Prontuario del protervo seconda parte

Non mi attarderò sulla palpabile emozione che il mio breve ma ardente discorso aveva prodotto sull’ uditorio lì convenuto. Dirò solo che, mentre la maggioranza dei convitati si affollava presso le tavole del buffet, un comitato ristretto si riunì nel sottoscala, e non mi costò fatica trarre del tutto a me gli animi già impressionati dal mio “speech”, così come convincere gli ele­menti più riottosi fra i membri del Consiglio Direttivo della S.M.S.P.P.D.

E fu con un sentimento di soddisfazione per il buon lavoro compiuto, e per distendermi un po’ dopo questa giornata cruciale e febbrile che, consumato un breve spuntino presso un chiosco di piazza delle 120 Giornate, mi recai al Circolo per la consueta partita serale di boccetta americana. Nessuna importuna telefona­ta mi disturbò costi quella sera, e fu veramente a cuor leggero che me ne tornai a casa, feci una doccia, mi rasai (per non perdere tempo l’indomani mattina), infilai un pigiama di raso nero e mi misi a letto con un buon libro (quella sera: le Odi Barbare del Carducci, in una speciale edizione in pelle di cucciolo foca , of­fertami da papà per i miei quarant’anni).

L’indomani, destatomi come sempre di buon’ora, ed eseguiti al­cuni semplici esercizi ginnici, e fatti i miei cento giri di corsa lungo il muro di cinta del giardini, e frizionatomi il corpo con l’acqua di colonia, e consumata una frugale prima colazione, e accesami una delle mie pipe lunghe come corni svizzeri, per cui vado noto anche oltrefrontiera, e che sono manufatte in esclusiva per me da un artigiano dei Grigioni, ed effettuata la lettura quotidiana dei giornali, e ritagliatine e segnatine i passi salienti con la matita rossa e blu (sarebbero pervenuti al babbo in matti­nata), e scelto l’abito da indossare quel giorno, un giorno dav­vero speciale, per cui andava scelto un abito altrettanto specia­le (e difatti non senza esitazioni e ripensamenti optai per un completo tre pezzi colore azzurro cielo, con panciotto giallo oro e pantaloni svasati in fondo, che non era senza ricordare taluni modelli maschili un po’ “osés” del mio stilista preferito (mi cadeva bene? sì mi cadeva bene), e calzato un bel feltro bianco a strette tese e nastro marrone (mi calzava bene? sì mi calzava bene), e trasmesse alcune concise di­sposizioni all’ impeccabile Antonio, uscii nella città, sì.

Puntuale come sempre mi presentai dalla Sonia e, come di consueto, bussai con i piedi, volendo significare con ciò che avevo le mani troppo occupate per poter bussare con quelle, e cioè questo vole­va dire che non mi presentavo no a mani vuote e difatti, oltre a un pacchettino di babà al rum, portavo un piccolo dono, un gradi­to omaggio che quel mattino stesso l’ineffabile Antonio, seguendo le mie precise istruzioni, mi aveva procurato, e quel semplice oggettino, giuntomi appositamente dalla Val Gardena, era una per­fetta riproduzione di una baita alpina, tutta di legno di abete e quindi deliziosamente odorante di resina, al centro della quale troneggiavano due cuori dipinti di rosso, allacciati da una ban­deruola azzurra, sulla quale era scritta in lettere dorate la la­pidaria frase: “due cuori e una capanna” .

Venni introdotto nella camera della Sonia. Vidi che quel giorno ella aveva preparato uno dei suoi piatti forti: pollo coi peperoni. Era un piatto di origine cecoslovacca. Insieme con i babà al rum, di cui la Sonia era molto ghiotta, e di cui si rimpinzava non appena io mi giravo dall’altra parte, questo era uno dei rari “strappi” alla sua ferrea dieta.

