Erranze intrecciate, feuilleton 02 (2002)

Il Museo di sismologia e di magnetismo terrestre è una vera e propria casamatta affondata nel terreno, piantata al centro di aiuole ben rasate e fiancheggiata dagli edifici pesantemente neo-rinascimentali della Kaiser Wilhelm Universität –oggi ribattezzata Università Louis Pasteur. L’ingresso dell’osservatorio sismico, oggi trasformato in museo, fronteggia i cancelli dell’orto botanico e la cupola color antracite dell’osservatorio planetario, fatto edificare, così come l’università guglielmina tutta, dall’imperatore prussiano pochi anni dopo l’annessione dell’Alsazia e della Lorena al secondo Reich.

Erano anni, quelli, in cui la ricerca scientifica, il peso e la misura del mondo, procedeva a uno stesso passo marziale insieme con la sua appropriazione, a differenza dei tempi nostri, che vedono la ragionevolezza la volubilità e l’arte della conversazione dominare lo scacchiere geo-politico mondiale.

Ma allora era la forza che dominava e dettava le regole, e ai soldati vittoriosi seguivano gli alacri muratori, e agli alacri muratori seguivano i sapienti professori, il fior fiore del sangue intellettuale germanico che, fresco ed ambizioso, traversava il nuovo ponte monumentale sul Reno per occupare le solide costruzioni di pietra grigia della nuova università. Era, quello, il tempo dei fondatori.

Lo stesso cammino venne percorso, cinquant’anni dopo, nel senso inverso, quando Strasburgo tornò alla Francia e, a partire dal 1919, la Repubblica vi inviò i migliori fra i suoi giovani ed ambiziosi professori. Fu a quel tempo che il Gran Pendolo venne ad arricchire e coronare la collezione di strumenti dell’osservatorio sismico, e si guadagnò il suo ingombrante posto accanto al Reubert-Ehlert (il progenitore dei sismografi moderni), al Wiechert, al Mainka, al Mintrop, al Galitzin e, per finire, al Vicentini.

Il Grande Pendolo, detto anche affettuosamente “le 19 tonnes”, è un mirabile esempio di collaborazione scientifica involontaria. La sua costruzione fu iniziata dai tedeschi nel 1910 e venne interrotta “in seguito alle vicissitudini della prima guerra mondiale”. Nel dopoguerra i nuovi direttori francesi della stazione decisero di utilizzare gli elementi installati dai loro predecessori per realizzare un apparecchio di “grande massa”, per l’appunto diciannove tonnellate, le quali vennero ottenute recuperando materiale militare quali assi di camion e pezzi di armi dimesse. Questa massa di diciannove tonnellate affondata nei giardini dell’università di Strasburgo, tenuta sospesa da quattro enormi molle e mantenuta sotto il suo centro di gravità da due bracci metallici, ha lo scopo di sostenere e di guidare, grazie a un preciso sistema di pistoni ad aria, il movimento di un semplice, sottilissimo ago il quale registra costantemente, su di un rullo di carta affumicata manualmente, i movimenti della terra sulla quale viviamo. Ed è tale, la precisione di un siffatto strumento, da riportare sul nerofumo lo sforzo nel terreno delle radici dei platani scossi dal vento, sul boulevard de la Victoire, o l’impatto delle onde sulle spiagge del Mare del nord, nei giorni di tempesta, oltre che, naturalmente, un eventuale piccolo terremoto in Grecia o un bombardamento aereo di media intensità in Iraq.

Ed è al cospetto di una tale macchina che ho tirato fuori di tasca la mia bussola di alta precisione ad ago sospeso in bagno d’olio, comprata al bazar pakistano per 1 euro e 52 cent, e ho misurato l’orientamento del rullo tinto di nerofumo, che corrisponde a: 79° E-NE.

Sono tornato, dopo la visita al museo di sismologia, in centro. Ho attraversato l’Ill sul ponte del Corvo, dal quale venivano calate le gabbie contenenti i condannati a morte e, più in particolare, le donne che avevano ucciso i propri figli non voluti, ponte sotto le arcate del quale, si racconta, sbocca una galleria sotterranea collegata direttamente al sottosuolo dell’ospedale medievale, che permetteva di trasportare senza indugio i cadaveri dei condannati dalla gabbia in cui erano stati affogati al tavolo di dissezione dell’anatomista.

