Il breve testo che segue rappresenta una scrittura parallela a due lavori concepiti nel 2000, nell’ambito di una residenza alla Jan Van Eyck Academie di Maastricht, uno solo dei quali è stato realizzato. Più che come un’illustrazione di tali lavori, le due parti del seguente testo vanno intese come altrettante allegorie.
I. Lo scudo blu
Il linguaggio dei simboli dovrebbe essere compreso da tutti, si suppone, anche dagli analfabeti o da chi parla una lingua straniera. Per questo hanno inventato le segnalazioni stradali, quelle navali, e tutta una fitta simbolica, all’interno della quale mi interessa quella che designa un oggetto o un luogo che, secondo convenzioni internazionali, deve rimanere protetto.
E’ questo il caso della Croce Rossa, che è universalmente riconosciuta come il simbolo sotto la cui protezione si collocano ospedali da campo, ambulanze, barellieri, medici e infermieri. Si dà per inteso che tali luoghi e individui non vengano coinvolti nelle guerre in corso, per un condiviso rispetto che si porta ai feriti e alle loro possibilità di cura e di guarigione.
Un analogo simbolo esiste, a partire dal 1954, per i monumenti artistici e il patrimonio culturale in generale: il Blue Shield. Una lista di siti da proteggere fu redatta alla Convenzione de L’Aia del 1954 e poi perfezionata in un secondo protocollo, nel maggio 1999. Tale lista comprende, oltre alle opere d’arte, biblioteche, archivi, chiese e moschee.
L’esempio forse più celebre di sito culturale protetto dall’Unesco è l’intera città vecchia di Dubrovnik, copiosamente bombardata dai Serbi durante la guerra in ex-Jugoslavia. Si dice che i Serbi si accanissero in particolare, durante quella guerra, contro i simboli della cultura avversaria; si dice d’altro canto che l’esercito croato allogasse depositi di armi e munizioni nei siti contrassegnati dal Blue Shield.
Il protocollo del 1999, di conseguenza, ha perfezionato quello del 1954, stabilendo in quali occasioni “imperative necessità militari” possano giustificare l’attacco a siti culturali, così come regolando il comportamento delle truppe occupanti e prevedendo l’estradizione per i più gravi crimini commessi contro i monumenti.
. . . . . . . . . .
La questione della protezione dei monumenti mi ha sempre interessato. Mi è capitato di studiare il modo in cui, durante il fascismo (e, certo, sotto ogni regime che ne fa delle icone di nazionalità) i monumenti storici venissero sottratti al loro contesto urbano, ripuliti da ogni sovrapposizione successiva e resi integralmente visibili, poiché essi dovevano “giganteggiare nella loro necessaria solitudine”, secondo la formula mussoliniana.
Certo, venne la guerra, e con quella la necessità di sottrarli alla vista e ai rischi di bombardamento, coprendoli sotto impalcature, muri di cemento e di mattoni, sacchetti di sabbia e materassi imbottiti. Per cinque anni, dal 1940 al 1945, il paesaggio urbano italiano è stato disseminato di tali forme misteriose e incongrue; l’arte c’era, ma non si vedeva.
La convenzione de L’Aia del 1954 ha, da questo punto di vista, segnato un grosso progresso: non più sacchetti di sabbia, del resto scarsamente efficaci contro gli armamenti moderni, ma un semplice scudo dipinto di bianco e di blu.
. . . . . . . . . .
Nel maggio del 2000 mi trovavo a Copenhagen, capitale di una di quelle nazioni nordiche in cui la protezione è una sorta di ideologia; protezione sociale, dell’infanzia, dell’ambiente naturale, dei giovani artisti. Il ruolo protettivo dello Stato è lì tale da apparire come la realizzazione degli ideali socialisti di inizio secolo, ma ha aspetti talmente soffocanti che certi artisti, proprio perché così dipendenti dal loro rapporto con le istituzioni, si domandano come si può resistere a tale sistema (ma anche in un paese come l’Italia, in cui le reti familiari e amicali assumono il ruolo che nei paesi nordici è dello Stato, le forme di resistenza più valide sono quelle che si praticano all’interno delle istituzioni: perché quelli sono i luoghi del caos).
Mi trovavo, dicevo, a Copenhagen, essendo stato invitato a partecipare a una mostra sul tema Modelli di resistenza.
Per tradurre in pratica il mio impegno e la mia solidarietà ho partecipato al montaggio della mostra, trasportando pesanti lastre di vetro e imbiancando le pareti degli stand. Ma, più che come operaio, ciò che non sono, mi sono rivelato, da buon italiano, più utile come cuoco. Era più utile che i veri operai si nutrissero bene, e rinunciassero per un giorno o due ai loro salsicciotti in favore di un buona minestra calda.