Quel giorno, mi ricordo ancora, la Sonia sfoggiava una giacca di cuoio marrone, con frange penzoloni alla cao boi, calzoni bian­chi di maglietta, molto aderenti, scarpe marroni con tacco a spil­lo, che snellivano il suo polpaccio forse appena un poco muscolu­to. Al collo, sopra la maglietta alla marinara: un foulard leggero, a pois rossi su fondo bianco. Ma quel giorno, più che su altri dettagli, mi attardai sulla sua manina, la sua manina rosa usa a coglier viole e carezzar pargoletti, la sua manina artistica (di­ta affilate, palmo e attaccatura del polso ben proporzionati, pol­lice diviso in due falangi di eguale lunghezza, come un Dante Gabrie­le Rossetti avrebbe potuto dipingere), la sua manina che presentava un anello di Venere largo come un Vallo ia Lucania e una linea della vita diritta come un’ autostrada nella foresta amazzonica, segni certi questi di buone predisposizioni artistiche e vitali, la sua manina tranquilla e lieta, che parlava d’amor, di primavere, che parlava di sogni e di chimere, di quelle cose che han nome, a buon intenditor, poesia.

Ma cosa non vidi quel giorno su quella manina rosa, cosa non ti vidi, non ti vidi un segno, no sì lo vidi sì un segno rivelatore e lo vidi invece proprio lì, su quella manina rosa, fra la percus­sione e l’indice, la vidi sì quella linea del cuore così spezzata, cosi frammentata, lo vidi sì quel disastro di linea, segno sicuro di incostanza e infedeltà, e il sangue mi si raggelò nelle vene, ed è così che, da quel momento, all’uomo felice ch’ero io, stette il sospetto accanto, e fu da allora che nascosi a tutti la mia vera tortura, la tortura della gelosia!

E del resto, e d’altronde, non l’avevo forse letto, il mio oro­scopo, quel mattino, e cosa diceva, eh, nero su bianco, che cosa diceva, lo so a memoria quello che diceva: “Persona e lavoro: sol­tanto nella seconda metà della settimana troverete quel coordina­mento tra pensiero e azione che garantisce il successo nell’im­presa. Intanto cercate di dare più ascolto a chi vi è vicino. Affetti: per colpa della vostra fantasia rischiate di amare una persona diversa da quella che avete creduto. Dovete essere molto più cauti. Salute: cautela con il cibo. Giorno favorevole: venerdì”.

Eh, sì, in un certo senso me l’ero cercata! Ma non feci in tem­po a portare alle dovute conseguenze questa mia scoperta, almeno sotto forma di rimproveri recriminazioni e rivendicazioni varie, che mi si venne ad annunciare una chiamata telefonica: era il fe­dele Antonio; mi disse che il papi mi chiamava presso di sé con la massima urgenza. C’era qualcosa di strano nella sua voce. Mi congedai dunque, forse un pò freddamente, dalla Sonia, dicendo­le che i babà se li poteva mangiare anche da sola, per quello che mi importava, e me ne andai così, senza prestare attenzione alle sue proteste né ai suoi pianti da coccodrillo.

Mi feci dunque portare verso casa, in quel tepido primo pome­riggio autunnale, in cui illanguidiva il cielo sui tetti della città e, attraverso i vetri aperti del taxi che sfrecciava sul­la corsia preferenziale, vedevo addensarsi laggiù, verso l’orizzonte, qualcosa come un’ombra (forse era soltanto il riflesso di un’ombra, oppure l’ombra di un’ombra). Sfilavano rapide le immagini della città natale: un bambino con un ciuccio in bocca leggeva il Mein Kampf, seduto sulla scala di casa; un vecchio ubriacone vagava barcollando e urlava “ma insomma, l’Uomo, cos’è?”; una giovane donna esibiva sul marciapiede il movimento dinamico del suo cane al guinzaglio.

Giunsi infine a casa, suonai al portone. L’Antonio mi venne ad aprire, l’espressione sconvolta. “Cosa c’è, cosa accade?” domandai allarmato, il cuore già gonfio di tristi presentimenti. Ma lo sa­pevo bene, quello che era successo. Papà aveva avuto un malore. Mi precipito nella sua stanza; egli è disteso sulla sua brandina da campo e non fiata, non risponde ai miei richiami, mi guarda con i suoi occhi muti, se ne resta rigido, così. So cosa fare in questi casi. Si prende in mano la situazione, si manda a chiamare il dot­tore. Sopraggiunge il medico di famiglia. Apre la sua valigetta, tira fuori ago e siringa, fa un’endovenosa al babbo. Il babbo chiude gli occhi dolcemente e si distende. Il medico dice: “Lasciamolo riposare” e mi prende in disparte. “Anche questa volta” mi dice, “siamo arrivati in tempo. Ma bisognerebbe convincere suo padre a smettere, una buona volta; lei sa che passati gli ottanta l’eroina non è più uno scherzo, non sono più noccioline non sono, e io l ‘avviso: una di queste, suo padre ci rimane “.

