Lavori recenti (2010-2012)

Robinson a Rosignano, 2011

Spiagge idilliche, di sabbia anormalmente bianca, immagini da cartolina. Sul fondo, un’escrescenza industriale. In sovrapposizione, incisioni tratte dal Robinson di Defoe, eroe illuministico, che sbarca sulla sua isola incontaminata. E, riprodotte con colori da vetro, tavole con reperti di scavi archeologici in Groenlandia e graffiti rupestri del Nevada. Non c’è nessun rapporto – se non autobiografico – fra i diversi strati. Eventualmente, un richiamo alla storia dell’arte: i Capricci grotteschi di Piranesi, i Paesaggi con rovine del primo Romanticismo.

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Marmo, 2011-2012

L’autunno scorso ero sceso in Italia per fare fotografie sul tema della natura sfruttata dall’uomo. Intendevo costituirmi uno stock di immagini su cui lavorare durante l’inverno. Il viaggio fu un fallimento dal punto di vista lavorativo, perchè era il momento delle grandi piogge e inondazioni in alta Toscana, e ne sono uscito solo con quattro fotografie, fatte in mezzo alle nuvole, alle cave di Carrara. Poi ci fu un passaggio in Maremma, a San Bruzio, ove il marmo è fissato in uno stato intermedio, di rovina conservata, non più minacciata dalla natura, anzi circondata dalla cultura, quella dell’olivo. Il ritorno in Francia, essendo le autostrade liguri interrotte, fu laborioso, con deviazioni per l’Appennino e la pianura padana, e qualche altra foto: a Modena, le immagini della civiltà che ci fonda come Italiani, le statue della cattedrale, le foto degli uomini della resistenza, “a perenne ricordo”. Le ho qui sovrapposte a quelle di Carrara.

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Rupestri, 2011-2012

Da un pochino mi interesso al soggetto “rupestre”: la natura utilizzata dall’uomo per farne opera, che riprende i suoi diritti non lasciando l’opera dell’uomo che sotto forma di traccia. La Tuscia è piena di questi luoghi; è come se non solo civiltà e abbandono si succedessero a ondate secolari, ma l’una fosse la condizione dell’altra. E sono le attività dell’uomo solitario che lasciano – o lasciano immaginare –  le impronte più inconsuete. L’estate scorsa ho visitato il romitorio di Poggio Conte, luogo di malagevole accesso. Era talmente buio che facevo le foto al flash, e solo allora vedevo per un attimo il mio soggetto; cosi’ ho mancato la vela più interessante, quella con i segni falllici (o mi sbaglio?); cosa ci facevano in un santuario cistercense, per quanto quei motivi decorativi potessero essere ispirati a tappezzerie francesi coeve?
Sono salito all’insediamento protostorico delle Sorgenti della Nova, dove gli uomini si sono succeduti per millenni, utilizzando gli spazi organizzati da coloro che erano passati prima di loro. Rimanevano visibili, ai miei occhi profani, le tracce di una vita ridotta a mera sussistenza: il nerofumo dei focolai sulle volte, i fori nelle pareti di  tufo, che servivano a incastrare i tralicci dei giacigli.
Poi sono stato in siti abbandonati e che lascerei al loro abbandono, come fossero rovine artificiali di epoca romantica (perchè occorrerebbe salvare il passato a tutti i costi? e quale sarebbe lo stato del passato che vorremmo salvare?): Santa Maria di Sala nel comune di Farnese, Castel d’Asso in quello di Viterbo, Castro in quello di Ischia.

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On Dissipation, 2011

Al ritorno da una peregrinazione infruttuosa alla ricerca di rovine “romantiche” m’imbattei in questa edicola, nelle vicinanze dell’abitato di Ischia di Castro. Un affresco secentesco, una vergine da un lato, un dannato fra le fiamme infernali dall’altro, entrambi sfregiati senza pietà, a più riprese, da adolescenti o invasati dei secoli successivi, e ancora rimane la traccia, il monogramma della pittura, che dice tutto cio’ che voleva dire all’origine.

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Romitorio (Hermitage), 2011

Se si percorre la valle del Fiora, nell’alto Lazio, appena a Sud della frontiera con la Toscana, e si sale e scende per ripe franate dopo alluvioni recenti, e ci si inoltra in macchie boscose aggrovigliate come giungle, si possono raggiungere un paio di romitori, o luoghi per eremiti, che sono sopravvissuti ai secoli, grazie al loro isolamento e al poco interesse che hanno suscitato presso le generazioni successive.
Quello di Poggio Conte è particolarmente interessante. Oltrepassata una cascatella che forniva l’acqua potabile ai monaci, si possono vedere i resti di due minuscole celle, cui conducono scalette ardue scavate nel tufo, e una chiesetta rupestre di ispirazione cistercense. L’interno di questa – malgardo l’oculo scavato nella facciata – è completamente buio: se si fanno fotografie, sarà a caso, e solo lo sviluppo svelerà i frammenti superstiti delle pitture che decoravano le vele della volta.
Cio’ che è conservato lo è grazie all’umidità costante di questa grotta scavata, e forse grazie al fatto che non si tratta di affreschi, più facilmente asportabili. Le dodici immagini degli Apostoli, difatti (e quella, acefala, del Cristo), che sono forse precedenti e che coprivano tutte le pareti della cappella, vennero asportate – insieme con i lastroni di tufo che le sopportavano – negli anni Sessanta. Sei vennero recuperati dai Carabinieri alla frontiera con la Svizzera; le rimanenti sette si trovano ancora presso “un noto collezionista elvetico”.
Ma questo eremita del XIII o XIV secolo, forse un monaco di origine francese, forse un cavaliere errante disceso da cavallo (chissà?) ha dipinto la volta con motivi decorativi decisamente prosaici, certo ispirati a tappezzerie o a pavimenti, che fanno pensare più a un design d’interni che a un esercizio di venerazione e di contemplazione.
La natura sta pian piano riprendendo i suoi diritti, le muffe coprono fiori di giglio e grifoni rossi. Scompare pian piano il lavoro dell’uomo solitario che passo’ mesi – o anni – a coprire di colori questa grotta oscura, nella consapevolezza che a pochi sarebbe stato dato di ammirarli mai.
Alle mie intrusive foto al flash ho sovrapposto un testo che potrebbe essere coevo,  scritto da un letterato italiano che viveva in Provenza: il sonetto XXXVIII del Canzoniere di Francesco Petrarca. Vi si parla, in belle metafore, di impagabili sofferenze d’amore. L’ho trascritto come un telex.

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Ex voto Remix, 2009-2010

Immagini di Ex voto etruschi, prese da cartoline e illustrazioni di libri. Questi reperti (ormai: reliquie), testimoni di guai di salute e di pene di cuore, estratti dal loro contesto tombale, presentati nei musei, posati su moquette colorate, repertoriati per categorie, sono qui ripresi e riprodotti su vetro, sovrapposti a vecchie pitture “alla cinese” dell’autore (S. P.), senza alcuna intenzione di analogia. “Ritorneremo giocattoli?”

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A fresco Remix, 2010-2011

Fotografie di canopi, contenitori a testa umana di ceneri, sovrapposti a dettagli di affreschi trecenteschi, i cui frammenti sono ancora visibili sulle mura della distrutta città di Castro. Non si puo’ vedere l’uno se non attraverso l’altro, eppure non li lega un rapporto analogico ma solo uno “sfasamento” dello sguardo.

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Phantombilder, 2010

Dopo aver concluso un lavoro sulle immagini di identificazioni del secolo scorso (Carnets anthropométriques) ho cercato nuovi soggetti legati alla questione della posa e del ritratto. Le identificazioni poliziesche che avevo ri-lavorato erano ritratti fotografici di persone che avrebbero preferito non essere prese in foto. Ma, nolenti o volenti, erano soggetti in carne e ossa, che esprimevano qualcosa in più di quello per cui erano fotografati, e che ho cercato di ritrovare.
Gli identikit attuali della polizia tedesca, facilmenente reperibili su Internet, sono montaggi fotografici molto sofiscati ma, allo stesso tempo, non sono fotografie. Non riproducono alcun soggetto reale e la loro natura è virtuale. Si direbbe che la Unheimlichkeit dell’immagine fotografica è qui raddoppiata. Malgrado la verosimiglianza tecnica, manca la scintilla di vita a questi ritratti. Manca l’imperfezione, l’asimmetria propria a ogni viso umano. Questi personaggi paiono cadaveri cogli occhi aperti. Cosa potro’ riuscire a far dir loro?

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Zoo, 1997-2011

Il giardino zoologico di Roma, prima della trasformazione in “Bioparco” e in un giorno di scarso pubblico. Le gabbie fotografate durante l’assenza del loro inquilino, fermate nello stato d’attesa. Una velatura di colore, un rosa “antico” ad accentuare un effetto di straniamento. Molti anni dopo, un passaggio successivo: tornano gli animali che avrebbero potuto occupare quei luoghi, ma tornano come effigi cucite, col filo rosso o con quello nero, da un artigiano maldestro.

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Asylum. Morale d’une installation muséographique (2010)

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Pendant la Deuxième Guerre mondiale, Naples n’eut à souffrir de l’occupation nazie que pendant vingt jours, avant que la révolte populaire et l’avancée des Alliés ne poussent les troupes allemandes à quitter la ville. Il n’y eut pas le temps matériel pour organiser une persécution systématique de la population juive et « seulement » quatorze juifs napolitains, capturés dans d’autres régions d’Italie, furent assassinés dans le cadre du projet d’extermination raciale. S’occuper de la Shoah à Naples veut dire, par conséquent, faire appel à une conscience « universelle » plutôt qu’à une expérience historique partagée et reconnue.

Compte tenu de cette introduction, et de la situation particulière où je fus appelé à intervenir, mon récit vaut plus comme une expérience à raconter que comme un exemplum d’installation historiographique et muséographique.

L’expérience dont il est question eut lieu en janvier 2001 à l’Albergo dei Poveri (l’Hôtel des Pauvres) de Naples, un imposant bâtiment édifié à partir du milieu du xviiie siècle par le roi Charles III de Bourbon, sur un projet de Ferdinando Fuga et suivant le modèle d’institutions similaires, devenues courantes à l’âge baroque. Il s’agit d’une construction inachevée : trois des cinq ailes prévues furent effectivement dressées, et seuls des manchons de murs à ciel ouvert témoignent de l’église cruciforme prévue dans la cour centrale. Malgré l’interruption des travaux – trop coûteux et trop longs pour le royaume de Naples–, le « palais Fuga » reste l’un des plus grands édifices d’Europe et sa façade est d’une largeur exceptionnelle.

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Expression extrême d’une utopie autoritaire, le bâtiment aurait dû, selon le projet initial, accueillir jusqu’à huit mille personnes (tous les invalides, les mendiants, les jeunes délinquants, les orphelins, les prostituées et les zitelle du royaume), tant pour les soustraire à la vue publique que pour les transformer en main-d’œuvre à coût réduit. Il parvint néanmoins à héberger jusqu’à quatre mille marginaux à la fois, présentant ainsi les traits d’une ville dans la ville, avec son administration, ses cuisines, ses buanderies, ses manufactures et son cimetière annexe, le cimetière des « 365 fosses » où, chaque jour de l’année, l’on ouvrait une pierre tombale numérotée qui recouvrait une large fosse commune.

Au xxe siècle, le bâtiment fut progressivement vidé, mais en 1980, au moment du tremblement de terre qui fit deux mille victimes en Italie méridionale, y fonctionnaient encore le tribunal des mineurs, quelques bureaux et une maison de retraite, dans les décombres de laquelle on trouva les corps de onze personnes. À partir de cet épisode, l’Albergo dei Poveri fut presque entièrement abandonné et livré de fait au saccage et à toutes sortes d’activités, licites et illicites. Aussi l’aspect du palais, encore aujourd’hui et malgré la rénovation totale de sa façade, est-il celui d’une magnifique et labyrinthique ruine.

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Tel est le site où il fut prévu d’organiser un événement en commémoration de l’Holocauste, dans un contexte historique et politique particulier.
En janvier 2000, en effet, quarante-cinq nations avaient envoyé leurs représentants à Stockholm pour une conférence où l’on décida de commémorer tous les 27 janvier l’extermination des juifs européens (1). Dans la foulée, le parlement italien approuva en juillet de la même année une loi (no 211) qui consacre la Journée de la Mémoire comme événement institutionnel. Ces moments de reconnaissance et d’institutionnalisation se situent dans ce qui est, selon Nicole Lapierre (2), le quatrième temps de l’après-génocide, celui de l’internationalisation de la mémoire de la Shoah.
Or, les locaux de l’ancien « Hôtel des Pauvres » abritaient une association de sport, le Kodokan, active depuis trente ans déjà et très engagée dans la réinsertion sociale des jeunes du quartier. Ses animateurs eurent connaissance de cette loi et associèrent immédiatement le lieu de leur engagement à la commémoration prévue : l’Albergo ayant été pendant plus de deux siècles un lieu de réclusion et le témoin d’une souffrance dont les traces étaient encore visibles sur ses murs ébréchés et dans toute sa structure délabrée, il s’agissait d’un site « idéal » pour une telle circonstance.
« Trop idéal », pensais-je tandis que, contacté par un ami qui avait fait fonction d’agent dans la recherche d’un artiste, je visitais le palais. Je me demandais en quoi un artiste était nécessaire pour animer une « journée de la mémoire ». Peut-être était-ce parce que, face à un événement perçu comme inexplicable et en prise avec l’émotionnel, on a tendance à faire appel au fait inexplicable et émotionnel qu’est la création artistique ?
Rapprocher un lieu singulier ayant sa propre histoire et un temps de la mémoire dont la logique est différente peut donner, si l’on ne quitte pas le domaine de l’empathie, un événement hautement kitsch. Car qu’est-ce que le kitsch sinon une représentation qui, partant de l’émotion et du bon sentiment, reste liée et subordonnée à son propre sujet, sans jamais atteindre une forme autonome et libérée ? Et l’Hôtel des Pauvres n’était-il pas, dans sa magnifique et oppressante décadence, le lieu « idéal » pour une énième « kitschification » de l’extermination des juifs ?
La difficulté, pour concevoir une telle commémoration dans un tel lieu, résidait justement dans le fait que certaines analogies formelles (bien que dans une incomparabilité fondamentale des deux faits) étaient reconnaissables : l’attitude hygiéniste et paranoïaque à l’égard des identités minoritaires et marginales, une certaine « manufacturation » dans leur traitement, la pratique de la ségrégation et de l’exclusion. Il fallait éviter précisément l’amalgame des différentes persécutions et souffrances. Il fallait échapper aussi bien à la litanie commémorative qu’à la bonne volonté démonstrative.

J’avoue que j’étais peut-être plus intéressé par le lieu que par le thème de mon intervention. C’était une période où je m’occupais de sujets comme le refuge, le repaire, l’accueil, et j’avais monté six mois auparavant, aux Pays-Bas, un « parachute habitable » qui avait été la démonstration de l’impossibilité d’une hospitalité inconditionnée : je me posais la question d’un refuge qui ne soit pas, en même temps, une prison. Par ailleurs, en répondant à cet appel napolitain, je ne comptais pas « faire de l’art sur » un fait historique aussi définitif. Un tel fait devait – à mon sens – être laissé à son historicité et à l’interrogation qu’il posait sur l’histoire-même ; il n’avait pas à être traité comme un « sujet artistique ».
Toutefois, une « mise en forme » était nécessaire, qu’on l’appelle « direction artistique », « design », « installation ». Il s’agissait de donner un cadre stricto sensu à la re-présentation de la catastrophe. Comme l’on sait, le cadre est l’élément intermédiaire qui met en relation le tableau et l’espace dans lequel il est placé.

J’arrivai à Naples avec dans mes poches deux ou trois références. D’abord un article de Gianni Vattimo, « L’impossible oubli » (3). À partir du texte de Nietzsche sur « l’utilité et l’inconvénient de l’histoire », Vattimo suggère comment, en un temps comme celui-ci, qui connaît une véritable « fièvre historique », un tel excès devrait être non seulement reconnu mais extrémisé, plutôt que de se réfugier dans l’oubli grâce à la religion ou à un art vu comme œuvre « unique, instantanée, classique ». L’idée d’une création oublieuse, débitrice d’une esthétique de l’utopie, n’est plus présentable, désormais.
Le deuxième texte que j’apportais était un article récent de Régine Robin, « La mémoire saturée » (4). Robin est une chercheuse qui a travaillé de manière extensive sur la relation entre mémoire et invention : dans l’article mentionné, par exemple, elle remarque comment, à la libération des camps, certaines images photographiques étaient mises en scène. Sa position, à l’égard de la représentation de la Shoah, est qu’il faudrait établir des espaces de méditation et de réflexion plutôt que de tenter de recréer l’expérience traumatique. Ce qui bloque la transmission, dans les institutions officielles de la mémoire comme le Washington Holocaust Memorial Museum, c’est « l’excès d’images et d’explications ». Il faudrait, au contraire, ouvrir un troisième espace, un espace « spectral », qui pourrait introduire aussi bien à l’acceptation de l’héritage qu’à sa transmission (5).
Enfin, j’avais aussi emporté le texte qui contenait les mots les plus célèbres et les moins bien cités à propos de la possibilité d’un art de l’après-Holocauste : « Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben ist barbarisch », « écrire un poème après Auschwitz est un acte de barbarie », disait en 1949 Theodor Wiesengrund Adorno, dans Kulturkritik und Gesellschaft (6). « À travers le principe esthétique de la stylisation […] un destin inimaginable réapparaît comme s’il avait du sens et, avec le refoulement d’une partie de l’horreur, il est transfiguré » (7), réaffirmait-il dans une émission radiophonique en 1962. Je ne m’attarderai pas sur le débat autour de ces quelques lignes (8), mais je voudrais rappeler la révision que le philosophe allemand lui-même en fit. Voici ce qu’il affirme dans l’un de ses derniers écrits :
La douleur incessante a aussi bien le droit de s’exprimer que le martyrisé de hurler. Il est peut-être faux, par conséquent, d’avoir dit qu’après Auschwitz on ne peut plus écrire de poème. Mais elle n’est pas fausse la question, moins culturelle, de savoir si après Auschwitz on peut encore vivre… (9)
Et, plus avant dans le même texte :
Après Auschwitz il n’y a pas de parole qui vienne du haut, même pas une parole théologique, qui ait un droit, à moins qu’elle ne subisse une transformation. (10)

En dessinant les lignes de l’installation napolitaine du 27 janvier 2001, j’envisageais de m’engouffrer dans le soupirail ouvert par ce simple adjectif, unverwandelt, que je viens de paraphraser de manière si prolixe. Y aurait-il eu l’espace pour une mémoire performative ?

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En arrivant à l’Albergo dei Poveri, je compris combien « l’appel » auquel j’avais répondu était né d’un malentendu linguistique, d’une traduction erronée. Il était évident qu’à Naples on disait « artiste » à l’ancienne, en désignant par là une personne de la scène, un homme de spectacle. Plusieurs discussions et maintes controverses surgirent à cause de ce malentendu. Je ne le regrette pas finalement, car j’ai compris que, si l’on veut rassembler et créer une sensibilité, il faut renoncer à une bonne partie de ses propres exigences esthétiques ou idéologiques. Il y eut un côté « événementiel » de la Journée, mais il fut limité à l’inauguration de l’exposition, et il n’y n’eut pas, comme on me l’avait proposé au début, des bandes de jeunes du quartier qui, habillés de rayures, bloquaient en gémissant la circulation sur la Piazza Carlo III, dans une performance imaginative, certes, mais qui aurait exprimé toute cette approche mimétique que je voulais éviter. On choisit de ne rien monter qui puisse favoriser une attitude de compassion ou de commotion, précisément parce qu’une telle attitude amène à se solidariser à chaque fois avec la dernière victime, en oubliant la spécificité du fait historique (d’ailleurs, les récents événements en Israël et en Palestine (11) mirent en danger la réalisation même de la Journée sur la Shoah).
On décida, pour la soirée inaugurale, de laisser le site dans l’état où nous l’avions trouvé mais de lui donner, pour quelques heures, une vie différente : en diffusant des voix enregistrées dans la rue, en montrant des tableaux vivants qui, au lieu d’insister sur la commémoration ou de chercher une vraisemblance, pourraient plutôt produire un manquement de sens, un dépaysement du visiteur. Celui-ci se trouvant alors face à une conscience de l’absence, à une reconnaissance de la perte, au sentiment de la fragilité des traces. Mais, en cherchant une approche allégorique, il fallait aussi éviter l’absolue prise de distance à laquelle peut mener l’allégorie : il fallait que l’on sente une poïésis, un travail en cours. Je m’autorisai une seule intervention personnelle : un parachute de secours en soie blanche, suspendu au plafond de l’un des très hauts couloirs de l’Hôtel des Pauvres, à moitié entortillé, qui ne pouvait plus sauver personne. Au bout de l’une des ficelles, effleurant le sol, une petite photographie datant des années trente, dénichée dans un marché aux puces de Berlin, sur laquelle posaient deux jeunes femmes inconnues.

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L’exposition permanente fut montée dans un contexte moins bruyant. Il n’y eut pas de décoration, ni de peinture des murs, ni de panneaux explicatifs. Pour ce qui était des accessoires, on utilisa ce qu’on avait trouvé sur le lieu même, les restes de ses fonctions successives. Avec les jeunes qui nous aidaient dans le montage on pénétra dans les parties condamnées de l’Albergo. En marchant sur des tapis de papiers d’archives étalés au sol on découvrit et on s’empara de ce que les maraudeurs avaient laissé de côté : des tableaux noirs, des sièges de cinéma, des bancs d’école, des étagères. On ramena ce mobilier dans les espaces de l’exposition et on y installa le matériel documentaire recueilli jusqu’alors. On nettoya sommairement les salles et on y plaça les ordinateurs, les imprimantes, les projecteurs vidéo. Les locaux restèrent comme on les avait trouvés, nus, transparents vers l’histoire.
En fin de compte on installa une collection : on avait assemblé et rendu accessibles des photocopies de documents et quelques dizaines de livres, une bonne quantité de films en VHS, les originaux des lois raciales italiennes. On avait imprimé trois brochures en distribution libre : une « sitographie » Internet, une bibliographie, un répertoire filmographique. Le résultat fut que plusieurs visiteurs furent déçus ou offensés par « l’exposition », parce qu’il n’y avait « rien à voir », tandis que d’autres, quelques autres, revinrent jour après jour pour utiliser les outils mentionnés (12).
Nous pensions que, au lieu de proposer encore une fois la berceuse consolatrice du devoir de mémoire, on devait donner une structure pour le travail d’anamnèse. Le principe de « l’exposition » permanente était un principe de relation : il n’y avait rien à voir, si les gens ne voulaient pas voir. Il y avait à utiliser le lieu et ses accessoires : on pouvait prendre un livre et le photocopier, prendre une cassette vidéo et la visionner, s’asseoir devant un ordinateur pour visiter via Internet les sites consacrés à la Shoah. On offrait des instruments de recherche et d’éducation à la place de l’adhésion émotionnelle. Le sujet de la Journée n’était pas tant le génocide des juifs en tant que tel que sa représentation en littérature, musique, cinéma, théâtre, arts plastiques, dans toutes ses différentes formes. On posait la question de la représentabilité sans proposer de solutions, mais en mettant à la disposition du visiteur tout le matériel qui avait été produit en Italie entre 1945 et 2000. Nous avions confiance dans le fait que le cadre même de « l’exposition », si transparent, pourrait être pris comme une invitation à l’interprétation. Au lieu de crier au scandale de l’histoire, il s’agissait de rendre compte de tous les dépôts, les stratifications, les résidus et les travaux que l’histoire nous avait laissés.
Le but de cette expérience napolitaine n’était pas de « préserver » la mémoire – je continue de penser que toute entreprise de préservation, dans son rapport nécessaire à la contrefaçon, est l’un des territoires du kitsch, et je considère toujours le kitsch comme une forme de mauvais art. Notre objectif n’était pas d’indiquer des modèles éthiques – disons, d’ériger un monument –, ni d’exhiber des preuves et des démonstrations – par exemple construire un musée. Ce qui avait été recueilli et placé dans les espaces de l’Albergo dei Poveri était un ensemble de documents choisis de la représentation, de produits visuels ou écrits qui avaient à voir avec le sujet spécifique de la Shoah en Italie. Au cours de ce processus de recherche et de mise à disposition, dans un cadre particulier, qui dura six mois et qui occupa une dizaine de jeunes personnes, les objets devenaient les instruments d’une potentielle transformation intellectuelle.
Ce qui était présenté, en fin de compte, c’était une « collection installée », un montage ou une mécanique de documents ; c’était une projection de l’histoire.

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NOTES :

1 C’était le Stockholm International Forum on the Holocaust. A Conference on Education, Remembrance and Research. Les actes du colloque sont consultables sur le site <www.humanrights.gov.se>.

2 Voir « Déplacés, déplacer », entretien avec Nicole Lapierre, Vacarme, no 47, 2009, p. 4‑12.

3 Gianni Vattimo, « L’impossible oubli », dans Usages de l’oubli, contributions au colloque de Royaumont (1987), Le Seuil, 1988.

4 Régine Robin, « La mémoire saturée », L’Inactuel, septembre 1998 ; repris dans le livre du même titre, Stock, 2003.

5 Je n’eus connaissance que trop tard d’une contribution qui m’aurait évité bien des problèmes de conscience, puisqu’elle balaye quantité de lieux communs sur la question : « La représentation interdite », de Jean-Luc Nancy, écrite en 1999 et publiée dans Genre humain, no 36, Jean-Luc Nancy (dir.), L’art et la mémoire des camps : Représenter exterminer. Rencontres à la maison d’Izieu, 2001, p. 13-39. Par contre, je pus assister en décembre 2000, au cours d’un colloque parisien (les actes ont été publiés depuis : Joseph Cohen, Raphael Zagury-Orly (dir.), Judéités, questions pour Jacques Derrida, Galilée, 2003), à une controverse entre Jacques Derrida et Claude Lanzmann où le premier faisait tabula rasa de l’idée d’incomparabilité de la Shoah.

6 Prismes. Critique de la culture et société (1955), Payot, 1986, p. 23.

7 « Engagement », dans Noten zur Literatur III, Francfort-sur-le-Main, 1965.

8 Mais je renvoie à John Felstiner, « Translating Paul Celan’s “Todesfuge” : Rhythm and Repetition as Metaphor », dans Saul Friedländer (éd.), Probing the Limits of Representation. Nazism and the « Final Solution », Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1992, p. 240‑258.

9 Dialectique négative, Payot, 2001, p. 348.

10 « Kein vom Hohen getöntes Wort, auch kein theologisches, hat unverwandelt nach Auschwitz ein Recht », Negative Dialektik (1966), dans Gesammelte Schriften, Francfort-sur-le-Main, 1990, vol. 6, p. 360 (p. 353 de l’édition en français). L’italique comme la traduction viennent de moi.

11 La célèbre promenade d’Ariel Sharon sur l’esplanade des Mosquées, avec le regain du conflit qui s’ensuivit.

12 L’un des buts de cet événement, entièrement financé par la municipalité de Naples à hauteur d’environ 90 000 euros, était de créer les conditions pour un centre de documentation permanent.