Prima però che la mostra aprisse ho voluto anch’io fare la mia parte di arte. Ero già stato, cinque anni prima, a Copenhagen, dove avevo vissuto una breve ed intensa storia personale. Ho riprodotto dunque su plastica autoadesiva il simbolo dell’Unesco sopramenzionato, il Blue Shield, e una mattina all’alba sono uscito nella città ancora deserta, alla ricerca dei luoghi in cui avevo vissuto certi avvenimenti. Tali luoghi comprendevano, oltre al teatro dell’Opera reale, una libreria antiquaria, un caffè, un chiosco di hot-dog, un ponte, un albergo. Ho applicato dodici di questi simboli sulle facciate o le pareti di questi personali “luoghi di memoria”.
Compilato un inventario di tale opera di marcatura e accompagnatolo con apposita documentazione fotografica, ho mostrato ciò alla galleria Overgaden. Copia del dossier, con lettera acclusa, è stato spedito all’Icomos, l’organizzazione internazionale, con sede a Parigi, che gestisce il programma Blue Shield.
Nella lettera spiegavo come, ritenendo che la memoria storica sia fatta di una somma infinita di conoscenze e memorie individuali, intendevo aggiungere formalmente a tale somma almeno una parte delle mie, e chiedevo che, come è giusto, venisse considerata patrimonio culturale dell’umanità e, in quanto tale, protetta dalla Convenzione de L’Aia, in caso di guerra o altra catastrofe naturale.
Ponevo in questione, anche, la gerarchizzazione del concetto di patrimonio culturale. Perché, domandavo, la cattedrale medievale dovrebbe essere protetta più del Souvenir Shop che le sta difronte? Perché, se è vero che il Souvenir Shop non può esistere senza la cattedrale, si ritiene che la cattedrale possa vivere senza le sue cartoline postali? Non essendo alla ricerca di un confronto critico-filosofico, non mi dilungavo ulteriormente; ma avrei potuto, certo, disquisire sulla questione dell’originale e della copia, dell’arte e del kitsch, della cultura popolare o di élite, eccetera.
Dall’Icomos non ho ricevuto alcuna risposta. Gli abitanti di Copenhagen, invece, sembrano essere stati più comprensivi. Dei dodici simboli piazzati accanto ai miei monumenti personali, solo alcuni sono stati rimossi. E’ capitato anche che uno venisse tolto e rimesso un poco più in là, perché il muro su cui stava doveva essere ridipinto. La mia supposizione è che abbiano preso quel simbolo per un segnalino delle condutture dell’acqua o del gas, ciò che dimostrerebbe l’imperfezione della segnaletica internazionale.
Ma dimostrerebbe anche il lato creativo del malinteso. In un sistema di segnalizzazione come questo sperimentato nella capitale danese, che non è né logico né sistematico, il simbolo è presentato come un indizio, ma non è l’evidenza del suo eventuale prolungamento, non ha un rapporto riconoscibile con l’oggetto simboleggiato, non indica niente di riconducibile a un percorso originario e ricostruibile. Crea piuttosto un percorso autonomo, con riferimenti da interpretare se lo si vuole o, se si preferisce, solo da leggere.
E’ una forma di traduzione “spostata”. Una tale traduzione e permessa da una vulnerabilità originaria del suo soggetto; la traduzione, in generale, e permessa da una trasparenza originaria, che porta in se la possibilità di traduzione. La trasparenza va in una sola direzione. Non si puo rendere trasparente qualcosa che all’origine e opaco, ma si puo moltiplicare e aprire ulteriormente una trasparenza che e gia nell’oggetto iniziale. La trasparenza e forse la qualità prima dell’opera d’arte; tale opera e un’opera di traduzione.
Se il kitsch (come vedremo più in là) nella sua mancanza di distanza dal suo modello permette solo un movimento da A a B e indietro da B a A e così via, la trasparenza e quella che permette alla traduzione il suo passaggio da A a B e da B a C e così via.
Tale movimento di passaggio e destinato, evidentemente, a interrompersi. Nel capitolo che segue tenterò di spiegare perché non potevo rendere ulteriormente trasparente un oggetto che aveva già subito una trasformazione in opera d’arte.
II. Il gommone
Per tutta l’estate del 2000, così come era accaduto per tutta quella del 1999, sono continuati a sbarcare sulle coste italiane migliaia di immigrati clandestini. Provenivano per lo più dai porti albanesi, distanti poche ore di navigazione. Venivano trasportati in grossi gommoni condotti da marinai senza scrupoli, che non esitavano a gettare in mare il loro carico umano, se si vedevano avvistati o inseguiti dai battelli della guardia costiera italiana.