Ciò detto, si fece pagare profumatamente e se ne andò. Mi appoggiai alla sponda del letticciuolo dove riposava mio padre, e scru­tai pensieroso la sua testa bianca, per lungo tempo. “Cosa fare?” ripetevo in cuor mio.

Venne infine il momento di ritirarmi e di affidare papà alle cure del vigile Antonio. Poiché nulla, neanche i problemi del bab­bo con la droga, potevano distogliermi dalla mia missione, dal mio Magnum Opus.

L’ appuntamento con i gemelli era stato fissato in un luogo davvero sicuro, in un locale molto alla moda ed estremamente ben fre­quentato, dove nessuno ci avrebbe notati, il Zum Kater Hiddigeigei, dove era veramente agevole, in mezzo a tutto quel danzare quel pi­roettare quel conversare ridere e scherzare, dove era veramente agevole parlare con due inti­mi di cose serie e sostanziali, in quello sfavillio di “mises” femminili e in quel risuonar di tacchi d’ufficialetti, dove era veramente agevole discutere con i terribili gemellini dei nostri progetti, in quella rutilante composizione di tenui rosa e riposanti verdi appena ritmata dagli sprazzi bianchi delle giacchette dei camerieri (si sarebbe detto un quadro del Degas), e decidere con i due sicari le nostre prossi­me mosse, no non potevo lasciarmi distrarre no e d’altronde, se non aveva potuto finora distrarmi dai miei superiori compiti la cono­scenza degli infamanti vizi di mio padre, come si pretende che io abbia potuto essere distratto da un qualunque sgonnellio, da un qualsivoglia scavigliar di fanciulla?

Trovato quindi un tavolo d’angolo appartato e in disparte e ordinati tre, anzi due boccali di birra, mi immersi in una fitta discussione con gli elegantissimi gemellini i quali, oltre a esse­

consumati gagà, erano due tipi davvero a posto e veramente a modo, ed erano i miei migliori elementi. C’era però una difficoltà nel mio rapporto con loro, e questa difficoltà era costituita dal fatto che non era proprio possibile distinguere i gemellini l’uno dall’altro, per quanto l’uno, come era palese, mangiasse troppo, e l’altro troppo poco, o forse anche niente, ma ciononostante, grazie a chissà quale fluido psichico che li collegava, rimanevano assolutamente indistinguibili e io non sapevo mai a chi era che mi rivolgevo, all’uno, o all’altro?

Chissà. Ma ciò che contava era senza dubbio il risultato, e quanto a quello, avrei potuto metterci la mano sul fuoco, perché quei due erano proprio un tutt’uno, e rispondevano al mio appel­lo come un sol uomo.

C’era solo con loro un altro problema, un’altra incongruità, fonte di non pochi imbarazzi, e questo problema era il fatto, che trovavo sì davvero incongruo questa è la parola giusta, e questo problema era il fatto che i due non erano della stessa madrelingua, vai a sapere perché, ah questo sì che era incongruen­te (uno solo parlava anche la mia lingua, quello che mangiava troppo? quello che mangiava troppo poco? mah!), fatto è che i due per poter comunicare fra loro dovevano usare un terzo idioma, che non era né quello dell’uno, e né quello dell’altro, e nel caso speci­fico era la lingua inglese, lingua, come è noto, che è il latino dei giorni nostri (se vogliamo riferirci a quello che è stato l’impero romano per l’antichità), ed era difatti in un inglese davvero maccheronico, in un idioma davvero “Tertii Imperii”, che i due co­municavano fra di loro. Per fare un semplice esempio, quella se­ra, quando uno dei due mi fece; “attento che hai la braghetta sbottonata”, si sentì tenuto a tradurre immediatamente: “Look at the guy, he has got his fuckin’ zipper open”. In ogni modo, se anche avessero avuto ben altri difetti, io non potevo fare a meno degli inseparabili gemellini. Perché, io domando e dico, che cosa sa­rebbe una lama senza il suo manico, eh? o un manico senza la sua lama, eh? ed è solo nella loro unione reciproca che lama e mani­co fanno: un coltello. E non c’è coltello senza ferita, e non c’è ferita senza grido, e non c’è grido senza canzone, cosi come non c’è rivolta senza inno, e il nostro inno era: tutti per uno, e uno per tutti!

