Diario boreale, interrotto, 1999.

 

21 maggio, Berlino. Domattina presto la partenza. Sono nervoso, perché vedo le chiazze d’acqua e d’olio del cambio sotto il motore dell’automobile, ma non c’è più tempo per il meccanico e fino a martedì, per via delle feste di Pentecoste, tutto è chiuso.

            Dormirei male, perciò prenderò un sonnifero. Mi pare, a parte questo, di avere pensato a tutto. Nell’auto ci sono due ruote di scorta, e i cavetti per la batteria, e le catene da neve, e gli attrezzi, e la cinghia di ricambio, e una tanica da cinque litri per la benzina, perché lì i distributori saranno rari.

            Anche, ho pensato al cibo. Pare che lì se ne trovi poca scelta e a caro prezzo. Un peperone può costare diecimila lire. Ciò vuol dire che la mia automobile vale 100 peperoni. Il peperone sarà la mia unità di misura.

            Ho preso, dunque, due piantine di basilico, e aglio e limone per l’aroma; molto olio e sale per l’acqua della pasta. Soprattutto, ho nascosto ovunque nella vettura tutto il liquore che ho potuto comprare: un flacone per l’acqua distillata contiene grappa, una bottiglia di whisky sta fra lo schienale e il sedile, tre bottiglie di vino hanno trovato posto dentro un tubo da disegni. Pare che lì i negozi di liquori – i monopoli – siano assenti per intere regioni, per superfici vaste come il Lazio o la Toscana e la gente può guidare per notti intere alla ricerca di un monopolio aperto. Una bottiglia del vino più scadente costa due peperoni. Ma troverò maniere per farmi spedire alcool dall’Italia; perché la solitudine senza alcool porta al panico. Non è che sia contro le situazioni estreme, ma occorre raddoppiarle, altrimenti ti schiacciano loro.

            Un’altra riserva che ho fatto è stata quella di sesso. Voglio dire, non è che il sesso mi venga incontro così all’angolo della Kantstrasse e, d’altronde, la relazione con C. è tanto incommensurabilmente profonda quanto inesorabilmente verginale: ma gli è che, ho pensato, vado a stare in un paese in cui ci sarà proibizionismo e dell’uno e dell’altro. Perciò sono entrato in un sex-shop vicino alla stazione e quindi in una cabina (sono tutte in fila, davvero come cabine di uno stabilimento balneare, e quando una è occupata c’è fuori la luce rossa accesa), ho messo una moneta nella gettoniera e ho guardato per un quarto d’ora i film pornografici, cercando di registrare bene le immagini, di farmi una riserva negli occhi. Non m’è costato che un peperone. C’era quella dei tre sulle scale, lei lo prendeva nel culo da quello che stava tre gradini sotto, mentre prendeva in bocca quello che stava tre gradini sopra. Questa sì che è una ginnastica, direbbe Kuba, l’amico polacco per cui scopare è come fare ginnastica. E, d’altronde, ho sempre pensato che c’è una bontà profonda nella pornografia o, meglio, nell’atto sessuale inteso come mero e gratuito scambio di piacere. La pornografia è insomma la più democratica fra le forme moderne dell’accumulazione capitalistica.

            22 maggio, sabato. Alle sei e trenta Christine è già in cucina e prepara il caffè. Un breve commiato e parto. Nel primo pomeriggio sono già in Danimarca, l’auto pare andare.

            Piove, non so cosa fare. O il traghetto stanotte e due giorni di viaggio per strade di montagna, o un traghetto per Bergen domani e una mezza giornata di auto fino a Dale.

            Quando sarò a metà Danimarca telefonerò in Norvegia per sapere com’è il tempo.

            Non trovo nessuno, decido di andare diritto a nord e prendere comunque il traghetto. D’altronde, già non piove e il vento forte porta e riporta le nuvole. L’autostrada si fa bene, è sgombra e liscia. Bellissimi gli ultimi sessanta chilometri prima del porto di Hirtsals, per una strada di campagna, diritta diritta verso il nord e l’orizzonte aperto. Guido piano, con il finestrino abbassato per sentire il rumore del vento.

