Digressioni della resistenza (2000)

I
In questo momento sono all’avanguardia.
Le lettere che dovevo scrivere sono state scritte, le faccende di casa sono state spicciate, non ho più che da concentrarmi sul mio soggetto, ho un solo obiettivo e quello è avanti a me, debbo arrivare alla fine dell’articolo sulla resistenza che mi è stato richiesto per la manifestazione di Copenhagen.
Il terreno è sgombro, libero alla vista, davanti a me c’è solo il paesaggio aperto. Sono l’avanguardia di me stesso.
Sono seguito, a pochi centimetri di distanza, forse venti, dalla retroguardia di me stesso; solo lo spessore della carne separa ciò che di me è in posizione avanzata e ciò che, semplicemente, segue. Ma questi pochi decimetri fanno una grande differenza.
Ricordo come, nei racconti di guerra che leggevo da adolescente, essere colpiti alle spalle era il più grande disonore: significava che si stava fuggendo di fronte al nemico. Allo stesso modo, la fucilazione alla schiena era la condanna del traditore. E il partigiano, nella retorica dei fascisti e dei loro collaboratori, veniva rappresentato nell’atto di colpire al buio e alla schiena.
Ma le opposte retoriche della collaborazione e della resistenza1, così come quelle dell’avanguardia e della retroguardia, paiono oggi svuotate del loro essenziale significato, precisamente perché non sono più visibili i segni di un’opposizione frontale. E’ precisamente lo spazio fra rectus e versus, il taglio del foglio, la sua terza dimensione, che sembra oggi smisuratamente allargato. Resta, tuttavia, visibile solo concettualmente.
Se quello di resistenza pare un concetto pressoché impraticabile è perché si vive in una dispersione e frammentazione dei ruoli sociali; si mette mano tutti, nelle società dell’occidente, a una stessa materia; si impasta una stessa pasta. Come vuoi resistere a chi ti paga? Come un artista può resistere a chi gli dà da vivere?
Ma, senza paragonare le società del benessere all’occupante nazista (ciò che fa, a proposito del progresso tecnologico, Paul Virilio)2, non si può non notare come lo spazio fra collaborazione e resistenza è allo stesso tempo concettualmente enorme e fisicamente esiguo, come una sottilissima linea che passiamo e ripassiamo dieci volte il dì.
La ragione di questo è nell’idea stessa di resistenza. La resistenza – e qui l’esempio dell’ultima guerra mondiale, se estremo, è anche eloquente – si muove per definizione nello stesso terreno del suo avversario, condivide lo stesso spazio fisico, le stesse armi (le armi “prese al nemico”) simboliche e, parzialmente, gli stessi apparati concettuali. “Ogni resistenza è ambigua, lo dice il nome stesso”3; essa implica un coinvolgimento in un sistema imposto, una comprensione della mentalità dell’avversario, una costante sequenza di compromessi, una guerra di guerriglia in cui non ci sono attacchi e difese frontali ma corte avanzate e brevi ritirate, aggiramenti, spostamenti, deviazioni.
In questo senso la resistenza sembra essere un’attività di disturbo, simile a quella di una retroguardia che agisse nelle retrovie e rallentasse l’avanzata dell’esercito nemico. In questo après-coup è il senso della retroguardia: nell’agire secondo osservazione e riflessione, nell’agire in reazione a uno stimolo o un attacco (o un’eccitazione, come il reiz freudiano). E’ qui dove la retroguardia sembra tanto più interessante dell’avanguardia; essere all’avanguardia è ai nostri occhi essere nella pura creazione, avanzare su un terreno vergine, esplorare i nuovi terreni formali. Ma oggi la tecnologia sarà sempre più avanti di ogni avanguardia artistica; correrle dietro non ha molto senso. Gli inventori dei programmi informatici sono oggi l’avanguardia artistica; e gli artisti che quei programmi usano sono tutt’al più una para-avanguardia. E’ forse più interessante prendere e perdere tempo, attardarsi, fuori e contro tutte le mode, sull’ “appena passato”, far dire all’appena passato tutto quello che ancora può.
