Litania dell’ignavo (1991) prima parte

Ma cos’è questo, cos’è ciò io non lo so io. Sono sempre stupito davanti alla vita io, sono come un eterno bambino, sono io, sono sempre in stupore davanti al mondo, ma questo non mi piace vederlo no, non mi piace no, non mi stupisce ma mi affligge solamente ciò, mi affliggono davvero queste manifestazioni di intolleranza, questi casi patologici di violenza reciproca, questi gesti inconsulti, ecco per esempio chissà cos’ha quello da prendere quell’altro e da sbattergli la testa contro la persiana, chissà cos’ha, chissà, la quale persiana risuona seccamente all’urto, risuona nella via assolata, isolata, che sale a perdita di vista, ma cosa vuoi che ne sappia io, di ciò che quei due si tengono in sospeso, cosa vuoi che ne sappia, io, dei loro affari, e se mi allontano per la mia via, se per i fatti miei me ne vado, non è certo per ignavia ma solo per discrezione, se lo capite questo non so, fatto è che.
Fatto è che.  Che, ma sì, sulla via del ritorno verso casa, sul ritorno dalla mia passeggiatina, mi trovo ad assistere a un’altra scena edificante ed esemplare, perché questa è la situazione, oggi come oggi, e già perché qui se ne vedono di tutti i colori se ne vedono, e dato che la mia che concepisco in questo istante si vuole una cronaca fedele, bisogna che ne faccia menzione bisogna proprio così eh, già, e la scena cui mi trovo ad assistere e che mi darà modo di svelarvi una cosa interessante, di cui non poco vado fiero, di cui vado fiero non poco, di cui vado non poco fiero, e la scena è la seguente ed è che sulla via del ritorno mi trovo dal panettiere e chiedo un pane, il quale pane non è pronto, perché sta ancora nel forno, nel forno sta ancora e c’è da aspettare cinque, ma che dico, tutt’al più sei minuti sei, e dico allora al panettiere che aspetterò, aspetterò lì fuori e così è,  anche lui esce sul marciapiede che, lo si vede, non ha di meglio da fare, il panettiere, e il negozio vuoto è. Si sta lì fuori, lui sta appoggiato al palo del semaforo, io sto vicino alla vetrina, e cosa dirgli non so, non lo so. Trova lui da dire qualcosa, quando scendono la via tre donne, tre donne che manco a dirlo non sono della sua razza, tre donne come tante, che scendono la via ridendo e scherzando ed è una bella immagine questa di tolleranza libertà e convivenza di genti disparate su uno stesso marciapiede e, cosa vuoi, le guardo costoro e le seguo con lo sguardo e anche il panettiere le osserva o meglio le scruta e quando quelle passano dice loro parole lubriche che certo quelle non intendono e cui non reagiscono, lui invece è contento di sé e mi sbircia, cerca la mia approvazione o cerca di vedere se sono per caso delle parti sue, e d’altronde questo potrebbe essere perché io assomiglio a chiunque e a chicchessia, fatto è che costui, il panettiere, dice a quelle donne slurp e gnamm e io lo capisco, quello che dice, lo capisco perché io conosco e capisco tutte le lingue o quasi e questo non è un mistero né un segreto, con un metodo speciale sono pervenuto a questo risultato, apprendendo cioè centoventi parole ogni giorno ho imparato tutte le lingue, e ciò grazie a questa brillante ed efficace tecnica mnemotecnica accompagnata, ciò va detto, a un costante esercizio della volontà, giorno dopo giorno, – e in quarant’anni di giorni ce ne sono eh, se ce ne sono – tutte le lingue ho imparato. Cento e venti parole al giorno, giorno dopo giorno, tale è il mio metodo ed è così che conosco tutte le lingue, tutte le lingue, almeno, che val la pena di imparare, questo va detto, questo, e perciò va detto e infatti qui lo dico.
E così ho preso il mio pane e me ne sono andato, non ho detto niente al panettiere, a cosa vuoi che serva, e poi davanti a tali manifestazioni di intolleranza mi cadono le braccia mi, e rimango così di stucco, anzi torno a casa, perché l’impiego no, ma la casa sì, quella l’ho, la casa che mi ha lasciato la mia mamma, la casa dove vivo io e i gatti, che di seguito vi vado a presentare.

I gatti mi aspettano sempre dietro la porta, stazionano tutti dietro la porta, lo sanno che arrivo, lo sentono, e stanno tutti lì, ad aspettare me e la pappa, tutti tranne i quattro nuovi che ancora non escono dalla scatola di cartone. cosa dire di questi animali, di questi amici dell’uomo, non è che non li ami certo, che ciò non sia detto, ma a volte vorrei non dover camminare su questo pavimento animato e impellicciato, vorrei non dover essere il cuoco e il cameriere di quest’orda, ma l’ho giurato alla mamma sul letto di morte, l’ho giurato che non li avrei abbandonati, non li avrei, l’ho giurato sul suo letto di morte, eravamo io e i gatti intorno a lei e se pure non li ami più di tanto questi venti o trenta animali, cosa vuoi, eravamo lì insieme intorno alla mamma e una qualche cosa l’abbiamo condivisa, una qualche, intorno al letto, intorno al letto di morte della mamma, quando parlava ancora e mi faceva tante raccomandazioni e anche dopo, quando non ha più parlato ed è durata quattordici giorni prima di andarsene davvero, chi l’avrebbe mai creduto ma così è stato ed è andata così e così sia.