            Al porto, compro il biglietto. Vento e freddo, cielo grigio, spazio orizzontale. Questo posto odora già d’Islanda.

            C’è una spiaggia oltre il porto. Metto la giacca a vento e seggo su un sasso a bere una birra – sarà sempre una di meno per i doganieri norvegesi.

            A un chilometro circa dalla spiaggia c’è un bel faro su un’altura, dove mi porto per far passare il tempo prima dell’imbarco. Giro un poco lì vicino e sto per andarmene quando scopro, uno dopo l’altro, non so quanti bunker e camminamenti camuffati nella collina. Ne visito diversi (ancora il fascino della monumentale disumanità tedesca) e, non è solo l’attrazione per il presidio, il ridotto, trovo che abbiano una terribile bellezza questi cubi e parallelepipedi di cemento armato. Torno alla macchina a prendere la torcia elettrica e la macchina fotografica, esploro alcune casematte; in una c’è ancora, scritta col gesso sul muro, una lista della spesa; nessuna compassione. Nella torretta di un cannone, a lato di una chiazza di vomito, è rimasta al suolo una rudimentale pipa per l’haschisch, fatta di una bottiglia di plastica della coca cola con un tubo di gomma infilato dentro. Estetica del dopoguerra.

            Il traghetto parte all’una di notte. Nell’attesa, in coda con le altre auto, bevo un’altra birra. Non mi aiuta però a dormire. Una volta sulla nave, anche se mi sono disteso su un canapè, il freddo e le risate di quelli che giocano alle slot-machines mi tengono sveglio.

            M’addormento verso le cinque, alle sei l’altoparlante mi sveglia.

            Alla dogana mi controllano, perché trovano singolare un uomo solo in una vetturetta italiana, ma sono fortunato, è l’uomo e non la donna che guarda nel bagagliaio, dà appena uno sguardo al cofano che mi ha fatto aprire.

            Guido per un’ora in una specie di fondovalle svizzero. A 60 chilometri da Kristiansand abita la sorella di uno incontrato a Berlino. Fa la ceramista e sta con un cileno. Costui è stato tirato fuori dalle carceri sudamericane grazie ad Amnesty International, e non è mai tornato al suo paese. Pare che ne abbia passate, lì. Sta qui da vent’anni e lavora all’ospizio degli anziani del villaggio. Curioso come si sia trovato a vivere nel luogo simmetrico al Cile: simile superficie e posizione geografica, ma nell’emisfero opposto.

            Altri cento chilometri e sono atteso, in una casa che dà sulla stessa valle, dai genitori della ragazza. È una coppia di anziani tedeschi che vive con un figlio grande e un po’ ritardato, in una casa presso la strada, in un borgo qualunque. Entrambi sono artisti, dipingono. Il ragazzo m’attendeva in bicicletta sulla strada, mi ha sorriso ma io ho tirato oltre, cosa ne sapevo, quello m’era parso, appunto, l’idiota del villaggio. Quando sono tornato nel senso inverso, perché non trovavo la casa, s’è proprio sbracciato. Non ne passano tante di auto con la targa Roma per di lì, mi ha detto.

            Volevo rimanere venti minuti e sono rimasto due ore. La tavola era apparecchiata, abbiamo mangiato e chiacchierato e quando sono partito mi hanno messo in mano una busta con i resti, più pane imburrato e due mele. Io avevo portato una bottiglia di vino.

            La strada sale per le montagne, finisce la Svizzera e iniziano le rocce, i muschi e i licheni, gli alberi scheletrici e i laghetti mezzo ghiacciati. Nevica, per un po’. La strada ridiscende, si mette a piovere. Ma non c’è quasi traffico e la pioggia è tutta per me, non ci sono gli schizzi delle altre auto a impedire la vista. La mia scivola bene e, non so perché, tutti questi monti e nevi e piogge non mi angosciano. Si vede che qui l’uomo ha a che fare con ciò da sempre. Non che la Norvegia mi faccia – già – simpatia.