In questo atteggiamento di attenzione e riflessione è tutto il senso del “porsi alla retroguardia”. A questo atteggiamento corrisponde, mi pare, la predilezione per i momenti della storia che si situano appena prima, o appena dopo, l’evento: la stasi nel tempo che introduce alla consapevolezza che niente più sarà come prima, ma in cui c’è ancora un prolungamento dell’altro tempo.

II
Rallentamento e ritardamento dell’azione nemica sono i compiti comuni a retroguardia e resistenza4. Se vogliamo vedere l’artista come resistente, dobbiamo definire il suo nemico. Una volta l’artista era il cliente di un nobiluomo o di una confraternita; poi è stato un imprenditore in un mondo di imprenditori; oggi è un compilatore di dossier, indirizzati alle istituzioni. E’ l’istituzione il nemico dell’artista? Non si può dimenticare che gli artisti sono qui per disturbare5; perciò la relazione fra artista e istituzione non può essere basata che sul malinteso; costante malinteso e reciproco uso: non c’è alternativa a questo tipo di rapporto.
L’istituzione ha bisogno del suo contrario: l’istituzione, nel suo costante lavorio di auto-legittimazione, ha bisogno di gente che disturba6; ha bisogno soprattutto di selezionare e proteggere la fascia più creativa di coloro che disturbano, la fascia di coloro che disturbano con mezzi “estetici” e non caotici o privi di scopo. In questo senso l’arte è una forma di ricomposizione; non a caso esiste l’arte-terapia, così come i graffiti e il rap sono comunque preferibili ai negozi sfondati, e trovano quindi larghe forme di circolazione e sostegno sia istituzionali che commerciali.7
Ma, a vedere le cose da un altro punto di vista, come sciogliere questa contraddizione del fare resistenza a ciò da cui si dipende materialmente: i ministeri della cultura, le fondazioni, le accademie, i collezionisti, le gallerie, i musei?
La maggioranza degli artisti la risolve nel seguente modo: competere in uno spazio e in condizioni che sono date, ciò che significa: farsi guerra l’un l’altro. Perché no? Perché non farsi, anche, guerra l’un l’altro; perché non farsi contatti, e crearsi reti, e partecipare a gruppi e a volte a clientele. Ma lo sbaglio, penso, è quello di mancare di autonomia, è quello di spostare i propri pezzi in una scacchiera che è già disegnata, senza tentare di ridisegnarla.
La sola forma di resistenza che posso immaginare oggi è quella di aprire nuovi spazi di discorso e di relazione all’interno dei luoghi tradizionali. Perché, così come l’utopia politica, anche la resistenza non ha più i suoi luoghi propri.

III
Ripenso alla mia personale esperienza dell’“eterotopia”. E` stato intorno ai primi mesi del 1977, in Italia: Era finita l’epoca dei gruppi politici “istituzionali”, con le loro strutture piramidali di “simpatizzanti”, “candidati”, “militanti”, etc. e il loro continuo contarsi per vedere chi si ingrandiva e chi si rimpiccioliva; e non era ancora il momento in cui i gruppi dell’Autonomia avrebbero sequestrato e violentato un movimento di massa che ancora esisteva e che stava cercando nuove forme di presenza8. Già allora, nell’inverno fra il 1976 e il 1977, c’erano coloro che facevano irruzione nei negozi chic per “espropriare” proletariamente non pane ma salmone affumicato, dimostrando così tutta la loro subordinazione ai cliché del lusso borghese; ma, allo stesso tempo, c’era un enorme desiderio di essere presenti a nuove forme di socialità e di occupare uno spazio nuovo, un desiderio che era quasi privo di oggetto.