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Ce texte est paru dans le numéro 5 de la revue Ecrire l’histoire. On pourra y trouver les notes qui manquent ici.

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Artworks 2010

Antiquarium, replay, 1997-2010
Photographs of a place that no longer exists, the Antiquarium of Mount Celio in Rome where, until recently, the debris of sculptures from antiquity that did not find shelter in the galleries or storerooms of museums were scattered outdoors like old cars in a junkyard. Drippings of boat resin, mixed with fluorescent pigment, anachronistic signs of fragmented time.

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Reprints, 1997-2010
Like vampires, natural latex is sensitive to daylight. Exposure to ultraviolet rays causes drying, darkening and makes the latex sticky until it eventually falls into shreds. This organic material is so light sensitive that it is the last material one would use for reproducing photographic images.
It is therefore through a process of redundancy that the traces of its own attempt at conservation leave their imprint. More specifically, this series features two superimposed images: the details of an industrial site that I visited before it was demolished; and the remains of archaeological excavations that are not considered worthy of being displayed in a museum. An exercise in imitation: Piranesi’s Carceri d’invenzione.

reprints

Ex voto Remix, 2009-2010
Etruscan votive images gleaned from catalogues or post cards. These specimens — reminders of health problems or broken hearts taken out of their funerary context – displayed in museums, on coloured carpets and classified by category. Reused here, reproduced on glass, superimposed on paintings by SP, marked by Chinese stamps, without concern for their relatedness. Will we become play things once again?

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Phantombilder, 2010

After completing a project on identification photos of the last century (1920-1970), I began researching new subjects linked to the question of posing and portraiture. The mug shots that I reworked depicted people who did not wished to be photographed. But willing or not, they were actual subjects in the flesh who expressed something more than that for which they were photographed. It is that “something” that I attempted to capture.

The facial composites used by German police today, easily accessible via Internet, are photomontages. They depict no existing subject; they only depict a stage of memory. Though, they are photographs. The Unheimlichkeit (“eeriness”) of the photographic image seems to be two-fold here.

Despite the formal resemblance, these portraits lack the spark of life and the imperfection and asymmetry that distinguishes every human face. These figures seem to be cadavers with wide open eyes, cadavers twice. What could I make them say?

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Travaux 2010

Antiquarium, replay, 1997-2010
Des photographies d’un lieu qui n’existe plus, l’Antiquarium du mont Celio, à Rome, où étaient entassés en plein air, comme dans une casse de voitures, jusqu’à il y a peu, tous les débris des sculptures antiques qui n’avaient pas trouvé place, ni dans les galeries des musées, ni dans leurs réserves. Des coulures de résine à bâteau, mélangée avec un pigment fluorescent, signes anachroniques d’un temps fragmenté.

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Reprints, 1997-2010
Comme les vampires, le latex naturel craint la lumière du jour. Les rayons ultra-violets le dessèchent, l’assombrissent, le rendent poisseux et finalement le font tomber en lambeaux. Ce matériau organique est tellement photosensible qu’il est le dernier à pouvoir être utilisé pour la reproduction des images photographiques.
C’est donc par un procédé de redondance qu’on y imprime les témoignages de son propre effort de conservation. En particulier, cette série présente à chaque fois deux images superposées : d’un côté, des détails d’un site industriel dans lequel j’ai pénétré avant sa destruction ; de l’autre, des restes de fouilles archéologiques, pas assez nobles pour trouver place dans un musée.
L’exercice d’imitation : le Piranèse des Carceri d’invenzione.

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Ex voto Remix, 2009-2010
Des images d’Ex-voto étrusques, prises de catalogues et de cartes postales. Ces spécimens : reliquats d’ennuis de santé et de peines de cœur, extraits de leur contexte tombal, présentés dans les musées, posés sur des moquettes colorées, répertoriés par catégories. Ici repris, reproduits sur verre, superposés à des peintures de SP, “à la chinoise”, sans souci d’analogie. Redeviendrons-nous des jouets?

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Phantombilder, 2010
Après avoir achevé un travail sur les images d’identification du siècle passé (1920-1970) je me suis lancé dans la recherche de nouveaux sujets liés à la question de la pose et du portrait. Les identifications policières que j’avais retravaillées étaient des portraits de personnes qui auraient préféré ne pas être prises en photo. Mais qu’ils l’aient voulu ou pas, c’était des sujets en chair et en os, qui exprimaient quelque chose de plus que ce pour quoi ils étaient photographiés, et que je cherchais à retrouver.
Les portraits robots actuels de la police allemande – facilement accessible sur Internet – sont des montages photographiques très sophistiqués mais, en même temps, ne sont pas des photographies.
Ils ne reproduisent aucun sujet réel : ils reproduisent un état de la mémoire. On dirait que la Unheimlichkeit de l’image photographique est ici doublée. Malgré la vraisemblance technique, il manque à ces personnages une étincelle de vie. Il manque l’imperfection, l’asymétrie propre à chaque visage humain. Ces personnages ressemblant à des cadavres aux yeux ouverts : ils sont des cadavres deux fois . Qu’est-ce que pourrai réussir à leur faire dire?

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Notice 2009

1. Lingua franca (mixed media, 1997-2009).

Les archives du Tribunal pour les mineurs de Naples, après le tremblement de terre de 1980 et vingt ans de saccage. L’Antiquarium de Rome, où étaient entassés en plein air les débris des sculptures classiques qui n’avaient pas trouvé de place dans les musées. Le sonnet n. XXIV des Rime de Pétrarque (“E contra gli occhi miei s’è fatta scoglio”).

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2. Positivism (mixed media,1990 2009).

Une méthode nouvelle pour soigner l’ataxie locomotrice, un échantillonage de visages humains, beaucoup de foi dans les vertus de la classification et du jugement.

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3. L’Illustrazione Italiana (mixed media, 2009).

Des photographies des années 30, appartenant à une documentation sur l’Afrique coloniale. Le travail sur ces images pose la question de la peau, comme la question de l’ambivalence de notre propre regard. Il n’y a pas de manifeste : seulement, le regard posé sur ces sujets n’a pas les caractéristiques du premier qui a été posé sur eux.

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4. La Buoncostume 01-04 (mixed media, 2009).

Début 2008, La Questura (Commissariat central) de Rome, au lieu de les  léguer aux archives nationales, s’était débarrassée de 8000 photographies d’identification (“non utiles à des fins d’investigation”) qui furent retrouvées par un chiffonnier dans deux grands sacs poubelles et vendues à une galerie-librairie antiquaire, Il Museo del Louvre, qui en organisa l’exposition et en informa malencontreusement la presse. Le jour même du vernissage, avant l’ouverture de la galerie, les Carabinieri, alertés par la surintendance au patrimoine, firent une descente et séquestrèrent les photos et le catalogue.
Les six images que j’ai choisies et retravaillées figuraient sur un exemplaire du catalogue qui a été dérobé au moment de la perquisition. Elles viennent vraisemblablement des archives de la Police des Moeurs et doivent dater de la fin des années 60. On ne connaît pas l’identité de ces sujets, et après mon traitement on aura du mal à les reconnaître.

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5. Leçons d’anthropométrie (mixed media, 2009).

Ces leçons viennent des archives départementales du Gard. Comme on sait, chaque nomade ou ambulant ou forain, isolé ou membre d’une famille, devait porter sur soi un carnet anthropométrique qui était tamponné à chaque entrée ou sortie d’une commune française. Ce carnet a été utilisé entre 1912 et 1969 : il contenait, outre les données écrites, les portraits de face et de profil de l’intéressé, ainsi que les empreintes de ses dix doigts. J’ai reproduit six photographies des années 20, d’individus d’une même famille, dont je ne connais pas le nom, sur des verres que j’ai superposés aux articles du règlement concernant ces carnets, transcrits au feutre noir sur du carton d’emballage. J’y ai superposé des formes en rouge fluo et en blanc. Cela peut faire penser au design de cette époque-là, que ça soit du constructivisme ou du Bauhaus ou…

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6. Colpi proibiti (mixed media, 2009).

Mon travail photographique est une archéologie négative. L’archéologue s’affaire à mettre au jour les restes du passé, en épluchant strate après strate le temps qui les a recouverts. Ma méthode en est l’opposé : je superpose des strates de matériaux linguistiques différents sur l’image choisie, jusqu’à la brouiller. Ces strates n’ont aucune relation analogique entre elles et se soustraient, ainsi, à toute recherche de sens. Je laisse juste la place à une allusion.
Ici, aux photographies en couleur de la plus importante collection lapidaire romaine en France, j’ai superposé des images transparentes tirées du volume XXVIII (publié en 1935) de l’Enciclopedia italiana, illustrant l’article « Pugilato » (boxe) et montrant les coups de défense, ainsi que ceux qui sont défendus (qui sont aussi répertoriés, cela va de soi, pour qu’on puisse les sanctionner).

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S.P. mai 2009

Works 1995-2009

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Steles of Anamnesis, 1994-1995.

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La civilisation du phoque, 1994-1995.

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Ninna nanna, 1995

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Les Ames du purgatoire, 1995

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Anabasis 1995

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Nanook Sequence 1996

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Cranial Nerves, 1996

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Still Lives, 1996

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Boustrophedon 1997

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L’art de la guerre, 1997

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Iconostasis, 1997

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Leçons d’anatomie, 1998

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Kinderatlas, 1998

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Wilderatlas, 1999

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Skyggerids, 1999

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1930 circa, 2002

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Inventarium, 2004 (detail)

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Ex voto, 1990-2006

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Monte Carmelo, 2009

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La Buoncostume 01, 2009

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La B-C, 2009

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L’Illustrazione Italiana ter, 2009

My artistic activity over the last years has focused on our common historic heritage. More specifically, I have endeavored to elaborate an iconographic program that enriches and skews our perception of “our” family portraits. To achieve this objective, I have collected archival material, scientific diagrams, administrative documents, as well as police mug shots and plates from anthropological studies. From such material, I have created new images. The work I have undertaken in recent years involving collages created from original documents mixed with painting naturally led me to attempt to develop a ‘photograph of history’.

Considering photography solely as a method of reproduction – i.e. its most restricted function — I have used it as a fragmented piece of “evidence” in large-scale articulated works, which were not intended to propose new meanings but rather to call into question our manner of regarding the past. The images I exposed were often mutilated and reduced to fragments, which prevented the viewer from imagining the whole that could be constructed from these fragments; they were sometimes rendered illegible by the superimposed layers of documents and iconographical material.

Using cut-up X-rays as screens or filters, I created a play of shadow and light, and transparency and opacity on the images. As both an abstract reproduction and a negative image of the hidden reaches of the body, the X-ray is itself a form of body writing – a recording that must be deciphered and interpreted. The transparency of the X-rayed body forces the viewer to reflect upon the impossible permeability of the photographed image. How can we pierce and destabilize its forms that are so saturated and definitive?

I have thus reproduced ‘our’ photographs on a support of sheets of transparent film. I superimposed them on completely unrelated photographs or on some of my earlier works that I have cut up and repainted. I then enlarged details to the point of rendering them abstract and hid them behind metal grating — a reference to pre-grammatical signs. I mounted them between two glass plates in metal structures that distanced them from the wall, thereby allowing any light source to transform them into shadows, which could be deformed or deformable according to the angle of the light source and the orientation of the frame.

By incorporating shadow in my work, I have reverted to the earliest form of image making, which, according to myth, was born from the contemplation of shadows. Using industrial supports typical of our period, such as transparent films, gelatinous material and florescent colors, I intended to shed the original icon of its solemnity and aura so as to present only a facsimile.

In addition, these materials allow us to ‘sublimate’ a mundane subject or to trivialise a pretentious subject. Perhaps this is a manner of getting around the question that has traditionally troubled all visual artists: the inadequacy of any given subject matter.

Reproduction functions as a conservation tool, yet this necessarily implies a loss. The original image having been at any rate lost, we, the viewers, are left with infinite possibilities to recreate it in our own imaginations.

The Postcard (Terni 2006-Seoul 2009)

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Saint-Ouen, France *
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Terni, Italy *
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La colonna sonora dell’installazione (Philippe Poirier, The Postcard, 8’29”):

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Seoul, Corea ***

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The Postcard

Un intervento d’artista intorno al gemellaggio Terni-Saint Ouen

Terni e Saint Ouen sono governati da due amministrazioni che hanno deciso, alla fine degli anni ’50, di gemellarsi. Il motivo di tale scelta era un’evidente analogia nella storia e nella composizione sociale delle due città, entrambe industriali, entrambe colpite dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, entrambe amministrate da partiti rappresentanti la classe operaia. Ancora in questi anni i destini delle due città sono simili, con la chiusura di taluni complessi industriali e la necessaria riconversione degli spazi urbani.

Fino ad ora i rapporti fra le due città sono stati incentrati intorno a scambi culturali episodici (gite scolastiche, partecipazioni di artisti a mostre di gruppo, partite di calcio, eccetera). Negli ultimi anni sono emerse, tuttavia, due realtà parallele alle istituzioni locali: a Saint Ouen ha aperto nel 2001 Mains d’oeuvres, un centro d’arte multimediale che accetta artisti in residenza sulla base di progetti che si rivolgono alla popolazione. Nello stesso tempo, a Terni, la ex Siri è sulla strada di diventare un luogo aperto all’attività di artisti internazionali.

L’installazione di S. Puglia esplora il concetto di tipico: cosa è che definisce visivamente uno spazio pubblico e l’identità locale che su quello si ancora? Esistono degli standard, degli elementi visivi che possono designare la specificità di un luogo, agli occhi dei suoi stessi abitanti? E il tipico, il caratteristico di un luogo, non è allo stesso tempo un generico interscambiabile?

Per verificare questa ipotesi Puglia ha percorso rapidamente, in bicicletta e a piedi, i centri urbani di Terni e di Saint Ouen. Ha fotografato, senza un vero criterio di scelta, i luoghi più comuni e i più “tipici”: crocicchi, piazze, semafori, parcheggi, statue, monumenti.
Ne ha ricavato due serie di diapositive che vengono proiettate in un lento diaporama di immagini parallele e sovrapposte, carte postali anodine di una serata “proiezione” al ritorno da un viaggio in un paese esotico.

Ai due lati di questa proiezione, su due pareti opposte, appaiono due strani mostri. Si tratta di due “caratteristici” monumenti di ognuna delle due città. Nel corso delle sue deambulazioni, difatti, Puglia ha scelto nel modo più casuale due sculture che non rappresentano altro che l’epoca e lo spirito in cui sono state edificate, ma che vengono qui presentate come delle icone arbitrarie: più che della rappresentatività estetica di uno spazio pubblico, esse rendono conto della soggettività di una scelta artistica.

Le sculture riprodotte sono parti di due monumenti più complessi. L’uno è la figura giacente di un vecchio, nello Square Marmottan a Saint Ouen; l’altro è un bassorilievo che sovrasta il monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, a Terni.

Entrambe le sculture sono appiattite e scomposte. Sono state riprodotte usando centinaia di piccole fotografie 10×10, con un effetto di “pixellizzazione”. Si tratta di fotografie fatte con un apparecchio di plastica di fabbricazione tedesca, un Carena 51, che dà stampe di formato quadrato. Queste immagini non mostrano vedute delle due città, ma tutti i luoghi visitati dall’artista nel corso degli ultimi quindici anni, ovunque sul pianeta. Si tratta quindi di un rumore di fondo. Nella stessa maniera, la composizione musicale di Philippe Poirier, che accompagna la successione delle immagini, presenta una sorta di “suono del mondo”.

L’aspetto autobiografico della pratica artistica e la ricerca su un luogo di lavoro (come è lo spazio urbano) si compongono in questa installazione multiforme.

 

Quattro pose statuarie (2006)

Fra le decine di disegni che Annamaria Morbiducci mi ha mostrato, ho deciso di confrontarmi con gli schizzi preparatori per le quattro formelle bronzee che Publio eseguì, intorno al 1928, per due porte della Casa madre dei mutilati di guerra, a Roma.

Il tema a lui assegnato dalla committenza (la stessa ANMIG, ovverosia l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra) era piuttosto costrittivo: si trattava di celebrare la vittoria in guerra (1915-18) delle varie Armi, di terra, di mare e d’aria.
Che siano dunque rappresentate in atteggiamento “terrifico” oppure statico, queste Vittorie, rigorosamente alate, hanno comunque a che fare con nemici mostruosi e maneggiano gladi, spade, saette e arpioni.

Lo stile delle formelle morbiducciane mi pare essere al passo con i propri tempi: riecheggia un classicismo sintetico non esente da influssi art-déco.
La coeva plastica francese, quella di un Bourdelle ad esempio, potrebbe esserne una fonte d’ispirazione.
Ma in quegli anni potremmo incontrare in ogni capitale europea testimonianze scultoree siffatte (con l’eccezione, forse, di Berlino, ancora avanguardistica in arte, non ancora messa al passo d’oca).
Non si può tuttavia sostenere che, in questo caso, l’arte di Morbiducci sia arte di regime. La costruzione e le successive committenze della Casa madre, se hanno accompagnato gli anni del consolidamento del fascismo, non ne sono ancora completamente influenzate, quanto a tematiche e a retoriche.
Si può parlare piuttosto di una visione ideologica della Prima guerra mondiale come compimento post-risorgimentale dell’unità della nazione. Tale visione era comune anche presso intellettuali e artisti di origine liberale e di pratica antifascista (quali, fra gli altri, Giovanni Amendola e Piero Calamandrei).

Sia come sia, Morbiducci si mise all’opra nel modo più tradizionale, preparando le sue sculture con una serie di bozzetti e di schizzi, a matita e a pastello, dal vivo.
Visto il carattere un poco accademico di tali pose, è evidente come esse fossero una sorta di pensiero plastico in fieri, che gli permise la sintesi statuaria, formalmente piuttosto riuscita, delle quattro formelle bronzee.

E’ dunque con questo “pensiero plastico in fieri” che mi confronto, considerando i disegni delle Vittorie per quello che sono, e cioè un momento di passaggio, una transizione fra idea ed esecuzione.
Ed è proprio il loro carattere di non-opera, o opera incompiuta, che mi autorizza a sovrapporre loro altre non-opere, o altre opere incompiute, usando delle tecniche frammentarie in mio possesso: sovrapposizioni, sbordamenti, stratificazioni, trasparenze.

In particolare, ho concepito la serie di quattro grandi formati denominata Trasparenze P.M: 1928, che riproduce direttamente le formelle (trasformandole da elementi decorativi a presenze monumentali), come un confronto, appena accennato, con la coeva arte europea: ho immaginato che si richiedesse la stessa prestazione ad artisti costruttivisti, dadaisti, surrealisti, astratti. Le linee sinuose di Morbiducci vengono così interrotte o coperte da segni brutali e talvolta malaccorti che a quelle avanguardie fanno richiamo.
I materiali da me scelti, prodotti dell’industria di massa, contrastano con la preziosità e la perennità del bronzo: fotocopie su carta, reti di zanzariera, teloni di plastica, pannelli di policarbonato, cere da asilo d’infanzia.

Le formelle celebrative della vittoria divengono in tal modo il monumento effimero della forma mutilata.

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Promemoria (Taggia 2005)

Una mostra “performativa”?

Ciò che la mostra di Taggia sul patrimonio culturale e i rischi sismici si propone è costituire un esempio di “memoria performativa”. E’ la proposta di una testimonianza fondata sì sull’indagine storica, sulla ricostruzione per quanto possibile accurata dei fatti avvenuti, ma che non è solo conservazione di conoscenze acquisite: è trasformazione di queste in avvenimento, manifesto, manifestazione e – eventualmente – drammatizzazione. E’ un approccio alle cose del passato e alla loro ri-creazione che richiede metodi e pratiche provenienti dal campo dell’estetica, e che intende superare l’alternativa tra memoria e oblio (bisogna conservare e testimoniare tutto il passato, oppure si può omettere e dimenticare qualcosa, per consentire una pacificazione di vecchie contese?). E’ un’alternativa falsa perché ognuno di questi termini – memoria e oblio – contiene l’altro in sé, lo implica necessariamente.

La mostra organizzata a Taggia nel gennaio-febbraio 2005 nasce da un evento, il terremoto del febbraio 1887, che costituisce una ferita nella storia e nella terra della Liguria di ponente. Evidenziare quanto e come tale ferita sia stata risanata è suo compito. Si vedrà come l’intreccio di reminiscenza e dimenticanza (con una certa prevalenza della seconda) ha creato l’aspetto attuale di quel territorio, assumendo nei fatti una funzione “performativa”.
Il tentativo di restituire allo sguardo ciò che è avvenuto in quell’anno e nei cento che lo hanno seguito – così come quello di mostrare lo stato di quei beni che l’uomo ha impiantato in questi luoghi – non può presentarsi come una mera opera di archiviazione e catalogazione. Per quanto le metafore dell’archivio e del catalogo siano sempre presenti nel percorso dell’esposizione Promemoria, si è preferito quella di “cantiere”. Così come lo stato delle nostre conoscenze è un continuo movimento di farsi e disfarsi, e la geografia stessa di queste terre è fatta di costruzioni e demolizioni, una mostra che vuole rendere conto di ciò non può avere una forma conclusa, né proporre un discorso finito. Una mostra che parla di ferite nel territorio, di cesure nella storia e dei modi e delle opportunità di risanarle o meno, non può non avere lati spigolosi, muri sbrecciati, voci dissonanti. L’aspetto performativo che si menzionava è quella pratica di trasformazione del materiale documentario che – nel renderlo leggibile sotto luci diverse – costituisce l’operazione critica di se stessa e del proprio oggetto.
A questo scopo – con un metodo che è allo stesso tempo filologico ed estetico – si sono usati i mezzi audiovisivi della nostra epoca: gli apparecchi fotografici digitali, i registratori, le videocamere. Nostro intento era precisamente superare il carattere dimostrativo e didattico di un’esposizione scientifica per farne un rendiconto, esaustivo per quanto possibile, ma aperto all’interpretazione – e all’emozione – di un pubblico che è il diretto interessato.

La mostra di Taggia è divisa in tre parti. Esse rispecchiano da una parte le opportunità e le costrizioni del luogo che la ospita – il palazzo Lercari – e rispettano dall’altra il principio della nostra “museografia”: fare con ciò che si trova, lavorare con le disponibilità umane, gli spazi e i materiali locali, intersecare le nostre conoscenze e le nostre pratiche con quelle di chi sul posto vive. Il rapporto che abbiamo cercato sia con l’amministrazione comunale che con il Circolo culturale tabiese che con tutte le persone incontrate è nato da questa convinzione: non si tratta tanto di restituire al territorio le informazioni che dal territorio si sono prese – sebbene “messe in forma” -, quanto di riesaminare insieme con coloro che qui vivono qualche aspetto della nostra temporanea presenza.
Un altro principio ha guidato il lavoro della mezza dozzina di persone che hanno montato l’esposizione: se esistono competenze specifiche, non ci sono mansioni separate. Tutti partecipano all’elaborazione concettuale e tutti danno una mano al montaggio. Ognuno sa cosa gli altri stanno facendo; un’idea di interscambiabilità si sostituisce, per quanto possibile, a quella di specializzazione. Questo è il motivo per cui l’allestimento della mostra di Taggia è stato firmato collettivamente.

Alcune note, infine, sulla struttura di Promemoria.
C’è una prima sala, che abbiamo battezzato Deposito. Questo è il luogo in cui il problema “si pone”, senza che per esso venga accennata alcuna soluzione. Immagini dei luoghi percorsi dalla nostra ricerca, materiale sparso e sedimentato, scarti del nostro lavoro che in negativo danno la forma della mostra, fotografie di edifici danneggiati: “c’è un problema”.
La seconda sala di palazzo Lercari è stata nominata Museo. E’ questo un luogo in cui si presentano documenti. L’allegoria è quella di un museo di storia locale “à l’ancienne”, in cui vengono raccolti, senza distinzioni gerarchiche o di qualità estetica, tutti gli oggetti e i dati che hanno a che fare con un determinato luogo o avvenimento, in questo caso il terremoto del 1887. Dalla profusione di documenti scaturisce l’immaginazione di ciò che un tale avvenimento ha potuto significare, e come possa continuare a essere presente malgrado il tempo trascorso e le necessarie ricostruzioni. Questa sala ospita quindi i materiali di archivio di carattere audiovisivo che abbiamo potuto rintracciare. Tali materiali già indicano alcune delle modalità in cui può rivivere un luogo colpito dalla catastrofe.
Si passa alla terza stanza, il Laboratorio. Così come tutta l’esposizione, essa è stata pensata secondo i principi di sovrapposizione e sbordatura. Così come il presente storico è fatto di stratificazioni, aggiunte, omissioni, riappropriazioni e dimenticanze, i materiali del cantiere che è la grande sala di palazzo Lercari si confondono a tratti fra di loro, si distinguono, tornano a confondersi.
I diversi supporti documentari o elaborati sbordano l’uno sull’altro: i paesaggi fotografici di Vittore Fossati, le fotografie digitali dell’UR8, le carte topografiche e geologiche, le immagini aeree. Si è voluta platealmente dare l’immagine di un intreccio da dipanare, di un diagramma da decifrare. Si è affidato questo “sdipanamento” alle storie esemplari di alcuni oggetti, a quattro microstorie che illustrano in altrettanti film punteggiati da didascalie sonore i modi diversi che hanno gli oggetti di sopravvivere ai cataclismi naturali e all’incuria (o alla cura) dell’uomo per le cose che ha ereditato.
La morale di queste storie è che non c’è una soluzione data al problema posto in partenza, ma tante soluzioni parziali e diverse. La mostra si conclude in questo modo, con un appello all’attenzione e alla cura.

Salvatore Puglia
Gennaio 2005

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Futuro postumo, 2004.