            Arrivo a Odda a metà pomeriggio. Sono 350 chilometri da Kristiansand, sto a metà percorso. Potrei continuare, ma credo che sarebbe pericoloso, sono troppo stanco. Mi fermo qui, perché dovrebbe esserci un Ostello aperto. Ma mi dicono che è stato requisito per ospitare i profughi kossovari. I turisti possono alloggiare all’albergo, allo stesso prezzo dell’ostello. Ho una stanza col bagno e la doccia, il cui pavimento è riscaldato. C’è un bel lettino bianco. Forse ora provo a dormire, perché fuori piove forte e, del resto, la cittadina pare islandese, nella sua confortevole fredda modernità.

            24 maggio, lunedì. Fresco e disposto, parto alle otto. A cento all’ora faccio una strada stretta, lungo la costa di un fiordo che è uno dei luoghi più belli che abbia mai visto: è una valle coperta di frutteti e sparsa di case di legno. Arrivo al traghetto; c’è da aspettare tre quarti d’ora.

            Dall’altra parte del fiordo la strada sale a tornanti fra immense pareti di roccia, cascate, laghi neri. Piove e non mi fermo. Si sale ancora, e mi trovo in mezzo al bianco. Per trenta chilometri guido fra due pareti di neve. Un tunnel, e dopo quattro chilometri mi trovo in una valle sul mare. Una chiesa romanica, prati coperti di fiori gialli.

            Un secondo traghetto da aspettare. Arrivo che è appena partito, debbo aspettare un’ora e mezzo. Poco male. Salgo sull’altura di Vagsnes, ad ammirare la statua, alta 13 metri, di Friedrich, eroe vichingo. Venne offerta e inaugurata dal Kaiser Guglielmo, molto amato dai norvegesi perché veniva qui in vacanza con il suo yacht imperiale. Forse questo monumento segna il punto più settentrionale raggiunto dal kitsch. In ogni modo è la sua più grande realizzazione.

            Poco fuori Balestrand, uscito dal ferry, c’è una jeep avanti a me che cammina piano e mi fa innervosire. Infine l’autista mette la freccia e mi fa segno di fermarmi. Scende e viene a me, è grande e grosso e barbuto: “cosa ci fa lei qui?” mi chiede in un italiano con accento, direi, friulano; “è quello che mi chiedo anch’io”, gli rispondo. Ci si spiega: è un tedesco, nato in Spagna, che ha vissuto vent’anni in Italia e vive in Norvegia con la moglie marocchina; è capocantiere in una cava di granito, e oggi che è giorno di festa si è fatto, malgrado la pioggia, il giro della penisola in auto, 300 chilometri di strada per passare il tempo. Promette bene.

            Mi accomiato, ma dopo trenta chilometri, a Hoyvanger, rischio di addormentarmi e cerco un bar; a un incrocio, rieccoli. Stavolta accetto l’invito a prendere il caffè, nel loro appartamentino moderno e un po’ triste.

            Riparto, seguo una costa che è magnifica, infine viene l’ora di passare la montagna e andare sull’altro lato, all’ospizio, al presidio.

            25 maggio, martedì. L’avventura, in certo senso, è già finita. Nel posto efficiente e lussuoso, dalle dieci macchine utensili pronte all’uso, dai cento attrezzi ben fissati sulla propria forma disegnata col pennarello, dallo studio vasto e ridipinto di fresco, come vuoi che lavori, in questa bella scatola accanto alle altre scatole, fra meeting, coffe-break ed escursioni culturali, come vuoi che metta qualcosa alle pareti e la mostri? Quest’atmosfera “collaborativa”, che temevo di trovare, è tutto quello che mi allontana dal lavoro. Ma sono tutti così gentili, e qualcosa alla fine la farò. Oppure terrò nascosto quello che ho portato e lo mostrerò alla fine, come se lo avessi fatto qui.

            C’è un altro fatto, che pure m’aspettavo. Su cinque artisti, c‘è una sola donna, è islandese, non mi piace e conosce di certo T.; non desidero che costei sappia dove mi trovo: sarebbe capace di presentarsi qui.

