1999
Questa è l’altana sul mondo. Dalla cantina platonico-kafkiana eccomi ora alla colonna dello stilita. Tutti possono vedermi qui e non posso più nascondermi, sono splendente e luminoso in tutta la mia vulnerabilità.
Difronte al monte
E‘ dove mi trovo. E’ un monte come un altro, certo. Forse più di frequente annuvolato, a frange le nuvole lo risalgono, ne scavalcano la cresta, mi vengono innanzi, impazienti.
Difronte, difronte al monte al crepuscolo me ne sto.
Rosso
L’idea di stanotte nel dormiveglia: lavorare a un Bilderatlas, trasferendo su maioliche immagini scelte arbitrariamente, fissandole a muri di pozzolana rossa. Farsi un illimitato archivio personale. Un Kinderatlas, un Wilderatlas di immagini allegoriche, inferni e paradisi.
Ex abundantia cordis. Da dove vuoi che venga, altrimenti, l’arte?
Cattiveria e bontà; se la cattiveria è stupidezza, la bontà non è intelligenza.
Il corpo non ci appartiene, ma apparteniamo al corpo. Siamo l’abito che quello indossa.
Immensa nostalgia della pittura. Ma è andata, anche quella. Rimangono i quadri da guardare.
Non sono ancora arrivato – per quanto tardivo sia – all’epoca in cui le stagioni si assomigliano. Per questo posso ancora permettermi il mio dandismo sottoproletario.
Giorno dopo giorno in biblioteca e non trovo niente che mi ecciti al lavoro. Il motivo è semplice: non trovo ora eccitazione perché non trovo un soggetto che tocchi in me la molla del patetico (il patetico è per me l’autocompassione ironica).
Cosa vuoi che sia, se non un’opera di grafia: scolpire, incidere, tracciare, perforare, raschiare.
Fare male.
Alianto, pianta detta la fetente, che cresce in tutti i cortili e le fessure, che ho visto a Parigi e sulla costiera e a New York. Senza qualità ma di molte pretese.
Iacopo detto l’Indaco, il pittore ignavo di cui nessun lavoro rimane. Vasari: “Lavorò Jacopo molti anni in Roma, o per meglio dire stette molti anni in Roma, e vi lavorò pochissimo.”
Non c’è bisogno di vivere tutte le vite. Ne basta una, ma che sia voluta e scelta. Quella di qualcun altro, cioè.
Rivedere il lavoro sulle opere d’arte incartate durante la guerra alla luce della dichiarazione mussoliniana secondo cui i monumenti “devono giganteggiare nella loro necessaria solitudine”.
Ci sono, certo i naturalia nel mio lavoro e anche gli artificialia. Mancano i mirabilia, manca il coraggio dell’estremismo estetico.
Apotropaico: mostravano le natiche al diavolo, perché si riteneva costui non avesse il sedere. E’ vero che anch’io, nel mio piccolo, ho sempre diffidato di quelli che ce l’hanno piatto.
Non c’è stupido che non sia pedante; ma alcuni pedanti sono anche intelligenti.
“Sii vitale: sii il recipiente di una forma di vita, non aspettare di diventarne il contenuto.”
“Ah! Ridammi allora un nemico ideologico, e vedrai cosa ne farò!”
Ho sempre lavorato su tavoli da cucina, in case imprestate o in appartamenti vuoti. Gli è che quello è il luogo del lavoro e della composizione, subito vado lì quando entro in una casa e non ne voglio più uscire.
Transpontine. Al di là del fiume. Dall’altra parte. Lì dove difatto già stai.
Oggi ho scoperto che un morto si chiama, prima del suo decimo anniversario, una salma. Dopo si chiama resti mortali. La differenza è importante, perché influisce sostanzialmente sulla mancia da dare al custode del cimitero, in caso di riesumazione.
La musica mi sostiene perché mi paralizza.
Confrontarsi con la perdita della creatività come se fosse un angelo messaggero o finanche psicopompo.
Indosserei una nazione intera come un guanto, se non fosse che mi trovo male ovunque, cosa vuoi.
I versi imbecilli della canzonetta –“quest’amore è una camera a gas”– mostrano come anche l’incoscienza sia ignobile.
Irrlicht: fuoco fatuo e perdigiorno.
Riflessioni sulle rovine: quando si è circondati dalle macerie, come si possono immaginare “künstliche” Ruine? Come ci si può compiacere della fugacità, quando la sopravvivenza è il primo scopo?
Quello, il nazi-architetto, che avrebbe voluto evitare negli edifici monumentali il cemento armato, il quale non dava, una volta crollato, nessuna “ispirazione eroica”, ma solo “cumuli di macerie rugginose”; avrebbe voluto pertanto utilizzare solo pietra naturale che, disposta in modo studiato, avrebbe dato, a tempo debito, rovine simili a quelle romane. Questa era la “Theorie vom Ruinenwert”, la teoria del valore delle rovine. C’è da aggiungere che erano gelosi di Mussolini, il quale aveva avuto la fortuna di ereditare belle’e fatte tante rovine dei tempi imperiali.
