Traduzioni trasparenti (1999-2000)

I

Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati,1 Primo Levi racconta di un incidente di traduzione, capitatogli in occasione della pubblicazione in tedesco di Se questo è un uomo.2
In un dialogo fra Gounan, un ebreo francese di origine polacca, e l’ungherese Kraus, il primo si rivolge al secondo con un’espressione che pare strana e inaccettabile al traduttore tedesco: “Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?”. Primo Levi, che aveva trascritto la frase così come gli pareva di averla udita, accettò, dopo una prolungata discussione epistolare, la versione proposta dal traduttore: “Langsam, du blöder Heini …“, Heini essendo il diminutivo di Heinrich.
Fu solamente una ventina di anni dopo che, leggendo un’opera sullo jiddish, Levi scoprì che si trattava difatti di una tipica forma di quella lingua: “Khamoyer du eyner!”, “Asino tu uno!”. “La memoria meccanica aveva funzionato correttamente”, commenta lo scrittore.
Nel 1959 la Fischer Bücherei aveva acquistato i diritti per la traduzione tedesca del suo libro su Auschwitz (che, apparso nel 1947, aveva conosciuto una diffusione confidenziale, prima di essere riedito da Einaudi nel 1958). Levi reagì con un sentimento di trionfo che svelò a lui stesso i “destinatari veri” di Se questo è un uomo. Scritto in italiano e per italiani, quell’opera parlava difatti a “quelli”, contro cui si puntava come un’arma.
“Ora l’arma era carica”, e Levi si apprestava a sorvegliare da presso il lavoro dell’editore e del traduttore tedeschi. Esige un controllo costante dell’iter editoriale, diffida dal modificare una sola parola del testo originale: “volevo controllarne la fedeltà, non solo lessicale ma intima”.3 Solo quando riceve una lunga lettera del traduttore capisce che di lui può fidarsi: disertore dell’esercito nazista, nel settembre 1943 Heinz Riedt (che Levi, curiosamente, non nomina mai) si era unito alle formazioni partigiane italiane e aveva combattuto contro i suoi compatrioti. Stabilitosi a Berlino dopo la guerra, si guadagnava da vivere come traduttore, per amore dell’indipendenza e per la difficoltà a trovare un impiego, in quanto ex disertore; italianista, Riedt era specialista dei dialetti del Veneto, la regione in cui aveva combattuto. Tradurre Se questo è un uomo era per lui un modo di continuare la sua battaglia politica. Non c’era di che sospettarne politicamente; ma c’era ancora il sospetto linguistico.
Il tedesco di Levi, imparato sui manuali di chimica prima e nei campi poi, era una lingua rozza e abbrutita, un “gergo degradato” che era stato un mero, e decisivo, strumento di sopravvivenza (a più riprese egli mostra come debba la vita all’aver intuito a tempo la necessità della traduzione quando, nei primi giorni ad Auschwitz, barattò pane in cambio di lezioni di lingua); Riedt, d’altro canto, “uomo di lettere e di raffinata educazione”, ignorava le peculiarità linguistiche del tedesco da campo di concentramento, che solo in parte derivava da quello da caserma.
Come si è visto, l’estraneità linguistica si ripercuoteva, oltre che fra le lingue straniere, all’interno stesso della lingua, fra le sue varianti: il traduttore, oltre che ignorante della versione concentrazionaria della Lingua Tertii Imperii, lo era anche di un dialetto tedesco quale lo jiddish. Levi, d’altro canto, era e rimase un cattivo conoscitore dell’alto-tedesco.
La collaborazione fra autore e traduttore fu lunga e faticosa: entrambi, per motivi simili e diversi, perfezionisti, spesero mesi in uno scambio epistolare di proposte e controproposte linguistiche.
“Lo schema era generale: io gli indicavo una tesi, quella che mi suggeriva la memoria acustica cui ho accennato a suo luogo; lui mi opponeva l’antitesi, ‘questo non è buon tedesco, i lettori di oggi non lo capirebbero’; io obiettavo che ‘laggiù si diceva proprio così; si arrivava infine alla sintesi, cioè al compromesso. L’esperienza mi ha poi insegnato che traduzione e compromesso sono sinonimi”.4
Questa asserzione mi pare piena di quel buon senso laico che era tipico di Levi e che, probabilmente, gli aveva salvato la vita. Ed è, certo, nella sua schematicità hegeliana, condivisibile, se ci limitiamo a considerare la traduzione come strumento di passaggio, un ponte d’assi fra una forma linguistica e l’altra.