E così rientro in casa e mi porto in cucina, mi porto in cucina e apro le scatole con l’apriscatole elettrico che la mamma aveva comprato quando poteva ancora uscire, e impiegava una mezz’ora almeno a raggiungere il negozio di elettrodomestici che sta sul viale, e il viale sta a non più di sessanta metri dal portone di casa, ma piegata com’era a novanta gradi, e con un passo che non poteva essere più lungo della lunghezza di un piede, questo era il tempo che le occorreva, e poi lei si fermava a studiare i cestini della spazzatura o a discutere col macellaio equino e così è che quando usciva per una compera tornava dopo mezza giornata, ma ciò nonostante non voleva farsi accompagnare no non voleva, voleva andarsene da sola a comprare i suoi giocattoli elettrici, era proprio quella la sua passione, sì, quella era la sua passione. Cosa c’è in questa casa di materiale elettrico non so se riuscirò a elencarlo, vedremo.
Me ne torno dunque a casa, mi porto in cucina, come ho già detto, apro le scatole con l’apriscatole elettrico, le vuoto nei piatti che coprono quasi tutta la superficie del pavimento, che più non si può camminare in cucina più non si può, più, e così ottengo un’ora di pace. Vengo nel salone, scosto di un filo la tenda rossa, di colore rosso vino, colore saturnino mi hanno detto ma è quello che mi piace cosa vuoi, scosto di un filo la tenda rossa per avere un filo di luce sullo scrittoio, lo scrittoio della mamma, dove la mamma faceva le sue parole incrociate e dove io ho impilato i miei vocabolari, e dove il dizionario magiaro è aperto alla pagina 721 e così è che mi ci chino sopra con impegno e diligenza, in questo periodo lavoro bene, con buona applicazione, e in due mesi o giù di lì ho raggiunto la lettera g.
Siamo ancora nella maledetta estate, anzi siamo proprio in mezzo all’estate e debbo accendere il ventilatore, non posso certo aprire le finestre con tutto quello che ne viene come suoni come odori e come immagini, con tutto quello che, e debbo mettere in funzione il ventilatore che sta sulla consolle, anche se so che l’aria fredda mi darà il torcicollo, mi darà, ma che vuoi, così è, cosa vuoi farci.
Me ne sto seduto allo scrittoio, me ne sto applicato al mio vocabolario, me ne sto dietro la tenda rossa, di colore rosso vino, che fa nella stanza una luce rossastra, ma che ora sta un pò scostata, per farmi quel raggio che mi occorre sullo scrittoio, me ne sto in applicazione e non voglio saperne niente, soprattutto non voglio vedere fuori, non mi importa quello che succede nella strada, non mi importa e lo sottolineo, tuttavia ho di tanto in tanto, di rado però, qualche momento di debolezza o di stanchezza o un vuoto momentaneo nella testa e allora mi alzo e faccio il giro dello scrittoio, attento a non urtare con la spalla le pile di vocabolari e manuali vari, i miei utensili linguistici, e un minutino fuori ci guardo, ma un minutino appena. Quasi sempre c’è l’uomo col braccio al collo, alto com’è e coi suoi tatuaggi sul collo e sulle spalle, non si può non vederlo, quello. Se almeno un giorno gli togliessero il gesso potrei confonderlo con altri come lui, della sua razza e categoria, ma deve trovarsi in cassa malattia, per via del braccio senza dubbio, senza ombra di dubbio, e non ha di meglio da fare che oziare fuori del cancello del palazzo di fronte, fuori di questa immensa casa popolare che mi hanno costruito davanti alle finestre, questo immenso edificio dove tutte le razze e tutti i colori convivono e alla mattina, quando tutti escono per andare chi alla scuola e chi al lavoro, dio che cafarnao, dio che torre di babele sfila sotto i miei poveri occhi, fatto è che, non ha di meglio da fare l’uomo col braccio al collo che oziare fuori del cancello e davanti alle mie finestre, davanti alla mia vista. Me ne torno allo scrittoio, me ne torno alla lettera g.
Me ne sto sulla lettera g e in particolare sulla parola gerendapárkány, che significa architrave, quando suona il telefono, squilla la soneria dell’apparecchio telefonico e chi è, è una donna a nome Antonia detta Antonina per via di, non so perché, ma un giorno o l’altro glielo chiedo e questo è. Telefona Antonina e dice quant’è che non ci si vede vediamoci stasera vediamoci vieni da me stasera che ti faccio da mangiare che ti faccio la pappa buona che piace tanto a te. Cosa vuoi dire quando ti dicono così, bene, dico, vengo e verrò da te stasera, e a sera verrò e riattacco il telefono e già mi preparo, vado in bagno e mi faccio la barba con uno dei rasoi elettrici che la mamma m’aveva comprato, mi faccio ben bene la barba e mi sciacquo sotto le ascelle, mi faccio presentabile insomma, e poi non so, mi lavo il pisellino o non me lo lavo, ma sì laviamolo poiché non si sa mai, non che io abbia celate intenzioni per carità di dio no, non lo sanno queste donne che sono io il parsifal moderno, dov’è che l’ho letta questa, ma è per un fatto di correttezza in senso generale, di inappuntabilità direi addirittura simbolica, è per questo è, solo per questo e per ciò, sì.
