Galleria Del Borgo,
Roma, dicembre 2004
Un deposito, un ricettacolo di cose antiche, di frammenti sparsi del passato, è un antiquarium. Tali frammenti della storia possono essere radunati per uno scopo conservativo oppure per essere rimessi in una circolazione che non corrisponde alla loro destinazione originaria. Chi visiti oggi un antiquarium è testimone del futuro postumo degli oggetti costì riuniti.
L’espressione “futuro postumo” è forse un ossimoro (ciò che deve ancora accadere, non è già avvenuto). Pur tuttavia mi pare appropriata per dire il principio soggiacente a questa esposizione presso la galleria Del Borgo: poiché il futuro del mio lavoro d’artista – indipendentemente dal suo grado di qualità – sarà retrospettivo, proietto fin d’ora le mie immagini nel passato.
Più che di pubblicare in vita pagine postume, si tratta qui di essere coerentemente “occasionalista” e fondersi del tutto nel contesto dato, che è quello di una galleria antiquaria con una propria storia e con una propria politica. Nella mostra precedente si scelse il confronto diretto – a partire dalla collezione stessa del gallerista – con la storia dell’arte e con le sue produzioni forse minori ma espressioni di un “saper fare” costitutivo della nostra eredità artistica: nel declinare in varie maniere il tema del panneggio, nel “contemporaneizzare” i disegni antichi usando – quasi a citazione – di tutte le tecniche possibili, creammo uno spazio bianco e in questo spazio facemmo una “installazione”, creammo cioè un luogo artificiale.
In questa nuova occasione il nostro approccio è stato differente. Considerare il proprio lavoro come un reperto d’archeologia o come un oggetto d’antiquariato non è – credo – un atto di presunzione. Si tratta piuttosto di un’ottica di ridimensionamento, di un gesto di misura: così come la sanguigna di un pittore di media levatura della Roma barocca può qui trovarsi fra un armadio toscano del seicento e un cassone rinascimentale, un mio inchiostro potrebbe ben finire anonimamente, fra un secolo o due, accanto a un’Olivetti Lettera 22 e a una radio Blaupunkt del 1966; tutto ciò che avrebbe in comune con questi oggetti sarebbe un simile statuto di merce pregiata. E, ormai distaccato dal corpus della mia opera complessiva, quell’inchiostro avrebbe un valore del tutto suo, del tutto indipendente dalla mia persona e – infine – esatto.
Ci si è applicati, insieme con i curatori della galleria, a un esercizio che è allo stesso tempo mercantile ed estetico. Gli accostamenti e i rimandi fra i miei lavori (scelti fra quelli prodotti nell’arco degli ultimi quindici anni) e gli oggetti d’arte antica rispondono tanto a suggestioni formali quanto a contrasti ricercati: si intende mostrare l’acquisita libertà di ogni singolo elemento e il suo dialogare con gli altri in una storicizzazione datagli dalla natura stessa del luogo in cui si sono trovati.
E se di esercizio storicizzante si tratta, non si fa spazio intorno alle opere, non si fa loro intorno un’aura di parete bianca. Al contrario le si immerge in un horror vacui di specchiere rococò, paesaggi post-poussiniani e lampadari genovesi, per verificare insieme con il cortese pubblico se riescano ad uscirsene.