In Tuscia, land paintings (2016)

Alcuni interventi artistici in una natura “storicizzata”. Un’edizione a tiratura limitata (99 esemplari firmati e numerati): un testo e sei stampe Fine Art digitali formato 15×20 su carta offset da 350 gr.

 

In Tuscia set

 

Spuglia copertina In Tuscia

 

B Land paintings 12 2014

spuglia nella selva antica 01

D Rupestre 00 2012

E Eden 04 2014

F La Nova 06 2015

G Romitorio 00 2015

 

In Tuscia, land paintings

Un sito rupestre: ivi si tratta della natura che, già sfruttata dall’uomo per farne opera, riprende i suoi diritti e non lascia l’opera dell’uomo che come traccia. La Tuscia è piena di questi luoghi; è come se non solo civiltà e abbandono si succedessero a ondate secolari, ma l’una fosse la condizione dell’altra. La Tuscia è un posto solitario. E sono le attività dell’uomo solitario che lasciano – o lasciano immaginare – le impronte più inattese.
Se il termine “rupestre” definisce forme d’arte fatta su o con le rocce (le tombe, i santuari, i graffiti, le pitture), può anche essere impiegato per descrivere i manufatti inselvatichiti, quando divengono parte della natura circostante.
Per l’artista, si tratta di re-intervenire sugli elementi naturali che sono stati fatti forma dall’intervento umano e stanno riscrivendo la propria storia. Rupestre è il punto in cui natura e storia s’incrociano: per l’artista non si tratta tanto di lavorare orizzontalmente nello spazio, quanto di avere come materia il tempo, in una pratica di stratificazione che sarebbe come uno scavo archeologico, ma al negativo. Sedimentare dopo aver individuato.

Land paintings, 2011-2016
Sono salito all’insediamento protostorico delle Sorgenti della Nova, dove gli uomini si sono succeduti per millenni, utilizzando gli spazi organizzati da coloro che erano passati prima di loro. Rimanevano visibili, ai miei occhi profani, le tracce di una vita ridotta a mera sussistenza: il nerofumo dei focolai sulle volte, i fori nelle pareti di tufo, che servivano a incastrare i tralicci dei giacigli di strame.
Poi sono stato in siti abbandonati e che lascerei al loro abbandono, come fossero rovine artificiali di epoca romantica (perché occorrerebbe salvare il passato a tutti i costi? e quale sarebbe il momento del passato che vorremmo cristallizzare?): Santa Maria di Sala nel comune di Farnese, Castel d’Asso in quello di Viterbo, Castro in quello di Ischia.
Ho chiamato Land paintings i lavori derivati da queste peregrinazioni. In una citazione parodistica della Land art americana, Land painting si potrebbe tradurre come “pittura sul (con il) terreno”. E’ una pratica che risponde agli stessi miei interrogativi sulla presenza dell’artista nello spazio storico. Già ho voluto definire questa posizione riusando il termine “rupestre”.
Spesso, negli anni recenti, mi sono trovato a esplorare i luoghi della Tuscia, così come facevo da adolescente. Tuttavia negli anni recenti non andavo a mani vuote: portavo con me una forma, una specie di foglia d’olivo, o di lingua, fatta di lattice impregnato di pigmenti rossi fluorescenti. La posavo al suolo e la fotografavo: la tomba etrusca, divenuta romitorio medievale, divenuto ovile, divenuto rifugio antiaereo, divenuto nascondiglio di amanti furtivi, accoglieva un ultimo segno di passaggio, come il testimone di una corsa a staffetta.
Nei miei lavori precedenti il segno intrusivo era una maniera di impedire la fruizione dell’immagine nella sua interezza e di infrangere la saturazione propria di ogni fotografia. Il colore fluorescente aveva come la funzione di aprire una breccia nell’immagine e nella sua storicità. Ora, lasciando direttamente sul luogo un segno e fotografandolo, l’opera torna a farsi in quel momento di presenza. Ma contrariamente a ciò che fa la Land art, il luogo non è trasformato: è solo “segnato”.