A quel tempo si scendeva in piazza perché il biglietto del cinema fosse meno caro; a pensarci ora era una rivendicazione ridicola, e ridicolo pensare di occupare piazze e strade intere, a migliaia e migliaia, solo per pagare qualche centinaio di lire in meno la visione di un film di Hollywood, in un cinema appartenente a qualche multinazionale, nella quasi completa assenza di spazi alternativi. Ma lo spazio alternativo, in quei giorni, erano le piazze e le strade stesse: si decideva di un appuntamento a una riunione fra poche persone, ci si andava qualche giorno dopo e ci si trovava in mezzo a un folla, si iniziava a camminare e c’erano diecimila persone dietro di te, che chiacchieravano fra di loro e ogni tanto gridavano slogan quali “Andreotti vacce te a pagar duemila e tre”, Andreotti essendo il Presidente del Consiglio, credo, e il biglietto del cinema non costando duemila e trecento ma forse tremila, che però non faceva rima. Si faceva il giro dei cinema della capitale, un piccolo gruppo entrava, mentre i diecimila aspettavano fuori, faceva interrompere lo spettacolo e accendere le luci in sala, uno del gruppo saliva sulla scena e improvvisava un breve comizio sul fatto che il prezzo del biglietto era troppo caro, poi usciva e si ripartiva verso un altro cinema.
Tutto questo non aveva strettamente alcun senso. O, piuttosto, il senso di tutto questo era: I) costituire una comunità del tutto immaginaria, utopica se si vuole, priva di una propria sede e di un proprio spazio, costretta ad appropriarsi solo momentaneamente di spazi pubblici destinati ad altro scopo, le piazze, le strade, le sale cinematografiche; II) attraverso un obiettivo pretestuoso (nessuno era veramente interessato ad assistere, nemmeno gratis, alla proiezione di un film comico italiano o di una commedia americana) e obliquo, mostrare l’esistenza di un potere e la resistenza a questo potere, nelle forme che non sono necessariamente quelle del confronto in fabbrica fra operai e padroni, ma che possono anche essere quelle della rivendicazione di un semplice piacere, di un semplice diritto di scelta che viene sottratto.
Lo scopo di questo movimento di breve durata (se un movimento può avere uno scopo) non era implicitamente quello di cambiare le regole della società, né quello di esprimere un mero diritto individuale. Era quello di rivendicare come pubblici i luoghi dell’intrattenimento, di sottrarre l’intrattenimento alla sfera privata e confondere i limiti fra il piacere privato e il diritto pubblico. Rivendicare un diritto allo spettacolo senza veramente curarsi dello spettacolo era una maniera di allargare i limiti stessi del politico, mostrando l’esistenza di forze che, nell’evitare di essere etichettate come organiche controparti “politiche”, eludevano anche la politica come espressione di professionalismo e serietà. In una tale situazione, non occupi le strade “in quanto” artista o studente o lavoratore, non stai a rappresentare te stesso, se non nella parte di te stesso che, in un particolare luogo e in un particolare momento, rappresenta un particolare diritto collettivo.
Ecco perché, più che al non-luogo, posso ora credere alla creazione di luoghi necessariamente temporanei e provvisori, di scambio di incontro e di esposizione, sia interni che esterni alle istituzioni. A condizione che, per definizione, siano aperti. Ma non aperti in maniera indifferenziata. Mi trovavo una volta in un palazzo occupato, al centro di Roma, e arrivò uno che nessuno conosceva; disse che veniva da lontano e cercava da dormire, chiedeva ospitalità. “D’accordo, ma prima conosciamoci”, gli disse quello che stava alla porta.
Era quella una nuova forma di spazio pubblico? Forse sì, e proprio per la sua condizione di luogo temporaneo. Difatti quelle case occupate erano beni immobili, che appartenevano a qualcuno, e difatti prima o poi la polizia veniva a sgomberarli (così come oggi, in Italia, i Centri sociali). Uno spazio che sia pubblico e alternativo allo stesso tempo non può essere che temporaneo. E’ nel suo carattere di “possibile”, da un lato, e “passato”, dall’altro, che trova il suo senso; recipiente di una comunità immaginaria, e ricettacolo di una comunità che sarebbe stata possibile; di una comunità che non esiste se non nella tensione verso di essa, e nella nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere, ma che non è stata e non può essere. E solo il carattere provvisorio di tali spazi può permettere loro di sfuggire all’auto-marginalizzazione che è l’inevitabile condizione di tanti luoghi di “eterotopia”.