Sono pronto o quasi, scelgo una bella cravatta a righe rosse e nere e me la metto, passando il collo sotto l’annodatrice elettrica, uno degli ultimi regali della mamma. Passo le scarpe sotto la lucidascarpe elettrica e sono pronto, me ne esco. Me ne esco nella via e proprio sotto il portone c’è da scansare questi cinque, a quattro contro uno ci si sono messi così non vale, e l’hanno messo quello con la schiena al muro, colla schiena al muro l’hanno messo c’è poco da discutere e a calci e a pugni lo scendono a terra, certo quello sì che è un buon incassatore, scende giù davvero pian pianino.
Ma già sto in fondo alla via, già corro dietro al 67 e con una bella progressione lo raggiungo alla fermata. Antonina non ha ancora finito di cucinare quando arrivo, c’è da aspettare ma non me ne irrito no, non me ne dispiaccio né me ne dolgo, mi limito ad alzare la fiamma sotto i tegami quando lei per un motivo o per l’altro va di là, d’altronde quando lei torna la riabbassa e peraltro quando lei si allontana la rialzo, la fiamma, e così via facendo finché il cibo non è pronto. E poi, per farla corta, si passa di là e si consuma il pasto, e il pasto è consumato e poi non mi muovo dal mio posto, cosa aspetto non so, mi pare che lei sia stanca, vista la sua improvvisa laconicità e la disattenzione al mio dire, è vero certo che parlo un pò a forza, che spingo avanti le parole e quelle non mi vogliono lasciare, se ne vanno a malincuore ma Antonina le raccoglie con ancora meno cuore. E’ confusa la mia testa, cosa vuoi, notte e giorno a faticar e il vino Antonina è finanche finito, tieni qui quello che resta, bevi tu il fondo del mio bicchier. Lei s’avvicina e beve in piedi a me difronte, tiene il bicchiere a due mani come fosse una coppa di fiele o, se per caso esagero, come una tazza di tisana, come volete voi. Rimango seduto e, per non guardarla negli occhi, che in questo quadro si trovano proprio all’altezza dei miei, fisso con ostinazione, con tenacia, un punto fisso sul tavolo, gli è che percepisco qualcosa, cosa c’è, c’è che lei posa il bicchiere e m’abbraccia ma che fa, per la precisione mi mette le braccia intorno alle spalle e mi preme il viso sulla fronte, rimane così in piedi, va bene non è che sia contrario a tutto ciò, ma vogliamo essere precisi e chiari oppure no? E le faccio un bel discorso le faccio, le dico che no, qui non rimango perché il giorno dopo poi, il quadro non è tondo, e il giorno dopo si sa come è, sai com’è ma devo essere sincero devo essere corretto non gli è che possa promettere niente non sia mai non sia e non posso approfittare così no non posso no, non siamo mica qui, mi pare, nel quadro di un giorno dopo migliore. E glielo dico e glielo ripeto che sto per andare via, ma cosa vuoi è come una febbre come una malattia e lei è lì che non muove bocca e invece muove mano, e si sa che dove stanno le parole lì non c’è posto per le mani, e viceversa, dove stanno le mani non c’è posto per le parole e cosi è, però glielo dico che va bene accada pure ciò ma che sia per una sola volta, una volta sola e mai più, ma è certo ormai che qui e ora e in flagrante delicto ormai ci si trova a essere e cosa vuoi quando ti si conduce su un divano e ti si estrae dal pantalone quello che ti si estrae (e fortuna che, quanto a igiene e pulizia, ero stato previdente), quando ti si estrae quello che ti si estrae e gli si fa quello che gli si fa, cosa vuoi, la carne è carne e anche la carne ha la sua anima e che dire, rimango, mi trattengo, ma non più di quanto sia necessario all’atto, e quando lei si distende, si rilassa, dico che vado, cosa vuole, non vorrà certo che stia lì tutta la notte, e il mattino poi, come vuoi che sia presente al mattino, con le necessarie operazioni che ne conseguono, come vuoi che ti veda nella luce del mattino, cerca di capire, e poi ho da pensare ai gatti, cosa vuoi, ho le mie responsabilità io, e sono anche loro esseri umani, pardon, viventi, cerca di capire, cerca, e così dicendo non dico più altro perché se si fa posto alle mani, non ce n’è più per le parole, e poi mi rivesto e la saluto dalla porta, cosa ci posso far è come una febbre come una malattia, mi è sempre piaciuto chiudermi le porte alle spalle ed essere l’ultimo, e lei resta sul letto e mi guarda uscire, mi guarda con occhi proprio fissi e io esco poi ritorno perché ho scordato la cravatta, poi riesco e torno a casa a piedi dacché è tardi gli autobus non passano più, in un’ora torno a casa è un tragitto senza storia, sotto il portone di casa sta disteso quello di prima, il buon incassatore di cui prima, se ne sta lì da solo e disteso, non è in grado di ricevere un invito a bere qualcosa, me ne risalgo in casa, c’è da dar da mangiare ai gatti e da provvedere a ciò. Dopo posso accendere le candele sullo scrittoio e rimettermi al lavoro, che già mi avvicino alla lettera h, il cui studio sarà di maggior durata, perché conta tale lettera maggior numero di vocaboli che non la lettera g su cui sto attualmente chino e così il tempo passa, passa bene, Felicita mi viene sulle ginocchia, vi si addormenta e mi impedisce così di alzarmi, perché non posso certo disturbarla, ed è bene è bene così.