            Ho passato il pomeriggio, dopo la riunione conviviale con caffè e certe immonde paste (qui il cibo è di una tristezza luttuosa: impacchettato, conservato e, in genere, informe: pallette di patate, polpette di pesce; magari qui mi passa la malattia del würstel, essendo il suo gusto qui al di là del disgusto stesso), nello studio vuoto e che ho voglia di lasciare vuoto. Ho spostato il grande tavolo di sbieco davanti alla vetrata e mi ci sono appisolato. A forza di fare niente, mi è venuto in mente un lavoro: otto grandi e strette barre di legno (30 X 240 cm), con incise silhouette di guerrieri norreni (vichinghi, cioè) anamorfizzate; le stesse figure incise possono poi essere riprodotte su tele, stoffe, carte. Questo, sì, sarebbe un lavoro da tre mesi. Per farmene un’idea ritaglio e appunto alla parete tre forme di carta Kraft.

            Verso sera vado all’edificio principale, dove pure abita il gestore del luogo insieme con la famiglia, e dove c’è la sala biliardo, arredata come un casino di caccia inglese; lì c’è il televisore che dovrebbe prendere tutti i canali del mondo, ma non riesco a farlo funzionare. Torno alla casa, la serata si annuncia vuota, bicchierino dopo bicchierino ingurgito un quarto delle mie riserve di alcool. Accendo il computer, che si trova sul tavolo difronte alla porta-finestra, orientata all’opposto dello studio (qui dà a est); scrivo solo un titolo: Difronte al monte.

            26 maggio, mercoledì. È una buona tecnica lasciare qualcosa allo studio, così ci si viene.

            Un’altra idea per il lavoro, che avevo già da prima, è quella di fare il percorso inverso della comunicazione, e cioè dalla velocità alla lentezza, dall’internet alla prima forma di riproduzioni in serie, la xilografia. Prenderei foto di attualità dai giornali e le inciderei su legno, per poi stamparle su carta o stoffa.

            Dopo un’altra riunione, mi portano in paese ad aprirmi un conto, dove versano la prima mensilità. Tutto è particolarmente rapido e semplice; tutti si conoscono; la cassiera della banca è, evidentemente, la moglie del tecnico che lavora al Centro, e cosivvia. C’è un solo bar, una casetta carina a due piani, dove andrò stasera a vedere com’è. Una piscina, la cui entrata costa un peperone e mezzo, la posta, due supermercati, la polizia, la biblioteca municipale con l’internet. Un porticciolo per il ferry-boat, una fabbrichetta di scarpe bruttine, una di coltelli. Una miniatura di mondo.

            27 maggio, giovedì. Con lo scultore islandese a Forde, il capoluogo di provincia. E’ una cittadina americana, potrebbe essere nel Vermont. C’è financo un semaforo. Un negozio di fotocopie, una biblioteca, una piscina, un negozio di cornici e articoli di belle arti.

            L’islandese non è antipatico; il suo lavoro, che già avevo visto al suo paese, è terribile; ci si accanisce con la motosega dalle sette di mattina alle nove di sera. Per pudore, quando lo incrocio davanti all’edificio degli studi, non lo guardo, né lui né quello che fa.

            Nel pomeriggio mi porto al collegio della Croce Rossa, a dodici chilometri di qui, per nuotare alla piscina e incontrare un professore d’arte che mi insegnerà come incidere il legno (mia iniziativa personale). Un altro posto lussuoso incastonato in fondo a un fiordo. Rimarrei lì? A insegnare (ma cosa?) a questo centinaio di studenti venuti da tutti il mondo?

            28 maggio, venerdì. Torno al collegio, per chiedere alla bibliotecaria di poter prendere in prestito i loro libri, e per avere in visione i giornali internazionali che lì arrivano.

            Dopo un passaggio alla biblioteca comunale, dove ho trovato una grossa collezione di foto storiche, ho chiaro cosa farò qui: sceglierò otto ritratti di gente del luogo, li “anamorfizzerò” alla fotocopiatrice, li inciderò su lunghe tavole di legno, che infiggerò al suolo come steli, e da cui trarrò immagini su stoffa. Poi, o mi riporto tutto ciò a Parigi, o lo lascio qui in regalo.

            Nel pomeriggio incido, per prova, la mia prima xilografia. Me ne viene una vescica al palmo della mano destra, per lo sfregamento dello scalpello, ma la cosa, a parte ciò, si può fare. Vado al supermercato prima che chiuda, a comprarmi un paio di birre (mezzo peperone l’una). Ma no, stanno tutte coperte sotto un telo di plastica nera, è già il fine settimana e non si possono più comprare.