Mi sembra, però, che in un paio di occasioni e forse inconsapevolmente Levi apra, almeno su un lato, questa sua sintesi, e ci porga così una passerella per un sentiero secondario, che vorremmo qui percorrere.
Vorrei richiamare l’attenzione su due passaggi. Il primo è incarnato nella singolarità di questa traduzione: scritto in italiano, il libro si “svolge” in realtà in tedesco; la sua lingua madre, se così si può dire, è il tedesco, ed è il tedesco particolare dei campi; si tratta di un linguaggio che è straniero anche agli intellettuali germanici di cui parla Améry; è solo con estrema reticenza che essi riescono, e non sempre riescono, a pronunciarlo.5
Ma, ugualmente, per Levi il principio di autenticità, di originalità, è decisivo: “In certo modo, non si trattava di una traduzione ma piuttosto di un restauro: la sua [del traduttore] era, o io volevo che fosse, una restitutio in pristinum, una retroversione alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano. Doveva essere, più che un libro, un nastro di magnetofono”6.
Doveva essere, vuol dire Levi, voce, suono, come se la riproduzione sonora dell’esperienza fosse ciò che più vicino potesse essere alla natura dell’esperienza. Levi si considera, certo, un testimone auricolare (si ricordi, nella pagina precedente, l’affermazione sull’esattezza della sua memoria acustica); ma c’è qui di più, quando si dice che si cerca nella traduzione una retroversione, un ritorno all’avvenimento che non può altrimenti essere rappresentato. Un libro è un oggetto cartaceo che arriva al termine di molteplici successive mediazioni, e la cui natura è ormai troppo lontana da quella dell’avvenimento che lo ha originato. Quel libro non doveva essere neanche un film, non doveva essere un montaggio o una sequenza di immagini, doveva essere un nastro di magnetofono. Doveva essere cioè la forma di riproduzione meccanica più fedele possibile. Quando parla della sua propria memoria “meccanica”, Levi la intende senza dubbio come uno strumento non soggettivo, quasi indipendente dalla sua persona e certo più affidabile della sua stessa volontà di testimonianza. La sola maniera di rappresentare l’esperienza sarebbe riprodurla, e ciò è ovviamente impossibile; la registrazione meccanica non è neanche disponibile, e non c’è altra scelta che essere il primo traduttore, nel linguaggio più accessibile, quello scritto, dei suoni registrati dalla memoria.
Di qui si vede come l’esigenza di “tornare” a una lingua in cui egli peraltro non aveva scritto contraddice la semplice idea di traduzione come processo di spostamento di un materiale linguistico, processo che esige tuttavia un “compromesso”. Levi sa bene che non si tratta qui di un mero trasporto, come indica l’accezione italiana della parola “traduzione”, che è quella con cui si descrive il trasferimento di un detenuto da un carcere all’altro, così come “tradotta” è il treno che trasporta le truppe in tempo di guerra.
Il secondo punto del suo testo, su cui vorrei attirare lo sguardo, perché è in contraddizione con l’idea di “retroversione” all’originale, è il passaggio in cui cita la lettera che scrisse al traduttore tedesco, nel maggio 1960, per ringraziarlo del suo lavoro. Levi usa una curiosa espressione: “Capisce, è il solo libro che io abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco….”7. C’è tutto tranne il parallelismo di un mero trasporto linguistico, in questo “trapiantare”. Fa pensare piuttosto a qualcosa di chirurgico, all’innesto di un organo estraneo in un corpo proprio; non si può non pensare a un trapianto senza immaginare un’operazione traumatica e pericolosa, su cui sempre incombe il rischio del rigetto. Certo, questo libro è “un’arma carica”, ed è chiaro come Levi la volesse dirompente per l’animo dei suoi lettori tedeschi, e non in ultimo luogo grazie alla riproduzione esatta di una lingua che diceva Fressen (divorare) invece che Essen (mangiare), Stücke (pezzi) invece che Männern (uomini) o Leiche (cadaveri). Ma trapiantare un testo, per definizione straniero, nel corpo di una lingua, significa sottoporre quella lingua a mutazione, contribuire alla sua trasformazione in un’altra forma. Si è lontani qui, di nuovo, dall’idea della traduzione come compromesso inevitabile. Questo intruso nella casa della lingua ne forza le barriere, per quanto Levi non a ciò si dicesse interessato, ma al mero fatto di “fare udire la mia voce al popolo tedesco”.