Ma non rimango al vocabolario che un quarto d’ora perché il telefono suona, squilla il telefono e mi alzo per rispondere e come mi aspettavo c’è un silenzio, sempre così fa lei, mi lascia questi cinque secondi di attesa prima di dire “sono io”, mi dà questi secondi, utili per riprendersi e prepararsi e dirla una bella frase pronta, una bella frase pronta per Wilhelmine che telefona e domanda dove sono stato finora, ché è tutta la notte che chiama, tutta la notte no, dico io, ché non è ancora finita, la notte, come dimostra il colore del cielo e il silenzio nella via, tutta la notte no, ché non è ancora passata, e quella che è passata l’ho passata a camminare, lo sai bene che la marcia e il tabacco sono le mie uniche consolazioni, sono.
No, fa lei, eri con una donna, lo so, perché non dirlo, perché non dirlo orsù, gli è giusto per sapere  ché, per me, puoi andare a letto coi tuoi gatti, gli è giusto per sapere. No ti dico le dico io, ero fuori a camminare cos’altro vuoi che faccia e poi una volta te l’ho detto e pensavo fosse abbastanza, te l’ho detto una volta per tutte che io non mento mai, mai non mento ad amici ed amanti. Se è così, dice lei, allora sia, ma non so, dice, se prendere un tassì e venire a chiaccherare lì da te, forse lo faccio, forse vengo e per ora ti saluto.
Verrà non verrà chissà. Vediamo, calcoliamo, diamole il tempo di prepararsi chiamare il tassì arrivare fin qui, le occorrerà un’ora un’ora e un quarto tutt’al più, ho il  tempo ancora di imparare una ventina di parole e sistemarmi un pò, magari faccio finanche una doccia perché non si sa mai, mai si sa come le cose vanno a finire. Passa un’ora e sono pulito lavato e vestito, mi seggo allo scrittoio e sfoglio un dizionario, mi ripasso un poco di polacco, che ultimamente ho forse tralasciato, sì a ripensarci debbo dire che ultimamente il polacco l’ho un poco trascurato. La via è silenziosa, e del resto è l’ora che è. Un’automobile si ferma e parcheggia ma non è un tassì, i tassì si riconoscono all’udito, per via del motore diesel che va a gasolio e perciò, fa quel tipico rumore caratteristico, quel tipico borbottìo dei motori diesel che vanno a gasolio. E a un certo punto lo intendo, che indugia all’altezza del portone, no, scosto la tenda, la tenda rossa di cui sopra, no, la scosto e guardo giù, no, guardo giù e giù non c’è lei, non c’è lei ma c’è solo qualcuno che viene spinto fuori dalla portiera, viene spinto fuori e quando il tassì se ne riparte quello se ne rimane così, come quello di prima, il buon incassatore, così anche lui allungato e senza moto, accosto al marciapiede.

Ma c’è ancora tempo, perché cosa vuoi lei è fatta così, ché ama farsi attendere, ah ma quando verrà la stupirò. Mi porto nel bagno e mi colloco davanti allo specchio, mi sottolineo le palpebre con la matita nera e, perché no, mi metto un filo di rossetto sulle labbra e mi riguardo nello specchio e non mi trovo poi così male no. Un’altra mezz’ora è passata, un rumore di motore diesel che va a gasolio viene dal fondo della via, scosto la tenda per vedere, è solo un camioncino che passa oltre e neanche l’uomo disteso c’è più non c’è proprio più nessuno no, non c’è nessuno. Torno nel bagno, ora le farò vedere, le farò, lei non sa chi sono io, no, è chiaro che non lo sa ma lo saprà. Mi metto davanti allo specchio, mi sfilo la camicia, prendo dalla mensola un rasoio e con quello mi colpisco il petto, il petto mi martirizzo ma no niente paura è un rasoio usa e getta questo, non fa tanto male e il manico si piega e si spezza, ecco è già fatto, ah, se avessi posseduto uno di quei rasoi come si usava un tempo, uno di quelli che si affilavano sulla striscia di cuoio ma no, invece no, dispongo solo dei rasoi elettrici che la mamma mi aveva regalato e di due o tre di questi usa e getta, molto usati e mai gettati, con cui uso depilare Felicita e Lotte ed Esterina e non è che faccino più granché, un bruciore, un pizzicore appena, tutto qui. Ma qualcosa pure ne viene, lo vedo quando rimetto la camicia e una macchia rossa appare e s’allarga all’altezza del cor, tutto sommato ne viene una bella macchia, la si nota a prima vista, questa gliela farò vedere gliela, e se non viene, gliela spedisco a casa, domani gliela spedisco, sì, domani, così vede che uomo è quello che perde, così lo vede tanto peggio per lei, domani gliela metto in un pacchetto e gliela spedisco a casa, perché ormai non viene, il tempo io glielo avevo dato e non l’ha voluto e peggio per lei sì peggio è per lei.
E già viene il giorno, e pian pianino il cielo si fa grigio, viene quel lucore, quel lucore mattutino, viene un altro giorno, e anche in questo giorno dovrò fare un fioretto, una buona azione, anche oggi dovrò, anche oggi mi aspetta un bel pezzo di lavoro.