… un immenso deserto lunare …

Per questo mio lavoro di accompagnamento iconografico al testo di Piero Calamandrei ho usato un principio di stratificazione, a partire da tre elementi documentari contemporanei fra di loro, che ho disposto come livelli parzialmente compenetrati. I tre livelli si coprono reciprocamente oppure si leggono l’uno malgrado l’altro. Più che sostegno reciproco, insomma, c’è contraddizione fra i vari strati. Il forte chiaroscuro e una certa rudezza della composizione sottolineano questo principio.
Come sfondo delle illustrazioni a Futuro postumo ho scelto fotografie tratte da un volume, Romantisches Deutschland, pubblicato in quegli stessi anni ‘50 in cui lo scrittore concepiva il suo racconto della fine dell’uomo. Le immagini di questo album fotografico mostrano una Germania del secondo dopoguerra nella quale nulla sembra essere avvenuto. Non vi è alcuna traccia visibile delle distruzioni del conflitto né degli eventi epocali che su quella terra erano occorsi. Una tale descrizione a-temporale e fermata pare appunto denunciare, suo malgrado, quei luoghi dell’occidente come la scena finale della narrazione storica progressiva.
Mi è parso opportuno scegliere un tale sfondo per le mie sovrapposizioni: così come in quelle immagini del dopoguerra non esiste traccia della catastrofe avvenuta, allo stesso modo nel testo di Calamandrei la distruzione avviene senza traccia visibile, se non è l’improvvisa assenza del fattore umano. E nelle immagini di Romantisches Deutschland – nella rinuncia a mostrare un contesto storico – sono proprio i “personaggi” a mancare. Non ci sono uomini in quelle sontuose fotografie, e tanto meno tracce della contemporaneità. Questo aspetto, insieme con quello dell’assenza di ogni approccio al passato che non fosse quello di una sorta di conservazione aprioristica del “patrimonio culturale”, mi ha autorizzato a trasformare quei documenti iconografici: li ho ingranditi fino a sgranarli – rendendoli astratti e fantomatici – e li ho deformati – allungandoli in una sorta di anamorfosi che è un modo di reintrodurre un aspetto di precarietà in un’immagine data una volta per tutte.
A questi fondi ho sovrapposto tavole, fotografie e disegni tratti dalle enciclopedie dell’epoca (in particolare le appendici 1949-1960 dell’Enciclopedia italiana) e illustranti i progressi delle scienze e delle tecniche; fra tutti ho scelto quelli che mi richiamavano le “magnifiche sorti” della tecnologia occidentale. La mia ricerca lessicale si è svolta spuntando il testo di Calamandrei e traendone gli accostamenti forse meno letterali ma più rispondenti a un immaginario fantascientifico di quegli anni: “raggio di azione”, “deserto lunare”, “giroscopio stratosferico”, “matematica sublime”, “disgregazione atomica per risonanza”, “musica atomica”.
Il terzo elemento delle sovrapposizioni è stato fornito dal manoscritto stesso di Piero: ho utilizzato piuttosto l’aspetto grafico della sua scrittura, che allo stesso tempo rivela una sorta di precisa spontaneità e mostra i ripensamenti e le cancellature sui fogli che l’autore si trovava sotto mano. Non c’è corrispondenza descrittiva fra documento e illustrazione; ho usato la grafia riprodotta piuttosto come un leitmotiv. Il riferimento diretto al testo – come si deve in un libro illustrato – è fornito dalla didascalia a stampa che accompagna ogni immagine.

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Ces estampes sont une partie des illustrations au récit fantastique de Piero Calamandrei Futuro postumo, testi inediti 1950, Le Balze, Montepulciano, 2004, où l’écrivain imagine un monde d’où le genre humain – à la suite de la catastrophe nucléaire – serait absent. Elles présentent trois couches superposées: les paysages vides de Romantisches Deutschland, ouvrage photographique paru dans les années ’50; des fragments du manuscrit de Calamandrei, qui date de 1950; des planches techniques d’après des encyclopédies parues en ces mêmes années ou bien issues d’ouvrages anthropologiques (Le geste et la parole d’André Leroi-Gourhan, notamment).

Erranze intrecciate F01 (2002)

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20 novembre 2002. Sono tornato al cimitero dei cani. Con la bussola che mi ero comprato ieri al bazar pakistano ho definito la direzione verso cui guarda l’immagine smaltata di Kiki, scimmietta ammaestrata lì sepolta dal suo anonimo e amoroso proprietario, in una data imprecisata fra il 1890, anno di fondazione del cimitero di Asnières, e il 1996, quando lo visitai per la prima volta e presi in fotografia la lapide che più delle altre mi aveva commosso.
A 105 gradi Est-Sud Est si rivolge lo sguardo di Kiki. Mi è parso opportuno trovarle al più presto un compagno che, forse altrettanto fermato nel tempo, potesse stabilire con lei una muta e –certo- finora inconsapevole comunicazione. Ho lasciato quindi Asnières e, rimontato in sella alla bicicletta leggera e dalle sette marce che Silvie mi ha regalato –previa spesa di riparazione- tre settimane fa, mi sono portato a Maisons-Alfort, che sta oltre Charenton, dall’altro lato del Bois de Vincennes. E’ una di quelle giornate parigine, in cui all’avventuroso ciclista pare di fendere una quinta di pulviscolo vaporoso e caliginoso, che respinge tuttavia il freddo estremo e, dopo la prima salita, si addensa in un ulteriore strato di umidità intorno al corpo, che fa da contrappeso al sudore lanuginoso che già copre l’epidermide e trasforma la bicicletta in una sauna a due ruote.
Se sono andato al Museo di medicina veterinaria di Maisons-Alfort è a causa di W. G. Sebald. Nelle ultime pagine del suo libro, Austerlitz, Sebald erra per queste parti della città di Parigi e dei suoi suburbi, i quartieri del sud e del sud-est, dove grandi trasformazioni edilizie cancellano quella che rimaneva come una enclave proto-industriale lungo il bordo della Senna. E’ in queste pagine che Sebald stende il suo più bel pezzo di furia intellettuale, è qui che inveisce –nel modo più argomentato e con tutte le ragioni del mondo- contro la nuova, Très Grande Bibliothèque.

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Ho pedalato sul Lungosenna, davanti alle quattro torri morte della biblioteca nazionale, distogliendone lo sguardo per attardarlo invece sulle sobrie arcate del ponte di Tolbiac, sui due silos rimasti sul greto del fiume e sui pochi mucchi di ghiaia che presto nessuna chiatta verrà più a caricare.

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Alla Scuola nazionale di veterinaria non ho incontrato, una volta superate le scuderie a forma di ferro di cavallo, il vecchio guardiano con il fez descritto da Jaques Austerlitz, e il biglietto d’ingresso non somigliava a quello che –come racconta Sebald alla pagina 282 dell’edizione italiana- gli viene da costui teso “da sopra il tavolino del bistrò al quale sedevamo, quasi fosse qualcosa di affatto particolare” e che lo scrittore riproduce in fondo alla pagina 281. (1)

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Il mio guardiano era un nero corpulento, occupato in una telefonata di carattere intimo, che si è alzato per accendermi le luci e mi ha poi lasciato solo, dopo avermi messo in mano una guida dattiloscritta, untuosa e slabbrata, dalla quale ho appreso come Honoré Fragonard, dopo avere realizzato insieme con i suoi allievi, fra il 1766 e il 1771, i capolavori di preparazione anatomica che stavo per vedere, venisse cacciato –perché preso per folle o, più probabilmente, per conflitti di potere- dalla scuola stessa, per ricomparire, più di vent’anni dopo, al fianco del suo cugino germano, il pittore Jean-Honoré Fragonard, e del grande David, come membro della commissione artistica della Rivoluzione.
Ed è così che, dopo avere esaminato vari esempi di mostruosità zoologiche compresse in boccali di formalina o stipate in vetrine affastellate, e fra queste vari esemplari di vitelli e scimmie a due teste e una foca a due code, mi sono trovato nell’ultima stanza di fronte a una cadavere mummificato secondo i più moderni procedimenti del XVIII° secolo –fra cui l’iniezione di brandy al posto del flusso sanguigno- che rappresenta un Sansone il quale, brandendo un osso mascellare di provenienza equina, si scaglia contro i Filistei;

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personaggio questo invero impressionante, grazie all’immaginazione artistico-scientifica di Fragonard che, per farlo più terribile, non esitò a rompergli il setto nasale, oltre che a iniettargli cera fusa nel pene, a farlo orrendamente turgescente. Ma ecco, nella vetrina opposta, il famoso Cavaliere dell’Apocalisse. Non tiene più il morso del cavallo –anch’esso mirabilmente dissezionato e disseccato- con le redini di velluto blu, né più agita lo staffile che l’anatomista gli aveva messo in mano, e una brutta impalcatura di metallo verniciato di bianco tiene insieme cavallo e cavaliere, ma ciononostante la composizione risulta davvero minacciosa. Ho estratto dalla tasca la bussola e mi sono posto con le spalle al cavaliere, guardando nella direzione in cui egli guarda: 300 gradi Ovest-Nord Ovest. Ho annotato questo dato nel mio taccuino e ho lasciato le sale del museo.
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Sono tornato al mio studio, il quale si trova all’altro capo della città, presso piazza Clichy e di fronte al cimitero di Montmartre. Avrò pedalato per un’ora, e i pensieri venivano a me, aiutati dallo scorrimento lubrificato della catena sulla corona e dallo scatto morbido delle marce. Se mai avessi avuto la fortuna di avere incontrato W. G. Sebald, gran camminatore e grande scrittore, mi sarei permesso di vantargli l’utilità della bicicletta per la ginnastica mentale. I dieci chilometri che, come racconta nelle ultime pagine di Austerlitz, fece a piedi per raggiungere, dalla cittadina belga di Mechelen, la fortezza di Willebroek –ove, fra gli altri, venne imprigionato e torturato Jean Améry- li avrebbe percorsi nel quarto del tempo, senza per ciò rinunciare alla dimensione contemplativa che dal moto delle gambe scaturisce. Avrei potuto, inoltre, parlargli del rapporto sororale che sempre è stato fra bicicletta e Resistenza.

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Me ne sono tornato al mio studio, che è sito all’ultimo piano della Villa des Arts, al 15 di via Hégésippe Moreau ma con accesso dal 17, da quando, trent’anni fa, gli eredi del costruttore Guéret divisero gli appartamenti dagli studi che vi erano annessi e chiusero porte, alzarono tramezzi, separarono ingressi e vendettero buona parte delle parcelle così ricavate.
Il complesso edilizio della Villa des Arts è un vero e proprio labirinto di scale che reincontrano se stesse, di corridoi lunghissimi che finiscono su porte murate, di vasti antri bui che contengono solo vecchi mobili squinternati e, alla fine, di una dozzina di studi da pittore le cui grandi vetrate scendono su sei livelli, come una cascata di vetro e di zinco, fino al limite meridionale del cimitero di Montmartre –ciò che fa che, una volta saliti al proprio studio del sesto e ultimo livello, si è davvero alla presenza dell’assoluto: se si guarda verso l’alto, non vi è che cielo; se si guarda verso il basso, non vi è che terreno e ultraterreno, le tombe coperte di foglie secche e i rami, attualmente spogli, dell’anziano ippocastano che tocca il muro di recinzione-. Questo complesso, dicevo, fu costruito insieme con tutto il quartiere dal suddetto Guéret intorno all’epoca in cui fu innalzata la torre Eiffel e, si dice, con materiali di scarto –o di riserva- della torre stessa. Ed è vero che sono ben portanti e rassicuranti le putrelle imbullonate che incorniciano questa vetrata.
E’ in uno di questi studi ai piani superiori che Paul Signac, abitante della Villa dal 1892 al 1897, finì di dipingere il suo più gran quadro, Au temps d’harmonie (l’âge d’or n’est pas dans le passé, mais dans l’avenir), ambizioso manifesto anarchico di tre metri per quattro che, offerto a Horta per la Maison du Peuple che l’architetto stava completando a Bruxelles, e da costui implicitamente rifiutato (Signac, l’11 novembre 1900: “Le tirelignard de la maison du peuple, Horta, n’ayant pas daigné, en six mois, trouver le temps de faire installer les quatre planches qui devaient servir de cadre à ma décoration, je retire purement et simplement mon offre.”), finì per essere donato dalla vedova del pittore –nel 1938, in tempi di Fronte Popolare- al municipio comunista di Montreuil, dove tuttora si trova.
Au temps d’harmonie pose a Signac problemi cruciali, di ordine concettuale ed etico oltre che estetico. A causa del suo grande formato, la concezione stessa della divisione pura dei colori veniva messa in pericolo. Per poter difatti apprezzare, secondo il principio divisionista, il quadro nella sua interezza, occorreva una distanza che il pittore valutava fra i 12 e i 14 metri, ciò che lo indusse, durante la sua esecuzione, a farlo discendere nello studio, più spazioso, del suo vicino Eugène Carrière, e lì, avendolo visionato da una appropriata distanza, si trovò costretto a sovrapporre i margini dei tocchi di colore l’uno sull’altro e ad esclamarsi: ”Comme c’est difficile d’être honnête!” (2)

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Mentre Paul Signac era impegnato nelle difficoltose trattative intorno alla destinazione della sua imponente opera, un altro illustre abitante della Villa, Paul Cézanne, faceva venire il suo mercante, Ambroise Vollard, quasi ogni mattina per tutto l’inverno del 1899, per un totale di centoquindici volte, per tre-tre ore e mezza ogni volta, a posare per il suo ritratto. Vollard, durante tutto quel periodo, non ebbe mai la sensazione di sentirsi più importante di una mela, agli occhi del ritrattista cui aveva commissionato il lavoro. Gli capitava, talvolta, nel corso di quelle interminabili sedute in cui Cézanne si limitava a deporre sulla tela due o tre tocchi di colore e passare il resto del tempo a scrutarlo in viso, gli capitava talvolta di addormentarsi, e allora il pittore si accalorava: “Malheureux! Vous dérangez la pose! Je vous le dis, en vérité, il faut vous tenir comme une pomme! Est-ce que cela remue, une pomme?” (3)
Il mio vicino di studio, Pierre, un valente dipintore di tradizione post-espressionista, sostiene che il ritratto avrebbe potuto essere stato eseguito lì da lui. E’ all’altezza della sua vetrata, difatti, che gli occhi di una persona seduta si trovano, a quella angolazione, sulla stessa linea dei comignoli di terracotta rappresentati nel quadro. E le due strane forme circolari che si vedono al di sopra dei comignoli, e di cui oggi non v’è più traccia, erano verosimilmente due coperchi di camino che sono stati sostituiti da sfiatatoi in Eternit.
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E’ vero anche che, scrostando la pittura bianca dello studio di Pierre, appare, proprio in quell’angolo, il colore originario del muro, un ocra-rossastro che corrisponde perfettamente a quello del dipinto. E’ altresì veritiero che, all’epoca, tali colorazioni delle pareti erano estremamente correnti e consuete, così come gli ambienti erano più scuri, essendo ingombri di mobili voluminosi, tappezzerie, briccabracchi di tutti i tipi, stampe giapponesi e fiori di stoffa, e illuminati da cannelli a gas, di cui d’altronde nello studio accanto rimane traccia. Potrò sbagliare, ma non ho memoria di un ritratto ottocentesco il cui sfondo sia bianco.
Bianco era il pettorale della camicia di Vollard, di cui Cézanne, riferisce il mercante nelle sue memorie, non fu completamente scontento. Lasciando il ritratto incompiuto dopo cento e quindici sedute e tornandosene a Aix en Provence, pare avesse concluso: “Je ne suis pas mécontent du devant de la chemise.”
Le cornacchie planano gracchiando sul lucernaio dello studio e, non so perché, la loro voce mi riporta alla targa della strada e al triste destino di Hégésippe Moreau. Portano sfortuna le cornacchie? Non lo so; certo è che costui fu un uomo sfortunato, uno di quegli artisti sfortunati e artefici della propria sfortuna che il secolo Ottocento ha prodotto con una incontestabile prodigalità.
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Un paio di giorni prima –ero nel pieno di un periodo di ottusa rassegnazione, ché nessuno mi voleva, nessuno mi chiedeva e perciò non c’era motivazione a niente- Daniel mi aveva tirato fuori dalla solitudine bianca dello studio e mi aveva portato a pranzo al ristorante dietro l’angolo, il café des Arts, dove il proprietario algerino, un nobiluomo sempre sorridente e attento, serve il cuscus in piatti decorati da ideogrammi cinesi, eredità del suo predecessore, fatto questo che ci parla qui di multiculturalismo e ascolto dell’Altro con la A maiuscola che grazie al cielo andandosene ci ha lasciato il servizio buono e financo le sedie in similvelluto rosso ricoperto di plastica trasparente, il cuscus però al café des Arts è buono e perché no, bisogna prendere ciò che dal cielo ci viene, comprese le sedie con gli ideogrammi augurali sullo schienale.
In occasione di quel pasto memorabile Daniel, di fronte al mio palese smarrimento quanto all’eventualità pur remotissima di un qualsivoglia progetto futuro, mi parlò di un testo di Jean Christophe Bailly, pubblicato ventidue anni fa da un editore di Parigi. La XVIIIe dynastie à Berlin racconta di un suo soggiorno nella capitale tedesca, non ancora unificata e divisa in due parti da un lungo e alto muro. In quello che allora era il museo egizio di Berlino-Ovest, in una dimora patrizia situata esattamente di fronte al castello di Charlottenburg, Bailly contempla il busto di Nefertiti, regina d’Egitto: “Sa beauté, mais aussi le persistant sourire de toute l’Egypte ancienne m’ayant poussé à ne plus me contenter de la seule vue des objets, c’est muni d’une connaissance un peu moins vague que je retournai à Berlin, moins de deux ans plus tard, d’ailleurs pour d’autres raisons.”
In questo secondo soggiorno Bailly si porta all’altro lato della città, nella capitale della Repubblica Democratica Tedesca, e lì, visitando le collezioni egizie di Berlino-Est, che erano ospitate nel bel padiglione del Bode Museum, all’estremità dell’isola dei musei, si trova davanti al viso, imprigionato in uno scrigno, di Ankhesenpaaton, la figlia di Nefertiti. Ecco che questi due visi “exilés d’Egypte pour se retrouver de part et d’autre du mur de Berlin”, si guardavano, dice Bailly, da un lato all’altro del muro. Tale almeno era la sua suggestione, che decide di verificare nel corso di una terza stazione a Berlino. Ma i due sguardi, se pure si incrociano, non si incontrano. “Je notai alors ceci –scrive: ‘Les regards ne se croisent donc pas, et il s’en faut de peu. Il me reste, sans le signal, une histoire à raconter. Tout est bien ainsi’.” (4)

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Ecco da dove mi viene la piccola illuminazione che, alcuni giorni fa, mi tirò dal materasso su cui mi ero appena accasciato e mi tenne sveglio, nell’attesa impaziente del mattino e dell’ora di apertura del cimitero dei cani.
Dispiego sul tavolino la carta di Parigi. Con matita e righello traccio la linea che, dal punto approssimativo in cui si trova la tomba della scimmietta Kiki, segue la direttrice 105° S-SE la quale, constato, traversa il boulevard périphérique all’altezza della porta di Clichy, taglia il viale delle Batignolles, sfiora la stazione di Saint Lazare e i grandi magazzini Printemps, tocca i giardini del Lussemburgo e il viale Auguste Blanqui, luogo di uno degli ultimi incontri fra W. G. Sebald e Jaques Austerlitz, si perde oltre il Kremlin-Bicêtre e l’ospedale di Villejuif, dove tanti italiani del sud vengono a curarsi il cancro perché non trovano al paese loro un’assistenza sanitaria adeguata.
Il cavaliere di Maisons-Alfort invece guarda, lungo i suoi 300° W-NW, a tutti i siti posti fra la città e la sua periferia orientale: Vincennes, la Porte Dorée, la porta Saint Mandé, Montreuil -dove scavalca la grande Armonia di Signac-, il canale dell’Ourcq e si allontana attraverso la Val d’Oise di Gérald de Nerval.
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E -ancora oltre- i globi oculari di vetro soffiato del Cavaliere di Fragonard sono per l’eternità puntati verso la città di Calais e i suoi doganieri inospitali, solcano il canale della Manica e, prima di perdersi nelle brume dei mari del Nord, traversano la regione inglese del Norfolk, dove W. G. Sebald insegnò letteratura tedesca per trent’anni.
Dal canto suo Kiki è condannata a fissare per sempre il suo sguardo di ceramica oltre Villejuif e il suo ospedale dalla segnaletica in italiano e in francese, verso l’Essonne e la Borgogna, oltre la Côte d’Or e il Jura, verso la pianura padana e San Benedetto del Tronto, oltre il mar Adriatico e lo stretto di Otranto tomba di centinaia di immigrati clandestini, attraverso l’arcaico Peloponneso e sul filo dell’estremità occidentale dell’isola di Creta, fin sui deserti d’Egitto, dove né Nefertiti né sua figlia Ankhesanpaaton soggiornano più.
Kiki la scimmietta ammaestrata e il Cavaliere dell’Apocalisse non si incontreranno mai o, se mai si incontreranno, ciò accadrà agli Antipodi, in un punto qualsiasi dell’immensa distesa marina fra la Nuova Zelanda e la Tasmania, e io non sarò lì per raccontarlo.
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Notes

(1) W. G. Sebald, Austerlitz, Milano 2002 (Frankfurt 2001), pp. 281-299.
(2) Signac 1863-1935, catalogue de l’exposition du Grand Palais, Paris, 2001, pp. 241-245.
(3) Cézanne, catalogo de l’exposition du Grand Palais, Paris, 1995, pp. 178-179.
(4) J.-C. Bailly, Le 20 janvier, Paris, 1980, pp. 129 et 134.

Erranze intrecciate F02

Feuilleton 02

Il Museo di sismologia e di magnetismo terrestre è una vera e propria casamatta affondata nel terreno, piantata al centro di aiuole ben rasate e fiancheggiata dagli edifici pesantemente neo-rinascimentali della Kaiser Wilhelm Universität –oggi ribattezzata Università Louis Pasteur. L’ingresso dell’osservatorio sismico, oggi trasformato in museo, fronteggia i cancelli dell’orto botanico e la cupola color antracite dell’osservatorio planetario, fatto edificare, così come l’università guglielmina tutta, dall’imperatore prussiano pochi anni dopo l’annessione dell’Alsazia e della Lorena al secondo Reich.
Erano anni, quelli, in cui la ricerca scientifica, il peso e la misura del mondo, procedeva a uno stesso passo marziale insieme con la sua appropriazione, a differenza dei tempi nostri, che vedono la ragionevolezza la volubilità e l’arte della conversazione dominare lo scacchiere geo-politico mondiale.
Ma allora era la forza che dominava e dettava le regole, e ai soldati vittoriosi seguivano gli alacri muratori, e agli alacri muratori seguivano i sapienti professori, il fior fiore del sangue intellettuale germanico che, fresco ed ambizioso, traversava il nuovo ponte monumentale sul Reno per occupare le solide costruzioni di pietra grigia della nuova università. Era, quello, il tempo dei fondatori.
Lo stesso cammino venne percorso, cinquant’anni dopo, nel senso inverso, quando Strasburgo tornò alla Francia e, a partire dal 1919, la Repubblica vi inviò i migliori fra i suoi giovani ed ambiziosi professori. Fu a quel tempo che il Gran Pendolo venne ad arricchire e coronare la collezione di strumenti dell’osservatorio sismico, e si guadagnò il suo ingombrante posto accanto al Reubert-Ehlert (il progenitore dei sismografi moderni), al Wiechert, al Mainka, al Mintrop, al Galitzin e, per finire, al Vicentini.
Il Grande Pendolo, detto anche affettuosamente “le 19 tonnes”, è un mirabile esempio di collaborazione scientifica involontaria. La sua costruzione fu iniziata dai tedeschi nel 1910 e venne interrotta “in seguito alle vicissitudini della prima guerra mondiale”. Nel dopoguerra i nuovi direttori francesi della stazione decisero di utilizzare gli elementi installati dai loro predecessori per realizzare un apparecchio di “grande massa”, per l’appunto diciannove tonnellate, le quali vennero ottenute recuperando materiale militare quali assi di camion e pezzi di armi dimesse. Questa massa di diciannove tonnellate affondata nei giardini dell’università di Strasburgo, tenuta sospesa da quattro enormi molle e mantenuta sotto il suo centro di gravità da due bracci metallici, ha lo scopo di sostenere e di guidare, grazie a un preciso sistema di pistoni ad aria, il movimento di un semplice, sottilissimo ago il quale registra costantemente, su di un rullo di carta affumicata manualmente, i movimenti della terra sulla quale viviamo. Ed è tale, la precisione di un siffatto strumento, da riportare sul nerofumo lo sforzo nel terreno delle radici dei platani scossi dal vento, sul boulevard de la Victoire, o l’impatto delle onde sulle spiagge del Mare del nord, nei giorni di tempesta, oltre che, naturalmente, un eventuale piccolo terremoto in Grecia o un bombardamento aereo di media intensità in Iraq.
Ed è al cospetto di una tale macchina che ho tirato fuori di tasca la mia bussola di alta precisione ad ago sospeso in bagno d’olio, comprata al bazar pakistano per 1 euro e 52 cent, e ho misurato l’orientamento del rullo tinto di nerofumo, che corrisponde a: 79° E-NE.

Sono tornato, dopo la visita al museo di sismologia, in centro. Ho attraversato l’Ill sul ponte del Corvo, dal quale venivano calate le gabbie contenenti i condannati a morte e, più in particolare, le donne che avevano ucciso i propri figli non voluti, ponte sotto le arcate del quale, si racconta, sbocca una galleria sotterranea collegata direttamente al sottosuolo dell’ospedale medievale, che permetteva di trasportare senza indugio i cadaveri dei condannati dalla gabbia in cui erano stati affogati al tavolo di dissezione dell’anatomista.
Avendo oltrepassato le pont du Corbeau, avendo scantonato nella piazzetta della Grande Boucherie (Gross Metzig), avendo fuggevolmente e per l’ennesima volta ammirato un piccolo affresco da me prediletto, che orna la facciata del ristorante “Zuem Pfifferbriader” e raffigura un giovane pifferaio dal cappello a punta, in vedetta su una roccia sporgente sul flusso continuo di turisti tedeschi giapponesi e italiani che lì intorno vagolano, eccomi mi sono portato, così come faccio ogni volta che torno a Strasburgo, nella cattedrale.
C’è stato un periodo nella mia vita in cui usavo prendere il treno a cuccette Roma-Bruxelles, treno che è stato soppresso, ciò che ora rende necessario -a chi dalla capitale italiana desideri portarsi nel nord-ovest dell’Europa e abbia la sventura di trasportare generi di prima necessità o masserizie quali damigiane d’olio, bottiglioni di vino paesano o, magari, quadri in vetro e ferro- il cambio alla stazione di Milano, una stazione quanto mai fredda e inospite e dall’architettura di un eclettismo fanfarone superato solamente, forse, da quello del Palazzo di Giustizia di Bruxelles.
Il Roma-Bruxelles mi lasciava nel capoluogo alsaziano intorno alle sei e trenta del mattino. Non mancavo mai, allora, nell’attesa di un’ora civile per suonare il campanello degli amici, di entrare nella cattedrale, l’unico luogo aperto a quell’ora e l’unico rifugio dalla bruma umida e penetrante che da novembre a marzo avvolge senza posa l’opulenta città renana.
Non c’è stata una sola volta in cui, trascinando i miei pacchi di vetro e di ferro per le navate oscure e deserte, non vi abbia fatto una qualche scoperta: ora un fregio dai motivi intrecciati, ora una tappezzeria, ora una lampadina solitaria, l’ombra di un cero su una lapide, una statua monca impolverata in una nicchia, un battito inatteso dell’orologio astronomico, seguito da un’oscillazione della falce con cui lo scheletro meccanico segna i quarti d’ora. Anche stavolta, due dicembre 2002, vent’anni dopo la mia prima visita, ho fatto la scoperta di una griglia leggera tesa al disotto della cupola, a protezione dai piccioni che certo hanno trovato il modo di penetrarvi, griglia che diffonde una raggiera di luce velata e impalpabile sul coro e sulla navata centrale, luce che, materializzata in guisa di pulviscolo bianco, invita per una volta il mio intelletto a prendere in considerazione il concetto di sublime.
Sono uscito dalla porta del transetto meridionale, ho esaminato a lungo la figura elegantissima della Sinagoga, la quale è bendata, poiché non è stata in grado di riconoscere e aprire gli occhi alla venuta del Messia. Sull’altro lato del portale, al cui centro troneggia il re Salomone, sta la statua che rappresenta la Chiesa: ella volge verso la rivale sconfitta lo sguardo irato e trionfatore. Ho fatto un paio di foto della Sinagoga. Con la bussola ho calcolato l’orientamento dei suoi occhi celati o, meglio, quello del suo capo reclinato, che guarda a 126° E-SE. Non credo che farò uso di questa misurazione; per ogni evenienza la noto sul taccuino.