Da tempo è caduta la frontiera fra arte e pubblicità. Per questo vogliono il riconoscimento immediato e del riconoscimento postumo se ne infischiano.
In Mandelstam (da Lamarck, Philosophie zoologique, 1809) l’idea di una scala evolutiva che può essere percorsa a ritroso. Da Dante invece (Inferno, XXXII, 4) Mandelstam prende il concetto dell’idea da cui la forma scaturisce, come liquido da una spugna spremuta. Potrei sottoscrivere.
Lavorare – specie qui in Norvegia, dove posso aggredire solo i tronchi d’albero – sull’attualità usando le più antiche tecniche. Ad esempio, commentare i fatti del giorno, presi dal giornale, con xilografie pazientemente incise.
Cerca una connessione fra l’allegorico e il rivelante (il monogrammatico, cioè). Se lavori sulla figura, dato che non puoi evitarla, essendo il tuo soggetto la storia, non puoi evitare neanche di fonderla nell’allegorico, specialmente quando la figura è piatta come un’icona.
Pigmenti mescolati a colle, a zone piatte di colore, su tavolette di legno. Per il piacere degli occhi.
Non avendo notizie da quelli del Comune, che dovevano procurare un proprietario di terre in cui piantare le steli, divento nervoso e poi vittima del mondo. Decido di caricare le steli di Laralia sul tetto dell’auto e portarle in viaggio in Toscana, dove le pianterei nei terreni di Pietro. Kolossoi norreni in terra straniera.
Quanto alle silhouettes ritagliate nel legno, le brucerò sulla collina e sarò il solo testimone dell’autodafé. Lo farò stasera.
Dico ciò a Foon Sham, che incontro sul viottolo, e mi risponde che sono uno stupido, l’arte è fatta per essere comunicata ed è mio dovere dire agli altri che c’è quest’arte. Lui chiamerà la gente e porterà birra e schnaps, e il rogo delle immagini sarà una festa.
Le storie non si decidono a finire, non finiscono mai, perciò non si ricomincia mai davvero.
2000
Théorème de l’incomplétude (Godel). Cosa vuoi farne, a parte un bel titolo di lavoro?
Art’s work e ciò che chiamerei opera; è disinteressata, e incurante di lasciare o meno traccia di sé. Work of art è l’opera d’arte, tutto il suo scopo è la traccia.
Andare al di là del sentimento, o restarne al di qua, ma mai metterci i piedi dentro (come ho forse fatto in Laralia). In questo mio ultimo lavoro a forza di scomparire l’immagine è diventata cornice del paesaggio e soglia del mondo e questo va bene; ma anche la continua critica della rappresentazione può essere sentimentale.
Lavorare sui popoli nomadi, secondo l’idea di Buber (Moses, introduzione); si tratta di affermare il concetto di trapianto in contrasto con quello di integrazione.
Ornamentierung ist Verbrechen (Loos). Verbrechen ist Ornamentierung.
L’originalità è nell’approssimazione: quando vedi, nel preparare un’installazione, la riprovazione dei tecnici del suono o dei fotografi di professione, allora sei sulla buona strada.
Il vino è una necessità mascherata da piacere, così come il libro. Una buona cantina e una buona biblioteca ti terranno in vita.
Mi interessa sempre e solo il momento “appena prima” la catastrofe o l’evento, così come quello “appena dopo”; sono differenti stasi nel tempo. Un tempo è irrimediabilmente finito, quello successivo non ha ancora preso forma. Penso al crollo nella basilica di Assisi; la volta è venuta giù, la polvere non s’è ancora levata, non si sa ancora cosa sia successo. Nello shock tutto pare ancora riparabile.
Non ho compassione né interesse per le persone che non siano deboli. D’altro canto, delle persone deboli non posso occuparmene io.
Sarei un Okkasionalist, uno che si fa prendere volentieri “dalle occasioni e dagli spunti stimolanti” (J. Taubes). Certo, una teoria dell’occasionalismo non è proponibile. Trasformerebbe l’occasionale in sistematico.
Garboli nella prefazione ai diari di Delfini (Torino 1982): “L’unica cosa certa dell’amicizia è che non è mai abbastanza.” Mi domando se non è lì che ho trovato la citazione che avevo trascritto nel carnet: “Sono leali le ferite inferte dalla freccia di un amico” (Proverbi, 27, 6).
In questo momento mi preoccupa, la questione. Ho scoperto che non c’è amicizia che sia incondizionata e questo mi destabilizza definitivamente. Come è possibile che le frecce lanciate da un amico non lo trasformino in un non-amico?
Per il lavoro di Copenhagen: scrivere sui muri “Maria ti amo” in russo e Museum a lato di tutti i luoghi di cui conservi memoria. Scrivi all’Unesco perché te li protegga con il suo Blue Shield.
