20 novembre 2002. Sono tornato al cimitero dei cani. Con la bussola che mi ero comprato ieri al bazar pakistano ho definito la direzione verso cui guarda l’immagine smaltata di Kiki, scimmietta ammaestrata lì sepolta dal suo anonimo e amoroso proprietario, in una data imprecisata fra il 1890, anno di fondazione del cimitero di Asnières, e il 1996, quando lo visitai per la prima volta e presi in fotografia la lapide che più delle altre mi aveva commosso.
A 105 gradi Est-Sud Est si rivolge lo sguardo di Kiki. Mi è parso opportuno trovarle al più presto un compagno che, forse altrettanto fermato nel tempo, potesse stabilire con lei una muta e –certo- finora inconsapevole comunicazione. Ho lasciato quindi Asnières e, rimontato in sella alla bicicletta leggera e dalle sette marce che Silvie mi ha regalato –previa spesa di riparazione- tre settimane fa, mi sono portato a Maisons-Alfort, che sta oltre Charenton, dall’altro lato del Bois de Vincennes. E’ una di quelle giornate parigine, in cui all’avventuroso ciclista pare di fendere una quinta di pulviscolo vaporoso e caliginoso, che respinge tuttavia il freddo estremo e, dopo la prima salita, si addensa in un ulteriore strato di umidità intorno al corpo, che fa da contrappeso al sudore lanuginoso che già copre l’epidermide e trasforma la bicicletta in una sauna a due ruote.
Se sono andato al Museo di medicina veterinaria di Maisons-Alfort è a causa di W. G. Sebald. Nelle ultime pagine del suo libro, Austerlitz, Sebald erra per queste parti della città di Parigi e dei suoi suburbi, i quartieri del sud e del sud-est, dove grandi trasformazioni edilizie cancellano quella che rimaneva come una enclave proto-industriale lungo il bordo della Senna. E’ in queste pagine che Sebald stende il suo più bel pezzo di furia intellettuale, è qui che inveisce –nel modo più argomentato e con tutte le ragioni del mondo- contro la nuova, Très Grande Bibliothèque.
Ho pedalato sul lungosenna, davanti alle quattro torri morte della biblioteca nazionale, distogliendone lo sguardo per attardarlo invece sulle sobrie arcate del ponte di Tolbiac, sui due silos rimasti sul greto del fiume e sui pochi mucchi di ghiaia che presto nessuna chiatta verrà più a caricare.
Alla Scuola nazionale di veterinaria non ho incontrato, una volta superate le scuderie a forma di ferro di cavallo, il vecchio guardiano con il fez descritto da Jaques Austerlitz, e il biglietto d’ingresso non somigliava a quello che –come racconta Sebald alla pagina 282 dell’edizione italiana- gli viene da costui teso “da sopra il tavolino del bistrò al quale sedevamo, quasi fosse qualcosa di affatto particolare” e che lo scrittore riproduce in fondo alla pagina 281.
Il mio guardiano era un nero corpulento, occupato in una telefonata di carattere palesemente intimo, che si è alzato per accendermi le luci e mi ha poi lasciato solo, dopo avermi messo in mano una guida dattiloscritta, untuosa e slabbrata, dalla quale ho appreso come Honoré Fragonard, dopo avere realizzato insieme con i suoi allievi, fra il 1766 e il 1771, i capolavori di preparazione anatomica che stavo per vedere, venisse cacciato –perché preso per folle o, più probabilmente, per conflitti di potere- dalla scuola stessa, per ricomparire, più di vent’anni dopo, al fianco del suo cugino germano, il pittore Jean-Honoré Fragonard, e del grande David, come membro della commissione artistica della Rivoluzione.
Ed è così che, dopo avere esaminato vari esempi di mostruosità zoologiche compresse in boccali di formalina o stipate in vetrine affastellate, e fra queste vari esemplari di vitelli e scimmie a due teste e una foca a due code, mi sono trovato nell’ultima stanza di fronte a una cadavere mummificato secondo i più moderni procedimenti del XVIII° secolo –fra cui l’iniezione di brandy al posto del flusso sanguigno- che rappresenta un Sansone il quale, brandendo un osso mascellare di provenienza equina, si scaglia contro i Filistei; personaggio questo invero impressionante, grazie all’immaginazione artistico-scientifica di Fragonard che, per farlo più terribile, non esitò a rompergli il setto nasale, oltre che a iniettargli cera fusa nel pene, a farlo orrendamente turgescente. Ma ecco, nella vetrina opposta, il famoso Cavaliere dell’Apocalisse. Non tiene più il morso del cavallo –anch’esso mirabilmente dissezionato e disseccato- con le redini di velluto blu, né più agita lo staffile che l’anatomista gli aveva messo in mano, e una brutta impalcatura di metallo verniciato di bianco tiene insieme cavallo e cavaliere, ma ciononostante la composizione risulta davvero minacciosa. Ho estratto dalla tasca la bussola e mi sono posto con le spalle al cavaliere, guardando nella direzione in cui egli guarda: 300 gradi Ovest-Nord Ovest. Ho annotato questo dato nel mio taccuino e ho lasciato le sale del museo.
