplina artistica che in quella storica.
Il nostro compito non era quello di indicare modelli etici –diciamo, erigere un monumento-, né quello di raccogliere prove e dimostrazioni –diciamo, costruire un museo. Ciò che veniva raccolto e collocato negli spazi dell’Albergo dei Poveri era un insieme di documenti scelti della rappresentazione, di prodotti scritti o visivi che avevano a che fare con lo specifico soggetto della Shoah in Italia. Nel corso di questo procedimento di reperimento, raccolta e messa a disposizione in un particolare quadro, gli oggetti venivano visti come strumenti di un potenziale confronto intellettuale. Quello che alla fine venne presentato era una “collezione installata”, un montaggio o una meccanica di documenti, era una proiezione della storia.
II
Ma cosa ha a che fare tutto ciò con la mia pratica di artista, e cosa mi decide a parlare in questo luogo del mio proprio lavoro artistico? Un solo elemento è comune a tutte le installazioni e le azioni che ho menzionato e che menzionerò: il fatto di lavorare, secondo una pratica di appropriazione e metamorfosi, su un soggetto storicamente definito.
Ma è possibile confrontarsi allo stesso tempo “esteticamente” e “veracemente” con la storia? E’ dato un approccio che sia allo stesso tempo logico e lirico e che, al di là della estetizzazione della memoria e al di là della mera testimonianza, passi per un uso, necessariamente irrispettoso, dei sedimenti rimastici?
O dovremmo invece tenerci al rispetto dei nostri antenati –siano stati essi vittime, esecutori o “solo” spettatori- e alla conservazione di quello che ci hanno lasciato? Dovremmo costruire altri musei? Oppure dovremmo ancora edificare memoriali ammonitori e opere d’arte responsabili? O monumenti sopra i monumenti, come parodie di quelle opere d’arte coperte dai sacchi di sabbia durante l’ultima guerra?
I monumenti sono cose che puntano il dito verso una qualche direzione, esprimono la fiducia nel fatto che si possa puntare il dito, che ci siano lezioni da dare e insegnamenti da ricevere, ed esempi storici da additare a condanna o emulazione. Esprimono, anche, la convinzione che il corpo sociale possa essere modellato dal richiamo alla memoria. Così come i musei, i monumenti sono invenzioni utopistiche oltre che nazionalistiche. Per parafrasare il Leopardi dello Zibaldone, un monumento è sempre speranzoso e ottimistico, nel suo indirizzarsi a un futuro che si considera delineato e che è incarnato nell’icona dell’identità collettiva. Un monumento è sempre a qualcosa. Un monumento che fosse con qualcosa sarebbe disinteressato al punto di divenire invisibile. Questo è il monumento che immagino. Mi domando se non è una sorta di essere “con” che mi interessa nella “ripresa” del passato. Non si tratta solamente dell’uso di materiali e di strumenti originali; si tratterebbe di un tale uso che, dalla saturazione stessa e dall’inconoscibilità delle memorie farebbe emergere frammenti di anamnesi e creerebbe una nuova forma fatta dei fantasmi di quel materiale. Potrebbe questo essere un fruttuoso tradimento, se potesse metterci in contatto con il passato, al di là del ricordo e al di là della rappresentazione?
Ma a cosa potrebbe somigliare un monumento non assertivo e non identitario?
Avendo posto questa domanda a me stesso, mi trovai a essere invitato a partecipare a una mostra di gruppo dal titolo Models of Resistance, mostra che ebbe luogo a Copenhagen, l’anno scorso. Quella città era stata il teatro, alcuni anni prima, di mie esperienze. Non appena ritornatovi uscii nottetempo e segnai i punti di cui mi ricordavo. Qualcosa lì era accaduto: vi applicai il simbolo dei monumenti protetti dalle Nazioni Unite, il Blue Shield, che è per le opere d’arte ciò che la Croce Rossa è per gli esseri viventi. Percorrendo le vie alla ricerca dei luoghi del passato marcavo la segnaletica di una anamnesi personale che non era più degna di attenzione di qualunque altra.
Più che un gesto artistico, era il mio un esperimento: i simboli dell’Unesco si trovarono mescolati a tutti i segni che, in un ambiente urbano, indicano locazioni, zone, funzioni, reminiscenze. Avrebbero forse provocato la curiosità di qualche passante. Si trattava di un’attitudine da intruso, di un’appropriazione di prerogative appartenenti ad altri enti. Al contrario del gesto avanguardistico che innalza allo statuto di arte ciò che all’origine non lo è, questa diffusione di tracce era una chiamata retorica alla democratizzazione della memoria, che non può essere rappresentata da un iconico, significante, sublimante memoriale. Non è un caso se il dossier che inviai all’Unesco, con una documentazione fotografica e la richiesta di includere i miei monumenti personali nel patrimonio mondiale, non ottenne risposta.
“Non c’è un kitsch che finisca con una domanda. Ogni kitsch finisce con un’affermazione.”7 Concordo con questa asserzione di Saul Friedländer, ma penso anche che non si dovrebbe aver paura del kitsch. Lo si potrebbe, ad esempio, prendere come uno degli elementi di un lavoro, insieme con altri, così come successive riproduzioni di un oggetto si allontanano dal loro modello al punto di divenire un altro originale. E potrei immaginare, anche, un’opera così assolutamente kitsch da divenire un pezzo d’arte, o una interrogazione sulla natura dell’arte.