Il problema delle italiane (delle europee meridionali) è questa faccia espressiva. Ci vedi tutta l’autocommiserazione con cui considerano se stesse. A quelle del Nord, almeno, non si muove il viso e ci vedi solo buon senso e mancanza di sentimento di colpa.
Rivendicare la propria mancanza di identità. E’ una qualità, non una macchia.
I miei amici sono sparsi nel mondo e non si conoscono fra di loro, oppure non parlano la stessa lingua. Non ho, quindi, un territorio proprio, ma solo intersecazioni e, a volte, traduzioni. Come l’ambasciatore di me stesso tiro il filo delle distanze tra punti lontani e mi perdo nel percorrere questo filo. Mi pare che la ragione di tale dispersione sia in un movimento che è sul piano, sulla topografia piuttosto che nella profondità. Il mio luogo non è, certo, il pozzo di San Patrizio, in cui chi scende risale senza rifare lo stesso percorso e senza incontrare chi va in senso inverso.
Mi pare che, se non altro, non mi affatico più ad avere risentimenti. Lascio che le mie energie vengano consumate, semplicemente, dalla contemplazione del tempo che passa.
Gli uomini incontrati in prigione: erano, per lo più, brave persone. Quando non lo erano, erano idioti.
Un’architettura della conversazione. Sotto un paracadute appeso fra gli alberi, in uno spazio proprio e allo stesso tempo aperto a chiunque, senza condizioni. Non sarà accoglienza, perché non vi sarà pericolo, ma almeno esercizio di ospitalità.
Stamperò il Blue Shield dell’Unesco su tante magliette bianche, e le spedirò a persone in zone di guerra. Così verranno protetti in quanto patrimoni culturali.
Quella è talmente paranoica che interpreta financo la respirazione del suo amante. Poi quello la lascia e lei non sa perché. Quell’altra non può avere, attualmente, che delle “relazioni leggere”, perché ha da scrivere una dissertazione. Poverina. Meglio di tutte C., che ha incontrato infine un uomo che è bello e intelligente ma, che vuoi, è anche antipatico.
Tornato nei luoghi della sua adolescenza, dopo lunga assenza, il nostro eroe ritorna rivisita ripercorre i luoghi. Sono sempre sono quelli, cosa vuoi che sieno divenuti.
Quando viene in questa città deve a volte attendere ore fra un appuntamento e l’altro. Allora siede in macchina, o cammina in tondo in una piazza di mercato. Il mercato è chiuso, permangono gli odori delle merci. Più forte degli altri e più corrotto quello di pesce. Uno degli appartamenti che aveva avuto, diciamo, venti anni prima? stava a un piano ammezzato e dava proprio su un mercato e sui banchi del pesce. Veniva la sua donna a trovarlo, o rientravano insieme, erano le prime settimane del loro amore, lei a volte rimaneva mezza nuda avanti a lui, col petto scoperto e alla vita ancora una gonna bianca lunga, quando risente quest’odore di pesce putrefatto questa è l’immagine che gli torna.
Finora è sempre stato un ospite. Chissà se mai diverrà un ospitante. Forse in questa città dove ora torna, reduce. Comprerebbe allora buoni vini – quelli sarebbero gli unici contenuti del suo frigorifero – e avrebbe così di che offrire, se mai ne capitasse l’opportunità.. Anche la casa con le finestre sul banco del pesce era una casa prestata. Ne era proprietario un amico di amici, cameriere di birreria, che tornava a notte fonda e, quando il nostro eroe era rimasto sveglio ad attenderlo, gli raccontava di non potere intendersi con i propri genitori, perché, vedi, loro sono socialisti e io comunista, cosa vuoi.
Nel parco, che è piuttosto una foresta, mi perdo e mi prende il panico. Attraverso valli in cui i tronchi caduti sono coperti di muschi così verdi da parere fluorescenti. Vedo funghi gialli, giallissimi, che non colgo. Calpesto pigne, edere e rami secchi. Distinguo infine un muro, che mi metto a seguire. Cammino sui rifiuti, da ciò capisco che c’è una strada lì dietro. Per raggiungerla debbo salire su un albero e da quello calarmi sul bordo del muro e saltare giù dall’altro lato. Mi faccio male alle caviglie, il muro era alto davvero. Risalgo la stradina e due metri più in là ecco un bel buco, ci sarebbe passato un rinoceronte.
Necessità delle cerimonie. Il momento in cui pianto la stele, o inchiodo l’opera al muro, o fisso il luogo dell’installazione. E’ quella la cesura, la dipartita e il battesimo. In Norvegia, sul monte, non potevo lasciar andare le steli rossi, una volta piantate, se non innaffiandole. Non avevo schnaps con me ma solo una lattina di birra tiepida, l’ho vuotata davanti alle steli e mi sono sentito più leggero.