Avendo oltrepassato le pont du Corbeau, avendo scantonato nella piazzetta della Grande Boucherie (Gross Metzig), avendo fuggevolmente e per l’ennesima volta ammirato un piccolo affresco da me prediletto, che orna la facciata del ristorante “Zuem Pfifferbriader” e raffigura un giovane pifferaio dal cappello a punta, in vedetta su una roccia sporgente sul flusso continuo di turisti tedeschi giapponesi e italiani che lì intorno vagolano, eccomi mi sono portato, così come faccio ogni volta che torno a Strasburgo, nella cattedrale.

C’è stato un periodo nella mia vita in cui usavo prendere il treno a cuccette Roma-Bruxelles, treno che è stato soppresso, ciò che ora rende necessario -a chi dalla capitale italiana desideri portarsi nel nord-ovest dell’Europa e abbia la sventura di trasportare generi di prima necessità o masserizie quali damigiane d’olio, bottiglioni di vino paesano o, magari, quadri in vetro e ferro- il cambio alla stazione di Milano, una stazione quanto mai fredda e inospite e dall’architettura di un eclettismo fanfarone superato solamente, forse, da quello del Palazzo di Giustizia di Bruxelles.

Il Roma-Bruxelles mi lasciava nel capoluogo alsaziano intorno alle sei e trenta del mattino. Non mancavo mai, allora, nell’attesa di un’ora civile per suonare il campanello degli amici, di entrare nella cattedrale, l’unico luogo aperto a quell’ora e l’unico rifugio dalla bruma umida e penetrante che da novembre a marzo avvolge senza posa l’opulenta città renana.

Non c’è stata una sola volta in cui, trascinando i miei pacchi di vetro e di ferro per le navate oscure e deserte, non vi abbia fatto una qualche scoperta: ora un fregio dai motivi intrecciati, ora una tappezzeria, ora una lampadina solitaria, l’ombra di un cero su una lapide, una statua monca impolverata in una nicchia, un battito inatteso dell’orologio astronomico, seguito da un’oscillazione della falce con cui lo scheletro meccanico segna i quarti d’ora. Anche stavolta, due dicembre 2002, vent’anni dopo la mia prima visita, ho fatto la scoperta di una griglia leggera tesa al disotto della cupola, a protezione dai piccioni che certo hanno trovato il modo di penetrarvi, griglia che diffonde una raggiera di luce velata e impalpabile sul coro e sulla navata centrale, luce che, materializzata in guisa di pulviscolo bianco, invita per una volta il mio intelletto a prendere in considerazione il concetto di sublime.

Sono uscito dalla porta del transetto meridionale, ho esaminato a lungo la figura elegantissima della Sinagoga, la quale è bendata, poiché non è stata in grado di riconoscere e aprire gli occhi alla venuta del Messia. Sull’altro lato del portale, al cui centro troneggia il re Salomone, sta la statua che rappresenta la Chiesa: ella volge verso la rivale sconfitta lo sguardo irato e trionfatore. Ho fatto un paio di foto della Sinagoga. Con la bussola ho calcolato l’orientamento dei suoi occhi celati o, meglio, quello del suo capo reclinato, che guarda a 126° E-SE. Non credo che farò uso di questa misurazione; per ogni evenienza la noto sul taccuino.

Ho attraversato la piazza della cattedrale, riempita da stand di paccottiglia e dallo stomachevole odore del Glühwein, di questa cittadina fiera di essere la “capitale de Noël”, e dove anche gli accattoni si vestono da Babbo Natale, e sono rientrato da Philippe e Sylviane, nella loro casa che odora di parmigiano reggiano e di prosciutto San Daniele, così come quella di Hänsel e Gretel doveva profumare di zucchero filato e pan di spezie ma, per caso, invece che nella casa della strega essi abitano al disopra di Chez Spagna, Comestibles italiens depuis 1957, e va bene così.

Per tutto il pomeriggio Sylviane e Philippe si sono occupati di me, come un vero e proprio Escort Service: quando l’una mi lasciava, l’altro mi riprendeva e cosivvia. Ed è così che l’uno mi ha accompagnato alla libreria antiquaria Gangloff, a rinverdire la mia bio-bibliografia storico-archeologica alsatica, e l’altra mi ha condotto in un quartiere di periferia, dove una giovane donna di nome Jenny ha praticato su di me un corroborante massaggio Shiatzu.