L’aspetto sovversivo del trapianto è, inoltre, precisamente nel fatto che, operandosi a partire da necessarie compatibilità, come quella del gruppo sanguigno, introduce un elemento “proprio” dell’umano in cui certe differenze non contano più: non solo quelle di “facies”, ma le più radicali, come quelle di razza o di sesso. Il cuore di una donna africana può funzionare nel corpo di un uomo europeo, una volta che le difese immunitarie di questo siano state abbassate.8
Diciamo, per portare oltre la metafora, che le compatibilità sono i limiti linguistici stessi della traducibilità, che permettono all’estraneità di introdursi e, senza fondersi, “combinarsi” nel corpo che la ospita, mettendone alla prova i limiti e mettendo il corpo stesso in pericolo. Questo è forse ciò che il traduttore di Primo Levi ha realizzato: un’applicazione di quello che Benjamin diceva fosse il compito del traduttore, allargare, cioè, i confini della propria lingua. Quanto al fatto di “restaurare” la lingua in cui le cose erano avvenute, ciò era semplicemente impossibile: il libro di Levi non era una registrazione, ma un’opera d’arte. Poteva essere tradotto solo in un’altra opera d’arte; poteva, in fin dei conti, solamente essere mutato.

II

Die Wahre Übersetzung ist durchscheinend. “La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua”.1

Come può una traduzione essere trasparente?
La lingua scritta è essa stessa, l’abbiamo visto nel caso di Primo Levi, una traduzione. E’ il mezzo attraverso cui esprimere la necessaria testimonianza; è una mediazione, quindi, che è lì a rappresentare l’autenticità dell’esperienza.
Se la trasparenza può essere un attributo della traduzione, è per una comune proprietà di mediazione. La trasparenza, difatti, non rende visibile un oggetto, ne permette però la visibilità. In quanto medium, mette in rapporto o lega insieme due termini. Ma non è sinonimo di fedeltà all’uno dei due, non è riproduzione. Al contrario, è sempre presente nell’idea di trasparenza un concetto di contaminazione, di deformazione o d’inganno. La materia trasparente non si vede, perché si vede attraverso di essa, ma c’è, e l’immagine, o la sensazione, non può non venirne modificata. In informatica, l’espressione “interamente trasparente per l’utente” indica un’operazione che, mentre si svolge, è a questi ignota, non si fa percepire. Ciò che se ne vede è solo l’effetto. Qualcosa che si vede in trasparenza e qualcosa che si può vedere solo “a traverso”.
D’altro canto per trasparenza, soprattutto nelle lingue anglosassoni, si intende la sovrapposizione di elementi diversi, che siano materie, segni, tracciati; questa sovrapposizione dà luogo a intrecci che sono per definizione modifiche di materie, segni e tracciati originari, e molteplicità di elementi che si combinano insieme. La trasparenza, intesa in tal modo, appare dunque in contraddizione con l’idea di visibilità; dalla compresenza di testi disparati, che vengono in certo modo mutilati e ridotti a tracce, emerge una materia nuova, inizialmente oscura alla vista e alla leggibilità. Si può affermare che è in un certo “coprimento” che la trasparenza scopre le sue possibilità. Più precisamente, queste possibilità sono date, più che da una “luce” linguisticamente comune, dalle sovrapposizioni fra i bordi degli elementi dissimili. Lo svanire dei margini nell’intreccio dei testi, l’accavallamento delle forme distinte, è ciò che apre a una nuova forma.
Se c’è una metafora per questo concetto di trasparenza, è quella del missaggio. Il missaggio era, tecnicamente, in musica, l’incisione su un’unica banda di elementi sonori (strumentali, vocali) registrati separatamente, appartenenti a uno stesso brano. Ma con l’hip-hop e, poi, con la musica techno, il missaggio è diventato, in una dilatazione e un rivolgimento di senso, la forma stessa di un brano aperto all’infinito, senza limiti di tempo lineare né di scelta nella campionatura.