            29 maggio, sabato. E già, lavoro. Sperimento incisioni su legno, dopo essermi fasciato la mano. Provo le macchine da falegname per prepararmi le tavolette. Ho deciso di riprodurre fotografie antropometriche su tavola, per rifare all’indietro il percorso della riproduzione (le xilografie, come dicevo, sono state le prime forme di riproduzione meccanica in occidente, hanno iniziato a Firenze intorno al 1370 per fare le carte da gioco).

31 maggio, lunedì. In biblioteca a scegliere fotografie da stampare. Alla casa degli handicappati, dove hanno l’unica fotocopiatrice laser del paese.

            Al lavoro; incido e stampo una fotografia di inizio secolo, nell’intento di ripercorre a ritroso la funzione segnaletica dell’immagine e cercare, in questa riproduzione della riproduzione, sempre più appiattente, un qualche segno essenziale di individualità. Farò, nell’attesa di lavorare alle grandi steli, sei di queste incisioni.

            Dalla gita dell’altroieri con l’islandese, in cima al monte, dove abbiamo lasciato i nostri nomi nel quadernetto, nel barattolo sotto le pietre, ho ancora dolori alle gambe. Un dito raschiato dalla livellatrice, la mano destra non ancora guarita.

            1° giugno. Quattro ritratti segnaletici riprodotti su legno. Mi servono fra le due e le tre ore ognuno. Ceno presto e alle otto torno al lavoro. Piove sempre, ma penso ancora che questo luogo è la rappresentazione del paradiso su terra, con tutta la noia che un paradiso non può non portare con sé.

            4 giugno. Siccome il mio studio è il più lontano dall’ingresso degli atelier, ci vado col carrello, come se fosse uno skateboard. Sono diventato abile, faccio curve a 180 gradi finendo solo raramente contro il muro. Cappio ho male alla mano e poca voglia di lavorare. Vago con infimi pretesti fra la casa e l’atelier.

            5 giugno. Una trasferta a Forde, per l’inaugurazione di una mediocre mostra in un ambiente ovviamente provinciale. Grande tristezza e noia; ora so che se amo la città è per via dell’eros, che manca del tutto in posti come questo.

            In un caffè e poi a casa del direttore del Centro, a chiacchierare bevendo vino. Tutt’a un tratto vedo come tutto questo comfort e questa buona volontà umanitaria non corrispondono a una ricchezza umana, a un tormento di un qualche tipo, e si svuota ancora il mio stare qui. Tre mesi mi paiono ora davvero troppi.

6 giugno. Torno a Forde in auto alla ricerca del cappello che ieri ho lasciato cadere sul piazzale del parcheggio. Un’ora ad andare e una a tornare, ma il tempo non costa (la benzina sì, per quanto sempre meno di un cappello nuovo).

            8 giugno, martedì. Sono già stanco di questo posto. Ora aspetto agosto. Ma le incisioni su legno sono una piccola scoperta, anche ideologica, e il fatto che le stampe possano essere facilmente offerte agli amici mi incita a essere meno svogliato di quanto non sarei.

            Mercoledì 9 giugno. Cappio è finito il vino. La grappa ordinata ai genitori e spedita con il DHL è stata fermata alla dogana.

Ho fatto due piccole serie in due giorni, una sulle Opere di misericordia, l’altra come “studi di drappeggio”, a partire da fotografie che avevo fatto alle statue dei musei capitolini. Queste incisioni non sono né interessanti esteticamente, né forti visualmente, ma sono “giuste” ideologicamente.

Piove ancora e sempre. Sono le sei di pomeriggio, ma potrei andarmene a dormire.