E la sera, mentre, troppo rilassate dal massaggio e dal vino di Borgogna che avevo portato per cena, le palpebre mi si chiudevano davanti a una choucroute all’anatra preparata per l’occasione, Philippe mi ha offerto di venire con me a Berlino, dove avevo appunto annunciato che mi sarei diretto.

La mattina successiva, di buon’ora, montavamo sulla sua Mercedes Benz Break del 1977 color verde oliva, targa 9620YY67, e penetravamo come coltelli nella foschia delle autostrade baden-wurtemberghesi, verso il profondo oriente d’Europa.

L’Isola dei Pavoni si trova all’altro capo di uno stretto braccio d’acqua, è già inverno ma l’Havel non è ancora ghiacciato, non si può traversare a piedi e non se ne parla di andarci a nuoto. C’è un traghetto a motore che fa servizio fino all’ora del tramonto e che, di questa stagione, trasporta solamente la vettura gialla del postino e i furgoncini dei giardinieri. Quando vi vede in attesa sul molo di terraferma il traghettatore viene immancabilmente a prelevarvi e vi sbarca sull’isola, previo pagamento di una semplice moneta che i vostri cari avranno avuto cura di scivolarvi sotto la lingua, al momento di interrarvi.

La Pfaueninsel fu acquisita da Federico Guglielmo II° di Prussia nel 1783 e venne usata inizialmente come riserva di caccia. Prima della fine del XVIII° secolo Brendel, il carpentiere di corte, vi aveva già costruito due edifici in forma di rovine: il castello, la cui facciata rivolta a meridione accoglieva i villeggianti in provenienza da Potsdam e dalla residenza di Sanssouci; e una fattoria dalla sembianza di chiesa gotica, all’altro capo dell’isola. Ho registrato l’orientamento della facciata del castello: 235° W-SW.

Intorno al 1800 vennero introdotte nell’isola diverse specie di animali domestici, allo scopo di fornire al visitatore una gradevole impressione di ambiente pastorale. Nuovi edifici vennero innalzati e radure vennero aperte fra un edificio e l’altro, dimodoché la vista potesse sempre ancorarsi a un grazioso manufatto. La popolazione animale crebbe fino a emulare quella di uno zoo: nuove gabbie si resero necessarie per contenervi le scimmie, i canguri, gli uccelli acquatici e le aquile, le capre selvagge, i lupi, le volpi, i lama e, infine, l’orso che arrivò nel 1826.

In questa specie di Kunstkammer all’aperto neanche gli esseri umani vennero trascurati. Sorgeva a quel tempo un certo interesse per l’antropologia, ciò che dette adito all’introduzione nell’isola di Heinrich Wilhelm Maitey, nato in Oahou nelle isole Sandwich nel 1807 e residente alla Pfaueninsel a partire dal 1830, e dell’africano Karl Ferdinand Theobald Itissa. Un gigante, Karl Friedrich Licht, e due nani, Christian Friedrich e Maria Dorothea Strackon vissero in compagnia del nero e del polinesiano. Mi domando se mai ebbero ad imbattersi nel fantasma di un altro tipo balzano in quei luoghi vissuto, il celebre alchimista Johannes Kunckel, detentore del segreto per la fabbricazione del vetro rubino, per il quale venne costruito un laboratorio all’estremità settentrionale dell’isola, laboratorio che bruciò fino alle fondamenta nel 1689, quattro anni dopo la sua costruzione, e le cui fornaci mai nessun vetro di rubino sfornarono, con somma disgrazia del buon Kunckel presso il Grande Elettore e sua conseguente cacciata.

Tagliamo corto ai prolegomeni e passeggiamo piuttosto per i ben rastrellati viottoli, senza fumare né calpestare l’erba dei prati, Wir bitten Sie, auf den Wegen zu bleiben und das Rauchverbot zu beachten, ammiriamo piuttosto la geometrica rispondenza dei fabbricati seminascosti dalle fronde e velati in lontananza dalle brume, ma pur sempre l’un dall’altro visibili: il tempietto dorico la rovina alessandrina il castello scozzese il Kavalierhaus di Schinkel, la cui torre medievale è un montaggio dei resti di una casa gotica di Danzica.