Ho attraversato la piazza della cattedrale, riempita da stand di paccottiglia e dallo stomachevole odore del Glühwein, di questa cittadina fiera di essere la “capitale de Noël”, e dove anche gli accattoni si vestono da Babbo Natale, e sono rientrato da Philippe e Sylviane, nella loro casa che odora di parmigiano reggiano e di prosciutto San Daniele, così come quella di Hänsel e Gretel doveva profumare di zucchero filato e pan di spezie ma, per caso, invece che nella casa della strega essi abitano al disopra di Chez Spagna, Comestibles italiens depuis 1957, e va bene così.
Per tutto il pomeriggio Sylviane e Philippe si sono occupati di me, come un vero e proprio Escort Service: quando l’una mi lasciava, l’altro mi riprendeva e cosivvia. Ed è così che l’uno mi ha accompagnato alla libreria antiquaria Gangloff, a rinverdire la mia bio-bibliografia storico-archeologica alsatica, e l’altra mi ha condotto in un quartiere di periferia, dove una giovane donna di nome Jenny ha praticato su di me un corroborante massaggio Shiatzu.
E la sera, mentre, troppo rilassate dal massaggio e dal vino di Borgogna che avevo portato per cena, le palpebre mi si chiudevano davanti a una choucroute all’anatra preparata per l’occasione, Philippe mi ha offerto di venire con me a Berlino, dove avevo appunto annunciato che mi sarei diretto.
La mattina successiva, di buon’ora, montavamo sulla sua Mercedes Benz Break del 1977 color verde oliva, targa 9620YY67, e penetravamo come coltelli nella foschia delle autostrade baden-wurtemberghesi, verso il profondo oriente d’Europa.

L’Isola dei Pavoni si trova all’altro capo di uno stretto braccio d’acqua, è già inverno ma l’Havel non è ancora ghiacciato, non si può traversare a piedi e non se ne parla di andarci a nuoto. C’è un traghetto a motore che fa servizio fino all’ora del tramonto e che, di questa stagione, trasporta solamente la vettura gialla del postino e i furgoncini dei giardinieri. Quando vi vede in attesa sul molo di terraferma il traghettatore viene immancabilmente a prelevarvi e vi sbarca sull’isola, previo pagamento di una semplice moneta che i vostri cari avranno avuto cura di scivolarvi sotto la lingua, al momento di interrarvi.
La Pfaueninsel fu acquisita da Federico Guglielmo II° di Prussia nel 1783 e venne usata inizialmente come riserva di caccia. Prima della fine del XVIII° secolo Brendel, il carpentiere di corte, vi aveva già costruito due edifici in forma di rovine: il castello, la cui facciata rivolta a meridione accoglieva i villeggianti in provenienza da Potsdam e dalla residenza di Sanssouci; e una fattoria dalla sembianza di chiesa gotica, all’altro capo dell’isola. Ho registrato l’orientamento della facciata del castello: 235° W-SW.
Intorno al 1800 vennero introdotte nell’isola diverse specie di animali domestici, allo scopo di fornire al visitatore una gradevole impressione di ambiente pastorale. Nuovi edifici vennero innalzati e radure vennero aperte fra un edificio e l’altro, dimodoché la vista potesse sempre ancorarsi a un grazioso manufatto. La popolazione animale crebbe fino a emulare quella di uno zoo: nuove gabbie si resero necessarie per contenervi le scimmie, i canguri, gli uccelli acquatici e le aquile, le capre selvagge, i lupi, le volpi, i lama e, infine, l’orso che arrivò nel 1826.
In questa specie di Kunstkammer all’aperto neanche gli esseri umani vennero trascurati. Sorgeva a quel tempo un certo interesse per l’antropologia, ciò che dette adito all’introduzione nell’isola di Heinrich Wilhelm Maitey, nato in Oahou nelle isole Sandwich nel 1807 e residente alla Pfaueninsel a partire dal 1830, e dell’africano Karl Ferdinand Theobald Itissa. Un gigante, Karl Friedrich Licht, e due nani, Christian Friedrich e Maria Dorothea Strackon vissero in compagnia del nero e del polinesiano. Mi domando se mai ebbero ad imbattersi nel fantasma di un altro tipo balzano in quei luoghi vissuto, il celebre alchimista Johannes Kunckel, detentore del segreto per la fabbricazione del vetro rubino, per il quale venne costruito un laboratorio all’estremità settentrionale dell’isola, laboratorio che bruciò fino alle fondamenta nel 1689, quattro anni dopo la sua costruzione, e le cui fornaci mai nessun vetro di rubino sfornarono, con somma disgrazia del buon Kunckel presso il Grande Elettore e sua conseguente cacciata.
Tagliamo corto ai prolegomeni e passeggiamo piuttosto per i ben rastrellati viottoli, senza fumare né calpestare l’erba dei prati, Wir bitten Sie, auf den Wegen zu bleiben und das Rauchverbot zu beachten, ammiriamo piuttosto la geometrica rispondenza dei fabbricati seminascosti dalle fronde e velati in lontananza dalle brume, ma pur sempre l’un dall’altro visibili: il tempietto dorico la rovina alessandrina il castello scozzese il Kavalierhaus di Schinkel, la cui torre medievale è un montaggio dei resti di una casa gotica di Danzica.

Usciamo, sì, dal nostro tempo, entriamo nel tempo delle favole e nel regno delle rovine fatte apposta, nel mondo dei castelli di gesso e di legno dipinto, nell’epoca in cui i potenti si dilettavano di giardinaggio e di decorazione d’interni e schizzavano i tempietti e le follie che i loro architetti avrebbero poi disegnato perbenino e come si deve.
Immaginiamo di essere ancora nel tempo, mi dico, di questa Prussia dalle “sconfinate possibilità”, in cui l’affettazione Biedermeier non aveva ancora ceduto il passo al Tempo dei Fondatori. Era allora ancora concepibile l’edificare rovine, mi dico, quando non era ancora rovina tutto ciò che ci circonda, e ci si poteva ancora dilettare con l’idea di uscire dalla storia, in una sorta di extraterritorialità temporale protetta dal servizio diurno del traghetto che unisce il Nikolskoer Weg, a pochi chilometri dal centro di Berlino, al molo dell’Isola dei Pavoni. Il gusto kitsch delle rovine artificiali -ne concludo- è semplicemente una forma di a-storicità, ma non è anodino incontrarlo qui, in questa città. Mi piacerebbe conoscere l’alchimia che ha trasformato questo paesaggio da operetta nell’incubo del ventesimo secolo: non è sulle sponde di queste stesse acque che è stata pianificata la Soluzione Finale?

Accade che ancora ci si accanisca a fabbricare rovine. Quello stesso giorno, dopo la visita all’isola e dopo quella alla casa della Conferenza di Wannsee, ci si è trovati, insieme con Philippe, al centro di Berlino, sulla Schlossplatz, ed ecco ci si è trovati di fronte a un’altra Künstliche Ruine: è un angolo di palazzo in mattoncini rossi. Risulta essere il facsimile di uno degli angoli della Bauakademie di Karl Friedrich Schinkel, edificata fra il 1832 e il 1836, demolita nel 1962, e di cui si richiede la ricostruzione “à l’identique”. Per suffragare tale progetto si è innalzato un siffatto specimen, a testimonio augurale di ciò che potrebbe essere l’intero edificio, una volta ricostruito. La marcia indietro nel tempo sembra essere un’altra diffusa passione odierna, insieme con quella di non voler vedere il tempo passato. Rimodellare la storia come se non si trattasse di una materia compiuta e irrimediabile e propria a se stessa, pensare che qualche centinaio di mattoni disposti a fare un angolo possano dare il vetro rubino della redenzione. Non sai se ridere o piangere.
Del resto, la prima volta in cui venni in questa città, mi imbattei in centinaia di persone intente a fabbricare rovine, ma in un altro spirito ancora. Appena lasciata la Bahnhof Zoo, ove ero arrivato di primo mattino, mi ero perso per i boschetti e i laghetti del Tiergarten quando un impressionante ticchettio metallico mi guidò verso la Potsdamer Platz. Centinaia di persone stavano allineate contro una lunga parete, e avvicinandomi vidi che non erano lavoratori forzati ma che picchettavano tutti spontaneamente, con martelli, cacciaviti, scalpelli e coltellini a serramanico il muro che un mese prima divideva ancora la parte orientale dalla parte occidentale della città. Da questa scalmanata attività ricavavano infinitesimali pezzetti di cemento e di ghiaia, che avrebbero poi spedito a casa o conservato per ricordo. Quello che rimaneva di quel muro smangiato venne poi sollecitamente rimosso, sicché tre mesi dopo non c’era più traccia dell’antica separazione ma invece, lì dove c’erano stati i camminamenti delle ronde, le garitte delle sentinelle e i doppi e triplici filari di filo spinato, erano apparsi giardinetti pubblici, prati, alberelli piantati di fresco e, perché no, i cantieri di nuovi palazzi d’uffici. Oggi infine non rimane che un breve tratto dell’antico muro, lungo forse una cinquantina di metri, sulla Bernauerstrasse. E’ stato isolato in una spianata e circondato da una palizzata e viene regolarmente ridipinto e restaurato, perché questo monumento al negativo non venga più aggredito dai tardivi cacciatori di souvenir, ma rimanga invece ad ammonitrice testimonianza di un passato le cui tracce ci si è indaffarati a cancellare.

In quei giorni invernali del 1990 usavo vagare dal mattino al tramonto per la città sconfinata, trascinando i piedi nei mucchi di foglie secche, gli occhi che scorrevano sulle facciate crivellate e slabbrate dei palazzi d’anteguerra, la mente tenuta all’erta dall’aria fredda e dalla fatica sicché, se mai mi sedevo in un caffè tranquillo e ben riscaldato, come il Cinema café –che tuttora affeziono, nell’Häckerscherplatz, ex Marx-Engelsplatz-, la testa mi ciondolava e mi appisolavo istantaneamente sulla tazza di caffelatte che mi avevano appena servito.
Raccoglievo a quel tempo piccoli oggetti perduti sui marciapiedi e sulle carreggiate: rondelle, guarnizioni, viti arrugginite, biglietti di tram, ramoscelli. Alcuni li incartavo e ne facevo regalo a Christine, quando rientravo la sera. Altri li disponevo su tavole di truciolato e li prendevo in fotografia. Mi piaceva, in tal modo, classificare l’inclassificabile, tanto che classificavo anche me stesso: ero certo l’unico cliente di una vecchia cabina automatica, poggiata e dimenticata in un sottopassaggio pisciazzato di Neukölln; forniva certi foto-ritratti neri d’inchiostro al punto da rendervi irriconoscibile, ciò che in linea di principio non è la funzione precipua di una fotografia d’identità.
Non sono mai riuscito a convincere nessuno dei miei amici berlinesi a farsi fotografare, per puri scopi artistici, da quella macchina. Accettavano solo di darmi le loro vecchie foto da passaporto per la mia collezione di memorabilia. Le foglie morte le mettevo nei naturalia, i bulloni spaccati negli artificialia, i pezzi del muro nei mirabilia. In tutto e per tutto la mia collezione portatile mi riempiva le due tasche superiori del cappotto.
Avevo immaginato, a un certo punto, di scavare una buca circolare nei terreni ancora abbandonati fra le due parti della città. Vi avrei gettato, in forma rituale, così come Romolo, secondo il racconto di Plutarco, aveva fatto alla fondazione di Roma, gli oggetti da me raccolti. “Il mondo è aperto!” avrei gridato ai venti sordi del Meclemburgo e della Pomerania.
Ma sarebbe stata la mia una pigra parodia. Romolo aveva fatto venire d’Etruria i sacerdoti specializzati, “i quali gli nominavano e insegnavano punto per punto tutto il cerimoniale che occorreva osservare secondo le norme divine e i libri sacri, come fosse un mistero o un sacrificio. Fecero dunque, innanzitutto, una fossa rotonda nel luogo che oggi è chiamato Comitium, nella quale misero le primizie di tutte le cose di cui gli uomini usano secondo le norme come buone, e secondo natura come necessarie; poi vi gettarono anche una manciata della terra da cui ciascuno di loro era venuto [i reprobi e i fuggitivi accolti da Romolo nell’Asylum] e mescolarono tutto insieme (chiamano questa fossa, nelle loro cerimonie, il Mundus, che è il nome con il quale i Latini designano l’universo), e intorno a questa fossa tracciarono il contorno della città che intendevano fondare, né più né meno come chi tracciasse un cerchio intorno a un centro”. Ed è una volta che la fossa è ricolma di terra e richiusa che Romolo si esclama: “Mundus patet!” il mondo è aperto!
I dotti ci insegnano come queste fossero pratiche rituali di controllo dell’universo, in cui il calcolo dell’asse sul quale la conca celeste incontrava quella terrena e questa quella ultraterrena eccetera aveva fini propiziatori, scaramantici e propedeutici: “La giustapposizione della “conca terrestre” e di quella “celeste” che la sovrasta, riproduce un cerchio e con questo il simbolo dell’Universo nel suo insieme. La correlazione tra il cerchio geometrico e quello idealmente descritto dal Mundus e dalla volta celeste va letta a due livelli: a) a livello orizzontale, sul piano ove si erge Roma, l’Umbeliculus corrisponde al centro della circonferenza, e colloca per ciò stesso la città eterna al centro del Mondo; b) in sezione verticale le due conche, idealmente unite da un asse (espresso da un punto in sezione orizzontale) – l’asse del mondo – definiscono rispettivamente le realtà celestiali e infernali; il piano di intersezione tra le due semicirconferenze è quello terrestre al cui livello, e al cui centro, viene nuovamente a essere collocata Roma che a buon diritto per questo motivo, può fregiarsi del titolo di Caput Mundi.”

Ma la vera Caput Mundi e il vero centro della terra, posso qui rivelare, non è né il Comitium della Roma antica, né la fossa della “19 tonnes” di Strasburgo, né il terreno ingombro di detriti fra la Stralauerplatz e l’Ostbahnhof. Il centro del mondo è Vaduz, perché tutto intorno a Vaduz ci sono i Tagicchi e gli Usbechi, e tutto intorno tutto intorno gli Afgani e i Nuristani i Punjabi e i Sinti, tutto intorno a Vaduz ci sono i Kazachi e i Manciù, i Masai e i Bakumba, gli Appalacchiani e i Martinichesi, i Canadesi-Francesi e gli Eschimesi polari, tutto intorno tutto intorno a Vaduz.

Nella primavera del 1974 era stato chiesto a Bernard Heidsieck di comporre un poema sonoro per l’inaugurazione di un centro d’arte a Vaduz, capitale del Lichtenstein. Ma che fare su Vaduz? Che poesia si può tirar fuori da Vaduz, capitale del Lichtenstein, si chiese per mesi Heidsieg. Girò in tondo, Bernard Heidsieck, per mesi e settimane, “autour de ce nom de ‘Vaduz’, en quête d’une motivation vraie, justifiant l’entreprise et ce travail. Que faire, sinon tourner à la recherche d’un axe de correspondance. Le justifiant. Rigueur oblige! […] Après avoir décidé de faire de Vaduz, ce maxi-village, Capitale de ce mini-territoire situé au centre de l’Europe, de notre sublime Europe, le Lichtenstein, l’un, sans doute, des plus petits pays au monde, le centre même de notre Globe, de notre fichu Globe terrestre!, il s’est agi alors, de tracer sur une carte du Monde, à partir de Vaduz, des cercles d’égale largeur, s’éloignant en parallèles successives jusqu’à en boucler la surface totale.’’
Su questi cerchi concentrici il poeta trascrisse i nomi delle etnie (“non delle nazioni”) che vi abitano, a partire dalle più prossime al centro e fino alle più estreme. Tale attività egli svolse per tutto il secondo semestre del 1974, nel tempo lasciatogli libero dal suo impiego di vice direttore della Banque française du commerce extérieure.
Ed è così che questo poema, che non venne scritto a tempo dovuto e non è mai stato letto a Vaduz, gira per il mondo insieme con il suo autore, sotto forma di un manoscritto lungo diversi metri, che viene spiegato mano a mano che la lettura procede, e che una banda sonora accompagna e amplifica, fino a crescere in un boato di folla che copre le ultime parole: des Déplacés des Paumés des Laissés pour compte des Emigrés des Fuyards des Désintégrés et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres…

21 dicembre. Sono venuti a svegliarmi nel fondo della notte, urlando il mio nome dal corridoio. Non era il sogno. Quando uno dei miei compagni di cuccetta è riuscito a sbloccare il catenaccio dello scompartimento e il finanziere è entrato accendendo il neon del soffitto, gli ho chiesto: “come mai?”. “Scandaglio”, mi ha risposto, facendo il segno di chi pesca a caso. “Tuttavia”, ho replicato in una lingua che dalle nebbie primordiali del sonno emergeva in forma di patois gallo-romanesco, “ciò mi accade sì di frequente, di essere controllato su questi treni notturni che traversano l’Europa cosiddetta di Schengen e della libera circolazione dei suoi cittadini, che mi domando cosa porti voi benemeriti finanzieri servitori dello Stato a scandagliare sempre proprio me, sarà l’immagine barbuta e torva della mia foto d’identità Made in Neukölln, sarà la menzione ‘artista’ che figura in calce alla dicitura ‘professione’, ma cosa sarà?
Il militare mi ha risposto tacendo e continuando a frugare con dita abili nel mio sacco, tirandone, fuori le mie pillole che assaggiava con la punta della lingua, i miei fogli di carta che esaminava in controluce, il mio tabacco Gauloises extra-légères che annusava come un vero segugio. Poi ha estratto un oggetto metallico: “questa è una bussola, vero?”, e senza neanche aprirla, e come se tale scoperta avesse dato il segnale della mia innocenza, se ne è andato via, lasciandomi a rimettere a posto il mio bagaglio scompaginato.
Ed è così che, dopo una delle notti più interminabili che sia, sono sbarcato intorno all’alba alla stazione di Verona Porta Nuova, ho tranciato grumi di studenti che sul piazzale attendevano il loro autobus accendendosi la prima sigaretta della giornata, e mi sono incamminato verso il centro della città, servendomi del libro di W. G: Sebald, Schwindel, Gefühle, come di una guida.
Una guida in verità davvero poco utile quella di Sebald: Il San Giorgio e la principessa del Pisanello non si trova difatti sul lato sinistro della basilica di Santa Anastasia, al di là di “un tavolato pittato di marrone e ritagliato da una porta, dietro la quale si trova oggi la stanza da soggiorno, se non l’alloggio intero della sagrestana”, e sorvegliato dalla perpetua sospettosa che l’autore descrive. L’affresco si trova oggi al proprio posto, sull’arcone della cappella dei Pellegrini e, datasi l’altezza della sua collocazione e la scarsa illuminazione del transetto di destra, una bella presentazione video dello stesso vi è proposta ad libitum, se solo abbiate cura di applicare il ditino sullo schermo di un maxi-computer piazzato davanti alla cappella (dimenticavo: l’accesso alla chiesa è a pagamento).
Gli è vero che il testo di Sebald descrive un’esperienza del 1980, epoca alla quale il termine “post-moderno” diventava appena di moda e i new media interattivi erano lungi dal venire. Ed è forse per sperimentare, per una volta, una condizione sospesa nel tempo, che mi sono portato, sulle tracce di “All’estero”, che costituisce la parte centrale di Schwindel, Gefühle ma non ne è il suo più bel testo, malgrado contenga mirabolanti pezzi, quali una fantasmagorica descrizione del servizio mattutino al buffet della stazione di Venezia Santa Lucia, che mi sono recato oltre l’Adige e oltre il Ponte Nuovo, al Giardino Giusti.

Ho passato circa un’ora per i sentieri e nei labirinti di bosso sempervirens dei giardini, disinteressandomi del famoso cipresso di Goethe ma battendo la statua sonora della Prosperità con il martello di legno, montando fin sopra il mascherone di marmo che in occasione delle feste barocche vomitava fuoco e fiamme, figurandomi su quale panca W. G. Sebald avesse potuto stendersi, ascoltando “il raschiare tenue del rastrello del giardiniere sui viali di ghiaia”. Da tempo non m’ero sentito così bene, scrive Sebald. Speravo di ritrovare qualcosa del genere nell’atmosfera sospesa dei giardini Giusti. C’era invece silenzio assoluto nei viali deserti e una nebbiolina fredda, la stessa che un paio di settimane prima avvolgeva l’Isola dei Pavoni.

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Note:

p. 9, Helmut Börsch-Supan, Die Pfaueninsel, Berlin 1987

p. 10, Bernt Engelmann, Preußen Land der unbegrenzten Möglichkeiten, München 1979

p. 11, Plutarco, Le vite degli uomini illustri. Romolo

p. 12, Mariano Bizzarri, L’ombelico di Roma, www.zen.it.com/symbol/

p. 12, Bernard Heidsieck, Vaduz, Venezia 1998

p. 13, W. G. Sebald, Schwindel, Gefühle, Frankfurt 1990.

Erranze intrecciate F03

Feuilleton 03

12 dicembre 2002. Sì, è stata una giornata fin troppo adatta a un pellegrinaggio sebaldiano.
Lasciato il sacco al deposito bagagli di Liège-Guillemins, ho atteso un treno locale per Flémalle-Haute. Già sulla pensilina di Liegi scendeva il nevischio. All’uscita della stazione di Flémalle era diventato una pioggia gelida e battente. Ma la mia ricerca, anche se vana (“di Café des Espérances ce ne sono a migliaia in Belgio”, mi avevano detto), andava compiuta e andava compiuta a piedi.

“Già pochi giorni dopo esserci conosciuti nella Salle des pas perdus alla stazione centrale, mi imbattei in lui per la seconda volta in un quartiere operaio alla periferia sud-ovest di Liegi che avevo raggiunto verso sera arrivando a piedi da Saint-Georges-sur Meuse e Flémalle. Il sole squarciò ancora una volta la cortina di nubi blu inchiostro di un imminente temporale, mentre i capannoni e i cortili delle fabbriche, le lunghe file di case operaie, i muri di mattoni nudi, i tetti di ardesia e i vetri delle finestre luccicavano come se un fuoco vi ardesse dentro. Quando per le strade la pioggia incominciò a scrosciare, mi rifugiai in una minuscola taverna che si chiamava, credo, Café des Espérances e dove, con non poca sorpresa da parte mia, trovai Austerlitz curvo sui suoi appunti a un tavolino di laminato plastico. Come sempre da allora, anche in occasione di questo primo nuovo incontro riprendemmo la conversazione senza spendere una sola parola per commentare la stranezza del nostro ritrovarci in un luogo come quello, che nessuna persona ragionevole avrebbe mai frequentato.”

Questo era il passaggio che aveva motivato la mia gita invernale.
La mia intenzione era di scendere alla stazione di Flémalle e di lì rendermi a piedi a Liegi per i circa dieci chilometri della Nazionale 617, percorrendo i quartieri operai ove doveva trovarsi il Café des Espérances e ove Sebald aveva collocato la scena di uno dei suoi incontri casuali con Jaques Austerlitz. Quello era il mio programma, andava quindi seguito. Mi sono calato sulle orecchie il passamontagna, mi sono incamminato lungo la fila di case di mattoni e per i marciapiedi sconnessi che fiancheggiano la Nazionale 617.
Flémalle: fabbriche dimesse, cokerie in corso di demolizione e in attività, memoriale 1946-1996 ai minatori italiani, deposito di autobus, castello con lapide al sindaco resistente e vittima dei nazisti, chiesa gotica in pietra grigia, videoshop, negozio di ferramenta in liquidazione.
Jemappes: Zeeman Textiels Super, Café Le Normand, Superplus Sport, maison à vendre Te Koop, le grand Canyon, Super Partner Plus.
Seraing: Eurorent, cavalcavia dell’autostrada E 25, I.P.E.S.S, deposito di pneumatici, studio à louer 049/467069, Selectcolor peintures émaux vernis, Isotort Isoplast, Aretino spécialités italiennes, Cockerill Sambre.
Tilleul: Le capital tue! Mort au capital! Marichal Ketin, Jupiler Le Corner, Jupiler The Cup, Taverne le Rouge et le Blanc, stadio dello Standard, Marmaris friterie pitas snack sandwich, vêtements de travail et de loisir, ateliers de la Meuse.
E’ il tardo pomeriggio quando mi trovo nella piazza del Generale Leman, alla periferia meridionale di Liegi, sono zuppo di pioggia fino al fondoschiena, dalle scarpe mi sale un vapore purulento, le articolazioni delle ginocchia mi fanno gnecche-gnecche e so già che stasera dovrò munirmi di aghi roventi per bucarmi le bolle, ma un Café des Espérances per la mia via non l’ho incontrato. Ah, la licenza letteraria sebaldiana!
Cerco un luogo ove sedermi, liberarmi del pastrano, andare alle toilette per asciugarmi sommariamente. Ma non c’è un bar ove non mi sentirei notato e scrutato, si vede che questi sono tutti posti da habitué. Cammino ancora. Mi trovo, non lontano dalla riva della Mosa, in un parco pubblico. A lato di un vialetto fangoso e di fronte a un laghetto mezzo asciutto si erge come un monumento mussoliniano, “nella sua necessaria solitudine”, un vespasiano dipinto di blu. C’è un curioso edificio lì davanti, un gazebo dalle dimensioni sproporzionate e, proprio difronte, un padiglione modernista dalle forme curvilinee e puntute. C’è una porta vetrata e, al di sopra della porta, una pubblicità di birra. Si tratta, vedo, di un museo e della sua caffetteria. (1)
Ecco dove troverò riposo e ristoro. Vado al bagno e faccio ciò che avevo previsto di fare, in più ordino alla barista un bel tè. Vedo che ci sono quadri dipinti tutt’intorno alla sala, e anche in un’altra saletta, e vedo che il sottosuolo del locale ospita un Musée de l’Art différencié.
Questa arte differenziata, che si distingue dall’art brut di Jean Dubuffet, è arte prodotta da handicappati mentali, come spiegano i vari opuscoli posti alla disposizione del pubblico. Mi pare di aver capito che la differenza fra questi creatori e quelli raccolti sotto la definizione di “brut” è che questi ultimi sono “personnes obscures, étrangères aux milieux artistiques professionnels” (Dubuffet 1963), mentre per i primi viene rivendicato uno statuto di artista a pieno titolo. Io non trovo quelli meno potenti di questi, ma è certo che ci sono qui belle personalità, come Salvatore Difranco, autore di sensibili opere d’après Modigliani e Magritte, o Luc Wos, che dipinge labirintiche piante di città che nulla hanno da invidiare a un Klee dell’età di mezzo. (2)
Mi sono riscaldato, parzialmente asciugato, ristorato nel fisico e financo nell’intelletto. Sono stato infine capace di protrudere sguardi lunghi e nostalgici verso la vivace barista dai capelli corvini intrecciati alla Rasta, ma non c’è stata reazione no, me ne sono uscito nella desolazione fredda oscura del parco d’Avray, che ho traversato in direzione della stazione ferroviaria, che ho raggiunto in pochi minuti, dove ho atteso il treno che veniva da Colonia e mi riportava al mio studium e alla mia città putativa.
Questo spostamento geografico, questa escursione culturale, fu dunque un buco nell’acqua. Passeranno tre mesi prima che io sia di nuovo capace di mettermi in cammino e di mettermi sulla strada. Nel frattempo c’è stato il devastante incontro con Madeleine.