Mi tolgo questo nero dagli occhi, bagno un pezzo di ovatta e me lo passo sulle palpebre, sfrega stropiccia e strofina rimane sempre come un alone scuro non fa niente uscirò con gli occhiali da sole e difatti infilo gli occhiali e me ne esco. L’ora è ancora mattutina, difatti il lattaio non è ancora  non è ancora passato e i negozi sono ancora chiusi ma, ma al mercato i banchi sono già allestiti, frutta e verdure sono già in bell’ordine esposti e alcuni cartelli coi prezzi sono già appesi, segno questo che si può comprare e si può vendere, e già nell’aria ancora frescolina indugiano davanti ai banchi i primi clienti, con le sporte e con i carrelli, e fra questi primi clienti una donna vestita di lamé che compra una mela golden una e neanche l’ha pagata e già l’addenta e cosa vuoi, già mi pongo all’inseguimento, questa donna si avvia e già io la seguo, la seguo lì dove va lei, e dove va lei, lei va alla stazione della metropolitana, accanto a lei attendo il primo treno. Il primo treno si fa attendere si fa, cos’altro fare se non guardare la bella nuca e anche i due che si parlano da una banchina all’altra, così, davanti a tutti si parlano dei fatti loro, certo non sanno che non tutti possono capirli ma io sì, io che conosco non tutte le lingue ma quasi tutte, e la loro fra quelle. C’è lì il lancio del pacchetto, uno dei due chiede una sigaretta all’altro dei due e costui gli lancia tutto un pacchetto, quello lo afferra con buona elevazione, sfila una sigaretta e rilancia il pacchetto ma questi non ha altrettanto stacco e la sofisticata confezione rotola sul rude asfalto e questa è una bella immagine del contatto fra le cose differenti e questo è bello a vedersi.
Il treno arriva e ci si entra, me ne sto a distanza dalla donna ma, certo, non la perdo di vista e quando la vedo scendere scendo anch’io, e ci si porta entrambi ad un’altra banchina, dove ci aspetta un altro treno che corre in un’altra direzione. Qui ho modo di assistere a un episodio veramente esemplare e davvero degno di menzione.
Sul marciapiede difronte accade un episodio, e cioè si pone in atto, anzi si mette in essere, il pestaggio di una persona da parte di altre tre, trattasi di due tipi vestiti tutti di cuoio che tengono fermo un vecchietto, senza sforzo alcuno e si direbbe financo con una certa dolcezza e capacità di persuasione, e lo tengono seduto su di un banco, mentre un terzo tipo lo prende a calci, il vecchietto, nella pancia, senza passione né accanimento e, come dire, si direbbe addirittura che ci pensi su, fra un colpo e l’altro, che ci rifletta con coscienza e amor di precisione, perché si guarda intorno e guarda al cielo, cerca l’approvazione degli astanti o quella di dio non si sa, ma ecco che già si decide, prende un plastico slancio e colpisce di nuovo il vecchio, che all’urto si solleva e sobbalza, non è che lo tenessero poi così per bene i due telamoni, ma cosa accade qui così ex abrupto inopinatamente, accade qui che qualcuno dal mio marciapiede si mette a urlare, è una donna ed è proprio la mia donna, questa donna dai capelli ossigenati e dall’abito di lamé, questa donna che non è ancora andata a dormire, che torna a casa stanca dopo una notte di lavoro e cosa fa, interviene inopinatamente e urla basta così smettetela basta così e si direbbe che quello vestito di cuoio non attendesse altro che questo, si volta tutto contento verso di noi che siamo sull’altro lato dei binari e chi è dice chi è, e la donna gli ripete basta così adesso smettetela e quello gesticola e sbraita e fa il gesto aspetta che ora ti faccio vedere io ti faccio e fa il gesto di scendere calarsi dal marciapiede e attraversare i binari poi ci ripensa e va alle scale per venire qui ed eccolo appare sulle scale di questa banchina e si avvicina ma cosa accade, cose mai viste, accade che tutta la gente che stava qui ad attendere e a guardare, tutta questa massa di alienati depravati e indifferenti si muove e si stringe, senza che parola sia profferita, e l’uomo si trova dinanzi a questo muro di persone che lo separa dalla bionda platinata e cosa vuoi che faccia, se ne torna indietro, e poi il treno arriva e ci si sale dentro, ed è il momento buono per parlare a questa donna, mi avvicino dunque e le faccio presente quanto sia ammirativo e come avrei voluto imitarla ma sa com’è signora mia siamo diventati tutti così vigliacchi, così ignavi, dico io, così apatici e accidiosi, così abulici e astenici, astinenti anzi vorrei dire ma non lo dico perché lei mi interrompe e mi dice che quando è troppo è troppo e il troppo stroppia e certo dico io, facendo mia quest’espressione desueta e forse provinciale, è proprio così, è proprio il caso di dirlo che era troppo e che quello lo stroppiava ah ah, e ci facciamo una risata sopra, come si dice e si dice così.
Dopodiché viene tutto naturale, la invito al bar, ma non dopo essermi presentato e difatti lei permette che mi presenti e mi presento e l’invito al bar, ma non subito, stasera invece, che ora subito mi trovo a essere impegnato, e su ciò e su un preciso appuntamento si scende dal vagone e ci si accomiata e io cambio marciapiede e prendo il treno nell’altro senso, me ne torno a casa ché oggi un bel pezzo di lavoro già l’ho fatto.
Me ne torno a casa, ma prima di tornare compro le scatole per i gatti, altrimenti chi li sente, quelli, cosa volete, questa è la mia schiavitù. Dal salumiere in fondo alla via compro le scatolette, facendo attenzione a evitare quelle di coniglio, che ai miei gatti non piacciono, cosa vuoi che ci faccia.