Usciamo, sì, dal nostro tempo, entriamo nel tempo delle favole e nel regno delle rovine fatte apposta, nel mondo dei castelli di gesso e di legno dipinto, nell’epoca in cui i potenti si dilettavano di giardinaggio e di decorazione d’interni e schizzavano i tempietti e le follie che i loro architetti avrebbero poi disegnato perbenino e come si deve.

Immaginiamo di essere ancora nel tempo, mi dico, di questa Prussia dalle “sconfinate possibilità”, in cui l’affettazione Biedermeier non aveva ancora ceduto il passo al Tempo dei Fondatori. Era allora ancora concepibile l’edificare rovine, mi dico, quando non era ancora rovina tutto ciò che ci circonda, e ci si poteva ancora dilettare con l’idea di uscire dalla storia, in una sorta di extraterritorialità temporale protetta dal servizio diurno del traghetto che unisce il Nikolskoer Weg, a pochi chilometri dal centro di Berlino, al molo dell’Isola dei Pavoni. Il gusto kitsch delle rovine artificiali -ne concludo- è semplicemente una forma di a-storicità, ma non è anodino incontrarlo qui, in questa città. Mi piacerebbe conoscere l’alchimia che ha trasformato questo paesaggio da operetta nell’incubo del ventesimo secolo: non è sulle sponde di queste stesse acque che è stata pianificata la Soluzione Finale?

Accade che ancora ci si accanisca a fabbricare rovine. Quello stesso giorno, dopo la visita all’isola e dopo quella alla casa della Conferenza di Wannsee, ci si è trovati, insieme con Philippe, al centro di Berlino, sulla Schlossplatz, ed ecco ci si è trovati di fronte a un’altra Künstliche Ruine: è un angolo di palazzo in mattoncini rossi. Risulta essere il facsimile di uno degli angoli della Bauakademie di Karl Friedrich Schinkel, edificata fra il 1832 e il 1836, demolita nel 1962, e di cui si richiede la ricostruzione “à l’identique”. Per suffragare tale progetto si è innalzato un siffatto specimen, a testimonio augurale di ciò che potrebbe essere l’intero edificio, una volta ricostruito. La marcia indietro nel tempo sembra essere un’altra diffusa passione odierna, insieme con quella di non voler vedere il tempo passato. Rimodellare la storia come se non si trattasse di una materia compiuta e irrimediabile e propria a se stessa, pensare che qualche centinaio di mattoni disposti a fare un angolo possano dare il vetro rubino della redenzione. Non sai se ridere o piangere.

Del resto, la prima volta in cui venni in questa città, mi imbattei in centinaia di persone intente a fabbricare rovine, ma in un altro spirito ancora. Appena lasciata la Bahnhof Zoo, ove ero arrivato di primo mattino, mi ero perso per i boschetti e i laghetti del Tiergarten quando un impressionante ticchettio metallico mi guidò verso la Potsdamer Platz. Centinaia di persone stavano allineate contro una lunga parete, e avvicinandomi vidi che non erano lavoratori forzati ma che picchettavano tutti spontaneamente, con martelli, cacciaviti, scalpelli e coltellini a serramanico il muro che un mese prima divideva ancora la parte orientale dalla parte occidentale della città. Da questa scalmanata attività ricavavano infinitesimali pezzetti di cemento e di ghiaia, che avrebbero poi spedito a casa o conservato per ricordo. Quello che rimaneva di quel muro smangiato venne poi sollecitamente rimosso, sicché tre mesi dopo non c’era più traccia dell’antica separazione ma invece, lì dove c’erano stati i camminamenti delle ronde, le garitte delle sentinelle e i doppi e triplici filari di filo spinato, erano apparsi giardinetti pubblici, prati, alberelli piantati di fresco e, perché no, i cantieri di nuovi palazzi d’uffici. Oggi infine non rimane che un breve tratto dell’antico muro, lungo forse una cinquantina di metri, sulla Bernauerstrasse. E’ stato isolato in una spianata e circondato da una palizzata e viene regolarmente ridipinto e restaurato, perché questo monumento al negativo non venga più aggredito dai tardivi cacciatori di souvenir, ma rimanga invece ad ammonitrice testimonianza di un passato le cui tracce ci si è indaffarati a cancellare.