14 dicembre 2002. A Parigi nessuno mi invita mai a una serata e, se mai qualcuno mi invita, sarà, nella maggior parte dei casi, una serata compassata e costipata, fissata con sei settimane di anticipo, e ove nessuno si prende la briga di presentare i nuovi venuti agli invitati abituali ed è così che, generalmente, finisco per prendere una postura torva di statua del Commendatore, mi acquatto nel primo sgabuzzino che trovo, di lì non mi muovo, nessuno mi accosta e perciò, penso, più nessuno s’azzarda ad invitarmi a una serata parigina.
Invece, mi ricordo, cosa era andare a una serata moscovita. Ci andavo con persone per le quali pareva che tutto, il proprio destino personale e le sorti del mondo, dipendesse da quello che si sarebbe incontrato in cima alle scale buie da cui erano state asportate tutte le lampadine, dietro la porta immensa il cui campanello si trovava a tentoni. Ci si fermava a un chiosco per comprare una bottiglia di vodka o di spumante moldavo e via, ci si avventurava rumorosamente dentro gli ascensori cigolanti e puzzolenti di urina, portando già l’allegria con noi.
Non mi aspettavo dunque una cosa del genere quando, nel tardo pomeriggio del 14 dicembre 2002, mi presentavo, al numero 7 del boulevard Saint Michel, all’appartamento di certe persone che conoscevo appena. Mi dicevo che avevano invitato me non tanto per simpatia ma perché un artista barbuto in un bel party dà sempre un tocco decorativo. Ma i miei ospiti, i signori Broher, erano non solo polacchi ma erano tutto tranne che parigini, e non avevo ancora toccato il campanello che già ero stato adottato, preso in braccio, trasportato da un angolo all’altro del salone, presentato a tutti i presenti senza eccezione, dissetato, nutrito, intrattenuto. Una calma sovrana mi ha pervaso, è crollata la crosta di gesso del Commendatore, ero lì al cento per cento, pronto a tutto accogliere, pronto financo ad andare incontro a qualcheduno. Lì è apparsa Madeleine che mi ha ipnotizzato con la sua voce di contralto e che, quando ha visto che il mio bicchiere era vuoto, si è allontanata da me ed è andata a prepararmi una vodka con spremuta di arancio di cui non avevo alcun desiderio e, non so perché, ho trovato tale gesto così incredibile che già avrei voluto accendere un cero in quel punto esatto del parquet in cui il suo polpaccio aveva compiuto una torsione di 68° e il profilo della sua anca aveva indicato la direzione Est-Nord Est, prima di scomparire oltre la porta della cucina. L’attesa sospesa che ha seguito quel movimento mi fu deliziosa. Quando lei è tornata e mi ha teso il bicchiere con la bevanda, l’ho bevuta in ottemperanza della mia condanna definitiva. L’ammirazione è sempre la prima tappa della caduta.

Mi rimarrà, dei successivi incontri tanto brevi da parere videoclip oppure apologhi neo-testamentari, una serie di immagini frammentarie e di impressioni aptiche registrate quando la sensibilità si affievoliva e potevo ricordarmi di ricordare, sapendo che a quelle immagini e a quelle impressioni rimemorate sarei ricorso nelle notti solitarie che senza dubbio sarebbero rivenute. Così è stato.

22 gennaio 2003. E’ stato certo il giorno più bello della mia vita. Non è accaduto niente, quel giorno. Come al solito l’ho trascorso fra lo studio e le vie del quartiere. Ma il colore del mio ozio operoso è stato fondamentalmente diverso da quello che ho conosciuto per il novantanove per cento dei miei giorni, negli ultimi quindici anni. Il 22 gennaio 2003 il mio ozio e la mia operosità sono stati sovrani e ne avevo coscienza, mentre infine abbandonavo il trascorrimento nello spazio e mi spostavo dentro il tempo. A sera sarebbe venuta Maddalena.

4 aprile 2003. Ho ripreso la mia vita di artista a quattro ruote. A Vietri sul Mare ho ritirato dagli Scotto le due cassette di maioliche che avevo dipinto in gennaio (cosa fare di quella su cui ho scritto “celle-ci est pour Maddalena?”), trascrivendo col blu di Delft la sesta pagina di La philosophie dans le boudoir. Si aggiungevano, quelle venticinque piastrelle 20×20, ai tre metri quadri di Sade che avevo già trascritto e che formeranno il pavimento leggibile di un vero e proprio boudoir ricostruito che somiglierà in verità piuttosto a una cella di clausura e che sarà visitabile presso lo spazio 3A, in vicolo Sforza Cesarini 3a a Roma, dal sabato 12 alla domenica 13 aprile 2003. 4
Caricato il cofano dell’auto con il metro quadro di Sade (questa è l’ultima volta, giuro, che lavoro con la ceramica; pesa troppo, è troppo fragile e non vedo proprio quale collezionista possa anelare al possesso di una siffatta stanza da bagno) ho tempo da perdere e da far passare ma anche lavoro da fare. Dovrò ben mostrare qualcosa, al 3A, oltre al pavimento sadiano, dovrò! Riprenderò le anatomie dipinte e le dissezioni disegnate che feci cucire a mia madre col filo rosso sulle tele di garza alte tre metri, bei sudari barocchi trasparenti che spaccio per opera mia quando mi sono invece limitato a fornire il tracciato a mia madre e farla lavorare di fretta e di notte, perché dovevo tornarmene a Parigi per farle vedere a una esposizione. Allo stesso modo ora ho fretta, e la mia crisi creativa assortita di leggera depressione che dura ormai da qualche anno (un effetto post-thòrunniano, più in là mi spiegherò) va combattuta in stato d’emergenza e sotto mostra, con una trovatina come questa: attingere al proprio repertorio e prodursi in una variazione sul tema, allungandosi nella direzione di una radicalità che, se non potrà essere estetica, sarà almeno tematica.
Queste dissezioni verranno quindi riprodotte al tratto, con pittura trasparente color rosso sangue, dipinte su due vetri sovrapposti, uno dei quali rivoltato, in modo da avere un disegno sdoppiato e una doppia ombra, pure rossa, al muro.
Metto in moto e guido verso Raito, che sovrasta Vietri Cerco un posto dove parcheggiare, un bel posto panoramico. Lo trovo sotto Villa Guariglia, che è il museo della ceramica. Parcheggio fra due pulman da cui sono scese le scolaresche in gita, ma mi sento osservato dagli autisti che si fumano le sigarette, riavvio l’automobile e la porto su di un piazzaletto sterrato, fermo le ruote proprio sul bordo del dirupo, davanti a me c’è tutto il golfo di Salerno. Armeggio nel cofano, tiro fuori le lastre comprate alla Vetreria S. Ciro di Vico Equense, i colori, i pennelli. Trovo una bottiglietta vuota di Coca Cola, ne ritaglio il fondo col coltello a seghetto che tengo sempre in macchina e che uso in genere per fare la cicoria durante le mie soste presso le aiuole delle autostrade, in tal modo mi faccio una ciotolina che riempio di acqua Ferrarelle e che userò per pulire i pennelli. Mi seggo al posto accanto a quello di guida, pulisco i vetri con lo sputo e un fazzolettino di carta. Il fazzolettino di carta lo butto fuori del finestrino, ce ne sono già tanti a terra, questo deve essere un luogo di appuntamenti notturni e furtivi, io non ho appuntamento con nessuno ma vedi, i miei fazzolettini li ho anch’io e li getto fuori dal finestrino così sporchi di rosso come sono, in mezzo a tutti gli altri.
Chino come sto su qualcosa affaccendato, chiuso dentro l’auto, gli autisti dei pulman scolastici che – vedo nello specchietto retrovisore – mi guardano di lontano, penseranno certo che mi sto facendo le pere. Lavoro di tratteggio con la pittura purpurea per un paio d’ore; mano a mano poggio le lastre ad asciugare sui sedili e poi sul ripiano del finestrino posteriore. Lavoro senza voglia ma con stolida diligenza; stavolta sono io quello che dà l’ordine ma anche colui che esegue. Ho riempito tutto lo spazio disponibile nell’automobile, mi rimetto al posto di guida, esco in retromarcia dalla piazzola, mi immetto nella S. S. 163 della Costiera Amalfitana, ridiscendo a Vietri, traverso la piazza, esco dal paese, imbocco l’autostrada A3 in direzione nord.

6 aprile 2003. Il Museo campano di Capua è uno di quei tesori poco noti o noti solo a qualche fanatico storico dell’arte tedesco od inglese, che esistono solo in Italia meridionale. Ma forse sono ingiusto, non so, forse schiere di e stuoli di semplici cittadini si pressano alle porte del palazzo principesco dei San Cipriano per avere visione dei bassorilievi e delle steli raccolte da Theodor Mommsen nel lapidario o, nella pinacoteca, della Deposizione di Bartolomeo Vivarini, oppure delle teste colossali salvate dalla demolizione della porta federiciana, oppure della raccolta di antichità italiote, romane, greche, fra cui alcuni vasi a figure rosse poggiati su mensole come voi poggereste una tour Eiffel di latta dorata, ma questo pubblico colto e civile io il 6 aprile nel polveroso museo campano di Capua non l’ho visto, c’erano, è vero, alcuni studiosi occhialuti nelle sale della biblioteca annessa al museo, che è ricca di 50.000 fra pergamene carte geografiche e volumi vari, in-folio, in-ottavo, in-quarto e financo in-sedicesimo, ma quel pubblico che il museo di Capua meriterebbe doveva trovarsi in visita a una qualche pappa fatta tipo “Tutti i Caravaggi sintetici” o “I ninnoli di Picasso dalla collezione East-Southampton di Levallois-Perret”.
Nel 1845 il signor Patturelli, proprietario di un terreno in località Petraia, presso la via Appia, aveva ordinato di sterrarlo per edificarvi un muro di cinta. Vennero fuori dalla terra fregi e sculture antiche. Immediatamente il Patturelli fece ricoprire i reperti, per evitare noie e perché non gli venisse bloccata la costruzione del muro. In questa circostanza vari pezzi vennero danneggiati o asportati per essere rivenduti, e la voce della scoperta iniziò a circolare. E’ quindi probabilmente alle enclosure borghesi dell’Ottocento che dobbiamo le Matres.
Nel 1873 iniziarono degli scavi un po’ disordinati, regolarizzati solo qualche anno più tardi. Rividero la luce più di centosessanta statue lavorate nella pietra locale, il tufo. Rappresentano tutte donne sedute con in braccio uno o più neonati in fasce (fino a ventisei, ma in media ce ne sono sette o otto) e sono state eseguite nell’arco di forse mille anni, dal neolitico fino all’epoca imperiale, e traversano tutti gli stili e le tecniche plastiche dell’antichità; vi si intrecciano le influenze osche, etrusche, greche, latine ed ellenistiche. Si tratta delle Matres Matutae, monumentali offerte votive per ringraziamento di un parto riuscito o per propiziazione della fertilità familiare e insieme mostra della ricchezza acquisita. Per mille anni tutta una città si è avvicendata sul luogo di culto della Mater italica, depositando doni e lasciando la più meravigliosa collezione di variazioni sul tema della fecondità, dalle appena sbozzate forme geometrizzanti alle opime figure “tozze e mostruose sì che sembrano rospi” (Mancini, cit.) ai morbidi panneggi e ai volti ovali dell’ultimo secolo prima di Cristo.
Scelgo proprio la più antica madre, quella che il guardiano chiama ironicamente “picassiana” e – del resto – è ben autorizzato all’ironia, visto chom la guida a stampa del museo reciti “Gli errori nella costruzione della persona sono tanto singolari da rendere l’immagine particolarmente attraente”. Misuro dove guarda e annoto che guarda a nord, a 27° N-NE per essere precisi. Buono a sapersi.

23 aprile 2003. Sulla S. S. 1 Aurelia, in direzione Europa. Quante volte avrò percorso questa strada, diecimila, ventimila, non so. Potrei chiudere gli occhi e dire a quale chilometro ci troviamo, secondo l’odore dei campi fertilizzati o delle centrali termoelettriche o del mare sugli scogli, secondo l’ampiezza di una curva o la ramificazione delle crepe nell’asfalto, secondo il frinire delle cicale o quello dei cavi dell’alta tensione.
La vetturetta che guido è stracolma: i miei archivi personali, i taccuini, gli scritti battuti e ribattuti, le foto di famiglia, quelle di mio fratello, rotoli e pacchi di lavori incompiuti, senza presente né futuro. Tutto ciò che mi appartiene o mi definisce viaggia oggi insieme con me: se avessi ora un incidente e questa auto bruciasse insieme con il suo contenuto, di me non resterebbe che qualche quadro appeso in appartamenti di amici che non si conoscono fra di loro e un paio di articoli in diverse lingue, pubblicati qui e là in riviste a diffusione confidenziale.
Sto re-trasmigrando a Parigi, città ove ho vissuto per quasi quindici anni. Eppure ho la sensazione di andare in esilio. Per le mie carte avrei ben volentieri trovato un bel rifugio rurale: una casupola di collina con vista sul mare Mediterraneo, per esempio. Ma quello che mi è capitato è uno studio a Parigi: noi accettiamo, accogliamo ciò che viene, che sia Madeleine che si fa conoscere a mezzanotte o Xavier che mi offre un atelier in mezzo alle chiacchiere di un vernissage, ed ecco sto sulla statale Aurelia per la ventimillesima volta, ma non vado stavolta a insegnare ai bambini di Torrimpietra, non vado a pescare anfore romane al largo del porticciolo di Tarquinia Lido, non vado con la ragazza nell’appartamento vuoto umido d’inverno a Porto Ercole, non vado a imparare il mestiere di falegname a Genova nel sestiere di Pré, non vado a ridipingere una casa a Hyères, dormendo in un capannone sulla spiaggia insieme con mio fratello. No, me ne vado a Parigi con il mio fottuto archivio personale e qualche capo di vestiario inzeppato dentro il cofano.
Quando guido non ho fretta ma ho ansia e non ho voglia di fermarmi. Se lo faccio, è solo per svuotare la vescica e riempire il serbatoio. Del resto non appena metto i piedi a terra le gambe mi tremano a causa delle vibrazioni e solo quando mi riseggo in auto il tremore passa. Siamo un tutt’uno io e la mia Fiat Uno.
E’ quasi il tramonto quando, dalle parti di Basilea, mi fermo per fare benzina. Non vendono birra alla stazione di servizio, e questa è l’ora in cui ho bisogno d’un petit remontant, quoi! E perciò mi trovo costretto ad aprire il vano del cruscotto, tirarne fuori una bottiglia sigillata di Jameson e tirarne tre belle sorsate. Dopo di ciò la strada è più sgombra e il motore più brillante, sorpasso tutti cantando a squarciagola e mentre affondo nel bel tramonto color pastello mi si schiarisce la testa e mi vengono finanche nella mente quelle idee che mi sono mancate per tutto il mio soggiorno in Italia, paese che è per me quello degli affetti (oh, affetti, oh, affetti cari, come vorrei fondermi in voi e nell’alcol e smettere alfine di essere inafferrabile dai più!) ma non quello dell’intelligenza.

23 maggio 2003. Ecco, sono di nuovo fuggito. Questo è il mio movimento, non appena manco di movimento. Passo una giornata normale come di più non si puote, cerco materiali in giro per i bazar, srotolo stoffe di organza e poliestere al Marché St. Pierre, mi costruisco una porta scorrevole fra bagnetto e corridoio, raccolgo con le dita le scagliette di vecchia pittura cadute sul piancito dello studio, mi faccio venire in mente un lavoro di grosse dimensioni, che potrebbe portare per titolo, diciamo, Quattro tesi sul fascismo, faccio bollire quattro patate e due uova che depongo in un sacchetto di plastica, metto il sacchetto in una borsa e prendo una metropolitana per la stazione del Nord.
Ecco sono arrivato di mattino presto, come al solito, alla stazione Zoo e sto per iniziare una delle giornate più insulse della mia vita. Ho lasciato la borsa in una cassetta del deposito automatico, ecco sono uscito sulla Hardenbergerstrasse pulito e leggero come fossi anch’io un berlinese. Mi dirigo innanzitutto verso la Bauhaus su Kurfürstendamm, è una lunga camminata ma voglio vedere che materiali e attrezzi vari vendono lì. Alla Bauhaus mi carico di una decina di tubi di silicone solo perché costano una trentina di centesimi meno che a Parigi.
Sono di nuovo nella strada, di nuovo carico di peso materiale e morale ma senza assolutamente nulla da fare e senza alcuna voglia particolare. Sulla Westphälischestrasse c’è mercato, una decina di camioncini aperti su un lato per un pubblico che, come sempre in questa città vuota spaziosa silenziosa, è ben rado.
Senza perdere tempo mi compro un bockwurst, anelavo a ritrovare la sensazione della pelle che resiste e poi cede sotto la pressione degli incisivi che affondano nella carne molle e rosea della salsiccia, ed inizio con questa esperienza mattutina una vera e propria tournée di analisi comparata. E’ vero, difatti, che nel bockwurst della Westphälischestrasse la pelle scrocchia bene sotto i denti, ma la polpa è, non so, direi, come granulosa. Al mercato di Wittenbergplatz il Wurst è forse meno caldo, ma il gusto del maiale è più delicato. Alla fine mi servirei piuttosto al chiosco sulla Savignyplatz: buona resistenza al morso, affondamento graduale nella ciccia, ottima temperatura di servizio, soddisfacente persistenza nel palato.
E dopo queste coscienziose prove ho avuto voglia di birra e mi sono messo alla ricerca, ma non potevo accontentarmi di una lattina comprata al supermercato no, cercavo un buon bar ma a forza di camminare mi sono trovato nella parte più vuota di questa città vuota, dalle parti del Tiergarten e della Lützowplatz. Non ci caffè né chioschi né pizzerie qui. Mi sono deciso a entrare in un hotel, perché grandi alberghi chiese cattoliche e biblioteche pubbliche sono gli ostelli dei vagabondi come me, in tali luoghi infatti nessuno ti fa domande se entri e vaghi qui e lì e una poltrona o un sedile gratuito nessuno te li nega, provare per credere.
L’Hotel Berlin sulla Lützowplatz non fa eccezione a questa basica regola. Il cortese groom mi ha messo sulla buona direzione per il bar ma la hall e i corridoi sono ingombri di banchetti e stand fieristici illuminati da spot e proiettori, guardati da uomini rubicondi dalle cravatte fantasia, seduti dietro mostre di apparecchi cromati, bisturi e trapani di tutte le taglie e dimensioni, calchi di chiostre dentarie, dentiere vere e finte, protesi in ceramica vetroresina oro platinato e platino placcato, braccetti telescopici e motorini stroboscopici e strumenti speciali per odontotecnici mancini, mi sono trovato nel bel mezzo dell’ottavo simposio internazionale di impiantistica odontoiatrica, mi districo infine fra espositori e materiali umani e disumani, seggo a uno sgabello del bar, bevo le mie due birre ascoltando di sottecchi un giapponese e un polacco che discutono a segni della maniera migliore di ricostruire al laser un secondo canino inferiore destro distrutto -insieme con tutto il resto di una dentatura alla Presidente del Consiglio- da un colpo di ferro da stiro marca “Optimus”.
E’ ancora l’inizio del pomeriggio quando, gonfio di birra e di salsiccia e più stolido che mai, mi trovo sulla riva del Landwehrkanal e mi appoggio alla ringhiera a guardar passare i gai battelli che trasportano le gite aziendali. Mentre la pioggia inizia a scendere più fitta ne passa uno piano piano: una trentina di uomini e due donne, tutti con occhiali da vista dalla montatura di tartaruga, ballano al suono di “Mamma mia” degli Abba. Seguo la schiuma del battello allontanarsi verso il Möckernbrücke e mi distacco dalla ringhiera, mi affretto verso la biblioteca nazionale, nell’androne c’è una bella fila di poltroncine comode allineate lungo la vetrata sul Kulturforum, basta poggiare la testa sullo schienale e ci si addormenta all’istante.
Mi risveglio dopo mezz’ora, non so, adesso ho bisogno di caffè e sigaretta. C’è un chiosco proprio difronte all’ingresso principale della biblioteca, ha una pergola che protegge dalla pioggia, seggo a un banco, sonnecchio oppure guardo la gente che aspetta l’autobus alla fermata del 148. Mi salva l’ora che passa, è quasi sera ed è tempo di ritrovare gli amici.

26 maggio 2003. Al centro della città di Potsdam, proprio a ridosso della chiesa cattolica di San Pietro e Paolo, c’è un piccolo cimitero che raccoglie i corpi di 372 soldati sovietici caduti nell’ultima guerra mondiale. Mesi fa capitai in questo luogo per caso, una volta in cui, vagando per un quartiere olandese tutto ripulito e occupato da antiquari e centri di abbronzamento, venni attirato verso la piazza del mercato dall’odore del Potsdamerwurst e, mentre ne addentavo uno, scorsi la cima di una piramide scura fra le fronde dei tigli limitrofi alla piazza. So che la piramide, simbolo di resurrezione, è frequente nei monumenti funerari sovietici. In Russia avevo spesso visitato cimiteri le cui lapidi erano semplici tralicci di ferro a forma di guglia o di obelisco, dipinti di grigio e sormontati talvolta da una stella rossa. Ero solo sorpreso che un tale memoriale si trovasse nel pieno centro di una città barocca ben preservata, per quanto parzialmente danneggiata dai bombardamenti alleati del 1945.
Passato il cancello del cimitero e percorsi in cerchio i vialetti, esaminai da vicino il monumento che avevo scorto dalla piazza e vidi come, dei quattro soldati di bronzo in pose eroiche che decoravano la base della piramide, uno solo era senza movimento e in postura di saluto sull’attenti ed era quello che guardava verso l’est, “verso la madrepatria”, pensai, sicché il suo sguardo, ulteriormente ripreso dalla linea di mattoni sul suolo del parco antistante, guardava diritto, oltre il Brandenburgo, la Slesia, la Galizia e la Bielorussia, in direzione di Mosca, e alle sue spalle la punta dell’obelisco addirittura copriva, se guardata da posizione frontale, la cuspide della chiesa retrostante, il cui abside, come spesso nell’architettura religiosa, era rivolto a oriente, al sole levante e alla resurrezione dei corpi che di lì verrà annunciata. Insomma lo scultore Brams, che aveva disegnato il monumento nel 1949, lo aveva allineato sulla St. Peter und Paul Kirche e, al di là di quella, sull’asse est-ovest di questa pianificata città di guarnigione e capitale estiva dei re-soldati prussiani, affermando in tal modo un sincretismo, non so quanto consapevole, fra fede nella resurrezione cattolica, culto socialista dei morti e razionalismo militar-prussiano. Una bella riuscita, pensai, che dovrò degnamente ricordare con un cartello apposto avanti al cimitero, cartello clandestino o autorizzato che sia, ma che, in ogni modo, porti una firma al mio pensiero.
Ho il cartello con me, l’ho preparato prima di partire, il testo me lo sono fatto tradurre in tedesco da Andreas, l’ho riprodotto su acetato trasparente, è protetto da scotch e plexiglas, ho solo dimenticato le cordicelle per appenderlo alla griglia metallica. Non fa niente, aspetto che non ci sia più passaggio fra la Bassinplatz e il mercato, i giardinieri lavorano lontano e non mi guardano né mi vedono, poggio il cartello sulla ringhiera presso il cancelletto, lo contemplo un attimo e scivolo via verso la stazione.

(2002-03)

Note

p. 1: W. G. Sebald, Austerlitz, Milano 2002, pp. 35-36, traduzione di Ada Vigliani.
p. 6: Amministrazione Provinciale di Caserta, Il Museo Campano di Capua. Guida per i visitatori, Capua 1998
p. 6: L. M. F., Il santuario del fondo Patturelli, http://www.cib.na.cnr.it/capua/testi/patt.html.

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Glances across Europe (2003-2005)

Glances across Europe: a historical heritage project

In one of his most compelling books, Le 20 janvier (Paris, Christian Bourgois, 1980), the French writer, art critic and poet Jean-Christophe Bailly tells how, during a stay in Berlin,Un alignement de 105 stèles en médium de bois pour rappeler les 209 enseignants et élèves du lycée Daudet morts à la première guerre mondiale, years before the fall of the Wall, he visited the Ägyptisches Museum in Charlottenburg on the west side of the city, where he admired Nefertiti’s celebrated bust. A few days later, as he wandered through the Bode Museum in East Berlin, he chanced upon another bust, representing Nefertiti’s daughter. The tragic irony of the situation was not lost on Bailly: the portraits, after so many centuries, found themselves lost in a foreign land, close enough to be seen on the same day, yet kept apart by the Wall – and only the traveler’s gaze could connect them. Bailly wondered whether mother and daughter were secretly facing each other – and if not, in which point, in or out of the divided capital, their gazes would intersect.

Bailly’s musings have been my inspiration for the following project. As I visit museums and historical sites in several European towns, I plan to discover or to establish analogies between things that are not supposed to relate in any obvious way. A process of “signalization” will take place as follows. (1) A copper or Plexiglas plaque will be set beside several objects (selected in different museums) according to their historical signification and their geographical orientation. (2) Each of these objects (e.g. statues, or museum specimens) look along a certain line, in a certain direction, which is to be determined with a compass. (3) Two such given lines intersect at a certain point; some of these cross-points will be marked by a third plaque, fixed on a pole.

My intention is to create signalizations which, taken individually, would seem incoherent and senseless. However, if one studies the overall map that I will provide at the end of the project (that will be placed beside the objects), one will realize how threads of European history are intertwined, how various types of mutual dependence is demonstrated by the strange, “unjustified” choice of each and every meeting – as if my plaques (which I like to think of as my “samples”) were pieces of a secret, untold puzzle, scattered across the continent. The sites themselves, being affected by the plaques’ presence, will undergo a symbolical transformation, thus acquiring new, estranged, significations.

By all means, it is certainly no coincidence that the other writer whom I consider my project’s spiritual father is W. G. Sebald, the nomadic German scholar and novelist, who was recently killed in an accident. In his novels, Sebald has an unmistakable way of connecting geographical points and the events of our recent past with the wanderings of the witnesses who reflect upon them. In fact, the subject of the work I wish to undertake is European historical heritage itself.

September 2002

Plaques texts (examples)

ANACAPRI (Italy, 40N55 e 12E29)

As you read this plaque, you are facing north. Your glance will encounter an axis extending from the seismograph known as ’19 tonnes’, conserved in the Seismological Museum in Strasbourg (France).
Both the seismograph and the fortified observatory at Anacapri are the results of involuntary collaboration between enemy forces. Initiated by the Germans in 1910, the seismograph in Strasbourg was finished in the wake of World War I by the French, who used pieces of weapons and decommissioned military material to attain the total weight of 19 tons required to balance the seismograph’s small needle.
Designed to protect the access to the Gulf of Naples, the fortifications of Anacapri were begun by the French in the course of the Napoleonic wars. The English, allies of the Bourbons, seized the complex in 1806 and used it as a stronghold in their attempt to transform Capri into a ‘little Gibraltar’. In 1808 Joachim Murat led the attack of the island; the reoccupied fortress was enlarged and consolidated, but it was never again used for military purposes.
The meeting of your glance and the axis extending east from the seismograph will take place in a mountain pasture located at latitude 48° 58’ N, longitude 14° 20’ E in the vicinity of the Austrian village of Hinterweißenbach. A plaque has been placed on the site to mark this encounter.