Era intanto purtroppo giunto il momento di accomiatarmi dagli spietati gemellini, perché ero atteso a una cena sociale cui non potevo proprio mancare, e difatti per quella sera di partita a boccette al Circolo non se ne sarebbe parlato no, con mio grande dispiacere, fatto è che congedai i due fanatici gemellini e li seguii con lo sguardo, mentre si allontanavano in mezzo alla fol­la danzante e ignara, facendosi urtare qui e là la testa dalle ginocchia dei distratti ballerini.

La cena sociale cui ero atteso era un ricevimento del Liver Club. Niente a che vedere con il mio progetto di vasto respiro, ma cosa dire, certe relazioni, certi contatti, erano pur sempre da coltivare, e in mezzo a quei borghesi qualche tipo disinteressato, suscettibile di essere affiliato, magari in una seconda fase, c’era anche. E poi, non avrei certo macchiato il nome che portavo, facendomi notare per un’ingiustificata assenza da un ri­cevimento del Liver, ed è perciò che, avendo indosso uno dei miei migliori vestiti, ed avendo preparato un bel discorsetto, mi portai quella sera presso l ‘Hotel Holiday Inn, e ne valse davvero la pena, perché proprio lì nel bel mezzo della hall mi si av­vicina un socio, uno che conoscevo di vista, un vero V.I.P., un magnate della stampa, l’editore della celebre Tribuna dei cuori spezzati, il quale, avvicinatomisi, mi fa: “Mi trovavo presente ieri presso la S.M.S.P.P.D., per puro caso, mi trovavo dunque per una fortunata combinazio­ne presente al suo discorso e devo dire che l ‘ho trovato davvero, non so, davvero pregnante, e devo dire che l’afflato ideale di cui lei ha dato prova mi ha in modo particolare emozionato e commosso, sì è chiaro che lei non è uno di questi propagandisti a mezzo servizio che ci hanno, come diciamo dalle parti nostre, scocciato i c*** , mi scusi l ‘espressione , si vede invece che lei ha una tempra e un carattere veramente fuori del comune, ed è per questo che le propongo, a nome del comitato di redazione tutto, di scrivermi per domani un bell’articolo di fondo, che comparirà nella prima pagina della mia Tribuna”. Rimasi muto per la sorpresa e il piacere: potermi esprimere liberamente dall’alto del più influente dei “media” nazionali’! Ebbe l’accortezza di mostrarmi reticente.

“Lei non ignorerà”, continuò lui sornione, “che il nostro giornale tira a venti milioni di esemplari, disponibili gratuitamente presso tutti i distributori di Kleenex”. Non lo ignoravo certo, e così mi lasciai convincere. Quest’uomo me l’ave­va mandato la Provvidenza!

E così anche quella sera mi coricai contento e soddisfatto. Le cose si mettevano bene, e davvero per benino.

L’indomani, venerdì, sarebbe stata una giornata intensa. Già di buon’ora avevo un impegno, come mi ricordò l’ineffabile Anto­nio, entrandomi in camera con, ben piegata sulle braccia la divisa nera, con la divisa nera sulle braccia, ben piegata. Ero stato di­fatti chiamato a fare da arbitro a un incontro di calcio del cam­pionato regionale di seconda divisione della Federazione Nazio­nale Privi di Arti Inferiori, e trattavasi perlappunto della tanto attesa finalissima, Senza Gamba Destra contro Senza Gamba Sinistra.