10 giugno, giovedì. Confusioni di questi giorni. La strana impressione di non essere benvenuto nel luogo dove dovrei avere una borsa, in Olanda (dove, infine, ho capito che avrò appuntamento per un colloquio martedì prossimo); le cose bloccate qui: il legno che non trovo, le fotografie che non vengono riprodotte. Poi, quando ho detto al direttore che sarei andato in Italia, dopo l’Olanda, per spendere meno in viaggi e non ripetere le partenze, l’ho sentito contrariato, perché ora appunto “deve” organizzare delle gite sociali e vuole tutti gli artisti qui. Perciò ho frettolosamente cercato nuove possibilità di volo per la sola Amsterdam; ne ho trovato uno non eccessivamente caro, ma debbo partire già sabato, questo mi va bene, e passare tre notti in albergo. Mi farà bene stare in una città. Debbo, però, preparare un discorso su cosa voglio fare all’accademia olandese, e non so cosa voglio fare lì. Cerco solo il denaro per sopravvivere, ma questo non posso dirlo.

11 giugno. Inizia a diventare una necessità questa di salire al monte. Ancora non sono arrivato in cima, dove ero stato i primi giorni con l’islandese, ma ogni volta ci arrivo più vicino. Poi torno, completamente sudato, faccio la doccia e mi sento bene, con un’energia di un tipo che non conoscevo, e che potrebbe benissimo espletarsi in atti sessuali.

13 giugno, domenica. In un bar di Amsterdam, a mezzogiorno. Partito ieri mattina alle sette da Dale, in auto. Guidato per tre ore fino a Bergen, camminato per la città (infine, semafori, negozi e perfino un mercato del pesce!), portatomi all’aeroporto, lasciata l’auto al parcheggio (al ritorno, che sarà martedì sera, dovrò correre per non perdere l’ultimo traghetto, che lascia Oppedal all’una di notte), preso un aereo, sbarcato ala stazione centrale di Amsterdam, cercato un albergo per le vie intorno, ma è sabato sera, la città è piena di inglesi che guardano attruppati le prostitute nelle vetrine, non si trova un posto, esausto accetto una camera in un hotel caro, che dà su una via tranquilla, ma la stanza è sul retro e su una via pedonale, la gente che passa ride e urla fino alle tre di notte, domenica mattina lascio l’hotel e cammino per la città (vivrei qui? Sì, subito, con un lavoro qualunque e un salario e una donna, sì, subito), decido di andare già oggi a Maastricht, a vedere com’è, prepararmi per l’esame e trovare un posto più economico dove dormire.

14 giugno, lunedì. Alla biblioteca universitaria di Maastricht, cercando di concentrarmi su ciò che potrei dire domani, rileggendo vecchie cose scritte, tentando di formulare una mia propria ideologia. Cappio, così non so cosa direi e non so neanche cosa penso e se penso. Questa gita di tre giorni, che mi sarà costata quanto un mese di borsa, non la rimpiango, in ogni caso.

15 giugno. Nell’attesa di essere esaminato, la testa vuota, leggo o fingo di leggere il De Bello Gallico in latino, rubato in una libreria di Berlino.

Sul treno, dopo l’esame, tornando ad Amsterdam. Nota: le olandesi ci hanno le gambe lunghe.

18 giugno. È arrivato il legno che avevo ordinato, ma non è quello che volevo: queste sono tavole di pino, certo, ma hanno tagliato un albero e me lo hanno consegnato fresco fresco, mi pare troppo fresco per poterlo già lavorare.

Ci lavoro ugualmente, con impazienza. È un legno maledetto, difficile da piallare, a volte troppo duro, a volte troppo tenero.

Alla fine, ne cavo fuori un’immagine e una nuova vescica alla mano destra. Non so cosa pensare del risultato. Paiono, più che spiriti ancestrali, immagini di Épinal.

La serata, come al solito, la si passa davanti a uno schermo: che sia il computer, o il televisore, o la stufa. Pur non avendo stanchezza e rimanendo alzato fino alle due, leggere non m’accattiva; è l’irrequietezza del cervello vuoto.

            Alla tivù si vedono trattori in viaggio, carichi di famiglie e di masserizie. Albanesi che tornano a casa, o serbi che la lasciano? Come saperlo, quando non capisci la lingua dello speaker?

            21 giugno, lunedì. Mi confronto, in questi giorni, con i materiali dell’arte popolare (Folk Art), come il legno (ma potrebbe essere l’argilla, o il vetro) e vedo come tutta la storia che portano con sé è dominante e schiaccia il mio lavoro, portandolo sul piano dell’illustrativo e dell’aneddotico. Mi pare che solo rinunciando all’abilità tecnica si possa imporre il proprio tema e il proprio discorso. Altrimenti, si può fare solo ciò che fa l’arte popolare, e cioè: riprodurre i modelli.