Il D.J., che è l’artefice di questo processo, ha una posizione che non coincide con quella di autore: il materiale estetico esiste già, si tratta di combinarlo insieme, di scegliere citazioni, sequenze, tempi, cesure, sovrapposizioni. Molto spesso del D.J. si conosce solo uno pseudonimo, e quasi mai se ne vede il volto; la traccia che del suo lavoro rimane è di solito anonima, priva di copyright. Mi pare che queste siano tutte analogie con la figura del traduttore, e in particolare con quella di un traduttore “trasparente”, colui che, non visto, lascia vedere attraverso di sé.
Poiché trasparente è ciò che si lascia attraversare: una materia traversata dalla luce, che lascia vedere ciò che le sta oltre; un corpo traversato dai raggi X, che svela, in segni tutti da decifrare, ciò che gli sta dentro. Condizione dell’attraversamento è quindi una forma di resistenza; sia nel senso letterale che in quello simbolico, il corpo trasparente è un ostacolo.
Ciò che appare è qualcosa che è dietro, sotto o dentro un corpo (lat. Trans-parere, apparire attraverso), non è certo il corpo stesso, che rimane per definizione nascosto al tipo di vista, o di esperienza, che consente; allo stesso tempo è esperibile, invece, al tipo di vista o di esperienza cui è di ostacolo (la durezza del vetro, l’involucro del corpo umano). Una traduzione trasparente sarebbe quindi una traduzione invisibile, che lascia vedere, e che, invece di proiettare ombra sul suo soggetto, ne apre, nelle combinazioni dei nuovi testi, le letture che, anche nella lingua originaria, erano contenute allo stato latente.
Torniamo alle metafore musicali. L’interprete (parola che in latino indicava il sensale, l’intermediario di bestiame o di beni immobili) è colui che, non possedendo nulla di proprio se non precisamente le sue qualità di interpretazione, dispiega, dipana, svolge, risolve un materiale che gli è stato affidato. Dalla qualità della sua prestazione dipende il fatto che essa “faccia” opera o sia, invece, mera comunicazione.
In un dialogo intorno alla musica techno,2 Jean-Luc Nancy sembra stabilire una differenza di qualità fra un lavoro che sarebbe una mera giustapposizione di elementi musicali diversi, una sorta di collage, capace al più di esprimere l’instabilità, l’invecchiamento di una data forma, e un mixage capace di produrre, a partire da identità sonore eterogenee, una forma nuova. D’altronde egli allarga all’estremo il concetto di mixage, in quanto concepisce la forma come qualcosa di permanente e di mutevole allo stesso tempo: “Ciò può necessitare di molto tempo, così come le diverse lingue latine che sono per noi il francese, lo spagnolo, il rumeno e l’italiano sono scaturite da lunghe operazioni di scomposizione del latino e di ricomposizione per missaggio con altre lingue, in processi che sono durati secoli. Allora appaiono le forme…. Ciò che intendo dire, è che esiste una vera questione della forma, così come c’è una vera questione dell’opera. Non per mero gusto delle forme, non per dire: ‘ci occorre una nuova forma, ma perché, malgrado tutto, la forma, lo si può dire nello stile di un certo Nietzsche, è anche ciò che ci protegge dall’abisso del fondo, dal ‘fondo senza fondo’”.3
Non posso non pensare qui, per riprendere il filo della traduzione, all’ultima pagina del saggio di Benjamin, dove, a proposito delle traduzioni holderliniane da Sofocle, si dice come “in esse il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo”4. E’ a questo stesso proposito che George Steiner parla, ne Le Antigoni, di traduzione come appropriazione e metamorfosi5.
Appropriazione e metamorfosi sono gli attributi del missaggio: si tratta di scegliere brani preesistenti (e qui andrebbe aperta la questione dei criteri di scelta e di campionatura), sottrarli al loro contesto, sovrapporli ad altri brani ridotti ugualmente a frammenti, scomporli in pezzi, ricomporre i pezzi in altri provvisori ordini, mutarne la durata, il volume, la massa sonora. In questa pratica che può essere chiamata di ri-presentazione ciò che si rappresenta è la perdita di originalità e di autonomia di un’opera ridotta a oggetto da manipolare, a simulacro di sé. Si può dire che è proprio nella mancanza di rispetto per l’originale che si pongono le condizioni della metamorfosi. E’ il caso delle traduzioni holderliniane, in cui la comprensione non è la chiave del livello eccelso di trasfigurazione raggiunto dal poeta tedesco. A volte un errore di grammatica, compiuto “forse per ignoranza, forse per trascuratezza o per fretta” conduce a soluzioni linguistiche luminose6. In questo senso la traduzione non è meno metamorfica del missaggio. In una tale ri-presentazione si trova un’altra originalità, un’altra autenticità. Allo stesso modo l’alienazione ripetuta e molteplice di un’opera appare come un ritrovamento, una restituzione o una “retroversione”, per usare la parola di Primo Levi, a un originale precedente l’opera stessa, a una sfera del possibile.