Era quella per me una situazione molto delicata, in cui dovevo dimostrare tutta la mia equidistanza e il mio sangue freddo. Ave­vo infatti accettato quel ruolo arbitrale solo per evidenti ragio­ni diplomatiche, ma devo ammettere che in quel campo ero del tutto a digiuno. Com è come non è, mi feci il segno della croce e mi portai ai bordi del campo. l gemellini, che avevo designato come guardalinee, già mi attendevano. Dopo il tradizionale lancio della monetina, fischiai il calcio d’inizio, con la trepidazione che si immagina. Ma tutto si svolse bene; il gioco era corretto, anche se non privo di qualche intervento falloso, soprattutto da parte del terzino destro dei Senza Gamba Sinistra; è vero che la mez­zala sinistra dei Senza Gamba Destra non era da meno, anzi. Fui costretto a fischiarla spesso, ad ammonirla più volte e infine ad espellerla; la squadra dei S.G.D. se ne trovò mutilata. l guarda­linee collaborarono al meglio; solamente, quando ne chiamavo uno per conferire su di un caso controverso, arrivava sempre anche l’altro, per via della traduzione: “l saw, this is a fuckin’ corner” diceva uno; “ha visto, è corner”, traduceva l’altro. Poi tornavano ai propri posti (che probabilmente si scambiavano, ma chi vuoi che se ne accorgesse).

E come Dio volle l’incontro ebbe termine, ai calci di rigore, e il risultato, cosi come era stato l’arbitraggio, fu davvero equo e imparziale. Ne trassi motivo di lustro e di compiacimento. Quasi quasi dimenticavo la Tatiana. Invece no: con appena un quarto d’ ora di ritardo (una breve “reception”, che aveva seguito la consegna delle coppe, era stata per me occasione di fruttuosi conciliaboli con alcune personalità presenti negli spogliatoi, ma mi aveva preso più tempo del previsto) bussavo alla sua porta; come al solito, le portavo un bel pacchettino, uscito fresco fresco da “Chez Gennaro” , le très prestigieux pâtissier de fora ô vascio, chillo ‘ncopp’ ‘a Pasquale, sì, chilIo cu’ ‘a faccia ‘e cane ‘e presa, ma come li fa lui i babà, signora mia, non c’ è tema di paragone, creda a me, e creda, eh, se glielo dico io, e che diamine, vuole che le rac­conti delle balle, belìn, ocio, non mi ha preso mica per un bada­lòn, no? Lo so mi che a fine mese i schei no basta mai, ghe xe le scarpe nove e i vestiti d’inverno da comprar, ma non perciò sarò meno onesto, e dirò sempre, sempre dico, pane al pane, vino al vi­no, e babà al babà, si, ohh.

Quel giorno la Tatiana portava uno scamiciato bianco, di cotonina, con volàn pieghettato di color rosa, lungo fino alla cavi­glia (ma piuttosto scollato sulla schiena), e calzava scarpe aper­te di color bianco, un pò consunte forse ma ben ripassate col bianchetto. I tacchi: a spillo.

Malgrado io fossi giunto in ritardo, lei stava ancora cucinando (ah, sebbene morso dalla gelosia, resistetti a chiederle cos’è che aveva fatto sinora, eh?) e dopo avermi salutato tornò nel suo angolo cottura, dandomi la schiena. La Tatiana stava ancora preparando la salsa di pomodoro; mi avvicinai a lei, volevo ap­profittare dell’occasione per studiarle la nuca, che era quanto di più fine si potesse desiderare, come articolo corporeo: su un collo che era una torre d’avorio, dalle sfumature rosate, la flessibile nuca, lasciata scoperta dalla bionda capigliatura raccolta in crocchia sul capo, si distingueva per la sua delicata incavatura centrale, una vera valle di delizie, ma tutta la muliebre postura della Ta­tiana era un incanto, e si sarebbe detta quella una scena dipinta dal Feuerbach stesso per quanto, per quanto, per quanto, iniziassi a considerare che la Tatiana si chinasse un po’ troppo spesso e talvolta scompostamente sulla salsa, non era poi così necessario rigirarla di continuo, no, quella benedetta salsa di pomodoro, e bi­sognava proprio abbassarsi fin quasi a ficcarci il naso dentro, a quella salsa, e sì trovavo davvero irritante quel gesto ripetuto, quel chinarsi sul tegame, così sgraziato e privo di “fair play” e fu lì che ebbi d’un tratto la rivelazione, e la rivelazione era che non l’amavo più, sì ora lo vedevo lo sapevo, nulla più di quella donna, che pure tanto avevo amato, nulla più mi moveva a commozio­ne.