Designare altrimenti i luoghi dati, ribattezzarli, facendo intravedere gli altri usi ipotetici di un luogo, praticare un dirottamento dei segni, confondere il proprio gesto artistico con i segni sparsi della comunicazione urbana, diluire, dissipare, spargere il gesto, lasciare in giro segni che possono o non possono essere notati, che possono o non possono essere “artistici”9, sottrarsi ai luoghi consacrati della comunicazione e dell’esposizione; queste mi paiono forme possibili di resistenza. Ma su ciò tornerò più in là.
La rinuncia alla costanza dell’atto artistico, al volere sempre e comunque essere creatori, mi pare un’altra forma di resistenza. Penso a una situazione estrema: due pittori che vivevano nella stessa città occupata, in tempi di guerra; uno, Picasso, non smette per un giorno di dipingere; l’altro, Bram van Velde, che sopravvive grazie alle mense popolari, non tocca il pennello per cinque anni. Interrogato sul perché della sua inattività, non trova da rispondere altro che, in certe situazioni, non ci si può mettere a lavorare10.

IV
Torniamo alla resistenza. Mi pare, dopo questa digressione, che possa essere definita come un movimento di reazione, risposta e ritorsione, che si sviluppa nello stesso spazio fisico di ciò che contesta e che partecipa, in forme diverse, allo spazio linguistico del proprio avversario; allo stesso tempo crea, all’interno di quegli spazi e di quella lingua, i propri luoghi e i propri segni. Più che un non-luogo, crea un luogo sovrapposto e intersecato, una retrovia o un maquis, che ha una scala e forme di diffusione diverse da quelle dominanti. Penso a tutti i supporti grafici, più o meno ingegnosi, più o meno improvvisati inventati dalla Resistenza: i documenti falsi, i manifestini, i giornali ciclostilati, le scritte murali11, che possono essere paragonati alle fanzine, alle poesie stampate in proprio, ai giornalini scolastici o di caserma, alle riviste fotocopiate dell’era pre-Internet (sarebbe interessante seguire in una mostra una storicizzazione di queste forme di comunicazione, dalle calaveras messicane alle “musiche sulle ossa” russe12).
A vedere retrospettivamente, si vede come il “privately printed” era tutto tranne la mera espressione di una sfera privata; esso presupponeva, perché legato a materiali e a tecniche manuali, una serie di intermediazioni personali che l’Internet esclude, e si motivava in una diffusione “di mano in mano”; ma c’era, in questa limitazione di scala dello stampato a conto d’autore, l’idea di una circolazione allo stesso tempo casuale e orientata; un volantino o un giornale, che passavano di mano in mano potevano essere letti da due o da cento persone. Chi oggi lancia il suo sito sul web parla a tutti e a nessuno, parla, in fin dei conti, a sé stesso. Questo tipo di comunicazione è spesso privo di un oggetto che non sia la comunicazione stessa; è quindi una comunità illusoria. Le distanze non sono abolite dall’Internet, perché niente può sostituire la presenza fisica, il contatto e il tatto (con questo non voglio misconoscere il ruolo che Internet e telefoni cellulari hanno avuto nell’organizzare la resistenza all’ascesa al potere del partito di Haider, in Austria).
Se l’Internet appare, oggi, come lo spazio comune per eccellenza, è perché è quello in cui si muovono resistenti, dominanti e collaboratori, e dove i ruoli sono più facilmente e rapidamente interscambiabili. Esso ci mostra l’impossibilità di contrapposizioni frontali, così come l’impraticabilità delle formule ideologiche, delle scorciatoie hegeliane; in questo senso il nostro fine secolo non può essere paragonato al rapporto fra resistenti e occupanti che era quello dell’ultima guerra. Forse si può dire che oggi c’è una parte di occupante in ogni resistente, e viceversa; ciò non toglie che si è piuttosto resistenti o piuttosto occupanti. Forse si può dire che la resistenza più efficace è quella che sta in un costante movimento fra l’interno e l’esterno del potere, fra l’interno e l’esterno dell’istituzione.