Questo movimento all’indietro, di “ripresa”, è particolarmente evidente nella musica hip-hop, anche in un’altra sua caratteristica, l’anacronismo. Nel momento in cui, alla metà degli anni ottanta, la tecnica digitale ha prodotto i laser-discs, che hanno rapidamente occupato il mercato musicale, rendendo obsoleti i dischi vinilici in quanto strumenti di riproduzione, questi sono stati ripresi come mero materiale sonoro, come materia prima di opere effimere e mutevoli. Dell’incisione su vinile sono stati esaltati appunto i difetti, come la cedevolezza all’impressione della puntina; lo stesso carattere desueto dello strumento, che è tornato a essere un “grammofono”, è diventato una qualità. La tecnica dello scratching, che è certo legata a quella pittorica dei graffiti7, esprime acusticamente, con le sue battute di arresto, gli scricchiolii, i tremolii, i tempi accelerati o rallentati, questo movimento di “contrattempo”.
La trasparenza, intesa come stratificazione e compenetrazione, è il metodo stesso di questa musica grafica. L’italiano “graffio” ne designa, in maniera quasi etimologica, lo strumento espressivo. L’analogia con i graffiti, in particolare con quelli preistorici, è evidente: anche lì i contorni delle figure si sovrapponevano, coesistendo simultaneamente, non nascosti ma intrecciati ad altri, in disegni di dettagli minuti o in linee sommariamente tracciate8.
Ciò che nel missaggio pare inaccessibile, o difficoltoso, alla percezione, è l’identità stessa del materiale originario. La riconoscibilità rimane quella di elementi singoli, emergenti per scelta o per caso dalla nuova forma che li ha adottati.
Questi elementi riconoscibili appaiono, come si dice in gergo fotografico, “scontornati”; sono isolati cioè da quello che avevano intorno e presentati come un nuovo testo. Il loro rapporto con gli elementi contigui è un’estremizzazione estetica dell’appoggiatura: un elemento si appoggia al successivo, occupando una parte della sua durata o del suo spazio. Nella musica classica l’appoggiatura era un abbellimento, in cui una nota era messa in rilievo da quella che la precedeva, a un intervallo di seconda superiore o inferiore. Nella ripresa e manipolazione di questo intervallo si articola il missaggio.
Negli interstizi delle sovrapposizioni fra le note (o fra le proposizioni, o fra le immagini) è la difficoltà di percezione. Qui è tutto l’interesse della trasparenza; esso risiede nel rapporto di questa con il “malvisibile”. Nello sforzo che si richiede ai sensi e nei mancamenti della vista e dell’udito è la chiave di una conoscenza non immediata e non intenzionale. Ciò vale anche per un altro tipo di missaggio, e cioè quello fra diverse strutture linguistiche: la scrittura e l’immagine, ad esempio. “Appoggiandosi” gli uni agli altri, sovrapponendosi pur rimanendo distinti, gli elementi diversi operano la presa di distanza da se stessi e degli altri da se stessi. E’ il caso di ogni forma di testo, che sia descrittivo o meno, appoggiato a un’immagine. Semplicemente, non possono essere letti insieme9.
Una certa inadeguatezza dei sensi, l’impossibilità di cogliere, afferrare, selezionare, accompagna un’opera che va nel senso della complessità piuttosto che in quello della semplificazione. Questa complessità ha la figura di una stratigrafia, le cui componenti non sono discernibili a prima vista. Una ulteriore mediazione della vista, un tempo approfondito dell’ascolto si rendono necessari.