Glances across Europe: a project conceived by Salvatore Puglia
and supported by the Gunk Foundation for Public Art in 2003.

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Un panneau pour l’imaginaire

La plaque que j’ai placé, avec l’accord et le soutien des responsables du Jardin Georges Delaselle, à proximité du calvaire situé à son sommet est la neuvième de mon projet nommé Glances across Europe (Regards à travers l’Europe).
Ce projet consiste à créer des liens idéaux entre des lieux et des monuments historiques du continent européen, par un processus de signalisation. Au cours de mes voyages, intentionnels ou hasardeux, j’ai remarqué certains objets et lieux, à mon sens singuliers. J’ai d’emblée fait une petite investigation sur leur histoire, aux fins d’imaginer une connexion possible avec d’autres objets ou lieux que j’ai répertoriés.
C’est une manière d’affirmer que les choses aussi regardent – et ne sont pas seulement regardées – au delà de l’emplacement où les hommes et l’histoire les ont situées. Et pour finir j’ai établi ma liaison idéale, autour d’un sujet thématique décidé de manière peut-être arbitraire et sans aucun doute très subjective.
Le thème du « retour à la mère-patrie », par exemple, m’a permis de mettre en relation la fresque médiévale représentant le retour des reliques de Sainte Agathe, à Acicastello, en Sicile, et la statue d’un soldat soviétique qui, dans le cimetière militaire de Potsdam, se tient en position de garde-à-vous dans la direction de la Russie.
En utilisant une boussole et une carte géographique détaillée, j’ai marqué la direction exacte vers laquelle se tournent ces deux objets, et en prolongeant l’axe de leur « regard », j’ai déterminé leur point de rencontre virtuel. Là où ces axes se croisent, j’ai placé une plaque dont le texte décrit la rencontre qui a lieu dans ce site précis.
La rencontre de la fresque sicilienne et de la statue soviétique à lieu dans une plaine polonaise, devant une vieille ferme en vente.
Le texte de la plaque est à chaque fois écrit dans la langue du lieu. J’espère, à la fin de ce travail, pouvoir publier un recueil de l’ensemble de ces textes traduits dans chaque langue concernée, ainsi qu’une carte géographique où ces rencontres seraient inscrites, de manière à permettre aux éventuels visiteurs de repérer tous les panneaux. Ce recueil serait disponible à proximité de chacun des lieux signalisés.

Venant à l’installation de Batz. Je souhaitais qu’un visiteur du Museo campano de Capoue, près de Naples, en Italie, trouve, à côté de la statue d’une déesse italique, un panneau lui indiquant la direction de son regard et le fait que la trajectoire de ce regard croise celui d’un monument situé en Bretagne, celui du calvaire du jardin G. Delaselle de l’île de Batz.
Je souhaitais aussi que le promeneur qui traverse un haut plateau à proximité de la petite ville de Carrascal del Rio, en Espagne, découvre le signe-témoin de cette rencontre. Chaque lien que j’établis nécessite donc d’être signalé par trois panneaux.
Celui de Capoue et de Carrascal étaient déjà placés, il ne me restait plus, pour documenter cette subjective rencontre, qu’à installer celui-ci.
Le sujet qui relie Capoue et Batz est celui de la continuité d’un culte, sur un même lieu, pendant des milliers d’années. A peu près à l’époque où l’on installait le calvaire sur le dolmen de l’île, au XIXe siècle, on découvrait dans la localité dite «Petrara», près de Capoue, des dizaines de statues de femmes assises, portant dans leurs bras des corps d’enfants emmaillotés. Il s’agissait des Matres Matutae, représentations sacrées de l’aurore et de la fertilité.
Pendant plus d’un millénaire et jusqu’en plein empire romain, les habitants de la ville se sont succédés sur ce site, et à chaque époque, pour remercier d’une grâce ou pour en demander une, ils ont déposé ces statues. Les styles de ces icônes sont donc des plus variés, trace des influences culturelles et des invasions qui ont façonné l’histoire de ce territoire.
La plus ancienne de ces sculptures a été surnommée par les gardiens «la picassienne», à cause de ses traits sommaires et «difformes». C’est celle que j’ai choisie pour la relier au calvaire du XVIe siècle placé sur le dolmen mégalithique .
À Batz, on assiste en effet aussi à une sacralisation continue, mais sous le signe de la re-appropriation et de la juxtaposition plus que du changement des formes.
Il s’agit donc de souligner ici à la fois une analogie et une contradiction.
J’espère qu’une telle connexion idéale pourra alimenter l’imagination d’infinies connexions possibles des choses entre elles et des hommes entre eux.

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Six leçons de drapé (2003)

Entre Uranie et Madeleine

De tous les sujets de l’enseignement artistique, la draperie est peut être l’exercice didactique par excellence. Il s’agit – en reprenant et en reproduisant les plis d’un beau tissu façonné avec adresse et goût – d’en retrouver le volume et la consistance, ainsi que de saisir la lumière qui s’y  pose.

Si l’on reste dans le cadre du dessin, qui est le thème de ce bref essai, on peut dire que, si la reproduction du corps humain est une question de proportions et de mesures, « rendre » le drapé est autant un fait d’ombre et de lumière que de gravité et de chute.

Parmi les dessins anciens de la collection Del Borgo, j’ai choisi deux pièces qui, bien qu’étant de bonne qualité, ne sont pas simplement des morceaux de bravoure, mais expriment des préoccupations typiques de leur temps. Je les ai choisies aussi en fonction de la posture de leurs sujets: il s’agit d’emblèmes très subjectifs, celui de la tension vers la lumière pour l’un et de l’attraction vers l’ombre pour l’autre.

Voici une femme qui tient sur son ventre une sphère et regarde vers le haut, dans une attitude, semble-t-il, d’attente et de demande. Attend-elle un ordre, un conseil, une illumination ? Ne sait-elle que faire de ce globe qui, en y regardant mieux, s’avère être la Terre elle-même ? Et sa main droite qui, au lieu d’aider à maintenir le ballon terrestre, pend  inanimée le long des plis du vêtement, ne devait-elle pas, à l’origine, tenir un instrument de mesure ou de jugement ? Mais il n’y a pas trace d’instruments avec lesquels mesurer ou compter et le monde, sur ses genoux, n’est qu’un poids dont elle ne sait que faire, attendant qu’une lumière lui vienne de là-haut. Les plis de sa robe ont l’air de tenir tout seuls, à peine retenus par une ceinture qui – je lis dans un catalogue – l’identifie comme représentation d’Uranie, muse de l’astronomie.

L’autre femme, tracée à la sanguine, tient elle aussi quelque chose de sphérique sur ses genoux. On dirait presque qu’elle vient à peine de mettre au monde) cet objet  qui se révèle être un crâne humain. La jeune femme contemple cette tête d’un air absorbé et songeur. Ses cheveux sont dénoués et ébouriffés; c’est le signe du deuil et de l’expiation que les femmes du sud de l’Italie affichaient encore il y a une dizaine d’années, à la mort d’un être cher. Sans aucun doute, il s’agit là d’une Madeleine pénitente. Et dans cette version-ci, elle scrute le globe osseux comme si c’était un miroir; c’est l’image synthétique d’une Vanité à peine voilée de rhétorique religieuse. Et si sa tête est penchée, si son regard est tourné vers le bas, c’est qu’il y a un poids qui la tire vers l’obscurité. La pesanteur du drapé a l’air d’accompagner cette chute immobile.

L’art de ces deux peintres baroques de qualité, auteurs d’Uranie et de Madeleine, m’incite, moi qui ne suis ni bon peintre ni dessinateur, à occuper une position analogue à la leur, à me placer face à un modèle drapé d’un tissu dont on ne sait que faire et à voir ce que ma main, chargée de tous les évènements de l’histoire et du monde, peut tirer de toutes ces incommunicables tensions et attractions, vers le haut, vers le bas, en travers.

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Fra Urania e Maddalena

Di tutti i soggetti dell’insegnamento artistico, il panneggio è forse l’esercizio didattico per eccellenza. Trattasi, nel riprendere e riprodurre le pieghe di un bel tessuto ad arte sistemato, di ritrovarne il volume e la consistenza, di afferrare la luce che vi si posa.

Se rimaniamo nella cornice del disegno, che è qui il tema delle nostre brevi lezioni, possiamo dire che, se riprodurre il corpo umano è una questione di proporzioni e di misure, “rendere” il panneggio è un fatto di ombra e di luce, nonché di gravità, di “caduta”.

Fra i disegni conservati nella collezione di Guido Del Borgo – che fu un grande esperto, oltre che la personificazione vivente del gusto – ho scelto due pezzi che, pur nella loro alta qualità, non sono semplicemente due pezzi di bravura. Li ho scelti a causa della postura dei loro soggetti, che vedo – più che come illustrazioni dell’arte del segno – come emblemi tutti soggettivi: l’uno della tensione verso la luce e l’altro dell’attrazione per l’ombra.

Ecco una donna che tiene in grembo una sfera e guarda verso l’alto, in un atteggiamento che pare di domanda e di attesa. Attende un ordine, un consiglio, un’illuminazione? Non sa cosa fare di quel globo che, a guardar meglio, si rivela essere la Terra stessa? E la mano destra che, invece di aiutare a tenere ferma la palla terrestre, le cade come inanimata lungo le pieghe dell’abito, non doveva forse tenere in origine un qualche strumento di misura o di giudizio? Ma di utensili che potrebbero aiutarla a misurare o a calibrare non c’è traccia, il mondo è giusto un peso sulle sue ginocchia, un peso di cui non sa cosa fare, nell’attesa di una luce che le venga di lassù.

Anche l’altra donna, tracciata alla sanguigna, porta qualcosa di sferico sulle ginocchia. Si direbbe quasi che di quest’oggetto – che è poi un cranio umano – si sia appena sgravata. La giovane donna fissa il suo teschio con aria intenta e sognante; ha i capelli sciolti, arruffati. E’ il segno del lutto e dell’espiazione che, ancora qualche decina di anni fa, le donne dell’Italia meridionale ostentavano alla morte di un caro. Non c’è dubbio, si tratta di una Maddalena penitente. Questa fanciulla che contempla il piccolo globo osseo come se fosse uno specchio è l’immagine sintetica di una Vanitas appena appena retorica. E se il suo capo è chino e se il suo sguardo è rivolto verso il basso è perché c’è un peso che verso l’ombra la tira. La pesantezza del panneggio sembra accompagnare questa ferma caduta. Le pieghe della prima, invece, che – leggo in un catalogo – rappresenta un’allegoria dell’Astronomia o la musa Urania, sembrano tenersi su da sole.

L’arte dei due pittori barocchi, i due buoni artefici dell’Urania e della Maddalena, provoca me, che non sono né pittore né buon artefice, a occupare una posizione analoga alle loro, a pormi di fronte a una modella che tiene sul ventre una forma sferica e a vedere cosa la mia mano, carica di tutti gli eventi della storia e del mondo, possa tirar fuori da queste incomunicabili tensioni e attrazioni, verso l’alto, verso il basso, di traverso.

Ciò che qui viene presentato è il risultato di tale immodesto esercizio.

SP

1930 circa (2002-2003)

Saverio Marra (1894-1978) est un photographe provincial et autodidacte. Il s’est acheté son premier appareil à l’âge de seize ans, avec l’argent mis de côté en travaillant comme apprenti menuisier et, s’aidant d’un manuel, a commencé à photographier les gens de sa famille, ses amis, les paysages de la région calabraise.
En 1912 il était en Libye, employé comme charpentier pour l’édification de la colonie nouvellement conquise par l’Italie. Il s’y lia d’amitié avec un militaire, peintre du dimanche, qui lui offrit une toile de grand format, représentant une plage exotique avec palmiers, un bateau à voile et une mosquée en arrière plan. Celle-ci sera la toile de fond que Marra, rentré au pays, utilisera régulièrement pour les portraits de ses concitoyens.
En 1914 il fut appelé sous les drapeaux. La première guerre mondiale était imminente. Pacifiste convaincu, Marra aurait préféré se soustraire au service militaire. Il eut la chance de rencontrer un capitaine du service sanitaire, photographe amateur, qui le prit comme ordonnance et lui transmit des notions de technique aussi bien médicale que photographique. Comme infirmier, Marra participa à plusieurs opérations de secours et de récupération de soldats blessés sur le front des Dolomites.
A son retour à San Giovanni in Fiore, en 1919, il travailla pour une exploitation agricole, avant d’être en mesure d’ouvrir sa propre boutique de charpentier. Il se maria et eut, entre 1921 et 1931, quatre enfants.
Il commença à exécuter des portraits et des photos d’identité. Il s’acheta une motocyclette, se construisit une remorque dans laquelle il entassait ses instruments et ses outils, et il sillonnait toute la région, pour vendre ses services de photographe à l’occasion de foires champêtres, de fêtes religieuses, de mariages, d’enterrements. Il s’abonna à Il Progresso fotografico, se procura d’autres manuels techniques. Il développait et tirait jusqu’à tard dans la nuit, après le travail.
Il se mit à l’apiculture; il s’acheta un petit lot de terrain, où il planta des oliviers et des vignes et où il bâtit une petite maison. Il agrandit son studio photographique, qui était à côté de son logement. Il ne faisait de prises de vue que à la lumière du jour; dans la salle de pose, éclairée par une fenêtre latérale, traça au sol un diagramme de points qui marquaient, suivant le parcours du soleil, des secteurs d’exposition optimale.
Dans les années Trente il s’intéressa aussi aux progrès des sciences occultes. En 1935 il se fit, avec un associé, le représentant locale des motos Benelli et des phonographes Phonola et Radiomarelli. Il s’occupait pour l’essentiel des réparations et de l’entretien des appareils.
Saverio Marra était un antifasciste connu. Son studio devint un lieu de rencontre des opposants au régime, ce qui lui valut des fréquentes perquisitions et des mises en garde policières. Il est probable qu’il fut en contact avec les exilés politiques, les confinati, assignés à résidence dans les villages les plus reculés du Sud.
A la fin de la deuxième guerre mondiale Marra abandonna progressivement son métier de photographe, entre autres, à cause de problèmes de vue. Il s’acheta trente hectares de terrain pierreux dans la province de Cosenza; il les rendit cultivables, y édifia une maison, un four, une étable. Il se fit, comme dans sa jeunesse, agriculteur. Seulement quand des circonstances familiales l’y obligeaient, il acceptait, avec réticence et de manière ponctuelle, de prendre à nouveau des photographies. (1)
Les archives de Saverio Marra ont été conservées et constituent l’un des fonds du Museo demologico de San Giovanni in Fiore.

Je suis convaincu que les lecteurs avertis auront entendu, dans les brèves notes biographiques qui précèdent, comme un écho d’une autre biographie, celle du bien plus célèbre photographe allemand August Sander. Le destin de Saverio Marra semble être celui d’un « August Sander de province ». Il est difficile de dire si ses milliers de clichés, tous pris sur commande, supposaient, comme dans le cas de Sander, un projet anthropologique conscient. Ce qui est sûr c’est que le résultat n’en est pas éloigné: nous nous trouvons ici face à toute une histoire sociale de la province calabraise dans la période du Ventennio fasciste. A travers ces visages auxquels on ne demandait pas de sourire, dans ces postures statuaires, dans ces accoutrements archaïques, devant cette toile de jute qui cache mal le sol caillouteux et les bouses de vache sur la chaussée, défilent tous les acteurs de la scène villageoise. Il s’agit de gens qui, pour la plupart, auront posé une seule fois dans leur vie: l’épouse paysanne qui veut envoyer le portrait des enfants grandissant au mari émigré en Amérique; les nouveaux mariés; les notables et les fils de notable; un couple d’amis, pour s’amuser; une famille qui entoure le cercueil d’un nourrisson, placé à la verticale devant l’objectif. De tous ces sujets on aura gardé les noms, les occupations et, quand c’était le cas, les sobriquets: voici Antonio Spadafora, dit Capucáura (« Tête brûlée ») et son fils Salvatore, paysans, qui se firent photographier devant la scène des Mille et une nuits de Marra, en 1930, circa.
Devant ces images, j’aimerais pouvoir utiliser d’autres catégories que celle d’« anatomie sociale ». J’aimerais y percevoir une aura que je ne ressens pas, j’aimerais y dénicher un punctum que je ne saisis pas; mais non, ici je ne vois qu’une « anatomie comparée », qui est le terme employé par Alfred Döblin pour décrire le travail de Sander.
Aucun regret, aucune nostalgie, aucune résurgence de spectres devant ces kouroï prolétaires. Pourtant, c’est précisément d’une image similaire – un portrait anonyme de groupe à l’occasion d’une « noce provinciale » – que Bataille a pu dire, en ces année-là (2), que les sujets de telles photographies (de la photographie, traduirais-je) sont « monstrueux sans démence ». Il voulait dire par là que la photographie, dans sa prétention à faire resurgir le passé, est en réalité une piètre tueuse de spectres véritables. Cela suppose, à mon sens, une conception finalement très baudelairienne, voire romantique, du médium photographique comme document objectif .

En cette même année 1929, tandis que Saverio Marra, dans sa petite ville des Calabres, statufiait des enfants de notable habillés en petits fascistes ou des ouvriers aux souliers boueux qui s’apprêtaient à émigrer en Libye, Alfred Döblin, dans sa préface à la Summa de Sander (3), approchait la photographie et le masque mortuaire, dans une comparaison dont on ne sait pas qui sortirait gagnant en termes de « vérité »: la pure reproduction de traits lissés par la mort (le moulage de « L’inconnue de la Seine ») ou bien la reproduction (photographique) de la reproduction.
On sait qu’autour de 1930, Saverio Marra, par l’intermédiaire d’un ami agronome, fut en contact avec un savant occultiste de Venise. Sans doute peut-on y voir l’héritage d’un positivisme progressiste et laïque un peu fin de siècle. Mais dans ses images, que je ne peux qualifier autrement que de « fidèles », je ne vois aucune autre intention que celle d’une honnêteté devant ses sujets, d’une rectitude dans le croisement des regards entre opérateur et « opéré ». Et ce que nous savons de ses lectures et de ses recherches techniques nous le fait imaginer comme un pratiquant de la chose « bonne », bien faite, en deçà peut-être de celle qui était l’ambition de Sander, « fournir, à travers la photographie, une chronique de notre temps, avec une vraisemblance absolue ». (4)
Je ne sais pas si Marra a pu avoir connaissance du travail de son illustre contemporain. Je doute qu’il ait profité de l’abondance extrême des publications allemandes autour du médium photographique, en ces années-là (1927: Siegfried Kracauer, Die Photographie; 1928: Karl Blossfeldt, Urformen der Kunst; 1929: Franz Roh et Jan Tschichold, Foto-Auge, et les grandes expositions Film und Foto à Stuttgart et Fotografie der Gegenwart à Essen; 1931: Walter Benjamin, Eine kleine Geschichte der Photographie). Je crois, toutefois, qu’il participait d’un « esprit du temps » qui, par ses mille ramifications, l’atteignait dans son San Giovanni in Fiore le plaçant tout naturellement à l’opposé d’une esthétique pictorialiste ou esthétisante. L’artifice pictural, pour lui, n’était qu’une toile de fond destinée à cacher l’irrégularité des murs et à tempérer les aléas de la lumière naturelle. Le photographe calabrais n’était pas non plus un Moholy-Nagy; pour autant que je sache, son travail ne contient aucune recherche d’abstraction.

1931-1932: Marra prend en photo, entre autres: Antonio Sirianni et son frère Salvatore, cultivateurs, dits tous les deux Ciciariellu; Francesco Lopez, dit Ciccillo ‘e don Páulu, garde municipale, et Maria De Simone, sa femme.
Avril 1931-mai 1932: Walter Benjamin publie, avec vingt-quatre autres, les lettres de Zelter à Goethe, de Hölderlin à Böhlendorf, de Overbeck à Nietzsche. En publiant cette série épistolaire Benjamin voulait – comme il l’écrit dans une introduction dactylographiée, en 1933 – montrer « le visage d’une Allemagne cachée, qu’aujourd’hui nous cherchons derrière un brouillard trouble » et racheter l’adjectif « allemand » même – dont le signifiant avait été confisqué par le nazis – en indiquant un autre chemin possible pour la citoyenneté germanique. Ce chemin, telle était sa conviction, était bouché déjà au moment de la Gründerzeit, le temps bismarckien des « fondateurs ». Et ce n’est pas un hasard si, sur les vingt-sept lettres d’allemands, célèbres ou inconnus, recueillies par Benjamin, cinq seulement datent d’après 1850.
Chaque lettre, dans le « feuilleton » de la Frankfurter Zeitung, était précédée d’une courte introduction. Les articles, non signés, portaient simplement les titres « Briefe », « Briefe I », « Briefe II », etc. Déjà en 1932 l’écrivain avait l’intention de publier la série en volume, mais ce n’est qu’en 1936, par l’intermédiaire de Karl Thieme, qu’une publication en Suisse devint possible. Thieme lui propose – les national-socialistes sont au pouvoir depuis trois ans déjà – de donner au recueil un titre anodin, par exemple « Lettres d’hommes », pour ne pas entraver son éventuelle diffusion en Allemagne. Finalement le livre fut publié par la Vita Nova Verlag de Zurich, avec le titre Deutsche Menschen. Eine Folge von Briefen, et sous le pseudonyme de Detlef Holz. Les lettres y étaient présentées par ordre chronologique et introduites par une préface générale. On ne vendit guère plus de 200 exemplaires, et le reste, oublié dans une cave de Luzerne, fut perdu. Ce n’est qu’en 1962, grâce à Theodor Wiesengrund Adorno, que le recueil fut publié à Francfort, sous le nom de son auteur. (5)
Dans ce volume, Walter Benjamin s’abstient de toute polémique, de toute tentative de convaincre ou d’interpréter, de tout prolongement de soi-même dans l’œuvre. Simplement, au moyen de cette technique qu’on peut appeler d’échantillonnage ou de montage ou de sampling, il montre, indique, il laisse à la force même du texte la tâche de prendre par la main le lecteur. Il s’agit aussi d’une technique plastique, d’une sorte de sculpture a levare. Il s’agit, enfin, d’art qui se fait politique.
Je n’ai pas d’autres raisons, pour mettre en relation l’homme de lettres Walter Benjamin et le charpentier-photographe Saverio Marra, que celles qui me viennent de ma propre biographie et du caractère arbitraire et de-responsabilisé de toute entreprise artistique. Dans tout cela, le choix est celui de re-présenter, au lieu de représenter, les choses du passé, en suggérant non pas une interprétation, mais des chemins à la sensibilité.

Janvier 2003

Notes:

(1) Les informations biographiques sur Marra sont extraites de: Marina Malabotti, “Biografia”, in Saverio Marra fotografo. Immagini del mondo popolare silano nei primi decenni del secolo, a cura di Francesco Faeta, [Milano], [1984], pp. 235-239.
(2) “Figure humaine”, Oeuvres complètes, vol. I, Paris 1970, pp. 181-185 (Documents 4, 1929).
(3) „Von Gesichtern, Bildern und ihrer Wahrheit“, préface à August Sander, Antlitz der Zeit, Frankfurt 1929.
(4) “Nichts schien mir geeigneter zu sein, als durch die Photographie in absoluter Naturtreue ein Zeitbild unserer Zeit zu Geben“ (A. Sander, préface à Menschen des 20. Jahrhunderts. Ein Kulturwerk in Lichtbildern, Frankfurt 1928.
(5) Edition française: Allemands. Lettres, Hachette 1979.

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Sur ses propres pas (Paris 2002, Lisbonne 1992-2007)

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SP, Lisbonne 2002

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Sur les pas de SP, 2007
Photographies de Sacha Mitrofanoff

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1

Lisbonne, début juin 2002. J’avais été ici il y a dix ans, m’étant échappé d’un Paris ingrat et distrait. C’était à un moment où j’étais pris d’une sorte de trop plein d’écriture, c’était une histoire thérapeutique certes, et je me souviens comment, en marchant sans but dans la ville, je m’arrêtais aux coins des rues, dans les jardins publics, sur le murets, pour noter sur un cahier les quelques phrases qui se pressaient dans ma petite tête.
Une reconnaissance se fait immédiatement; il me vient à l’esprit de retrouver tous ces lieux. J’ai avec moi un petit appareil photographique, je passe trois journées en parcourant les quartiers du centre et la zone portuaire, je m’arrête là où le souvenir du lieu me revient, ou bien le souvenir d’une phrase. J’ai un feutre sur moi, je le sors et j’écris sur le banc, sur le trottoir, sur le parapet un bout de phrase, je la prends en photo. Je suis mes propres pas.
C’est au cours de ces flâneries injustifiées que j’ai l’idée de reprendre mon travail d’il y a dix ans, quand j’allais dans les bibliothèques parisiennes à la recherche des sujets de l’imagerie positiviste. Je m’intéressais, en effet, en ce début des années ’90, à l’iconographie médicale et anthropologique de la fin du XIXème siècle; je suivais les traces de l’obsession scientiste qui visait à définir des «types», qu’ils soient raciaux, sociaux, psychiatriques ou criminels.
En travaillant sur les collections photographiques de l’époque, je m’étais borné à utiliser les images des aliénés telles qu’elles avaient été présentées par leurs docteurs, c’est à dire, anonymes et hors contexte. En les soumettant à une transformation, je me proposais de re-présenter une individualité que la prise photographique leur avait soustraite. Je travaillais, il y a dix ans, par abandons successifs d’originalité, par reproductions répétées qui auraient amené, voulais-je, à l’icône, au «monogramme» du sujet en question: partant de la photographie, passant par la photocopie, brouillant l’image sous des couches d’écriture différentes, multipliant l’image par des projections, mettant l’image en mouvement par le biais de cadres mobiles, qu’on pouvait toucher ad libitum. Ce fut la série Über die Schädelnerven (1993), dont le titre -en une sorte de parodie d’un autre regard scientifique- répète celui de la dissertation de Georg Büchner sur les nerfs du crâne des poissons.
Je n’avais pas considéré la possibilité de sauver ces figures-là de leur anonymat; je pensais qu’à travers leur manque d’identité même je serais parvenu à les toucher. Je pensais aussi qu’en traversant et en transperçant leur image, j’aurais pu trouver la face sacrifiée de ces personnes. Ne pas respecter les versions données par les interprètes (les fondateurs de la neurologie, les inventeurs de l’identification judiciaire), était une tâche qui me rapprochait des méthodes –tant méprisées par moi- des historiens, que je voyais presque toujours enfermés dans de rassurantes entreprises de «reconstruction». Toutefois, aux soucis d’objectivité et de démonstration j’opposais une pratique performative que l’historiographie peut rarement se permettre.
Dix ans après, je me dis qu’accepter le caractère anonyme de mes sujets signifie ne pas assumer sa propre responsabilité d’individu qui fait face à d’autres individus. Je décide, en ce début de juin lisbonnais, de partir à la recherche de ces gens. Et il s’agit-là, à proprement parler, de «types». Non seulement ils avaient étés privés de leur propre figure pour servir de dépotoir de signes propres à définir des ensembles, des «groupes» de cas, mais il sont doublement aliénés: ils ont étés sauvés de l’oubli pour revenir à nous simplement en tant que sujets d’un certain regard posé sur eux. En fin des comptes ils ont été déjà «typographiés». Mes reproductions à moi représentent leur troisième mort.