Sono tornato al mio studio, il quale si trova all’altro capo della città, presso piazza Clichy e di fronte al cimitero di Montmartre. Avrò pedalato per un’ora, e i pensieri venivano a me, aiutati dallo scorrimento lubrificato della catena sulla corona e dallo scatto morbido delle marce. Se mai avessi avuto la fortuna di avere incontrato W. G. Sebald, gran camminatore e grande scrittore, mi sarei permesso di vantargli l’utilità della bicicletta per la ginnastica mentale. I dieci chilometri che, come racconta nelle ultime pagine di Austerlitz, fece a piedi per raggiungere, dalla cittadina belga di Mechelen, la fortezza di Willebroek –ove, fra gli altri, venne imprigionato e torturato Jean Améry- li avrebbe percorsi nel quarto del tempo, senza per ciò rinunciare alla dimensione contemplativa che dal moto delle gambe scaturisce. Avrei potuto, inoltre, parlargli del rapporto sororale che sempre è stato fra bicicletta e Resistenza.
Me ne sono tornato al mio studio, che è sito all’ultimo piano della Villa des Arts, al 15 di via Hégésippe Moreau ma con accesso dal 17, da quando, trent’anni fa, gli eredi del costruttore Guéret divisero gli appartamenti dagli studi che vi erano annessi e chiusero porte, alzarono tramezzi, separarono ingressi e vendettero buona parte delle parcelle così ricavate.
Il complesso edilizio della Villa des Arts è un vero e proprio labirinto di scale che reincontrano se stesse, di corridoi lunghissimi che finiscono su porte murate, di vasti antri bui che contengono solo vecchi mobili squinternati e, alla fine, di una dozzina di studi da pittore le cui grandi vetrate scendono su sei livelli, come una cascata di vetro e di zinco, fino al limite meridionale del cimitero di Montmartre –ciò che fa che, una volta saliti al proprio studio del sesto e ultimo livello, si è davvero alla presenza dell’assoluto: se si guarda verso l’alto, non vi è che cielo; se si guarda verso il basso, non vi è che terreno e ultraterreno, le tombe coperte di foglie secche e i rami, attualmente spogli, dell’anziano ippocastano che tocca il muro di recinzione-. Questo complesso, dicevo, fu costruito insieme con tutto il quartiere dal suddetto Guéret intorno all’epoca in cui fu innalzata la torre Eiffel e, si dice, con materiali di scarto –o di riserva- della torre stessa. Ed è vero che sono ben portanti e rassicuranti le putrelle imbullonate che incorniciano questa vetrata.
E’ in uno di questi studi ai piani superiori che Paul Signac, abitante della Villa dal 1892 al 1897, finì di dipingere il suo più gran quadro, Au temps d’harmonie (l’âge d’or n’est pas dans le passé, mais dans l’avenir), ambizioso manifesto anarchico di tre metri per quattro che, offerto a Horta per la Maison du Peuple che l’architetto stava completando a Bruxelles, e da costui implicitamente rifiutato (Signac, l’11 novembre 1900: “Le tirelignard de la maison du peuple, Horta, n’ayant pas daigné, en six mois, trouver le temps de faire installer les quatre planches qui devaient servir de cadre à ma décoration, je retire purement et simplement mon offre.”), finì per essere donato dalla vedova del pittore –nel 1938, in tempi di Fronte Popolare- al municipio comunista di Montreuil, dove tuttora si trova.
Au temps d’harmonie pose a Signac problemi cruciali, di ordine concettuale ed etico oltre che estetico. A causa del suo grande formato, la concezione stessa della divisione pura dei colori veniva messa in pericolo. Per poter difatti apprezzare, secondo il principio divisionista, il quadro nella sua interezza, occorreva una distanza che il pittore valutava fra i 12 e i 14 metri, ciò che lo indusse, durante la sua esecuzione, a farlo discendere nello studio, più spazioso, del suo vicino Eugène Carrière, e lì, avendolo visionato da una appropriata distanza, si trovò costretto a sovrapporre i margini dei tocchi di colore l’uno sull’altro e ad esclamarsi: ”Comme c’est difficile d’être honnête!”
