Travaux 2010

Antiquarium, replay, 1997-2010
Des photographies d’un lieu qui n’existe plus, l’Antiquarium du mont Celio, à Rome, où étaient entassés en plein air, comme dans une casse de voitures, jusqu’à il y a peu, tous les débris des sculptures antiques qui n’avaient pas trouvé place, ni dans les galeries des musées, ni dans leurs réserves. Des coulures de résine à bâteau, mélangée avec un pigment fluorescent, signes anachroniques d’un temps fragmenté.

antiquarium-replay

Reprints, 1997-2010
Comme les vampires, le latex naturel craint la lumière du jour. Les rayons ultra-violets le dessèchent, l’assombrissent, le rendent poisseux et finalement le font tomber en lambeaux. Ce matériau organique est tellement photosensible qu’il est le dernier à pouvoir être utilisé pour la reproduction des images photographiques.
C’est donc par un procédé de redondance qu’on y imprime les témoignages de son propre effort de conservation. En particulier, cette série présente à chaque fois deux images superposées : d’un côté, des détails d’un site industriel dans lequel j’ai pénétré avant sa destruction ; de l’autre, des restes de fouilles archéologiques, pas assez nobles pour trouver place dans un musée.
L’exercice d’imitation : le Piranèse des Carceri d’invenzione.

reprints

Ex voto Remix, 2009-2010
Des images d’Ex-voto étrusques, prises de catalogues et de cartes postales. Ces spécimens : reliquats d’ennuis de santé et de peines de cœur, extraits de leur contexte tombal, présentés dans les musées, posés sur des moquettes colorées, répertoriés par catégories. Ici repris, reproduits sur verre, superposés à des peintures de SP, “à la chinoise”, sans souci d’analogie. Redeviendrons-nous des jouets?

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Phantombilder, 2010
Après avoir achevé un travail sur les images d’identification du siècle passé (1920-1970) je me suis lancé dans la recherche de nouveaux sujets liés à la question de la pose et du portrait. Les identifications policières que j’avais retravaillées étaient des portraits de personnes qui auraient préféré ne pas être prises en photo. Mais qu’ils l’aient voulu ou pas, c’était des sujets en chair et en os, qui exprimaient quelque chose de plus que ce pour quoi ils étaient photographiés, et que je cherchais à retrouver.
Les portraits robots actuels de la police allemande – facilement accessible sur Internet – sont des montages photographiques très sophistiqués mais, en même temps, ne sont pas des photographies.
Ils ne reproduisent aucun sujet réel : ils reproduisent un état de la mémoire. On dirait que la Unheimlichkeit de l’image photographique est ici doublée. Malgré la vraisemblance technique, il manque à ces personnages une étincelle de vie. Il manque l’imperfection, l’asymétrie propre à chaque visage humain. Ces personnages ressemblant à des cadavres aux yeux ouverts : ils sont des cadavres deux fois . Qu’est-ce que pourrai réussir à leur faire dire?

phantombilder

Antiquarium (2004)

Galleria Del Borgo,
Roma, dicembre 2004

Un deposito, un ricettacolo di cose antiche, di frammenti sparsi del passato, è un antiquarium. Tali frammenti della storia possono essere radunati per uno scopo conservativo oppure per essere rimessi in una circolazione che non corrisponde alla loro destinazione originaria. Chi visiti oggi un antiquarium è testimone del futuro postumo degli oggetti costì riuniti.
L’espressione “futuro postumo” è forse un ossimoro (ciò che deve ancora accadere, non è già avvenuto). Pur tuttavia mi pare appropriata per dire il principio soggiacente a questa esposizione presso la galleria Del Borgo: poiché il futuro del mio lavoro d’artista – indipendentemente dal suo grado di qualità – sarà retrospettivo, proietto fin d’ora le mie immagini nel passato.
Più che di pubblicare in vita pagine postume, si tratta qui di essere coerentemente “occasionalista” e fondersi del tutto nel contesto dato, che è quello di una galleria antiquaria con una propria storia e con una propria politica. Nella mostra precedente si scelse il confronto diretto – a partire dalla collezione stessa del gallerista – con la storia dell’arte e con le sue produzioni forse minori ma espressioni di un “saper fare” costitutivo della nostra eredità artistica: nel declinare in varie maniere il tema del panneggio, nel “contemporaneizzare” i disegni antichi usando – quasi a citazione – di tutte le tecniche possibili, creammo uno spazio bianco e in questo spazio facemmo una “installazione”, creammo cioè un luogo artificiale.
In questa nuova occasione il nostro approccio è stato differente. Considerare il proprio lavoro come un reperto d’archeologia o come un oggetto d’antiquariato non è – credo – un atto di presunzione. Si tratta piuttosto di un’ottica di ridimensionamento, di un gesto di misura: così come la sanguigna di un pittore di media levatura della Roma barocca può qui trovarsi fra un armadio toscano del seicento e un cassone rinascimentale, un mio inchiostro potrebbe ben finire anonimamente, fra un secolo o due, accanto a un’Olivetti Lettera 22 e a una radio Blaupunkt del 1966; tutto ciò che avrebbe in comune con questi oggetti sarebbe un simile statuto di merce pregiata. E, ormai distaccato dal corpus della mia opera complessiva, quell’inchiostro avrebbe un valore del tutto suo, del tutto indipendente dalla mia persona e – infine – esatto.
Ci si è applicati, insieme con i curatori della galleria, a un esercizio che è allo stesso tempo mercantile ed estetico. Gli accostamenti e i rimandi fra i miei lavori (scelti fra quelli prodotti nell’arco degli ultimi quindici anni) e gli oggetti d’arte antica rispondono tanto a suggestioni formali quanto a contrasti ricercati: si intende mostrare l’acquisita libertà di ogni singolo elemento e il suo dialogare con gli altri in una storicizzazione datagli dalla natura stessa del luogo in cui si sono trovati.
E se di esercizio storicizzante si tratta, non si fa spazio intorno alle opere, non si fa loro intorno un’aura di parete bianca. Al contrario le si immerge in un horror vacui di specchiere rococò, paesaggi post-poussiniani e lampadari genovesi, per verificare insieme con il cortese pubblico se riescano ad uscirsene.