In quei giorni invernali del 1990 usavo vagare dal mattino al tramonto per la città sconfinata, trascinando i piedi nei mucchi di foglie secche, gli occhi che scorrevano sulle facciate crivellate e slabbrate dei palazzi d’anteguerra, la mente tenuta all’erta dall’aria fredda e dalla fatica sicché, se mai mi sedevo in un caffè tranquillo e ben riscaldato, come il Cinema café –che tuttora affeziono, nell’Häckerscherplatz, ex Marx-Engelsplatz-, la testa mi ciondolava e mi appisolavo istantaneamente sulla tazza di caffelatte che mi avevano appena servito.

Raccoglievo a quel tempo piccoli oggetti perduti sui marciapiedi e sulle carreggiate: rondelle, guarnizioni, viti arrugginite, biglietti di tram, ramoscelli. Alcuni li incartavo e ne facevo regalo a Christine, quando rientravo la sera. Altri li disponevo su tavole di truciolato e li prendevo in fotografia. Mi piaceva, in tal modo, classificare l’inclassificabile, tanto che classificavo anche me stesso: ero certo l’unico cliente di una vecchia cabina automatica, poggiata e dimenticata in un sottopassaggio pisciazzato di Neukölln; forniva certi foto-ritratti neri d’inchiostro al punto da rendervi irriconoscibile, ciò che in linea di principio non è la funzione precipua di una fotografia d’identità.

Non sono mai riuscito a convincere nessuno dei miei amici berlinesi a farsi fotografare, per puri scopi artistici, da quella macchina. Accettavano solo di darmi le loro vecchie foto da passaporto per la mia collezione di memorabilia. Le foglie morte le mettevo nei naturalia, i bulloni spaccati negli artificialia, i pezzi del muro nei mirabilia. In tutto e per tutto la mia collezione portatile mi riempiva le due tasche superiori del cappotto.

Avevo immaginato, a un certo punto, di scavare una buca circolare nei terreni ancora abbandonati fra le due parti della città. Vi avrei gettato, in forma rituale, così come Romolo, secondo il racconto di Plutarco, aveva fatto alla fondazione di Roma, gli oggetti da me raccolti. “Il mondo è aperto!” avrei gridato ai venti sordi del Meclemburgo e della Pomerania.

Ma sarebbe stata la mia una pigra parodia. Romolo aveva fatto venire d’Etruria i sacerdoti specializzati, “i quali gli nominavano e insegnavano punto per punto tutto il cerimoniale che occorreva osservare secondo le norme divine e i libri sacri, come fosse un mistero o un sacrificio. Fecero dunque, innanzitutto, una fossa rotonda nel luogo che oggi è chiamato Comitium, nella quale misero le primizie di tutte le cose di cui gli uomini usano secondo le norme come buone, e secondo natura come necessarie; poi vi gettarono anche una manciata della terra da cui ciascuno di loro era venuto [i reprobi e i fuggitivi accolti da Romolo nell’Asylum] e mescolarono tutto insieme (chiamano questa fossa, nelle loro cerimonie, il Mundus, che è il nome con il quale i Latini designano l’universo), e intorno a questa fossa tracciarono il contorno della città che intendevano fondare, né più né meno come chi tracciasse un cerchio intorno a un centro”. Ed è una volta che la fossa è ricolma di terra e richiusa che Romolo si esclama: “Mundus patet!” il mondo è aperto!

I dotti ci insegnano come queste fossero pratiche rituali di controllo dell’universo, in cui il calcolo dell’asse sul quale la conca celeste incontrava quella terrena e questa quella ultraterrena eccetera aveva fini propiziatori, scaramantici e propedeutici: “La giustapposizione della “conca terrestre” e di quella “celeste” che la sovrasta, riproduce un cerchio e con questo il simbolo dell’Universo nel suo insieme. La correlazione tra il cerchio geometrico e quello idealmente descritto dal Mundus e dalla volta celeste va letta a due livelli: a) a livello orizzontale, sul piano ove si erge Roma, l’Umbeliculus corrisponde al centro della circonferenza, e colloca per ciò stesso la città eterna al centro del Mondo; b) in sezione verticale le due conche, idealmente unite da un asse (espresso da un punto in sezione orizzontale) – l’asse del mondo – definiscono rispettivamente le realtà celestiali e infernali; il piano di intersezione tra le due semicirconferenze è quello terrestre al cui livello, e al cui centro, viene nuovamente a essere collocata Roma che a buon diritto per questo motivo, può fregiarsi del titolo di Caput Mundi.”