Mentre Paul Signac era impegnato nelle difficoltose trattative intorno alla destinazione della sua imponente opera, un altro illustre abitante della Villa, Paul Cézanne, faceva venire il suo mercante, Ambroise Vollard, quasi ogni mattina per tutto l’inverno del 1899, per un totale di centoquindici volte, per tre-tre ore e mezza ogni volta, a posare per il suo ritratto. Vollard, durante tutto quel periodo, non ebbe mai la sensazione di sentirsi più importante di una mela, agli occhi del ritrattista cui aveva commissionato il lavoro. Gli capitava, talvolta, nel corso di quelle interminabili sedute in cui Cézanne si limitava a deporre sulla tela due o tre tocchi di colore e passare il resto del tempo a scrutarlo in viso, gli capitava talvolta di addormentarsi, e allora il pittore si accalorava: “Malheureux! Vous dérangez la pose! Je vous le dis, en vérité, il faut vous tenir comme une pomme! Est-ce que cela remue, une pomme?”
Il mio vicino di studio, Pierre, un valente dipintore di tradizione post-espressionista, sostiene che il ritratto avrebbe potuto essere stato eseguito lì da lui. E’ all’altezza della sua vetrata, difatti, che gli occhi di una persona seduta si trovano, a quella angolazione, sulla stessa linea dei comignoli di terracotta rappresentati nel quadro. E le due strane forme circolari che si vedono al di sopra dei comignoli, e di cui oggi non v’è più traccia, erano verosimilmente due coperchi di camino che sono stati sostituiti da sfiatatoi in Eternit.
E’ vero anche che, scrostando la pittura bianca dello studio di Pierre, appare, proprio in quell’angolo, il colore originario del muro, un ocra-rossastro che corrisponde perfettamente a quello del dipinto. E’ altresì veritiero che, all’epoca, tali colorazioni delle pareti erano estremamente correnti e consuete, così come gli ambienti erano più scuri, essendo ingombri di mobili voluminosi, tappezzerie, briccabracchi di tutti i tipi, stampe giapponesi e fiori di stoffa, e illuminati da cannelli a gas, di cui d’altronde nello studio accanto rimane traccia. Potrò sbagliare, ma non ho memoria di un ritratto ottocentesco il cui sfondo sia bianco.
Bianco era il pettorale della camicia di Vollard, di cui Cézanne, riferisce il mercante nelle sue memorie, non fu completamente scontento. Lasciando il ritratto incompiuto dopo cento e quindici sedute e tornandosene a Aix en Provence, pare avesse concluso: “Je ne suis pas mécontent du devant de la chemise.”
Le cornacchie planano gracchiando sul lucernaio dello studio e, non so perché, la loro voce mi riporta alla targa della strada e al triste destino di Hégésippe Moreau. Portano sfortuna le cornacchie? Non lo so; certo è che costui fu un uomo sfortunato, uno di quegli artisti sfortunati e artefici della propria sfortuna che il secolo Ottocento ha prodotto con una incontestabile prodigalità.
Un paio di giorni prima –ero nel pieno di un periodo di ottusa rassegnazione, ché nessuno mi voleva, nessuno mi chiedeva e perciò non c’era motivazione a niente- Daniel mi aveva tirato fuori dalla solitudine bianca dello studio e mi aveva portato a pranzo al ristorante dietro l’angolo, il café des Arts, dove il proprietario algerino, un nobiluomo sempre sorridente e attento, serve il cuscus in piatti decorati da ideogrammi cinesi, eredità del suo predecessore, fatto questo che ci parla qui di multiculturalismo e ascolto dell’Altro con la A maiuscola che grazie al cielo andandosene ci ha lasciato il servizio buono e financo le sedie in similvelluto rosso ricoperto di plastica trasparente, il cuscus però al café des Arts è buono e perché no, bisogna prendere ciò che dal cielo ci viene, comprese le sedie con gli ideogrammi augurali sullo schienale.