Antiquarium December 2004

Un deposito, un ricettacolo di cose antiche, di frammenti sparsi del passato, è un antiquarium. Tali frammenti della storia possono essere radunati per uno scopo conservativo oppure per essere rimessi in una circolazione che non corrisponde alla loro destinazione originaria. Chi visiti oggi un antiquarium è testimone del futuro postumo degli oggetti costì riuniti.

L’espressione “futuro postumo” è forse un ossimoro (ciò che deve ancora accadere, non è già avvenuto). Pur tuttavia mi pare appropriata per dire il principio soggiacente a questa esposizione presso la galleria Del Borgo: poiché il futuro del mio lavoro d’artista – indipendentemente dal suo grado di qualità – sarà retrospettivo, proietto fin d’ora le mie immagini nel passato.

Più che di pubblicare in vita pagine postume, si tratta qui di essere coerentemente “occasionalista” e fondersi del tutto nel contesto dato, che è quello di una galleria antiquaria con una propria storia e con una propria politica. Nella mostra precedente si scelse il confronto diretto – a partire dalla collezione stessa del gallerista – con la storia dell’arte e con le sue produzioni forse minori ma espressioni di un “saper fare” costitutivo della nostra eredità artistica: nel declinare in varie maniere il tema del panneggio, nel “contemporaneizzare” i disegni antichi usando – quasi a citazione – di tutte le tecniche possibili, creammo uno spazio bianco e in questo spazio facemmo una “installazione”, creammo cioè un luogo artificiale.

In questa nuova occasione il nostro approccio è stato differente. Considerare il proprio lavoro come un reperto d’archeologia o come un oggetto d’antiquariato non è – credo – un atto di presunzione. Si tratta piuttosto di un’ottica di ridimensionamento, di un gesto di misura: così come la sanguigna di un pittore di media levatura della Roma barocca può qui trovarsi fra un armadio toscano del seicento e un cassone rinascimentale, un mio inchiostro potrebbe ben finire anonimamente, fra un secolo o due, accanto a un’Olivetti Lettera 22 e a una radio Blaupunkt del 1966; tutto ciò che avrebbe in comune con questi oggetti sarebbe un simile statuto di merce pregiata. E, ormai distaccato dal corpus della mia opera complessiva, quell’inchiostro avrebbe un valore del tutto suo, del tutto indipendente dalla mia persona e – infine – esatto.

Ci si è applicati, insieme con i curatori della galleria, a un esercizio che è allo stesso tempo mercantile ed estetico. Gli accostamenti e i rimandi fra i miei lavori (scelti fra quelli prodotti nell’arco degli ultimi quindici anni) e gli oggetti d’arte antica rispondono tanto a suggestioni formali quanto a contrasti ricercati: si intende mostrare l’acquisita libertà di ogni singolo elemento e il suo dialogare con gli altri in una storicizzazione datagli dalla natura stessa del luogo in cui si sono trovati.

E se di esercizio storicizzante si tratta, non si fa spazio intorno alle opere, non si fa loro intorno un’aura di parete bianca. Al contrario le si immerge in un horror vacui di specchiere rococò, paesaggi post-poussiniani e lampadari genovesi, per verificare insieme con il cortese pubblico se riescano ad uscirsene.