Ma la vera Caput Mundi e il vero centro della terra, posso qui rivelare, non è né il Comitium della Roma antica, né la fossa della “19 tonnes” di Strasburgo, né il terreno ingombro di detriti fra la Stralauerplatz e l’Ostbahnhof. Il centro del mondo è Vaduz, perché tutto intorno a Vaduz ci sono i Tagicchi e gli Usbechi, e tutto intorno tutto intorno gli Afgani e i Nuristani i Punjabi e i Sinti, tutto intorno a Vaduz ci sono i Kazachi e i Manciù, i Masai e i Bakumba, gli Appalacchiani e i Martinichesi, i Canadesi-Francesi e gli Eschimesi polari, tutto intorno tutto intorno a Vaduz.

Nella primavera del 1974 era stato chiesto a Bernard Heidsieck di comporre un poema sonoro per l’inaugurazione di un centro d’arte a Vaduz, capitale del Lichtenstein. Ma che fare su Vaduz? Che poesia si può tirar fuori da Vaduz, capitale del Lichtenstein, si chiese per mesi Heidsieg. Girò in tondo, Bernard Heidsieck, per mesi e settimane, “autour de ce nom de ‘Vaduz’, en quête d’une motivation vraie, justifiant l’entreprise et ce travail. Que faire, sinon tourner à la recherche d’un axe de correspondance. Le justifiant. Rigueur oblige! […] Après avoir décidé de faire de Vaduz, ce maxi-village, Capitale de ce mini-territoire situé au centre de l’Europe, de notre sublime Europe, le Lichtenstein, l’un, sans doute, des plus petits pays au monde, le centre même de notre Globe, de notre fichu Globe terrestre!, il s’est agi alors, de tracer sur une carte du Monde, à partir de Vaduz, des cercles d’égale largeur, s’éloignant en parallèles successives jusqu’à en boucler la surface totale.’’

Su questi cerchi concentrici il poeta trascrisse i nomi delle etnie (“non delle nazioni”) che vi abitano, a partire dalle più prossime al centro e fino alle più estreme. Tale attività egli svolse per tutto il secondo semestre del 1974, nel tempo lasciatogli libero dal suo impiego di vice direttore della Banque française du commerce extérieure.

Ed è così che questo poema, che non venne scritto a tempo dovuto e non è mai stato letto a Vaduz, gira per il mondo insieme con il suo autore, sotto forma di un manoscritto lungo diversi metri, che viene spiegato mano a mano che la lettura procede, e che una banda sonora accompagna e amplifica, fino a crescere in un boato di folla che copre le ultime parole: des Déplacés des Paumés des Laissés pour compte des Emigrés des Fuyards des Désintégrés et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres…

21 dicembre. Sono venuti a svegliarmi nel fondo della notte, urlando il mio nome dal corridoio. Non era il sogno. Quando uno dei miei compagni di cuccetta è riuscito a sbloccare il catenaccio dello scompartimento e il finanziere è entrato accendendo il neon del soffitto, gli ho chiesto: “come mai?”. “Scandaglio”, mi ha risposto, facendo il segno di chi pesca a caso. “Tuttavia”, ho replicato in una lingua che dalle nebbie primordiali del sonno emergeva in forma di patois gallo-romanesco, “ciò mi accade sì di frequente, di essere controllato su questi treni notturni che traversano l’Europa cosiddetta di Schengen e della libera circolazione dei suoi cittadini, che mi domando cosa porti voi benemeriti finanzieri servitori dello Stato a scandagliare sempre proprio me, sarà l’immagine barbuta e torva della mia foto d’identità Made in Neukölln, sarà la menzione ‘artista’ che figura in calce alla dicitura ‘professione’, ma cosa sarà?

Il militare mi ha risposto tacendo e continuando a frugare con dita abili nel mio sacco, tirandone, fuori le mie pillole che assaggiava con la punta della lingua, i miei fogli di carta che esaminava in controluce, il mio tabacco Gauloises extra-légères che annusava come un vero segugio. Poi ha estratto un oggetto metallico: “questa è una bussola, vero?”, e senza neanche aprirla, e come se tale scoperta avesse dato il segnale della mia innocenza, se ne è andato via, lasciandomi a rimettere a posto il mio bagaglio scompaginato.