Pochi musei sono concepiti in modo tale che la circolazione al loro interno susciti interrogativi invece che convinzioni, e dia anche spazio a quella ambivalenza che, secondo Vittorio Foa, è un buon terreno per un processo di interpretazione8. Fino a una quindicina di anni fa la maggior parte dei musei storici era pensata come luogo di conservazione o di narrativa unificante; negli ultimi tempi è invece vincente la tendenza che li concepisce come imprese di intrattenimento culturale, in cui la peggior cosa che possa accadere a un visitatore sarebbe quella di annoiarsi.
Ma, conservativo o ludico che sia, un museo che non sia discorsivo non può interessarci. L’unico museo accettabile è quello che preserva, più che l’integrità degli oggetti del passato, l’immaginazione dello spettatore. Un tale museo sarebbe capace di interpellare la propria funzione, considerando il visitatore stesso come “un soggetto storico”9 e rispettando la sua libertà intellettuale. Un tale museo prenderebbe se stesso come un oggetto storicamente determinato e potrebbe accettare anche la propria estinzione. La questione è, quindi, quella del grado di democrazia all’interno del museo; questo grado è davvero basso, se vi andiamo come in pellegrinaggio e dobbiamo seguire percorsi guidati e strutture processionarie che non consentono erranza né deviazione.
Mi chiedo perché mi piace usare questo aggettivo, kitsch, a riguardo della maggior parte dei musei: è perché si schierano per una visione derivativa e progressiva dei fatti storici, o perché sviluppano la narrativa stessa che giustifica la loro esistenza? Oppure si tratta della fittizia relazione fra oggetti che hanno perso il loro valore d’uso e una sede ricostruita, relazione inventata che interrompe il prolungamento di questi oggetti nel tempo? Un archivio, invece, non può essere kitsch: un archivio è il deposito “naturale” dei documenti morti, è un luogo di funzione, non di rappresentazione. Un archivio, in quanto tale, non si può mostrare: non sarebbe leggibile, e come opera somiglierebbe al massimo a una installazione di arte contemporanea. Si potrebbero mostrare, forse, i depositi, le riserve del museo. Se ogni museo è il frutto di una narrativa utopistica e l’espressione di una finzione ricostruttiva, l’esibizione della sua riserva può svelare il negativo di quella narrativa e di quella finzione?
L’ultimo episodio che vorrei menzionare qui è un museo di due giorni, una installazione recente presso la Société Industrielle di Sainte Marie aux Mines, in Francia. La sede della Società, fondata fra il XIX° e il XX° secolo, in piena epoca positivista e durante l’età d’oro dell’industria tessile, ospitava una serie di interessanti collezioni archeologiche, naturalistiche e geologiche, che con spirito illuministico erano state donate dai capitani d’impresa locali. Con il declino dell’industria tessile e la chiusura di molte fabbriche la regione entrò in un periodo di decadenza, nel quale si trova tuttora, e le collezioni finirono, semi-dimenticate, nelle soffitte dell’edificio. Lì le ritrovammo quando fummo invitati a intervenire in quello spazio. Da questo deposito decidemmo di tirar fuori una collezione, e di presentarla come un Kunstkabinett: come è noto, gli oggetti raccolti in un gabinetto di curiosità sono esposti senza rispondere a una gerarchia interna e senza rispettare un metodo sistematico di classificazione.
In francese la parola latina museum indica solo un museo di storia naturale. Questa è la ragione per cui intitolai la mia installazione Museum d’histoire industrielle: come una promessa che doveva essere disillusa –poiché non c’era storia industriale da vedere in quegli spazi- ma anche come un’allegoria di ciò che la vita trascorsa di quel luogo era divenuta. Un segno finanche troppo leggibile di questo approccio era un circolo di animali impagliati disposto nell’unica sala ancora utilizzata, la sala riunioni. Al centro di un altro ambiente sistemai in cerchio, su altrettante sedie, i ritratti degli ex presidenti della Società. In uno spazio al pianoterra, che era un cantiere, collocai un anello di sedie e tavoli in formica, pronti per una eventuale riunione. Stavo tentando, in qualche maniera, di mescolare i tempi fra di loro e con i luoghi. Mescolai anche rimanenze del mio proprio lavoro con i reperti archeologici ordinati nelle vetrine: qualcuno sarebbe stato attento al punto di chiedersi cosa fosse “vero” e cosa “falso”?
Spostavo oggetti da uno spazio all’altro in fretta e improvvisando. Stavo movendo e ricomponendo in diverso ordine materie originali “di una certa epoca”. Sapevo che stavo sistemando segni che non erano destinati a una qualche spiegazione. Agivo da invitato, così come ero stato a Napoli e a Copenhagen: essendo estraneo a una tradizione locale e volutamente ignaro delle sue regole, ero libero di agire nel malinteso. E dal malinteso nasceva una nuova materia.
ps: le nove note previste nel testo arriveranno in un secondo tempo.