Torno in casa, nutro gli animali, ah cosa farebbero senza di me, nutro dunque gli animali e me ne vengo allo scrittoio, allo scrittoio me ne vengo e alle ultime colonne della lettera g del, se si ricorda bene, dizionario magiaro. Accosto ben benino le tende, accendo il ventilatore e perché no, mi preparo il caffè con la caffettiera, manco a dirlo, elettrica della mamma. Verso il caffè in una tazza africana che poso su un piattino cinese che porto sullo scrittoio art déco e non posso non rimarcare questo incontro di culture composite e diverse, di cui detto fra di noi non sono responsabile, poiché è la mamma, non io, che ha portato in casa tutto ciò che vi si trova e che io, rispettoso come sono, non rimuovo e, se vi dico che la mamma era una grande accumulatrice potete credermi non lo dico tanto per dire, armadi a muro e ripostigli rigurgitano di pezze scampoli e ritagli di stoffe multicolor, debordano di giornali vecchi e scarpe scalcagnate, straripano di fili elettrici e cacciaviti spuntati, traboccano di lampadine fulminate e fili di ferro arrugginiti, perché per la mamma tutto era prezioso e tutto era da conservare tutto era santo e tutto era sacro ed era peccato buttare checchessia, cosa vuoi, ci sono dei tipi così, ramassano e accumulano ed è meglio non uscire a passeggio con loro perché ogni due minuti si fermano a raccogliere e intascare una vite spanata, con la scusa che porta fortuna, un pezzo di spago scamuffo, per il motivo che quando devi fare un regalo poi ti trovi senza nastro per il pacco e così via dicendo, e sarà questa mania un oscuro retaggio di questa gente venuta dalla campagna, chissà, o sarà che questa gente, questa generazione della mamma, ha fatto la guerra e si sa che al tempo della guerra i tempi erano quello che erano.
Me ne vengo in fin dei conti allo scrittoio dove ho poggiato la tazza col caffè, Esterina mi viene sulle ginocchia e mi accingo, mi accingo dico a una bella mattinata di studio ma. Ma qualcosa mi disturba e interrompe prima ancora che io abbia iniziato e cos’è è il telefono che squilla, è il telefono che suona, e quando alfine rispondo ci sono lì quei secondi di silenzio, ma sì è lei, è la mia torturatrice, è la mia croce e il mio cilicio, è Wilhelmine che chiama, che vuole sapere dove sono stato sinora, ché mi chiama da due ore mi, cosa vuoi le dico, sono uscito a camminare, lo sai bene che il sigaro e la passeggiata sono le mie uniche consolazioni sono, lo sai, e del resto cosa vuoi, non è che non ti abbia atteso fino al mattino e venuta non sei, mi sembra che tu non sia venuta. Sì lo so, dice lei, lo so che non sono venuta, è che avevo qualcosa da fare, avevo da scrivere una lettera e il tempo è passato e non me ne sono accorta, cosa vuoi. Se è così allora, le dico. E’ così, è così, mi dice. Se è così allora, allora sia, passiamo ad altro, sì passiamo a noi fa lei a noi veniamo dobbiamo davvero vederci passare un tempo assieme, vediamoci non so, quest’oggi, vediamoci in un posto diverso, un posto nuovo e strano, non mi porti mai in posti nuovi strani e diversi e pure sai che bisogno ho io di vivere, di vivere e vedere e per ciò sono pronta a tutto, ma solo per tutto vivere e tutto vedere. E sia e sia le dico non mi costa sforzo capirti per quanto cosa vuoi io sono differente io non sono così, bastano a me poche cose due o tre per essere contento e soddisfatto, bastano a me le parche occupazioni, lo scambio d’affetto con i gatti, ché anche loro sono esseri viventi, e il cibo condiviso, e gli oggetti intorno a noi, non so, una penna spezzata e rimessa insieme con lo spago, un insetto che si dibatte nel suo annaffiatoio, non ad altro anelo, non ad altro che a queste cose semplici, che bastano a sé stesse e nello stesso tempo informano il nostro mondo sensibile. Ma se è questo che vuoi, Wilhelmine, se vuoi qualcosa di strano, qualcosa di diverso, non pensare che io non abbia i miei mezzi e le mie conoscenze. Se è questo che vuoi, ti ci porterò, Wilhelmine, in un posto strano e in un posto diverso.
Ti porterò, Wilhelmine, in un certo posto, e prima ti attenderò in una certa piazza a una certa ora davanti a una certa fontana, quella dall’acqua colorata di rosso, di rosso dico e non di blu, e questo all’ora che tu vuoi ma che sia quella, ché come sai non tollero i ritardi, ah niente è più incorretto che essere in ritardo, te l’ho detto mille volte. Sì sì ho capito l’ho capito dice lei me l’hai detto mille volte veniamo al dunque al nostro appuntamento, ci vedremo dunque alla tale ora nel tale luogo e qui ti dico arrivederci e qui ti dico arrivederci e forse addio, ti dico addio e forse arrivederci. E su tali battute Wilhelmine si congeda, così come mi congedo io da lei.
Su questo tratto me ne torno allo scrittoio, ché non dimentico di essere rimasto stazionario, fin da ieri, intorno a gerendapárkány, che significa architrave e, se non ricordo male, lì sono rimasto fin da ieri ma, prima di mettermi al lavoro l’abitudine mi spinge alla finestra, mi fa scostare la tenda e mi fa dare un’occhiatina fuori e mi fa rivedere l’uomo col braccio al collo, che ha le sue abitudini anche lui, eccolo lì appoggiato al cancello, eccolo che guarda chi entra e chi esce, e di gente che entra e di gente che esce ce n’è, è un palazzo quello immenso e come il labirinto, che solamente fra scale e cortili ne avrà centotré. Una casa popolare come questa è proprio un termitaio e ne contiene di tipi umani, ne raccoglie di esemplari di varia umanità e qualcuno ve ne mostrerò. Ma quello che vorrei ora è tornare al mio studio, rivenire alla mia applicazione, e vorrei che distrazione stata non vi fosse, perché ridendo e scherzando abbiamo fatto mezzogiorno e le mie centoventi parole se ne vanno a farsi benedire se ne vanno, mentre io ozio indugio m’attardo e temporeggio. Su, su, bando alle ciance veniamo ai fatti, veniamo allo scrittoio e imprimiamoci bene in mente queste dieci dozzine di parole, poi facciamoci belli, mettiamoci una camicia indosso e non se ne parli più, usciamo nella città.