L’immagine del gommone era quotidianamente presente sugli schermi televisivi, in tutti i telegiornali. E’ forse questa che ha ispirato un nuovo atteggiamento dei manifestanti contro i centri di detenzione per gli immigrati clandestini. A partire dal gennaio 2000 la polizia si è trovata di fronte a folle che dimostravano intorno a questi centri, chiedendone la chiusura, e i cui componenti erano abbigliati nel seguente modo: tre o quattro strati di maglioni pesanti indosso, giubbotti di salvataggio, imbottiture di gommapiuma fissate alle spalle con il nastro da pacchi, salvastinchi di plastica, scolapasta o casco da minatore in testa. Inoltre le prime file dei dimostranti spingevano avanti a loro uno strano apparecchio: una sorta di serpentone formato da diverse camere d’aria di camion, imballate in fogli di plastica e fissate a pannelli di polistirolo, su cui rimbalzavano i manganelli e i candelotti lacrimogeni1. Il nome dell’attrezzo venne spontaneo: il Gommone.
Molti manifestanti avanzavano verso la polizia a braccia alzate, in segno di pace. “Nessuno deve farsi male”, era la loro intenzione. Rivendicavano nello stesso tempo, con il diritto di manifestare, quello di proteggersi. Non manifestavano con violenza, ma alla violenza opponevano un’istanza di legittima difesa.
Usavano, alla lettera, un salvagente; l’attrezzo inteso a salvare la vita di chi cade in mare era allo stesso tempo immagine simbolica e strumento di difesa. Il diritto di resistenza si identificava con il diritto all’esistenza, in questa semplice opposizione del proprio corpo protetto da una imbottitura individuale e collettiva.
Trovo che questa invenzione abbia una grande forza iconica: una materia elastica, un muro di gomma su cui rimbalzano i calci di fucile e dietro cui si riparano i corpi.
In quelle prime occasioni la polizia, impreparata a questa nuova tattica, cedette, e i manifestanti di Milano, dopo molte ore di confronto, furono ammessi all’interno del centro di detenzione di cui rivendicavano la chiusura (29 gennaio 2000). Evidentemente, alla manifestazione successiva i poliziotti arrivarono armati di taglierini.
Questa che vado a dire è forse una banalità: la protezione intesa come “resistenza” va di pari passo con un riconoscimento di fragilità e di inadeguatezza. Una protezione totale, assoluta, non solo non è possibile ma coinciderebbe con il soffocamento della resistenza stessa e della sua dialettica. Un aspetto allegorico è sempre necessario all’azione di resistenza, proprio per sottrarre quest’azione alla sua impossibile e inauspicabile letterarietà, all’affermazione di un antagonismo stolido e all’iteratività incantatoria delle formule.
L’uso delle grandi camere d’aria da parte dei manifestanti nasce da un’immagine significativa e ne è il suo spostamento semantico: l’attrezzo che veicola l’immigrazione clandestina diventa il simbolo (e il dispositivo di difesa) di chi manifesta contro l’immigrazione concepita e trattata come un crimine (anche sul piano istituzionale i centri di detenzione italiani sono illegali, non essendo l’immigrazione un reato contemplato dal codice penale).
Penso che il Gommone sia un’opera d’arte. E’ in quanto riappropriazione che lo vedo come un’arte: nell’affermazione di una sua autonomia e di una sorta di disinvestimento rispetto alla sua fonte ma, anche, nel fatto che se ne faccia un altro uso.
Se io invece carezzassi l’idea di fare del Gommone (o dei gommoni degli immigrati) un’opera d’arte, mi avvierei a produrre un’opera kitsch. L’opera kitsch rimane sempre interessata, rimane sempre subordinata al suo modello; al richiamo alla sua funzione originaria, se è un oggetto; o all’intenzione, se intende essere opera d’arte. E quando nell’opera l’intenzione è trasparente, allora l’opera è mancata.
Se io volessi fare arte a partire dall’immagine del gommone applicherei quello che, secondo Gillo Dorfles2, è il segno distintivo della mentalità kitsch, e cioè il semplice spostamento, di scala o di contesto, dell’opera originale (ad esempio: la torre Eiffel trasformata in soprammobile e poggiata su un televisore; un’anfora romana ripescata dal mare e usata come portalampade; ma anche, aggiungo io, il frutto di una facile associazione: l’adesivo con il nome di un ristorante che casualmente è quello di un amico, che gli lasciamo sul frigorifero). Che in un modo o nell’altro il kitsch, in questa sua pratica di de-contestualizzazione e spostamento, abbia a che fare con la riproduzione meccanica o digitale, questo è sicuro.
Il kitsch ha allora a che fare anche con la traduzione? In parte e fino a un certo punto. Il mio sarebbe un tentativo di traduzione, un movimento verso la traduzione, ma non una traduzione compiuta. La mia sarebbe un’illustrazione, perché non creerebbe alcun straniamento semantico. La traduzione sarebbe la suprema forma del kitsch, se non praticasse un’alterazione profonda della lingua originale stessa e se, insieme con lo straniamento, non introducesse una radicale differenza3.