E ora, ora che tutto è finito fra me e la Tatiana, io mi do­mando: cosa ha fatto sì che d’un tratto io l’abbia vista sotto la sua vera luce, e perché proprio lì davanti alla salsa di pomodoro e non invece in un’altra qualsivoglia circostanza, e poi, è poi detto che quella fosse davvero la sua vera luce e non invece, non invece un mero abbaglio? Era il naso nella salsa che me la rende­va indesiderabile e me la alienava per sempre, o non era piutto­sto lo stesso venir meno della mia passione (lentamente erosa dalla frequentazione bisettimanale, e dalla “routine” che inesorabilmente si impone al più sperimentato dei ménages) o non era piutto­sto lo stesso venir meno della mia passione che mi rendeva indesi­derabile il suo naso nella salsa?

Domande che resteranno forse, chissà, senza risposta.

E, lasciata lì la Tatiana senza neanche avere assaggiato la sua famosa salsa, giunsi con un qualche anticipo al consueto incontro con papà.

Bussai. Entrai. Mio padre era seduto alla scrivania, intento a riordinare alcune carte. Alzò il capo quando mi udì entrare. ­

“Accomodati pure, il seggiolino è tutto tuo” disse. E aggiun­se, preso da un subitaneo e spaventoso accesso d’ira: “E così, pa­rev che a guerr foss frnut e, invec, è appen’ accumnz ‘t! Sì, perché l ‘ho saputo, razza di animale, che hai fatto un bel discorso sovversivo, alla Società di Mutuo Soccorso. È così dunque che metti in piazza il nome che ti ho dato, eh? E da quando in qua ti sei montato la testa, eh? E dove pensi di andare a finire, eh? Se continui di questo passo, eh? Lo lo so è tutta colpa mia, che ti ho sempre lasciato briglia libera, che non ti ho mai stretto il morso, che non ho mai affondato lo sperone e questa è la ri­compensa questo è il ringraziamento, no non dire niente è tutto inutile non ci sono se e non ci sono ma, lo so bene che con te non c’è niente da fare è andata così, e chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, ah se mi vedesse il mio povero papà, cosa direbbe di me, te lo dico io cosa direbbe, direbbe che l’ho deluso, che l’ho tradito, direbbe che non sono capace di raddrizzare neanche un buono a nulla come te, direbbe. Ma sì, infanga, infanga pure il no­stro nome, profitta pure dell’indulgenza del tuo povero padre, troppo vecchio omai per porre rimedio alle tue bravate. Sobilla e complotta pure, Catilina d’avanspettacolo! Ma sappi che no non andrai lontano. no!”

“Ma, papà…”, tentai di difendermi…

“Basta! Qui non c’è più ma, non c’è più papà!”, tagliò corto lui, e aggiunse, ma già con un tono in qualche modo raddolcito: “Che non se ne parli più, adesso. Passiamo piuttosto al lavoro, ché abbiamo perso già abbastanza tempo. Allora, scrivi?”

“Sì, papà, scrivo” dissi, prendendo carta e penna. Per fortuna s’era calmato. La bufera era passata.

E scrissi sotto dettatura, sì, e lo feci anche quel giorno il mio bravo dettatino, e lo redassi il compitino, ah quante volte lo avevo sentito, eh, l’Antonio dirmi che il brodo vegetale era buono (a me che, fin da piccolo, non appena vedevo qualcosa di color verde, mi veniva da vomitare), “e mangialo su fallo per papà, e mangia su altrimenti il babbo è triste e piange” maledetti ipocriti, ma chi volevano far fesso, “altrimenti il babbo piange” buona questa, ma quale babbo e babbo, facciamola finita, ma qua­le papà, ma quale paparino, ma quale papi, è forse un padre que­sto, che sembra non possedere, nel suo vocabolario intimo, la pa­rola “affetto”, è un padre questo, che mi chiama solo quando ha bisogno di me e mi tratta come l’ultimo dei sottoposti? No, io dico che questo è un padre che padre non è. Ma, mi dico anche, cosa farebbe, senza di me, quel vegliardo canuto e in fondo così solo, ed è per questo che rimango invece di andarmene via lontano, ed è per questo che ogni giorno scrivo sotto dettatura un nuovo capitolo della sua au­tobiografia, è per questo che gli ritiro gli scarponi alla Heidegger dal calzolaio e gli preparo già sottolineati in rosso e blu i rita­gli di giornale, e chiudo gli occhi sui suoi problemi con la droga, i bambini e i cavalli. Ma un giorno lo vedrà, di cosa sono capace, sì.