Usciamo nella città e dirigiamoci dove abbiamo dato e preso appuntamento e andiamoci di fretta perché si è fatto tardi e sì mi affretto, mi spiccio, mi sbrigo e come dio vuole arrivo, arrivo davanti alla fontana colorata e ne faccio il giro, ci giro intorno e nessuno sta in attesa, neanche Wilhelmine, e passa mezz’ora e lei non compare, e passa un’ora e lei non viene, e passa un’ora e mezza e lei non si presenta, ah ormai non potrò più dirle alla buon’ora! come avevo pensato, no, non mi rimane altro che andarmene e me ne vado davvero mi allontano ma passato l’angolo ci ripenso e torno lì, ma solo per un breve passaggio compiuto il quale vado via davvero.
Vado via davvero e dove vado, vado nel posto che avevo previsto, che conosco bene perché è quella l’accademia dei perdigiorno, è quello il mio territorio di caccia preferito, se posso esprimermi così, ed è lì che trovo quasi tutte le mie vittime, se posso chiamarle così, e si può dire che quello era il mio salotto e il mio burò, prima che la mamma mi accogliesse, prima che mi lasciasse la casa e i gatti e prima che anch’io infine avessi una vita regolare come tutti i cristiani con tutti i crismi e come tutte le persone che si rispettano. Lì mi recai e mi recavo e mi sono recato e mi reco ancora non perché il posto sia inusuale e strano, ma proprio per le belle conoscenze che vi si fanno, come ho già detto e come vi sarà qui infallibilmente mostrato. No, non sono persone straordinarie no, non sono tipi singolari quelli cui m’interesso nel parco delle attrazioni, non è il nano senza braccia e senza gambe, che scrive a macchina con la forza del pensiero, non è la contorsionista svizzera, che passa attraverso una scatola di fiammiferi svedesi no, le mie conoscenze immancabili sono le sartine e le pasticciere o come le vuoi chiamare, comunque quelle giovani donne che escono con le amiche, per svagarsi un pò, per distrarsi un pò dopo una giornata di duro lavoro. Ed è così che mi trovo a vagare fra un baraccone e l’altro, adocchiando e qui e là, finché non viene una buona occasione, l’occasione che viene a piovere e questo non era stato previsto no, nessuno ha previsto come ripararsi dalle intemperie. Rapido come un fulmine io, che sono uomo di mille risorse, esco dal parco, traverso la via, entro in un negozio di penne e valigie e compro un ombrello, un ombrello da pochi soldi, un modello davvero economico perché non c’è ragione di sprecare il proprio denaro e a casa ne ho uno della mamma che si apre e si richiude, inutile dirlo ma lo dico, elettricamente.
Torno nel parco e detto fatto ecco le mie due sartine, o pasticciere che dir si voglia, o fossero pure studentesse, che indugiano al riparo di un gazebo e non si decidono a uscire all’aperto, ma questo è proprio un giuoco da ragazzi, non ho che da avvicinarmi e offrire la protezione del mio ombrello e, quando questa è accettata, il resto è, come dire, un gioco da ragazzi, ci si prende la libertà di offrire un gelato alle signorine e poi non ve la faccio lunga, fatto sta che domani incontrerò le mie nuove conoscenze alle ore sedici in punto davanti al cinema Metropole.
Ma ora debbo accomiatarmi dalle due giovani, perché fatto è che ho un altro appuntamento, un appuntamento che è anche di lavoro, ed è contro la mia etica, che è etica dell’impegno e del lavoro, arrivare in ritardo a un appuntamento di lavoro. Ritrovo Salomé in un bar poco lontano, Salomé è la donna bionda di stamane, quella che urlava nella metropolitana e a cui mi sono in seguito accostato, la ritrovo in un bar, è già lì che aspetta, che aspetta e fuma una sigaretta, mentre mi avvicino con un bel sorriso. La conversazione nel bar è di breve durata e di insignificante contenuto e non vale la pena qui riportarla qui e non lo farò. Verrò piuttosto ai fatti, e i fatti sono che ci si è alzati e si è usciti dal locale e ci si è diretti all’abitazione di Salomé e qui giunti ella mi ha fatto accomodare su un divano e ha preparato qualcosa da bere, ha preparato una bevanda di sua confezione, che mi ha servito in certi bicchierini  grandi come ditali, per poi sedermisi accanto e bella questa camicia hawaiana ha detto e ha iniziato a sbottonarla e poi siccome mi passava la mano sul petto, sotto la camicia hawaiana, ha sentito delle asperità e ha voluto vedere ha voluto guardare e cosa sono queste cosa sono questi segni ancora freschi che cosa ti sei fatto, ah sì ho risposto sono stati i gatti, anzi è stato il gatto che mi è salito sul petto per raggiungere un moscone ma il moscone è scappato via e voilà, non è menzogna. Più che di gatto paionmi queste tracce di tigre, dice lei, ma disinfettato ti sei, ti sei messo qualcosa lì sopra che cazzo che pare tutto infettato? Beh sì ho risposto io nervoso, perché divento sempre nervoso quando ci si prende troppa cura di me, troppa pena per me si prende, mi fa pensare alla mamma ciò mi fa e mi vien da piangere mi vien, beh sì ho risposto io, ci ho passato l’allume quello che usi quando ti tagli col rasoio non so se lo conosci, brucia un pò ma efficace è. L’allume ma cosa mi dici mai ma cosa mi tocca di sentire dio me ne scampi e liberi ma senti questa questa è buona per davvero ora ci penso io. Se ne va nel bagno e torna con qualcosa, io sbuffo e protesto ma lei mi mette a tacere con un bacio e mi disinfetta il petto, me lo fa diventare tutto rosso ma cosa è questo dico io, non è niente è solo tintura di iodio, ah se è così allora. E adesso veniamo alle cose serie dice lei dopo aver riposto le sue boccettine le sue ampolle e le sue ovatte, veniamo alle cose serie dice lei e io le faccio ma lo sai che ciò accadrà una sola volta, mai più di una  questa è una regola per me. Come tu vuoi risponde, non è affar mio questo, chi paga sei tu. Anche questo è vero dico io, sfilandomi la cinta, e veniamo al dunque che non sto qui a raccontarvi perché anche da soli potete immaginare, e dopo mi rivesto e anche questa è fatta e di Salomé qui non si sentirà più dire.