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2

Pour une raison quelconque, de format ou de circonstance, six photographies étaient restées en marge de celles que j’avais recueilli dans mes recherches iconographiques d’il y a dix ans. Je les avais retrouvées en défaisant mes cartons, l’été 1999, à l’arrivée à Dalsåsen, dans la province de Sogn og Fjordane, en Norvège, où j’étais censé passer trois mois dans une résidence d’artiste.
Après pas moins de trois semaines d’inactivité et de désorientation, un jour, feuilletant paresseusement mes papiers, j’ai eu l’idée de reproduire ces photographies sur bois et en faire des xylographies. Ne m’étais-je pas toujours intéressé aux formes de divulgation des images, dans leur rapport avec l’art populaire d’un côté et avec le kitsch de l’autre? La gravure sur bois n‘étais-t-elle pas la première forme de reproduction mécanique de l’image? N’étais-je pas entouré de bois feuillu de toutes sortes, à perte de vue et sans pitié? Ne devais-je, enfin, faire avec ce que j’avais sous les mains et sous les yeux? Et cette énième, première, technique artistique, juste un bout de fer appliqué sur un bout de bois, n’aurait-t-elle pas permis d’extraire le «monogramme» de l’image que j’avais vainement recherché en la torturant avec des transparences, des projections et des radiographies?
Je remis la main sur ces anonymes «administrés» de la division des maladies mentales de la Salpetrière. Reprendre le portrait photographié, l’agrandir à la photocopieuse, transférer l’image sur la plaque de bois de peuplier avec du trichlore éthylène, graver la plaque, encrer, poser la feuille de papier japonais, presser et frotter. En voici le résultat.
Revenu «en Europe» je n’ai pas eu, pendant trois ans, l’occasion de revoir et encore moins celle de montrer ces gravures. Plusieurs déménagements, fuites, prises et reprises, installations et désinstallations ont fait que mes travaux et mes archives ont été dispersés entre plusieurs caves, greniers, granges, garages, cabinets et, finalement, ateliers, dans plus d’un pays. Je me souviens d’avoir offert à mon ami Rodolphe les matrices de ces six types. Cela se passait en Alsace, où il m’avait invité à un festival, l’an dernier; je lui en étais reconnaissant et je voulais le signifier. Quelques mois plus tard, je revis ces plaques dans son studio parisien. Ce fut comme une découverte, ces types m’étaient vraiment inconnus. Je fis en toute hâte des nouvelles gravures -puisque je ne savais plus où se trouvaient les norvégiennes- en utilisant du papier kraft et des couleurs acryliques achetés au magasin d’à côté.
Et voilà que, rentré de Lisbonne, en aménageant rue Hégésippe Moreau (j’aime beaucoup prononcer ce nom; il s’agit d’un poète vagabond de l’époque romantique, mort dans un asile à l’âge de vingt-huit ans, et auteur d’une Ode à la faim qu’il me faudra lire un jour), je redécouvre, en récupérant des affaires chez mon amie Ariane, les xylographies de 1999, que je vous présente ici.
L’histoire peut alors redémarrer. Voyons.
Je décide de retrouver ces noms, ces histoires. Je vais boucler la boucle et unifier, vingt ans après, ma méthode d’historien et ma pratique d’artiste.
18 juin. Je retourne à la bibliothèque de l’Ecole de Médecine, où j’avais trouvé ces images, il y a dix ans. Je déclare que je suis un chercheur universitaire, il serait trop compliqué d’expliquer tout ça. Je feuillète la collection de la Revue Photographique des Hôpitaux de Paris (parue entre 1869 et 1872); j’y trouve une belle «Etude photographique sur la rétine des sujets assassinés», avec description de l’énucléation de l’œil de son orbite et du traitement en laboratoire de la rétine, afin d’y trouver l’image impressionné de l’assassin, mais je n’y trouve pas mes images.
20 juin. On m’a conseillé d’aller directement à la Salpetrière. Là il y aurait, m’a-t-on dit, les archives du professeur Charcot. Mais je n’y trouve que la collection de l’Iconographie photographique de la Salpêtrière (1877-1880); il y a beaucoup de représentations de toutes sortes de maladies, là-dedans, mais pas les miennes.
21 juin. Je retourne à la bibliothèque de Médecine. Je me fais apporter toute la Nouvelle iconographie de la Salpêtrière (1888-1918) et je repère, assez éparpillées, les photographies que j’ai utilisées à l’époque pour Über die Schädelnerven (c’est curieux, je n’ai aucun souvenir de toutes ces recherches, je ne sais même pas si c’est moi qui ait vécu tout cela). Il y a là des cas cliniques de toutes sortes, des hémiplégies hystériques, des ataxies statiques, des acromégalies et des scléroses en série, mais pas mes six anonymes. Et bien que j’examine tous ces visages et que je commence à avoir de l’expérience, je n’arrive pas à déterminer de quelle affection peuvent être atteints mes inconnus.
24 juin. On m’a conseillé d’aller aux Archives historiques de l’Assistance publique, rue des Minimes. J’y passe toute la journée, secondé par un employé passablement jovial et désœuvré. On sort tous les registres des entrées des aliénés, toutes les observations médicales déposés chez eux. Aucune trace de «mes» six.
25 juin. On ne peut se rendre que sur rendez-vous à la photothèque de l’Assistance Publique-Hôpitaux de Paris, rue des Fossés Saint Marcel. J’ai pris rendez-vous; une employée passablement catatonique me remet plusieurs documents versés par les services du feu docteur Charcot. Rien à faire. Je ne sais plus où aller. Les anonymes sont destinés à rester tels. Mais elles me viennent d’où, ces six images?
29 juin. J’ai décidé de montrer ces visages gravés, sans noms et hors contexte. Je les accompagnerai de mon nom et de mon contexte, j’y apposerai une petite histoire personnelle. Cela devrait passer.

SP 2002

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SP Les inconnus de la Salpetrière

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Topographie (2002)

Le 7 juin 1802 Friedrich Hölderlin quitte Strasbourg et entre en Allemagne par le pont de Kehl. Il est parti presque un mois auparavant de Bordeaux, où il était précepteur chez le consul Meyer. Quatre jours plus tard, d’après Pierre Bertaux (Hölderlin ou le temps d’un poète, Paris 1983, pp. 244-255), il est à Francfort et a le temps de voir une dernière fois sa bien-aimée, Suzette Gontard, avant qu’elle ne meurt, le 22 juin. A ce moment-là il était déjà complètement fou, presque fou, fou à moitié; sur ce point ses exégètes se disputent encore. Ce qui est sûr, c’est que ce voyage à travers la France marque un tournant dans l’état mental du poète allemand. En témoigne la célèbre lettre à son ami Böhlendorf du 2 décembre 1802, considérée à tour de rôle comme la première de sa folie ou la dernière de sa santé. C’est là où Hölderlin prend les paysans bordelais pour d’anciens Grecs: «La vue des Antiques m’a fait mieux comprendre non seulement les Grecs, mais plus généralement les sommets de l’art…». C’est à cette superposition d’une vision et d’une réalité que fait allusion ce travail, Topographie, dont le titre se lit de la même manière en français et en allemand; il y est question de méandres mentaux – voir les micro-photographies de l’intérieur du cerveau – et de paysages parcourus, interprétables – voir les macro-photographies de la terre vue du ciel. Il relate, à travers la transparence colorée du verre, d’espaces traversés, qu’ils soient physiques ou mentaux.

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Museum d’histoire industrielle (Sainte-Marie-aux-Mines 2001)

At the beginning of the twentieth Century a Society of Industrials was a place for the organisation of the production and the control of the working class, but it was also a kind of club for wealthy and enlightened individuals who, before their death, would bequeath their mineralogical, botanical, naturalistic or archaeological collections.
In an installation at the Société Industrielle of Sainte Marie aux Mines, in Alsace, I did set up three parallel disposals, according to a simple principle of displacement. Having had free access to the whole building, which, following the industrial crisis and the obsolete role of the Société, was undergoing partial demolition and reconstruction, I found under the roof and in cellars a large quantity of left over material: herbaria, archive files, fabric patterns and samples, fragments of statues, old portraits.
I displaced these various objects from one space to the other. I gathered portraits of the old Society presidents in the former meeting room – each one on his own chair. In a second meeting room, which is currently being used, I composed a circle of stuffed animals (somehow recalling a La Fontaine’s story). On the ground floor, in a space which is being demolished I reconstructed a modern meeting room furnished with iron and plastic tables and chairs – clean and ready to use.
In this way I experimented with different approaches to the question of creative displacement: I tried variations of it that would not be just simulative or utilitarian – as in the two previous examples of the vagabond’s shelter and the statues in storage- but, rather, estranging.

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Personal Monuments (Copenhagen 2000)

(See, also, in the Texts section: Displaced Translations)

Subject: Personal Monuments

A documentation and a site work

by Salvatore Puglia

Copenhagen, May 2000

To ……………………..

Blue Shield Coordinator

ICOMOS

75004 Paris, France

Copenhagen, 14/V/2000

Subject: Personal monuments

According to the 1954 Hague Convention and its passages concerning the protection of cultural monuments in the circumstances of armed conflicts (and, since 1986, also of major natural disasters) Salvatore Puglia, born in Rome, Italy, 26/IX/1953, resident in 28 rue Jean Moinon, 75010 Paris, France, requests that the following sites, located in Copenhagen, Denmark, that have been clearly marked by the United Nations Blue Shield emblem (see documentation), would be considered protected monuments, not to be destroyed in case of warfare or other catastrophe.

1.   Antique’s Bookshop

Studiestræde 28

2.   Kanal Cafeen

Frederiksholmskanal

3.   Mail boxes

Ny Vestergade 2

4.   Huset Restaurant

Corner Rådhusstræde-Magstræde

5.   Søstrene Grenes Store

Strøget 29

6.   Post Office

Købmagergade

7.   Illum Warehouse

Købmagergade

8.   Royal Theatre

Kongens Nytorv

9.   Hotel Opera

Tordenskjoldsgade 15

10. Lyntryx and Kopi Center

Peder Skramsgade

11. Knippels Bridge

(as a whole)

12. Hot Dog stand

Christianshavn square

(various locations)

With my kindest regards,

Salvatore Puglia

A l’attention de

………………..

Blue Shield Program

ICOMOS, Paris

Copenhague, le 14 mai 2000

Monsieur,

une documentation sur le Blue Shield, rassemblé sur Internet, a été le sujet de mon intervention à l’exposition Models of Resistance qui a lieu en ce moment et jusqu’à début juin à la galerie Overgaden, à Copenhague.

En parallèle avec mon installation, j’ai placé une douzaine d’emblèmes, en petit format, sur des sites de la ville qui sont significatifs pour mon histoire personnelle.

Je suis conscient du caractère provocateur de cette initiative, qui tend a questionner la hiérarchisation du concept de héritage culturel. Un patrimoine collectif est fait, vous le savez bien, d’une somme de savoirs et de mémoires personnelles, aussi méritoires d’être protégées dans leurs singularités que les pierres taillées de Dubrovnik. Certes, il faut protéger la façade de la cathédrale plutôt que le magasin de souvenirs d’en face, puisque le second ne pourrait pas survivre sans la première. Mais la cathédrale pourrait vraiment survivre, sans son Souvenir’s Shop?

En vous remerciant de votre attention, je vous prie, Monsieur **, d’agréer l’expression de mes sentiments respectueux.

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The Parachute (Maastricht 2000)

Construction of a parachute


I
Assembly manual

Take a second hand parachute, either green or white, measuring eleven meters in diameter. Hang it between trees in a park or between walls in a courtyard or even in a public square. Apply rings to the junctions of the fabric and stretch nylon threads between such rings and the surrounding branches or walls. It will be displayed in such a way as to recall the umbrella shape of a falling parachute.
Suspend this structure at the height of half a meter from the ground. Lift up a point at its extremity to sketch the lines of an entrance.
Find two couches, three arm-chairs, a small table, a chair, a fridge. Cover them with the off-cuts of the emergency parachute.
Place a potted palm tree between the fridge and the table. Place a bookshelf between a couch and an arm-chair, and a reading lamp beside the bookshelf.
All this furniture should be set in a circle over a large oriental carpet, leaving empty the central space. Do not be afraid of creating a luxurious, calm, voluptuous place.
Choose twelve or fifteen books, following your own taste and opinions; they will constitute an ideal and universal library. Cover each with an identical white paper, identify it with a Latin number.
Pick up the best white wines from Italy, France, and Spain, fill the fridge with them, and with every kind of beverage that can satisfy any particular liking.
Hire for the duration of the event an experienced hostess, dress her (or him) with an uniform sewn with the remains of the emergency parachute.
Instruct the host(ess) not only to invite and welcome all the passers by, but furthermore to fulfill –within the limit of the possible and the decent- their desires.
Finally, take care that the interior of the dome is sufficiently ventilated and of a pleasant temperature.

Rules: a host will constantly be present in the space. He will not impose any speech nor will he ask the guests who they are or who has sent them. However, he should always be ready for the possibility of conversation, which will probably be encouraged by the comfortable standing of the environment. The circular disposition of couches and chairs is likely to create a verbal exchange between conversation and chatter, confidence and speech, in a floating mood between private expression and public extension.
Some performances, readings, unplugged concerts will be executed following a program posted every morning. Other events will be improvised according to the encounters and exchanges that will occur day by day.

Note: as a parachute is mobile by definition, it will not remain in the same place in excess of three days.

II
User’s instructions

1.
Our parachute is a demonstrative space. It is a manifesto for the free circulation of individuals.
What is a parachute, if not a tool meant to slow down a fall?
If such a tool is being put to use, it is because there is a fall; there is a threat to life, there is emergency.
A parachute is not a tent, is not anchored to the ground; it floats in a space between sky and earth–even the precise spot of its landing is uncertain. Once on land, it no longer has a further function. Its quality is lightness and lightness is not required whilst one has his feet on the ground.

2.
To find oneself under a parachute is not a matter of hospitality; it is a matter of shelter.
If a tent is the symbolic space for hospitality, a parachute is the symbolic space of refuge and sheltering.
To offer somebody shelter is not the same as to offer hospitality. Hospitality is something that is exchanged in a community of peers, is a matter of politeness. In our time, sheltering has nothing to do with politeness. Today the only situations where hospitality and refuge coincide are those of an environmental danger: only Bedouins or Inuit can greet the stranger as Alcinous in the island of Scheria or Lot in the outskirts of the town of Sodom.
An effective welcoming in the Western world is to give shelter: it implies that the giver is in a position of power, and the receiver is in a state of weakness. The power that is exercised there does not answer to the codified rules of genteel behaviour. The fact is that recognition, which is the dialectical condition of hospitality, does not play such a basic role in the decision of giving shelter.

3.
But the evidence of the need is already a recognisable form; such a basic recognition is what makes an unquestioning and unconditioned asylum almost impossible.
This is why not to ask “who are you?” is but an exercise: such a question can be unexpressed but it remains implicit in the acknowledgement of a request. There is no situation of request which does not introduce itself with a sign: such a sign says where the one who is knocking at the door comes from, from whom he is sent, which danger he represents.
The call to give shelter implies a call from a point of danger; the guest is in danger and he carries this danger with him to the house of the host. Who really feels like opening his arms to the danger and the unknown? Only somebody who already lives as precarious a condition as the one who has and can; somebody who already takes his own life as an excess and indeed confounds what is necessary and what is superfluous.
The parachute exists to measure our ability to receive: we propose the exercise of turning generosity toward immoderation and transfiguring etiquette into unmotivated and uninterested pomp. Anybody who presents himself at the threshold of the parachute will be given not only a favourable reception (in another idiom, we might refer to the anti-psychiatric effort “to bracket the disease”) but will also be offered the best of our belongings. The reception will be transformed into a luxurious hospitality lacking any purpose except the pleasure and the difficulty of sharing another’s presence, good wines, good books and conversation.

4.
The host is the recipient. He is the dweller and the owner of a space which is forcefully delimited. Such spatial delimitation can be effective in the same way as the door of a house; or symbolically, as a curtain or the steps of a church.
One cannot –normally- offer to others what is not his own. There is no protection without the exercise of a sovereignty: To receive indeed means to make public, for the time and in the space of the opening, an exclusive and private place.
The guest is made inside: a new, larger space of conviviality is created. Such transformation of the private into the shared is made on the threshold; it is there where the owner invites, gives way or decides to resist the intrusion.
One cannot open what is not his own; he can, though, open up a door that would already be ajar. This is why the welcoming of the stranger would be easier to a dweller who would be partly a stranger, partly an intruder.
This half stranger would be a kind of guarantor, somebody who would answer for the other, the newly arrived–even if he does not know him.

5.
Imagine an open parachute, suspended at a few feet from the ground, accessible from every side and impossible to close: it would be the emblem of an invitation without identification and without judgement, a space where what is proper and what is common would be confused.
Such indeterminacy would be possible only if the host would not master a real power but would be himself an abusive occupier: his place would be precarious and could effectively protect nobody. But it would protect symbolically: it would be something similar to antiquity’s Asylum (from the Greek a-sylon: out of violence) or the children’s games where one cannot be touched as long as he stays in a magic circle. That would be a matter of fact, neither within nor outside the law.
An absolute and unconditioned hosting could be based only on a misunderstanding or on a re-appropriation: the host should not own any space and, being himself a temporary guest, would place himself in a chain of invitation. Not being asked “who are you?” he would not have to ask “who sent you?”  Only in such a way–by dispossessing himself of any power that would not be occasionally borrowed—could one be host and guest at the same time, recipient and contained, not really powerful nor absolutely weak. Only in such a way could one, at the same time, be responsible in two directions: toward the sovereigns–-the authority–and the visitors-–the intruders.
And only an abusive guest introduced by a less abusive one can take the invitation without being doomed to show a sign that would certify his legitimacy, which is his coming from somewhere. Not being identified, he could not represent any danger.
Only an anonymous and abusive guest-–that is to say: a parasite–can play on the same level with the host in the social game: he would have nothing to ask, but he would take the risk of being kicked out of the mansion. But then a violence against him would be a violence against every other guest. Since, following the medieval principle quoted by Hannah Arendt in The Origins of Totalitarianism, “Quid est in territorio est de territorio”, the justification of his presence would be the mere fact of his presence.

Note: a first Parachute was experimented in Maastricht in May 2000, in the protective environment of the backyard of the Jan Van Eyck Academie.

Note: while I was writing this text (August 2000) I knew that an association Foreigner for foreigners had just been constituted in Rome, with the purpose of “examining the irregularities practised by the institutions of the Italian State against strangers”.

Note: The tents that have been raised in the last years by the “sans papiers” under the aisles of the churches were neither metaphorical nor allegorical. I am thinking about those in the church of Saint Ambroise, whose doors were pulled down with axes by the French police in August 1996; or to the beautiful white tents still standing (November 2000) inside the church of the Béguinage in Brussels.
Evidently, whoever finds himself in the extreme situation of seeking shelter in a sacred space appeals less to the protection of a divinity that perhaps he doesn’t recognize than to the residues of an ecclesiastic right that is no longer accepted by national legislations, and to the fact that the breaking-in of public officers in such places is still perceived by public opinion like a sort of sacrilege.

Appendix: a short list of recent books on the issues of hospitality and refuge

J. Derrida, „Le mot d’accueil“, in Adieu à Emmanuel Lévinas, Paris 1997.

J. Derrida, De l’hospitalité, Paris 1997.

J. Derrida, Cosmopolites de tous les pays, encore un effort!, Paris 1997.

K. Heilbronner, Immigration and asylum law and policy of the European Union, The Hague London Boston 2000

E. Jabès, Le livre de l’hospitalité, Paris 1991.

D. Joly, Haven or hell? Asylum policies and refugees in Europe, Warwick 1996

E. Lévinas, „Les villes-refuges“, in L’Au-delà du verset, Paris 1982.

F. Nicholson, Refugee rights and realities: evolving international concepts and regimes, Cambridge UK 1999

C. Pohl, Making room: recovering hospitality as a Christian tradition, Grand Rapids-Cambridge 1999.

S. Reece, The stranger’s welcome: oral theory and the aesthetics of the Homeric hospitality scene, Ann Arbor 1993.

R. Scherer, Zeus hospitalier: éloge de l’hospitalité. Essai philosophique, Paris 1993.

P. Ségur, J.L. Gazzaniga, La crise du droit d’asile, Paris 1998

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A travers les images (1993)

Faire appel aux bons offices documentaires de l’image (photographique) révèle notre bonne volonté, certes, et on ne saurait s’en abstenir.
Mais il faudrait prendre garde de lui confier, à la belle image, tout le champ de la fonction reproductrice, au-delà de sa tâche d’instrument médiateur vers ce qui a été; il se pourrait que, comme le font souvent les spécialistes, elle nous maintienne à l’extérieur de sa surface, qu’elle nous contraigne à la regarder avec respect.

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ASCHENGLORIE

Une mémoire volontaire, ou volontariste, ne peut pas faire de mal, ne peut pas me surprendre, je la contourne, je la garde sur les marges, je la laisse pour cadre de l’imagerie. On montre ce qui reste pour dire ce qui est perdu. Donc, par dessus tout beau geste, pour témoigner de l’insauvable. On pourrait imaginer un musée (antiquarium) dérisoire; les pièces exposées ne seraient ni les traces ni les indices ni les empreintes ni les organes d’un corps entier auquel elles auraient appartenu, mais plutôt de “purs signes de soi”, indéfiniment disponibles.
L’engagement esthétique du travail nommé Aschenglorie est dans le rapport entre le fragment et la continuité, le détail et l’ensemble, le hasard de l’élément trouvé et la nécessité du cadre qui l’emprisonne et qui impose une place dans l’espace et le statut même d’image. L’arbitraire des images est un premier geste contre la bonne intention de l’image. Il n’y a pas de discours, mais une juxtaposition forcée et présentée en kit: on fera d’elle ce qu’on voudra.

Une association de fragments. Ils n’ont rien à voir entre eux, mais tout seuls ils ne tiendraient pas.

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STELES MOBILES

Il faut malgré tout ériger des stèles ; mais alors, qu’elles aient des roues, pour qu’elles puissent aller partout et faire du mal ailleurs.

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ICONES

Arrêtés dans une pose, les sujets se posent en icônes d’eux-mêmes. On reproduira la réciprocité du regard, manquée au moment de la pose ; on isolera la frontalité de l’auto-représentation ; on la placera bien au centre de l’ostensoir, entre deux ailes de plomb.

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VANITAS

Le crâne était l’image même de la vanitas. Il était l’idée même de la dépouille; il est encore plus dépouillé quand il est transparent. Il est dépouillé de l’essentiel, ou bien de l’accessoire, on ne sait pas. Pour tromper le doute, on l’habille de tatouages, on le transforme en trophée et on l’accroche devant la porte avec ses semblables.

Une écriture sera gravée sur le verre. Elle sera fatigante à écrire et difficile à lire. On contraindre à lire, comme on s’est contraint à transcrire; on rendra ainsi visible le difficilement visible, le transparent, grâce aux signes gravés.

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STELES RADIOGRAPHIQUES

La photographie aurait pour fonction de chasser les esprits, et la stèle celle d’empêcher les esprits de sortir de leurs tombes… et si au contraire on voulait les rappeler ?

La radiographie renvoie à la radioactivité de la mémoire: à l’inévitable exposition à ses rayons invisibles et meurtriers.

“Mais on constate facilement que la trace durable de l’écriture est conservée sur le tableau de cire lui-même et qu’elle peut être lue sous un éclairage approprié” (Freud, Uber den Wunderblock). C’est inexact. Sur la dernière couche aussi, la nouvelle écriture gravée embrouille la précédente, même si souvent elle se glisse dans le sillon qu’elle trouve.

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ÜBER DIE SCHÄDELNERVEN

Agir sans intention serait renoncer à se reconnaître. Si on prend la mémoire, on ne se reconnaît plus, on est comme une feuille de celluloïd transparent, ouverte à toute possibilité d’inscription.

Ce qui est redoutable dans l’image, c’est son pouvoir consolateur. Elle panse l’absence, alors que l’enjeu serait celui de l’habiter.

Au pathos de la mémoire sauve, on opposera la volonté de dire l’insauvé, l’inidentifiable.

“Or, à regarder les choses d’un point de vue élevé, tout en police est affaire d’identification” (Alphonse Bertillon, Identification anthropométrique, Instructions signalétiques, Melun, 1893).

L’obsession de l’identité, et de l’identification, transforme les individus en cas, en types, en emblèmes. Or, on va rendre aux visages leurs voiles.

L’inquiétante étrangeté devrait avoir lieu, plus que dans les surprises du familier, dans la soudaine familiarité de l’inconnu. Devant le cliché signalétique, j’ai la révélation de me trouver à la place de l’homme signalé. Cela m’autorise à regarder son portrait qui est le mien.

La question serait: prendre la tête de l’image et lui tordre le cou.

“Pourquoi une ‘photo d’identité’ est-elle le plus souvent la plus pauvre, la plus terne, et la moins ‘ressemblante’ des photos ? Mais aussi, pourquoi dix photos d’identité de la même personne sont-elles si différentes les unes des autres? Quand donc quelqu’un se ressemble-t-il? Lorsque la photo montre de lui, ou d’elle, plus que l’identique, plus que la ‘figure’.
L’’image’, les ‘traits’ ou le ‘portrait’ en tant que relevé des signes diacritiques d’une ‘identité’ (cheveux noirs, yeux bleus, nez camus, etc.), et lorsqu’elle fait lever une mêlée interminable, peuples, parents, travaux, peines, plaisirs, pensées, refus, oublis, égarements, attentes, rêves, récits, et tout ce qui tremble et tout ce qui s’agite aux confins de l’image.
Rien d’imaginaire, rien que du réel: le réel est de la mêlée. Une vraie photo d’identité serait une mêlée indéfinie de photos et de graphies, qui ne ressemblerait à rien, et sous laquelle on inscrirait la légende d’un nom propre.” (J.-L. Nancy, Eloge de la mêlée)

L’affection des parents pour les images de leurs morts: ils les saluent, les embrassent, leur parlent. Comme si elles pouvaient contenir quelque chose.

Juin 1993

Paris February-April 2005

Inventarium, Galerie Photo FNAC Montparnasse, February-April 2005.


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A 3’37” Slideshow edited by Johann Perrier. Music: Kat Onoma.

 

S.P.

Pour aborder le travail si actuel d’un artiste tel que Salvatore Puglia, certains très vieux mots, grecs ou latins, font très bien l’affaire, pour peu qu’on les prenne – ainsi qu’il nous y invite lui-même – suffisamment au sérieux. En voici trois.