            Esempio (ma che apre a molti altri ragionamenti): c’è qui vicino un mastro, uno dei pochi artigiani che ha il riconoscimento di maestro nell’incisione del legno. Ogni tanto i musei lo chiamano, per riprodurre le carene scolpite delle navi vichinghe (mille anni fa, cioè), che sono grandi come alberi e completamente intarsiate. Recentemente gliene hanno commissionata una particolarmente difficile, piena di ghirigori complicati. Era quasi alla fine di non so quante settimane di lavoro quando, nell’incidere una voluta un po’ stretta, lo scalpello gli è sfuggito e scivolando ha sbracato tutto il lavoro già fatto. Tutto era da ricominciare. Ma va a vedere l’originale, e c’era esattamente lo stesso sbraco allo stesso punto, esattamente uguale.

            Che interpretazione dai di questo?

  1. La filosofica, e cioè che nella ripetizione c’è l’identificazione.
  2. La tecnica, e cioè che il più esperto mastro e il più affilato scalpello non possono superare la resistenza di un dato materiale in un dato tracciato, e firmano così il limite delle proprie possibilità?

III. L’esoterica, e cioè che, per fare lo stesso errore, il mastro vichingo e l’artigiano norvegese dovevano avere lo stesso grado di fatica e di affilatura dello strumento.

  1. La storica, eccetera. E quale è la tua?

26 giugno, sabato. Ci sono state un paio di giornate assolate, e alcuni avvenimenti sociali. Due barbecue con tutti gli artisti e il direttore, in cui si è mangiato carne di agnello e bevuto abbastanza. Qualcosa, frammenti di pensiero, vengono fuori da queste discussioni. Quando ti chiedono, per esempio, cosa cerchi qui, e devi rispondere che ti attendi l’inatteso.

            Siamo stati, domenica scorsa, in un viaggio di quasi due ore ad andare e due a tornare, a visitare una cosiddetta „città del libro “: difatto, una cittadina, un villaggio, un agglomerato direi, dove in quasi ogni garage e cantina erano esposti e messi in vendita libri usati; quasi tutti in norvegese, ma ce n’erano di russi e inglesi e francesi. Tutto questo era piuttosto dolce: uno spruzzo di case su un fiordo isolato, intorno a un unico albergo di fine secolo, costruito per gli escursionisti inglesi che scalavano il ghiacciaio sovrastante e poi prendevano il tè nel salone, comodi comodi nelle belle poltrone di cuoio; questi libri, ovunque intorno, sono stati come un puntello per l’anima. Pare che esistano una decina di queste „città dei libri “, quasi tutte in Europa del nord.

            Il cinese (uno degli artisti è un cinese di Macau, che vive negli Stati Uniti da una venticinquina d’anni ma parla ancora un inglese abbastanza incomprensibile) m’ha portato a Forde ieri, dove volevo far riparare il fax e lui voleva comprarsi una canna da pesca; ho pagato cento peperoni per far aprire il fax e sentirmi dire che non era riparabile. La consolazione è stata nel salmone fresco e i gamberi che ci siamo comprati al supermercato, che lì è molto più fornito di quello di Dale. È anche lui, il cinese, come tutti qui, una brava persona, che ha lasciato la famiglia nel Maryland e lavora tanto accanitamente quanto l’islandese che è partito, e che è financo affettuoso; ma, ecco, non c’è tanto da dirsi. Col danese m’intendo bene, ma sta quasi sempre con la figlia piccola e la moglie, la prendono questa come una vacanza e mancano le occasioni di incontro.

            Forse, se non vado in Italia, me ne vado a Bergen in soggiorni vari e brevi, per vedere gente e i tipi cittadini

            27 giugno, domenica. Questa settimana è stata la più triste ma anche la più ricca. La solitudine e l’astinenza sessuale mi pesano, per quanto quasi ogni sera abbia incontrato gente e ben mangiato; non ha quasi mai piovuto e al crepuscolo c’erano colori splendidi nel cielo.