Per l’intanto ho un nuovo impegno, sì perché urge l’opra, e si avvicina il momento culminante. E mi portai Il dove ero uso por­tarmi ogni venerdì, nel tardo pomeriggio. Per tutto l ‘autunno di quell’anno difatti sarebbe stato possibile vedere – per chi l’aves­se solamente voluto – il sottoscritto aggirarsi per i viali peri­ferici della nostra amata città, lì dove erano state drizzate le tende e parcheggiate le roulotte dei circhi ambulanti, con tutto il loro seguito di cani e di gatti, di giocolieri e di saltimbanchi, di ammaestratori, di morti di fame e cosivviadicendo, ammaestratori di mor­ti di fame, cioè, e così, via, dicendo, e chi si fosse trovato a seguirmi in quel variopinto mondo multicolore non avrebbe potuto supporre altro che io fossi alla ricerca di una qualche facile distrazione, al vedermi entrare in un crocchio di curiosi raduna­tisi intorno, ad esempio, al “caditore dalle scale” (pare che fosse costui un tale che aveva questo difetto, di origine senza dubbio psicofisicomotoria, e questa singolarità infermità, e cioè: che non appena egli si trovava in cima a una scala, ecco, non poteva resistere, cadeva giù; non c’era niente da fare, non poteva resi­stere, era più forte di lui; aveva consultato i migliori specia­listi, tutto inutile; poi qualcuno gli suggerì di mettere a pro­fitto questa sua anomalia, e difatti a quel giorno aveva costui messo da parte, sembra, un bel gruzzoletto, lasciandosi cadere giù da scale di tutti i tipi, mobili, a libretto, biscagline (ma il suo pezzo forte, il suo non plus ultra, erano le scale a chioc­ciola), ed esibendosi come attrazione speciale nelle feste di compleanno della “jeunesse dorée”, oppure in “parties” privati o, talvolta, nelle pubbliche fiere, usufruendo di una scala aerea messa appositamente a disposizione dalla locale stazione dei pompieri e, grazie al generoso contributo della premiata macelleria “da Nando Supercarni” – PEZZI DI PRIMA SCELTA -TAGLI DI ALTA QUALITA’ ­SPECIALITA` CARNI LOCALI E SALSICCIE PAESANELLE (presentando alla cassa questa pagina, ritagliata seguendo la linea tratteggiata, si ha diritto all’osso per il cane in omaggio) SI EFFETTUA SERVIZIO A DOMICILIO). Questo caditore pare avesse – mi si scusi la digres­sione – pare avesse rubato la “vedette” a un celebre “saltatore in basso”, alle cui esibizioni non avevo avuto purtroppo la fortuna di assistere, detentore di tutti i record (meno 24 m. e 56 cm., re­cord mondiale tuttora imbattuto, categoria pesi di piombo), ormai ridotto dall’età e dagli acciacchi a più miti consigli, costretto infine al ritiro, di conseguenza precipitato in una profonda de­pressione, da cui non si risollevò se non per suicidarsi plateal­mente, gettandosi dall’alto di una palma nana che cresceva davanti al palazzo della Commissione per l’Abolizione della Legge di Gravità, immolandosi cosi a nome di tutta la sua categoria, la cui esistenza stessa era messa a repentaglio dall’operato della sud­detta Commissione.

Ma, per tornare a noi, chi si fosse trovato a seguirmi in quei luoghi non avrebbe potuto sospettare che io facessi altro che darmi a uno svago innocente, a un innocuo passatempo. Non mancavo difatti di arrestarmi davanti a ogni palco su cui si desse uno spettacolo, mescolandomi così alla folla dei curiosi, ma non rimanen­dovi che qualche minuto, il tempo – chi vuoi che se ne accorges­se – di soffiare un ordine all’orecchio di un adepto, che ne aveva istruzione di trovarsi puntualmente in quel tal luogo e alla tale ora, ogni tardo pomeriggio, in quei venerdì d’autunno. Ogni venerdì, nel tardo pomeriggio, quell’autunno.

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