“Photographie”. A l’ “écriture de/par la lumière”, où un réel rayonnant engendrerait de lui-même une image dont l’évidence glorieuse ne demanderait plus qu’à être captée, Puglia a toujours opposé une certaine méfiance, étayée sur une autre lecture du mot. Car il sait bien que la “graphie” dissimule ici un peu trop innocemment, et fait passer en contrebande, une écriture qui se donnerait pour allant de soi et comme imprégnant la fibre même du monde – une écriture, mais aussi bien (puisque c’est là ce que signifie le verbe graphein en grec), une gravure ou un dessin qui seraient donc naturels, d’où toute dimension subjective, culturelle, interprétative serait exclue. Aussi Puglia aime-t-il à rendre coup pour coup à la photographie. Tantôt, il retourne en quelque sorte l’un contre l’autre les deux termes qui la composent. Ainsi, la lumière voit souvent sa clarté voilée, grisée, éteinte ou noyée dans le grain du papier à force d’être diluée par (photo-)copie, quand elle n’est pas dénoncée ou attaquée à même son champ par des inscriptions, des incisions, des surimpressions qui lui contestent son statut privilégié de medium omniprésent et translucide. Tantôt, c’est à l’ensemble photographique que s’en prend l’artiste, soulignant, accusant, aggravant son caractère d’artefact ou de matériau, soit (par exemple) qu’il lui superpose d’autres images dissonantes, soit qu’il l’imprime sur un support transparent, restituant ainsi au regard, par-delà l’opacité fermée de la surface originale, une nouvelle profondeur à explorer. (Profondeur dont il faut souligner qu’elle n’est pas seulement perspective, mais également temporelle et personnelle. Le fond de certains travaux présentés ici est en effet constitué de fragments d’oeuvres anciennes, désormais remployées exactement selon les mêmes processus que n’importe quel autre élément constitutif. Le corpus de l’artiste n’est donc plus une archive personnelle intangible : il devient désormais une mine de matériaux susceptibles d’être recyclés. Si l’on ne peut que s’incliner devant le détachement et l’impartialité sereine avec lesquels Salvatore Puglia traite ou retraite ainsi son oeuvre passée, il n’en voudra pas à certains de ses admirateurs d’espérer qu’il ne poursuivra pas trop loin dans cette voie).

“Monument”. Le monumentum latin est d’abord un avertissement, une admonition, et le moyen dont on use pour les signifier. Pour que l’avertissement soit durable, il convient que le signe le soit : le monumentum est donc fait d’un matériau pérenne, et ses dimensions mêmes confirment qu’il est fait pour résister à l’usure du temps, et s’opposer immobile à son passage, depuis la place qui lui est solennellement assignée une fois pour toutes. Le monument, si l’on veut, est une machine (ou un piège) à mémoire, et sa présence est avant tout témoignage. Mais pour peu que cette présence soit moins comprise comme signe d’une mémoire à préserver que comme simple caractère monumental – comme affirmation emphatique d’une grandeur : qu’arrive-t-il alors ? D’une certaine façon, Puglia a effectué sur la monumentalité un travail critique analogue à celui qu’il a conduit sur la photographie. Il a disséminé, et ce à travers toute l’Europe, des sculptures fugitives, temporaires, délibérément abandonnées aux éléments ou au vandalisme. Il a aussi travaillé sur la récupération et la mise en scène mussoliniennes du passé monumental de l’Italie. Or il se trouve que le fascisme, en dévastant le tissu urbain autour des vestiges antiques au nom de leur “nécessaire solitude” de géants, les laissa du même coup à découvert et comme à nu, d’autant plus vulnérables aux bombardements. (De quoi donc témoignent désormais ces étranges silhouettes dissimulées sous des sacs de sable, qu’ont-elles à dire sur le sens de leur survie, maintenant qu’elles sont imprimées et reportées sur des substances aussi délicates et fragiles que le silicone, le rhodoïd ou l’organza ?)

“Inventaire”. En latin juridique, inventarium – terme que Salvatore Puglia a choisi pour intituler la présente exposition. Au sens strict, l’opération qui porte ce nom consiste à établir la liste descriptive et estimative des éléments d’une communauté (lorsque vient l’heure où cette communauté doit être liquidée) ou d’une succession (quand une mort impose de régler les questions d’héritage). Un inventaire n’intervient qu’après coup, une fois que tout est consommé ; relevant des traces, opérant des partages d’actifs et de passifs, il fixe un état des lieux en attendant qu’advienne peut-être une distribution nouvelle. Inventarium : un tel titre laisse donc déjà entrevoir que le travail de Puglia, minutieux, réfléchi, attentif aux moindres détails, inséparable d’une activité classificatrice ou sérielle, tient du procès-verbal. Car sa recherche, elle aussi, n’intervient qu’après coup. Après décès, serait-on presque tenté de dire, puisque cette recherche semble ne commencer que là où tout paraît avoir fini à tout jamais, sans retour possible (pour être plus exact, les figures si fréquentes de la ruine et du ravage paraissent toujours constituer chez lui des abords ou des approches de la déflagration majeure qui a troué le XXème siècle). Et par là, ce travail tient aussi du rapport – historique ou d’autopsie. Les oeuvres de Puglia paraissent à peu près toutes se détacher sur un fond discrètement endeuillé. Le sens presque douloureusement aigu de la fin révolue dont ces oeuvres témoignent, et l’attention que l’artiste porte à la scruter afin de déchiffrer sur ses vestiges le sens de ce qui s’est produit, expliquent sans doute en partie que depuis des années, l’une des nappes résurgentes de son travail s’alimente aux sources de la médecine et puise dans ses documents (gravures d’écorchés, anatomies, radiographies, planches anthropométriques reviennent régulièrement hanter la surface de ses images).

Est-ce à dire que l’art lui-même, en ces temps d’après la catastrophe, se réduit à n’être qu’une survivance, une enquête funèbre, une pratique aussi vestigiale, périssable et obsolète que les matériaux sur lesquels elle porte ? Le verbe latin dont dérive le mot inventarium inviterait d’abord à le penser : invenire, littéralement “venir (ou tomber) sur”, signifie en effet “trouver, découvrir” quelque chose de préexistant, plutôt qu'”inventer”. Ainsi, l’artiste aurait moins à produire de la pure nouveauté qu’à recueillir et interroger des données. Sans doute. Reste alors à savoir comment les choisir, où les chercher, comment les combiner ou les mettre en rapport. Et à quelle fin. Si donc Puglia ne se soucie pas trop de paraître original, c’est tout simplement au nom d’une certaine éthique, qu’il tient sans doute de sa formation d’historien. C’est en effet dans la pratique de l’investigation historique que sa vocation d’artiste s’est déterminée, au contact des documents et de leur charge d’opacité temporelle. Histoire, historia : sans doute est-ce par ce très vieux mot grec qu’il aurait fallu commencer. Il signifia d’abord quelque chose comme “enquête” ou “investigation”. Il finit par être le nom de cette pratique (de ce désir) de savoir qui amena il y a vingt-cinq siècles un certain Hérodote à voyager pendant des années pour accumuler les faits et les versions que les hommes en donnent, à les superposer, à les soumettre à examen, à les mettre en lumière, à en surprendre les discordances, et puis à en écrire un inventaire destiné à durer – tout cela pour tenter de comprendre de quoi son présent était fait.

Daniel Loayza

  1. XII. 2004

Antiquarium December 2004

Un deposito, un ricettacolo di cose antiche, di frammenti sparsi del passato, è un antiquarium. Tali frammenti della storia possono essere radunati per uno scopo conservativo oppure per essere rimessi in una circolazione che non corrisponde alla loro destinazione originaria. Chi visiti oggi un antiquarium è testimone del futuro postumo degli oggetti costì riuniti.

L’espressione “futuro postumo” è forse un ossimoro (ciò che deve ancora accadere, non è già avvenuto). Pur tuttavia mi pare appropriata per dire il principio soggiacente a questa esposizione presso la galleria Del Borgo: poiché il futuro del mio lavoro d’artista – indipendentemente dal suo grado di qualità – sarà retrospettivo, proietto fin d’ora le mie immagini nel passato.

Più che di pubblicare in vita pagine postume, si tratta qui di essere coerentemente “occasionalista” e fondersi del tutto nel contesto dato, che è quello di una galleria antiquaria con una propria storia e con una propria politica. Nella mostra precedente si scelse il confronto diretto – a partire dalla collezione stessa del gallerista – con la storia dell’arte e con le sue produzioni forse minori ma espressioni di un “saper fare” costitutivo della nostra eredità artistica: nel declinare in varie maniere il tema del panneggio, nel “contemporaneizzare” i disegni antichi usando – quasi a citazione – di tutte le tecniche possibili, creammo uno spazio bianco e in questo spazio facemmo una “installazione”, creammo cioè un luogo artificiale.

In questa nuova occasione il nostro approccio è stato differente. Considerare il proprio lavoro come un reperto d’archeologia o come un oggetto d’antiquariato non è – credo – un atto di presunzione. Si tratta piuttosto di un’ottica di ridimensionamento, di un gesto di misura: così come la sanguigna di un pittore di media levatura della Roma barocca può qui trovarsi fra un armadio toscano del seicento e un cassone rinascimentale, un mio inchiostro potrebbe ben finire anonimamente, fra un secolo o due, accanto a un’Olivetti Lettera 22 e a una radio Blaupunkt del 1966; tutto ciò che avrebbe in comune con questi oggetti sarebbe un simile statuto di merce pregiata. E, ormai distaccato dal corpus della mia opera complessiva, quell’inchiostro avrebbe un valore del tutto suo, del tutto indipendente dalla mia persona e – infine – esatto.

Ci si è applicati, insieme con i curatori della galleria, a un esercizio che è allo stesso tempo mercantile ed estetico. Gli accostamenti e i rimandi fra i miei lavori (scelti fra quelli prodotti nell’arco degli ultimi quindici anni) e gli oggetti d’arte antica rispondono tanto a suggestioni formali quanto a contrasti ricercati: si intende mostrare l’acquisita libertà di ogni singolo elemento e il suo dialogare con gli altri in una storicizzazione datagli dalla natura stessa del luogo in cui si sono trovati.

E se di esercizio storicizzante si tratta, non si fa spazio intorno alle opere, non si fa loro intorno un’aura di parete bianca. Al contrario le si immerge in un horror vacui di specchiere rococò, paesaggi post-poussiniani e lampadari genovesi, per verificare insieme con il cortese pubblico se riescano ad uscirsene.

 

Rome December 2003-January 2004

Sei lezioni di panneggio
Galleria Del Borgo
12 dicembre 2003 – 3 gennaio 2004

 

Catalogo_del_borgo

Fra Urania e Maddalena

Di tutti i soggetti dell’insegnamento artistico, il panneggio è forse l’esercizio didattico per eccellenza. Trattasi, nel riprendere e riprodurre le pieghe di un bel tessuto ad arte sistemato, di ritrovarne il volume e la consistenza, di afferrare la luce che vi si posa.

Se rimaniamo nella cornice del disegno, che è qui il tema delle nostre brevi lezioni, possiamo dire che, se riprodurre il corpo umano è una questione di proporzioni e di misure, “rendere” il panneggio è un fatto di ombra e di luce, nonché di gravità, di “caduta”.

Fra i disegni conservati nella collezione di Guido Del Borgo – che fu un grande esperto, oltre che la personificazione vivente del gusto – ho scelto due pezzi che, pur nella loro alta qualità, non sono semplicemente due pezzi di bravura. Li ho scelti a causa della postura dei loro soggetti, che vedo – più che come illustrazioni dell’arte del segno – come emblemi tutti soggettivi: l’uno della tensione verso la luce e l’altro dell’attrazione per l’ombra.

Ecco una donna che tiene in grembo una sfera e guarda verso l’alto, in un atteggiamento che pare di domanda e di attesa. Attende un ordine, un consiglio, un’illuminazione? Non sa cosa fare di quel globo che, a guardar meglio, si rivela essere la Terra stessa? E la mano destra che, invece di aiutare a tenere ferma la palla terrestre, le cade come inanimata lungo le pieghe dell’abito, non doveva forse tenere in origine un qualche strumento di misura o di giudizio? Ma di utensili che potrebbero aiutarla a misurare o a calibrare non c’è traccia, il mondo è giusto un peso sulle sue ginocchia, un peso di cui non sa cosa fare, nell’attesa di una luce che le venga di lassù.

Anche l’altra donna, tracciata alla sanguigna, porta qualcosa di sferico sulle ginocchia. Si direbbe quasi che di quest’oggetto – che è poi un cranio umano – si sia appena sgravata. La giovane donna fissa il suo teschio con aria intenta e sognante; ha i capelli sciolti, arruffati. È il segno del lutto e dell’espiazione che, ancora qualche decina di anni fa, le donne dell’Italia meridionale ostentavano alla morte di un caro. Non c’è dubbio, si tratta di una Maddalena penitente. Questa fanciulla che contempla il piccolo globo osseo come se fosse uno specchio è l’immagine sintetica di una Vanitas appena appena retorica. E se il suo capo è chino e se il suo sguardo è rivolto verso il basso è perché c’è un peso che verso l’ombra la tira. La pesantezza del panneggio sembra accompagnare questa ferma caduta. Le pieghe della prima, invece, che – leggo in un catalogo – rappresenta un’allegoria dell’Astronomia o la musa Urania, sembrano tenersi su da sole.

L’arte dei due pittori barocchi, i due buoni artefici dell’Urania e della Maddalena, provoca me, che non sono né pittore né buon artefice, a occupare una posizione analoga alle loro, a pormi di fronte a una modella che tiene sul ventre una forma sferica e a vedere cosa la mia mano, carica di tutti gli eventi della storia e del mondo, possa tirar fuori da queste incomunicabili tensioni e attrazioni, verso l’alto, verso il basso, di traverso.

Ciò che qui viene presentato è il risultato di tale immodesto esercizio.

SP

 

 

Sainte Marie aux Mines 2001

Bruxelles, le 21 septembre 2001

A l’heure où j’écris ces quelques lignes, à deux pas du Botanique où Kat Onoma joue ce soir, Salvatore Puglia doit être en train d'”installer”, comme on dit, son petit “Museum d’Histoire Industrielle” dans les locaux de la Société Industrielle de Sainte-Marie-aux-Mines.

Ce lieu en cours de rénovation, nous l’avons visité ensemble il y a trois semaines, tandis que nous préparions le festival “C’est dans la Vallée”. Il était tombé dans l’oubli. Ce fut comme pénétrer dans un sanctuaire abandonné: ce vestige poussiéreux d’un âge d’or industriel nous apparût, dans son absence d’apprêt, comme une sorte de musée parfait. Je crois que nous avons soudain partagé une vision: ce pur concentré d’histoire, cette archive intacte, avait aussi l’aspect d’une oeuvre d’art. Un petit musée d’art contemporain, signé par personne, fait de rien d’autre qu’une matière de signes.

Salvatore Puglia fut, avant d’être un artiste, un historien. Un tel lieu semble s’adresser à lui. Son travail d’artiste l’éloigne infiniment de ce qu’on appelle les arts plastiques, parce qu’il est de part en part traversé par le signe d’histoire, le temps en général est littéralement ce qui leste (de plomb) chacun de ses gestes d’art. A l’inverse, son rapport intime à l’histoire, d’une exceptionnelle intensité, est paradoxalement ce qui lui intima un jour d’abandonner sa profession d’historien (la tranquille explication des signes), et le jeta dans l’aventure d’un tout autre tracé, celui de la vie d’artiste, expression qui en ce qui le concerne n’a rien de désuet. Les nombreux tours et détours de sa magnifique pérégrination l’amènent aujourd’hui à croiser brièvement ce lieu, en ce moment même.

Je ne sais pas quel geste (à la fois hâtif, improvisé, et médité, selon sa manière),il est en train de tracer pour nous l’adresser en retour, dans l’amitié. Je me réjouis de le découvrir. Je le comprendrai sans comprendre, comme d’habitude. Un signe sans explication.

Rodolphe Burger

At the beginning of the twentieth Century a Society of Industrials was a place for the organisation of the production and the control of the working class, but it was also a kind of club for wealthy and enlightened individuals who, before their death, would bequeath their mineralogical, botanical, naturalistic or archaeological collections.
In an installation at the Société Industrielle of Sainte Marie aux Mines, in Alsace, I did set up three parallel disposals, according to a simple principle of displacement. Having had free access to the whole building, which, following the industrial crisis and the obsolete role of the Société, was undergoing partial demolition and reconstruction, I found under the roof and in cellars a large quantity of left over material: herbaria, archive files, fabric patterns and samples, fragments of statues, old portraits.
I displaced these various objects from one space to the other. I gathered portraits of the old Society presidents in the former meeting room – each one on his own chair. In a second meeting room, which is currently being used, I composed a circle of stuffed animals (somehow recalling a La Fontaine’s story). On the ground floor, in a space which is being demolished I reconstructed a modern meeting room furnished with iron and plastic tables and chairs – clean and ready to use.
In this way I experimented with different approaches to the question of creative displacement: I tried variations of it that would not be just simulative or utilitarian – as in the two previous examples of the vagabond’s shelter and the statues in storage- but, rather, estranging.

 

Paris December 1999

Deutsche Menschen, Maison Heinrich Heine, Paris, December 1999.

Entre avril 1931 et mai 1932 Walter Benjamin publia sur la Frankfurter Zeitung, avec des intervalles variables entre une et huit semaines, vingt-sept lettres d’allemands, écrites entre 1783 et 1883. Chaque lettre était préfacée par une courte introduction. Les articles, non signés, portaient simplement le titre: Briefe, Briefe I, Briefe II, etc.
Benjamin publie, avec vingt-quatre autres, les lettres de Zelter à Goethe, de Hölderlin à Böhlendorf, de Overbeck à Nietzsche. En publiant cette série épistolaire Benjamin voulait – comme il l’écrit dans une introduction dactylographiée, en 1933 – montrer « le visage d’une Allemagne cachée, qu’aujourd’hui nous cherchons derrière un brouillard trouble » et racheter l’adjectif « allemand » même – dont le signifiant avait été confisqué par le nazis – en indiquant un autre chemin possible pour la citoyenneté germanique. Ce chemin, telle était sa conviction, était bouché déjà au moment de la Gründerzeit, le temps bismarckien des « fondateurs ». Et ce n’est pas un hasard si, sur les vingt-sept lettres d’allemands, célèbres ou inconnus, recueillies par Benjamin, cinq seulement datent d’après 1850.

Chaque lettre, dans le « feuilleton » de la Frankfurter Zeitung, était précédée d’une courte introduction. Les articles, non signés, portaient simplement les titres « Briefe », « Briefe I », « Briefe II », etc. Déjà en 1932 l’écrivain avait l’intention de publier la série en volume, mais ce n’est qu’en 1936, par l’intermédiaire de Karl Thieme, qu’une publication en Suisse devint possible. Thieme lui propose – les national-socialistes sont au pouvoir depuis trois ans déjà – de donner au recueil un titre anodin, par exemple « Lettres d’hommes », pour ne pas entraver son éventuelle diffusion en Allemagne. Finalement le livre fut publié par la Vita Nova Verlag de Zurich, avec le titre Deutsche Menschen. Eine Reihe von Briefe, et sous le pseudonyme de Detlef Holz. Les lettres y étaient présentées par ordre chronologique et introduites par une préface générale. On ne vendit guère plus de 200 exemplaires, et le reste, oublié dans une cave de Luzerne, fut perdu. Ce n’est qu’en 1962, grâce à Theodor Wiesengrund Adorno, que le recueil fut publié à Francfort, sous le nom de son auteur.

Dans ce volume, Walter Benjamin s’abstient de toute polémique, de toute tentative de convaincre ou d’interpréter, de tout prolongement de soi-même dans l’œuvre. Simplement, au moyen de cette technique qu’on peut appeler d’échantillonnage ou de montage ou de sampling, il montre, indique, il laisse à la force même du texte la tâche de prendre par la main le lecteur. Il s’agit aussi d’une technique plastique, d’une sorte de sculpture a levare. Il s’agit, enfin, d’art qui se fait politique.

Je n’ai pas d’autres raisons, pour mettre en relation l’homme de lettres Walter Benjamin et mon propre travail visuel, que celles qui me viennent de ma propre biographie et du caractère arbitraire et de-responsabilisé de toute entreprise artistique. Dans tout cela, le choix est celui de re-présenter, au lieu de représenter, les choses du passé, en suggérant non pas une interprétation, mais des chemins à la sensibilité. Mon projet est une sorte d’exercice d’imitation, par le biais d’une pratique de l’exemple qui serait analogue a celle de l’écrivain berlinois.

Les Hommes allemands de Walter Benjamin

Bertram, Johann Baptist  (1776-1841)
Brentano, Clemens  (1778-1842)
Büchner, Georg  (1813-1837)
Clodius Ch. A.H.  (ami de C.A.Tiedge, 1773-1853)
Collenbusch, Samuel  (1724-1803)
Dieffenbach, Johann Friedrich  (1792-1847)
Droste-Hilshoff, Annette von  (1797-1848)
Forster,  Johann Georg Adam  (1754-1794)
Goethe, Johann Wolfgang von  (1749-1832)
Görres, Joseph  (1776-1848)
Grimm, Jacob  (1785-1863)
Grimm, Wilhelm  (1786-1859)
Hölderlin, Friedrich  (1770-1843)
Kant, Johann Heinrich  (frère de Immanuel, ?-1800)
Keller, Gottfried  (1819-1890)
Lichtenberg, Georg Christoph  (1742-1799)
Liebig, Justus von  (1803-1873)
Metternich-Winneburg, Clemens (1773-1859)
Overbeck, Franz  (1837-1905)
Pestalozzi, Johann Heinrich  (1742-1827)
Ritter, Johann Wilhelm  (1776-1810)
Schlegel, Friedrich von (1772-1829)
Seume, Johann Gottfried  (1763-1810)
Strauss, David Friedrich  (1808-1874)
Voss, Johann Heinrich  Junior(1751-1826)
Zelter, Carl Friedrich  (1752-1832)

Le dépliant de Visages d’Allemagne.

 

 

Rome and Torrimpietra 1999

Iconografie transitorie, Lo Studio, Rome, February-April 1999.
A series of shows: What is a document, for art? What is art, for a document?
Susanne Greven, Philippe Poirier, Rémy Fenzy, Dmitry Vilensky, Rodolphe Burger, Ian Joyce, Christian Gattinoni, Claudio Pieroni.
Curated by Salvatore Puglia and hosted by Annamaria Morbiducci.

Accompanied by a book: Via dalle immagini/Leaving Pictures, Il Menabò, Salerno 1999 (texts by Salvatore Puglia, Eduardo Cadava, Benedetta Cestelli Guidi and Federico Del Prete, Lars Hiertström, Ian Joyce, Barbara Tosi, Christopher Fynsk and William Haver), and a group show at Centro Breccia, Torrimpietra, April 4th 1999.

With two performances:
Philippe Poirier’s Leaving Pictures, 14’52” (Rome 27/03/1999)

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Rodolphe Burger’s Monteverdi: unlimited lament, 18’34”
(Torrimpietra 04/04/1999)

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Philippe Poirier’s text on his performance: 1999 Poirier’s Sampling


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A text about Rodolphe Burger’s performance: 1999 Travelling Fiumicino


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Salvatore Puglia’s text on the series of exhibits: Leaving Pictures.


S. Puglia, Antiquarium 01, 2×3 m, exhibited in Rome and Centro Breccia, Torrimpietra.
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Please refer also to the Studio Morbiducci website:

Iconografie transitorie

a cura di Salvatore Puglia
22 febbraio – 5 marzo 1999
8 marzo – 19 marzo 1999
22 marzo -2 aprile 1999

Una serie di mostre di sei artisti europei sul tema del rapporto tra l’arte contemporanea e la storia.
“L’oscillazione fra scomparsa e conservazione è un tema inevitabile dell’arte contemporanea. O, quantomeno, di un’arte che non si voglia solamente specchio di se stessa, ma si ponga come fattore di interpretazione del mondo intorno a noi.
Non possiamo non interrogarci senza posa su cosa ci è stato lasciato, su come dobbiamo prenderlo, cosa dobbiamo accettare e cosa contestare della nostra eredità storica e storico-artistica, cosa ci rimane, cosa è perduto e come rivolgersi a ciò che è perso e a ciò che resta.
La nostra è storia di immagini, e l’immagine è il nostro testo di studio e la nostra palestra estetica. L’immagine-storia è il soggetto stesso della ricerca che qui presentiamo. Intorno a quest’idea mostreremo alcuni tentativi di afferrare il movimento, nel tempo e nello spazio, fra apparizione e disparizione, tranistorietà e permanenza, frammentazione e sedimento, distruzione e costruzione. Cosa va conservato di ciò che é stato legato al tempo, cosa va dimenticato, cosa trasformato? Come conservare, come dimenticare per poter trasformare? Esistono oggetti storici più emblematici o significativi di altri?
Questi gli interrogativi cui il lavoro degli artisti che qui presentiamo tenta di rispondere. Già si può dire che non è casuale, certo, che tutti abbiano in comune l’uso prioritario della fotografia. Fotografia e storiografia sono ormai, in questa fine di secolo, indissociabili l’una dall’altra”
(dalla presentazione del ciclo)

Mostre e concerti

22 febbraio – 5 marzo 1999 8 marzo – 19 marzo 1999
Mostra di Susanne Greven Rémy Fenzy
Proiezione di cinegiornali dell’Istituto Luce sulla protezione dei monumenti nazionali durante la guerra, accompagnata da un misssaggio musicale con dischi 78 giri
realizzato da Philippe Poirier
Mostra di Dmitry Vilensky Salvatore Puglia
Registrazioni di pezzi rari della musica russa tra le due guerre commentate da
Valeri Voskobojnikov
Susanne Greven
Rèmy Fenzy
Philippe Poirier Dimitry Vilensky Salvatore Puglia Valeri
Voskobojnikov
22 marzo -2 aprile 1999
Mostra di Ian Joyce Christian Gattinoni
Remix di Rodolph Burger

 

 

New York March-April 1995

Abstracts (of Anamnesis), Onassis Foundation, New York, 1995.

As Aristotle writes in his brief treatise On Memory and Reminiscence, “the same effect occurs in thinking as in drawing a diagram”, and “memory, even the memory of objects of thoughts, is not without an image.”

Abstracts of anamnesis or skeletal forms of reminiscence. Such forms must be more than one. No single formula could offer the ultimate image of the flotsam and jetsam of time, now that it is “out of joint.” But a series of images could offer at least a hint at a possible world, one among others. And they must be abstracts: summarized, but also free from any specific instance. There is no supreme lesson or famous last word to be learned from the barely legible scrawls which haunt the pictorial surface.

Writing abstracts conveys its graphic qualities apart from the object to which they belong. So does painting, in a way, gaining its own fantastic presence in this parting. So does thought ‑‑ or so did the Greeks say. Graphic, fantastic ‑‑ two Greek words, describing operations of the human hand, which Aristotle called the “organ of organs.” The image and the alphabet, phantasia and grammata, stand as the Scylla and Charybdis which define the straits the Greeks have left in their wake‑‑with thought. But what would a painting look like if the presence of painting were precisely the quality it aimed to convey`? How could it, at one stroke, accept the Greeks’ legacy and question it’? How could a legacy ever be shown, if not as a vanishing point? It is not so much a matter of memory. Rather, memories are at stake, as vestiges of memory: a recollection, or anamnesis, of anonymous bodies and sentences no one could sign now.

Christopher Fynsk’s text: Fynsk 1995

The exhibition catalogue: Abstracts catalogo 1995