M’è venuta la malattia della montagna; ogni giorno provo il bisogno di uscire e camminare, addirittura correre fra i sassi e gli arbusti; sono uscite brevi, che non durano mai più di due ore. Un paio di volte mi sono immerso nell’acqua gelida di un torrente; quando torno giù e c’è ancora tempo per incidere un poco di legno (non so cosa pensare di questo lavoro sulle steli, so solo che le pianterò nella montagna, prima di ripartire).

            Ieri sera siamo stati invitati, io e il cinese, dalla coppia di artisti svedesi che avevo trovato abbastanza scorbutici e che hanno un bambino cui permettono assolutamente tutto; avevano comprato due chili di cozze e volevano spartirle con noi; le hanno servite –in mio onore – accompagnate da spaghetti senza niente, spezzati in due e sciapi. Ma il tipo, dopo un paio di bottiglie, si è un po’ aperto; ha raccontato come, dopo essere stato una specie di vedette alla biennale di Venezia del 1993, non ha sopportato di essere al centro dell’attenzione pubblica, sviluppando una psicosi che lo ha portato a tre anni di ospedale; il suo lavoro, per quanto celebrato, mi risulta freddino: sono, per esempio, tante seppie di silicone rosa allineate su tavoli di compensato ben carteggiato, dietro tendine di plastica rossa. Questo artista, che – dice – non vende un’opera da otto anni e pur campa bene, è uno di questi compilatori di dossier che vive di borse di studio e della venerazione socialdemocratica nei confronti degli artisti; questo non vuol dire che non possa avere le sue brave psicosi. In ogni modo, la serata con le cozze, gli artisti svedesi e il cinese è stata molto meno calorosa e intensa di quella che avevo passato, uno dei primissimi giorni, con i gamberi i danesi e l’islandese: si parlava lì lo stesso linguaggio, per quanto diversi fossimo.

Forse non andrò per nulla in Italia; non mi dispiace di evitare il caldo, ma avrei fatto cose utili e incontrato quegli amici che alla fine non verranno qui.

            Siamo andati a pesca, stasera, con gli altri artisti. A pesca nel senso più volgare: siamo scesi con due auto, accompagnati da uno del luogo; abbiamo parcheggiato sul lato della strada, dopo neanche cinque chilometri e, senza neanche allontanarci, appoggiandoci alle macchine, abbiamo lanciato le lenze nell’acqua del fiordo. Era vergognoso e un po’ disgustoso: non c’era un lancio senza un pesce, quasi sempre grosso, che abboccasse, che andava poi liberato dall’amo e sgozzato sul posto. Era peggio di un laghetto di “pesca sportiva”, ed era il mare. Con l’uomo del luogo (che è di madre danese e, pur vivendo lì, sulle terre di famiglia, da otto anni, è ancora considerato un “ospite”) siamo saliti alla fattoria sopra la strada; è abitata da due anziani fratelli, celibi, che vivono allevando pecore; abbiamo regalato loro due bei pesci ma, al momento di andarcene, ci hanno messo in mano due monete da venti corone.

            Il resto della serata lo si è passato sul piazzale davanti agli studi, a sventrare pesci (non meno di trenta chili, penso io), e a discutere su come prepararli; è stato in fondo un bel momento.

            3 luglio. Confusione di generi: girando le zucchine nel tegame – per la cena collettiva di stasera, da me promossa – penso alla consistenza del lattice che ho steso sulle tavole di legno; stendendo il lattice, mi pare che odori del pesce che oggi ho pescato e ucciso; mi domando cosa mi passerebbe per la testa se avessi sotto le mani un corpo di donna.

            Ha piovuto di continuo negli ultimi giorni ed è stata dura; non si poteva uscire né per pescare né per camminare. Mi consolavo con il commissario Rex, il cane lupo del feuilleton televisivo austriaco, lo trasmettono la sera tardi. Penso che lo guardo perché si svolge in una città europea, di cui riconosco tanti angoli, e gli attori parlano una forma di lingua tedesca che comprendo abbastanza. Rex, in sé stesso, è noioso e zuccheroso, ma i tipi dei poliziotti sono abbastanza simpatici, fascisti appena appena.