Torno a casa, torno a casa e più non se ne parli, dò da mangiare ai gatti, mi metto allo scrittoio, ché io a dire il vero sono un tipo contemplativo, altro non sono a dire il vero che un tipo contemplatore, e ho bisogno di calma e solitudine, questo è. Me ne torno a casa mia, nutro i gatti miei, mi seggo allo scrittoio, me ne sto coi miei vocabolari, non venite a dirmi altro, basta.
Non mi venite a dire che chiamerà Wilhelmine, ah troppo facile sarebbe, ma sì invece, Wilhelmine chiama e dice ma cos’hai fatto perché non sei venuto, come non sono venuto dico io, ma se sono ancora tutto invelenito per causa dell’infeconda di te attesa, se sono ancora, ma se ti ho atteso per due ore e più, davanti alla fontana rossa, la fontana rossa, fa lei, ma quale fontana rossa, ma se mi hai detto ci vediamo alla tale ora davanti alla fontana blu, non sono mica cretina non sono, ah no faccio io, ma quale blu, era la rossa ti dico e ti ridico, ma ormai quel che è stato è stato, non stiamo a sottilizzare, insomma, per non farvela lunga c’era stato un equivoco, un malinteso, un qui pro quo e ciascheduno aveva atteso in un posto diverso, sì peccato dai non fa niente è andata così cosa vuoi non piangiamo sul latte versato, non buttiamo il bambino insieme con l’acqua sporca, restauriamo piuttosto questa nostra relazione che si è così consunta e logorata in un eterno gioco del dare e dell’avere, del concedersi e del sottrarsi, sì sì dice lei, sì anche tu mi manchi lo sai ma chissà che non sia troppo tardi dice lei, come troppo tardi dico io, sì troppo tardi, dice lei, vista la situazione nella quale mi trovo, come quale situazione, dico io, cosa intendi dire, e palpitar il cor mi sento. Vieni qui, dice lei per tutta risposta, vieni qui presto prima che. Prima che, cosa, mi allarmo io. Prima che, non so, mi sto per addormentare. Come, mi chiami e ti appelli a me solo per dirmi che vai a dormire, dico io poi capisco e le dico aspetta aspetta che arrivo aspetta solo mezz’ora. Riattacco il telefono e già sono fuori di casa, già sono in istrada e già corro alla stazione dei tassì, già sono nel tassì e dico all’autista di affrettarsi, di precipitarsi, di correre insomma e in meno di venti minuti mi trovo all’indirizzo richiesto. Salgo di corsa i sei piani, arrivo con l’affanno che si immagina davanti alla porta di Wilhelmine e sulla porta trovo appuntato un biglietto: stanca di attenderti, sono andata in un bar, in buona compagnia. Forse questo messaggio riguarda qualcun altro, l’ha dimenticato sulla porta, suono e risuono il campanello, non c’è risposta, non c’è movimento all’interno,  qui bisogna cervello adoprar, cosa far, introduciamoci nei luoghi. Vediamo se fra le mie chiavi c’è quella buona, sì c’è. La porta si apre, penetro nell’oscurità ambiente, mi avanzo nell’abitazione. Accendo le luci nelle stanze, in casa non c’è nessuno. In salone non mi avventuro, i dischi e le copertine di dischi tutti sparsi coprono il pavimento, coprono tutto, sarebbe difficile non calpestarli, ma che confusione, ma che disordine, e i posacenere pieni di cenere, e i piatti non sparecchiati, lasciati così sul tavolo con tutti gli avanzi dentro, vedo bene che due persone hanno qui desinato, ma quando, chissà. E nel bagno, tutta questa polvere sulle mensole, e la spazzola con le ciocche ammatassate, e l’accappatoio lasciato in terra, no non sarò io a mettere ordine qui dentro, e in cucina, il barattolo di minestra precotta, consumata a metà, lasciata sul tavolino a coprirsi di muffa, e i piatti nell’acquaio, staranno lì da un mese, ma cos’è questo io mi domando e dico, e in camera da letto, meglio non parlarne, meglio rispegnere le luci, uscire e chiudersi la porta dietro, dietro le spalle, e tornare nella città.

 

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