V
Non si possono perdere di vista le infinite variazioni e intersezioni del potere, anche nelle situazioni di più estrema oppressione. A leggere il libro di Robert Antelme sulla deportazione13, si è indotti a seguire le molteplici variazioni di segni che differenziano progressivamente il corpo dei prigionieri, differenziandoli da un capo all’altro nella relazione con chi ha su di loro potere di vita e di morte. Questa differenziazione è allo stesso tempo strumento del dominio e affermazione di singolarità che sfuggono al dominio, ma che certo articolano altri piani di potere e di contropotere.14
In questa differenziazione interna al corpo dei prigionieri si creavano nuovi occupanti e nuovi resistenti; nella moltiplicazione dei livelli di potere si creava un caos che era perlopiù un’ulteriore forma di dominio, cui i resistenti opponevano una lotta per la legalità. Legalità in una tale situazione significa: stesse opportunità di vita e di morte per tutti.
Il potere è qualcosa che ha variabili e diversi livelli di intensità; anche il colore del potere è soggetto a variabilità; la padronanza della lingua, ad esempio, è un potere il cui colore è variabile. A più riprese Antelme analizza, nel suo unico libro, il ruolo nodale della traduzione15. Il potere del traduttore può essere, in tali situazioni estreme che citiamo per il loro valore paradigmatico, quello di alimentare il caos o quello di ristabilire una legalità. Legalità significa, in questo caso, mero diritto di circolazione e di comunicazione. La legalità, vista sotto questo angolo, si situa in un dirottamento della legge; chi lotta per essa non sente, sente male, “fa il sordo”, coltiva il malinteso nella trasmissione verticale del dominio. Il potere del traduttore è quello di allargare o di ridurre gli spazi della sopravvivenza, quando traduce “a modo suo”.
In una realtà infinitamente meno oppressiva, come quella delle società occidentali, si può dire che il nostro potere di traduzione è quello di una riappropriazione della lingua ufficiale, e di un suo dirottamento che consiste nel designare altrimenti i luoghi dello scambio sociale. La resistenza è, anche, un designare altrimenti: un edificio scolastico dismesso diventa “casa occupata”; un bollettino ciclostilato è un “giornale”, una collezione di francobolli un “museo”, eccetera.
La resistenza è, in questo senso, semplicemente la rivendicazione di un’altra sfera pubblica i cui confini non coincidono con quelli fissati dalla legge.
Prima dell’ultima guerra, quando non la si intendeva come una proprietà fisica dei materiali, per resistenza si intendeva solo “resistenza all’autorità”, punita in virtù dell’articolo 337 del codice penale italiano (“nella r. il privato insorge contro la volontà dell’autorità”) e assimilata al delitto di “violenza pubblica” (art. 336; il privato impone la propria volontà su quella dei rappresentanti dell’ordine). Chi commetteva tale delitto poteva essere solo un “privato” che, nell’opporsi ai rappresentanti del “pubblico”, esce dai confini della legge e della sfera pubblica.
Con l’ultima guerra mondiale e l’opposizione all’occupazione nazista in Europa (e al dominio nazionalsocialista in Germania) si è avuto allo stesso tempo un allargamento e un traviamento del termine di resistenza. Coloro che resistevano opponevano un diverso concetto di legalità e un diverso concetto di rappresentanza del “pubblico”. Perciò i fascisti dovettero trovare un nuovo attributo che li escludesse simbolicamente: i partigiani non potevano essere definiti, sulla stampa e alla radio, altrimenti che come “banditi” (etimologicamente: proscritti, esiliati, fuorilegge).
Queste fluttuazioni di significato delle parole sono esemplari: nella seconda metà del XIX secolo un resistente era per definizione qualcuno che si opponeva al progresso; nella seconda metà del XX secolo uno stato nazionale quale la Repubblica italiana trova la sua legittimità nella Resistenza come valore costituente.16
E` per questo che nessuno oggi rifiuterebbe di definirsi “resistente”. Forse la cosa più difficile è definire a cosa, di volta in volta e in modi diversi, intendiamo resistere.

Primavera 2000

ps: aggiungero’ le note di piè di pagina non appena possibile;