In occasione di quel pasto memorabile Daniel, di fronte al mio palese smarrimento quanto all’eventualità pur remotissima di un qualsivoglia progetto futuro, mi parlò di un testo di Jean Christophe Bailly, pubblicato ventidue anni fa da un editore di Parigi. La XVIIIe dynastie à Berlin racconta di un suo soggiorno nella capitale tedesca, non ancora unificata e divisa in due parti da un lungo e alto muro. In quello che allora era il museo egizio di Berlino-Ovest, in una dimora patrizia situata esattamente di fronte al castello di Charlottenburg, Bailly contempla il busto di Nefertiti, regina d’Egitto: “Sa beauté, mais aussi le persistant sourire de toute l’Egypte ancienne m’ayant poussé à ne plus me contenter de la seule vue des objets, c’est muni d’une connaissance un peu moins vague que je retournai à Berlin, moins de deux ans plus tard, d’ailleurs pour d’autres raisons.”
In questo secondo soggiorno Bailly si porta all’altro lato della città, nella capitale della Repubblica Democratica Tedesca, e lì, visitando le collezioni egizie di Berlino-Est, che erano ospitate nel bel padiglione del Bode Museum, all’estremità dell’isola dei musei, si trova davanti al viso, imprigionato in uno scrigno, di Ankhesenpaaton, la figlia di Nefertiti. Ecco che questi due visi “exilés d’Egypte pour se retrouver de part et d’autre du mur de Berlin”, si guardavano, dice Bailly, da un lato all’altro del muro. Tale almeno era la sua suggestione, che decide di verificare nel corso di una terza stazione a Berlino. Ma i due sguardi, se pure si incrociano, non si incontrano. “Je notai alors ceci –scrive: ‘Les regards ne se croisent donc pas, et il s’en faut de peu. Il me reste, sans le signal, une histoire à raconter. Tout est bien ainsi’.” (4)
Ecco da dove mi viene la piccola illuminazione che, alcuni giorni fa, mi tirò dal materasso su cui mi ero appena accasciato e mi tenne sveglio, nell’attesa impaziente del mattino e dell’ora di apertura del cimitero dei cani.
Dispiego sul tavolino la carta di Parigi. Con matita e righello traccio la linea che, dal punto approssimativo in cui si trova la tomba della scimmietta Kiki, segue la direttrice 105° S-SE la quale, constato, traversa il boulevard périphérique all’altezza della porta di Clichy, taglia il viale delle Batignolles, sfiora la stazione di Saint Lazare e i grandi magazzini Printemps, tocca i giardini del Lussemburgo e il viale Auguste Blanqui, luogo di uno degli ultimi incontri fra W. G. Sebald e Jaques Austerlitz, si perde oltre il Kremlin-Bicêtre e l’ospedale di Villejuif, dove tanti italiani del sud vengono a curarsi il cancro perché non trovano al paese loro un’assistenza sanitaria adeguata.
Il cavaliere di Maisons-Alfort invece guarda, lungo i suoi 300° W-NW, a tutti i siti posti fra la città e la sua periferia orientale: Vincennes, la Porte Dorée, la porta Saint Mandé, Montreuil -dove scavalca la grande Armonia di Signac-, il canale dell’Ourcq e si allontana attraverso la Val d’Oise di Gérald de Nerval.
E -ancora oltre- i globi oculari di vetro soffiato del Cavaliere di Fragonard sono per l’eternità puntati verso la città di Calais e i suoi doganieri inospitali, solcano il canale della Manica e, prima di perdersi nelle brume dei mari del Nord, traversano la regione inglese del Norfolk, dove W. G. Sebald insegnò letteratura tedesca per trent’anni.
Dal canto suo Kiki è condannata a fissare per sempre il suo sguardo di ceramica oltre Villejuif e il suo ospedale dalla segnaletica in italiano e in francese, verso l’Essonne e la Borgogna, oltre la Côte d’Or e il Jura, verso la pianura padana e San Benedetto del Tronto, oltre il mar Adriatico e lo stretto di Otranto tomba di centinaia di immigrati clandestini, attraverso l’arcaico Peloponneso e sul filo dell’estremità occidentale dell’isola di Creta, fin sui deserti d’Egitto, dove né Nefertiti né sua figlia Ankhesanpaaton soggiornano più.
Kiki la scimmietta ammaestrata e il Cavaliere dell’Apocalisse non si incontreranno mai o, se mai si incontreranno, ciò accadrà agli Antipodi, in un punto qualsiasi dell’immensa distesa marina fra la Nuova Zelanda e la Tasmania, e io non sarò lì per raccontarlo.
19-21/XI/2002
Nota: aggiungero’ le immagini non appena avro’ tempo (dicembre 2015). Per chi volesse, si trovano nella versione francese del testo: Les errances tressées .