La penetrabilità di una tale opera, che sia visiva, letteraria o musicale richiede un atteggiamento analogo da parte dello spettatore, del lettore, dell’ascoltatore. Non è un fatto di “messa a fuoco” del soggetto, né di schiarimento diffuso della percezione; piuttosto è un fatto di intensità variabile dell’attenzione, di interruzioni e di intervalli della presenza, di distrazioni rivelanti, di ascolti discontinui, di spostamenti dello sguardo, di sguardi sbiechi, indiretti. La trasparenza, abbiamo visto, è ciò che fa che le cose appaiano solo “di traverso”.

III

“E’ questa pena riflessa che intendo porre in rilievo e, per quant’è possibile, rendere evidente in alcuni ritratti. Li chiamerò ‘silhouettes’ sia per subito ricordare con questa denominazione che è dal lato oscuro della vita che li traggo, sia perché, cosiccome delle silhouettes, non sono immediatamente visibili. Se prendo tra le mani una silhouette, non ne ricavo nessuna impressione, non me ne posso fare nessuna vera rappresentazione, e solo quando la alzo verso la parete, e dunque non bado all’immagine immediata ma a quella che sulla parete si mostra, solo allora la vedo”1.

Per seguire quest’immagine, è necessario ricordare come la traduzione letterale del danese Skyggerids sarebbe piuttosto “contorno ombroso” o, meglio, “tracciato d’ombra”. Difatti occorre sapere come le silhouettes di cui è questione qui non erano solo i profili ritagliati sulla carta nera e incollati su un foglio bianco, in voga soprattutto nella seconda metà del settecento. L’immagine, al tempo di Kierkegaard, poteva essere tagliata sul bianco o traforata a giorno sulla carta. Ciò che si guardava era quindi la proiezione, sulla parete o su uno schermo, dei contorni traforati o ritagliati. Si leggeva, cioè, l’ombra. Era la creazione dell’ombra tramite la luce che, in una sorta di skia-graphia, permetteva una visione altrimenti impossibile, se fosse rimasta “immediata”.
Ma seguiremo in un’altra circostanza il percorso di queste ombre. Invece ci attarderemo su un’altra accezione della trasparenza cui ci introduce il testo di Kierkegaard.
“Se guardo un foglio di carta, all’osservazione immediate esso può forse risultare di nessun interesse, ma solo tenendolo alzato alla luce del giorno e penetrandolo con lo sguardo, insomma, guardandolo in trasparenza, ne scopro la sottile immagine interiore, che, per così dire, è troppo psichica per esser vista immediatamente”2.
Tutta la metafora di Kierkegaard è legata al rapporto fra il dubbio e la pena riflessa, che non si lascia rappresentare, perché è, oltre che rivolta all’interno, costantemente in divenire e in disaccordo con se stessa. “Solo un osservatore attento ne presente la scomparsa”; la pena riflessa, cioè, si lascia percepire solo nel momento e nel movimento della sua scomparsa.
“… così il pescatore se ne sta a dirigere il suo sguardo fisso sul fiume, ma non è il fiume che gli interessa, quanto i movimenti sul fondo. L’esterno ha perciò importanza per noi, certo, ma non come espressione dell’interno, quanto come un’informazione telegrafica del fatto che giù in fondo si nasconde qualcosa. Quando si studia a lungo e attentamente un volto, può capitare di scoprirne per così dire un altro entro a quello che si vede”3.
Ciò che può capitare di scoprire è, più che una verità oggettuale più vera di quella immediata, l’inquietante riflesso di un’immagine interiore all’osservatore stesso. Allo stesso modo ciò che si rivela al traduttore sono le nuove forme della propria lingua.
Torniamo al termine Skyggerids. Incidere, tracciare con l’ombra. Il verbo ridse è il to scratch inglese, che mantiene tutte le valenze del greco graphein. E il significato originario di questo verbo era quello di un attrezzo comune a diverse espressioni linguistiche: “Durante I secoli che definiamo come “oscuri”, cioè, grossomodo, dal XII° all’VIII° prima della nostra era, la Grecia che –per tutto questo periodo, lo sapete- ignora la scrittura, non conosce neanche, a propria mente dire, un arsenale di immagini, e tanto meno mette in opera un sistema di rappresentazione figurativa. La stessa parola, graphein, occorre notare, viene usata per la scrittura, il disegno e la pittura”.4
A questa citazione vorrei appoggiarne una ripresa da Rudolf Pannowitz, nel saggio benjaminiano: “L’errore fondamentale del traduttore è di attenersi allo stadio contingente della propria lingua invece di lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera. Egli deve, specie quando traduce da una lingua molto remota, risalire agli ultimi elementi della lingua stessa, dove parola, immagine e suono si confondono”5.