Ed è così che, dopo una delle notti più interminabili che sia, sono sbarcato intorno all’alba alla stazione di Verona Porta Nuova, ho tranciato grumi di studenti che sul piazzale attendevano il loro autobus accendendosi la prima sigaretta della giornata, e mi sono incamminato verso il centro della città, servendomi del libro di W. G: Sebald, Schwindel, Gefühle, come di una guida.

Una guida in verità davvero poco utile quella di Sebald: Il San Giorgio e la principessa del Pisanello non si trova difatti sul lato sinistro della basilica di Santa Anastasia, al di là di “un tavolato pittato di marrone e ritagliato da una porta, dietro la quale si trova oggi la stanza da soggiorno, se non l’alloggio intero della sagrestana”, e sorvegliato dalla perpetua sospettosa che l’autore descrive. L’affresco si trova oggi al proprio posto, sull’arcone della cappella dei Pellegrini e, datasi l’altezza della sua collocazione e la scarsa illuminazione del transetto di destra, una bella presentazione video dello stesso vi è proposta ad libitum, se solo abbiate cura di applicare il ditino sullo schermo di un maxi-computer piazzato davanti alla cappella (dimenticavo: l’accesso alla chiesa è a pagamento).

Gli è vero che il testo di Sebald descrive un’esperienza del 1980, epoca alla quale il termine “post-moderno” diventava appena di moda e i new media interattivi erano lungi dal venire. Ed è forse per sperimentare, per una volta, una condizione sospesa nel tempo, che mi sono portato, sulle tracce di “All’estero”, che costituisce la parte centrale di Schwindel, Gefühle ma non ne è il suo più bel testo, malgrado contenga mirabolanti pezzi, quali una fantasmagorica descrizione del servizio mattutino al buffet della stazione di Venezia Santa Lucia, che mi sono recato oltre l’Adige e oltre il Ponte Nuovo, al Giardino Giusti.

Ho passato circa un’ora per i sentieri e nei labirinti di bosso sempervirens dei giardini, disinteressandomi del famoso cipresso di Goethe ma battendo la statua sonora della Prosperità con il martello di legno, montando fin sopra il mascherone di marmo che in occasione delle feste barocche vomitava fuoco e fiamme, figurandomi su quale panca W. G. Sebald avesse potuto stendersi, ascoltando “il raschiare tenue del rastrello del giardiniere sui viali di ghiaia”. Da tempo non m’ero sentito così bene, scrive Sebald. Speravo di ritrovare qualcosa del genere nell’atmosfera sospesa dei giardini Giusti. C’era invece silenzio assoluto nei viali deserti e una nebbiolina umida non dissimile da quella che un paio di settimane prima avvolgeva l’Isola dei Pavoni.

Mi sono appoggiato alla balaustra sovrastante il mascherone, ho aperto il taccuino e ho scritto: “Negli ultimi mesi il corpo di mia madre si era enfiato fino a che il suo volume non le rese impossibile l’alzarsi, il sedersi o il camminare da sola. Perché potesse andare in bagno e avervi una qualche privatezza smontammo la porta del bagnetto di servizio, in modo che i suoi fianchi, debordanti dalla sedia a rotelle, potessero passarvi. Ma ragione di grande umiliazione era, per lei che sempre era stata di una pulizia da micio, il non poter più raggiungere con le mani le sue parti intime. Fu d’uopo che mio padre se ne occupasse, e sono sicuro che mai fra loro sia stata una tale prossimità, venata dall’irascibilità vergognosa di mia madre e dalla pazienza ovina di mio padre.

Fu infine giocoforza portare Pierina all’ospedale. Si coprì il viso con uno scialle, perché non voleva incontrare la compassione delle vicine al vederla in quello stato, e la portammo di peso giù per le scale, fino all’auto parcheggiata nel garage. Di fronte al pronto soccorso, mentre mio padre correva a prendere una lettiga e io la estraevo piano piano e pezzo a pezzo dalla portiera della macchina, si lasciò scappare: ‘c’ho paura’. ‘E’ normale’, le risposi, non sapendo cos’altro dire.”

 09-23/XII/2002

 Nota: aggiungerò note e immagini non appena avrò tempo.