Romitorio, 2011-2015
Se si percorre la valle del fiume Fiora, nell’alto Lazio, appena a Sud della frontiera con la Toscana, e si sale e scende per ripe franate dopo esondazioni recenti, e ci s’inoltra in macchie boscose aggrovigliate come giungle, si possono raggiungere un paio di romitori, o luoghi per eremiti, che sono sopravvissuti ai secoli, grazie al loro isolamento e al poco interesse che hanno suscitato presso le generazioni successive.
Ecco Poggio Conte: oltrepassata una cascatella che forniva l’acqua potabile ai monaci, si possono vedere i resti di due minuscole celle, cui conducono scalette ardue scavate nel tufo, e una chiesetta rupestre d’ispirazione cistercense. L’interno di questa – nonostante l’oculo scavato nella facciata – è completamente buio: se si scattano fotografie, sarà con il flash e a caso, e solo lo sviluppo svelerà i frammenti superstiti delle pitture che ne decoravano la volta.
Si scoprirà che questo eremita del XIII o XIV secolo (forse un monaco di origine francese?) ha dipinto le vele con motivi decorativi decisamente prosaici, certo ispirati a tappezzerie o a pavimenti, che fanno pensare più a un design d’interni che a un esercizio di venerazione e di contemplazione.
La natura sta pian piano ritornando: le muffe coprono fiori di giglio, grifoni rossi e certe forme falliche. Scompare pian piano il lavoro dell’uomo solitario che passò mesi e anni a scolpire e coprire di colori la volta di un antro scuro, nella consapevolezza che a pochi sarebbe stato dato di ammirarli mai.
Alle mie intrusive foto al flash ho sovrapposto, come una trama leggibile in controluce, un sonetto tratto dal Canzoniere di Francesco Petrarca. Vi si parla, in belle metafore, d’impagabili sofferenze d’amore. Forse fu scritto mentre il pittore di Poggio Conte dipingeva. L’ho riportato senza intervalli né a capo, come un telex.

Nella selva antica, 2014
Probabilmente l’ultimo visitatore di un giardino dell’Eden è stato Dante Alighieri. Nessuna foresta, neanche la selva concresciuta fra le formazioni vulcaniche del Lamone può essere oggi chiamata “primordiale”. Anche la conservazione della natura è un fatto artificiale. Nella riserva naturale Selva del Lamone le tracce della “civiltà” sono visibili ovunque: mura di recinzione crollate, resti di pavimentazione romana, solchi scavati dai carri dei carbonai, cumuli di pietre che furono torri etrusche e, infine, le strisce rosse e bianche della segnaletica escursionistica.
Questa non è certo la natura descritta da Leopardi, la crudele deità che nelle sue manifestazioni distruttive non si preoccupa certo del destino umano (Dialogo della natura e di un islandese, 1824). Questa è una “riserva”, un posto in cui il “primigenio” è solo reminiscenza.
Le mie foto della Selva sono riprodotte su supporti trasparenti e sovrapposte a variazioni personali di graffiti preistorici: sono i segni di un’era in cui l’umanità iniziava appena ad affrancarsi dal mondo naturale. L’unica differenza con quei disegni è la tecnologia della riproduzione: non ocra rossa a piene mani ma Pantone 17-1463 TPX sullo schermo.

Eden, 2014-2015
Luoghi della civiltà etrusca, rovine parzialmente conservate, ove la natura è tornata predominante. Fotografie stampate su supporti trasparenti, che lasciano leggere un passo dantesco oppure decifrare una carta dell’IGM che potrebbe riferirsi a quel luogo, oppure a un altro.
I versi di Dante vengono dall’ultimo canto del Purgatorio: il poeta vi descrive una “selva antica” che non è altro se non il paradiso terrestre, ove una volta l’uomo ha vissuto in stato di grazia. Come una parodia, vi ho sovrapposto delle silhouette di animali selvatici, riprese dalle tavole dell’Histoire naturelle di Georges-Louis Leclerc de Buffon; le ho cucite con il filo rosso, in una tecnica di riproduzione lenta, imprecisa e imperfetta.
La visione illuministica di Buffon è quella dell’uomo vittorioso sulla natura, assecondato dai suoi fedeli mammiferi domestici, il cavallo, il cane. Ora sappiamo che il prezzo di questa vittoria, se l’uomo portasse l’Illuminismo alle sue estreme conseguenze, sarebbe il ritorno di una natura irriconoscibile, corrotta e deformata, in cui forse ci sopravvivrebbe solamente l’infimo animale dal Buffon disprezzato: la mosca cavallina o peggio, il tafano bovino.

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