Se ci si accosta a questa accezione, in qualche modo “primitiva”, di graphein, non si può non pensare come la questione della traduzione da una lingua scritta a un’altra passa, come su un ponte, per quella della traduzione fra diverse forme di percezione e di esperienza acustica, iconica, grafica, tutte legate al contesto biografico e autobiografico del traduttore. Su queste egli deve innestare gli elementi intrusivi che gli si presentano, trasformandoli e trasformando con quelli la propria lingua.
“Accogliere lo straniero, significa anche subire la sua intrusione. Raramente lo si vuole ammettere: il soggetto dell’intruso è di per se stesso un’intrusione nella nostra correzione morale (è anche un esempio notevole del politicamente corretto). E tuttavia è indissociabile dalla verità dello straniero”6.
Un’opera in cui una verità dell’estraneità rimanga preservata può solamente essere un missaggio, poiché lì solamente si opera una trasformazione che va al di là della semplice testimonianza di diversità. Farò l’esempio di una forma antica di missaggio, il centone, che spesso si è considerato come una produzione artistica di second’ordine. Si trattava di un testo composto mettendo insieme versi e frasi appartenenti a testi altrui; estratti dal loro corpo originario, quelli erano snaturati nel momento stesso in cui venivano messi in valore.
Il centone (dal latino cento – centonis, abito fatto di pezze di diversa origine; patchwork, diremmo oggi) è un componimento letterario tipico dei tempi considerati di decadenza, dei tempi cioè in cui si è consumata una rottura della tradizione, e valori prima considerati evidenti hanno perso di significato. Era frequente nel tardo impero romano, benché si conoscano centoni omerici o virgiliani del secondo secolo dopo Cristo.
Ma anche nell’arte figurativa che oggi, da profani, chiameremmo “classica”, si usava questa tecnica. L’arco di Costantino a Roma ne è un esempio significativo. Tutto il monumento è un vero e proprio riciclaggio di elementi architettonici (cornici, capitelli, colonne), ma anche di rilievi e di sculture – detti dagli archeologi spoglie – provenienti da monumenti più antichi. Per gli studiosi è oggi difficile ricostruire, ammesso che ciò abbia senso, cosa è di epoca costantiniana e cosa è invece del tempo di Adriano o di Traiano. In certi rilievi le teste degli imperatori del II secolo sono state scalpellate e rimpiazzate con altrettanti ritratti di Costantino; che ciò fosse stato fatto per motivi di ideologia o di economia non è chiaro, ma ciò che interessa qui è il processo di spiazzamento e spostamento di un’iconografia, che di quella cambia il significato. Il fraintendimento, intenzionale o meno, pare dunque essere il cuore di questo procedimento.
Il fraintendimento pare inevitabile anche a causa del metodo stesso di costruzione di un’opera con i frammenti ricavati da opere preesistenti. Il metodo è quello della saggiatura, del prelievo, della giustapposizione. Esso si esprime, nella sua presa di libertà nei confronti del suo soggetto, indipendentemente dalla tradizione e contro la tradizione. Esso non copre con un velo di contemporaneità il materiale originario, così come farebbe un procedimento di estetizzazione. La saggiatura, il carotaggio, l’estrazione dell’elemento singolo preludono alla creazione di un’opera nuova. Questa non può passare che per un cambiamento di significato della precedente. Si tratta di un esercizio di violenza. Violenza dell’estrazione, violenza del trapianto. Così come nel missaggio musicale, nel centone la citazione è allo stesso tempo trasformazione del citato.
Il centone è una traduzione e allo stesso tempo non lo è. O, se lo è, è solo nella mancanza di rispetto, che è anche compassione, per il suo soggetto. Nello svelare le fattezze del soggetto, le traveste; nel ridurre la statua a troncone ne rivela le immagini latenti; nell’appoggiare l’una all’altra le forme diverse le riapre al regno delle possibilità.

PS: questo testo presenta 23 note a piè di pagina, che copiero’/incollero’ non appena avro’ imparato come fare.