Rimane, però, la consapevolezza di una contiguità fra traduzione e kitsch. In altre parole: nella sua dipendenza da un originale (reale o ideale che sia), in questa sua qualità di prolungamento (con tutti i suoi inevitabili snaturamenti e malintesi), nel suo inevitabile carattere imitativo, e anche in un suo certo carattere mostruoso, il kitsch appare come una forma abortita di traduzione. Che noi lo pratichiamo tutti i giorni, in misura più o meno larga e in modo più o meno consapevole, non fa che confermare questa sua natura di multiforme ma incompiuta forma della traduzione.
Mentre il kitsch rappresenta, la traduzione ri-presenta, ed è per questo che il Gommone è allo stesso tempo una traduzione e un’opera d’arte. Molteplici sono le forme della traduzione, ed essa prende a volte forma di arte. Ciò accade quando, di un soggetto già alienato, già spostato e sottratto al suo mondo, già “kitschificato”, si arriva a fare un soggetto nuovamente possibile, autonomo, “puro segno di sé” (Jean-Luc Nancy, Corpus). La perdita di un’originalità acquisita diventa, in questa traduzione, un’altra originalità, un altro possibile. Questa “ripresa” sarebbe lo spiazzamento di uno spiazzamento, lo svelamento di un’originalità nascosta che non deve attendere l’effetto de-kitschificante del tempo che passa o delle catastrofi storiche.
Penso qui a un altro riscatto possibile del kitsch, che deriva dalla sua stessa de-contestualizzazione storica; è il caso di certe opere rimaste come testimonianze dell’arte antica: quelli che probabilmente erano episodi provinciali e imitativi, che un critico contemporaneo avrebbe certo considerato “kitsch”, come le pitture murali di Pompei o i ritratti funebri di El Fayum, sono visti da noi come mere opere d’arte4. Il lavoro del tempo ha conferito loro una singolarità che prima non possedevano e una qualità che da relativa è divenuta assoluta.
E’ il tempo che in questi casi opera la trasformazione semantica di un oggetto che diviene, secondo una consunta espressione, “altro da sé”; che viene quindi proiettato nel mondo della differenza, proprio quel mondo che il kitsch tende a ignorare.
E’ difficile negare che il post-modernismo in architettura prima e le pratiche artistiche degli anni Ottanta poi abbiano portato a una rivalutazione concettuale del kitsch, e proprio in quegli aspetti che ancora negli anni intorno alla seconda guerra mondiale erano considerati al meglio espressione di insensibilità estetica (vedi: Clement Greenberg, “Avanguardia e kitsch”, del 1939) e al peggio di diabolicità etica (Hermann Broch, “Note sul problema del kitsch”, conferenza pronunciata all’università di Yale nel 1950): l’ispirazione, l’impressione, l’imitazione, la riproduzione, il richiamo alla tradizione.
E se c’è una “colpa” del kitsch, è proprio quella di supporre che una tradizione esista, che ci siano riferimenti e modelli da riprendere, che le forme siano moltiplicabili all’infinito, che ci sia una possibilità di rassicurazione estetica e di protezione emotiva.
Il kitsch, che è nella sua pratica sostitutiva una continua affermazione di cordoglio, non sta mai in lutto; ancor meno sta in lutto per ciò che è straniero. Nel kitsch, apparentemente, c’è spazio solo per la familiarità e l’identificazione.
Essere in lutto per lo straniero, rimpiangere colui che mai incontreremo, è l’opposto del kitsch: significa fare atto di riconoscimento e andare oltre il riconoscimento, fare atto di memoria e andare oltre la memoria, accomiatarsi dalla tradizione senza adottarne un’altra posticcia, rimanere nel regno del possibile.
Dell’altro “peccato” del kitsch, quello stigmatizzato da Broch e ricordato negli anni Ottanta da autori quali Lyotard e Vattimo5, e cioè la tensione verso il bello, l’arte contemporanea ci ha ormai fatto grazia. Dire a un artista che la sua opera è bella equivale oggi a insultarlo. E il motivo di questo è il fatto che l’arte di oggi, appunto, non intende tanto fare opera, quanto “fare mondo”6.
E’ qui che torna il Gommone, e il fatto che si tratti di arte, di “art’s work”. Questo statuto gli è dato appunto dall’abdicazione dell’arte alla sua iconicità e alla sua unicità. Arte non è un gesto unico, è un gesto ripetuto. E la ripetizione, lo diceva anche Aristotele, “genera una natura”.
Autunno 2000
ps: le note di fondo pagina arriveranno un giorno.