Per un’arte della storia (1999)

Il rapporto fra l’arte e la storia può essere visto da diversi punti di vista. Dirò qui, molto concisamente, almeno tre dei modi in cui l’artista può guardare alla storia.
1. Come presenza, persistenza e continuità del passato, al cui capo estremo ci si trova. Di lì un’arte di citazione e di rappresentanza.
2. Come contesto, ambiente temporalmente definito nel quale si vive e si opera. Di lì l’arte politica, o impegnata che sia.
3. Come eredità riconosciuta, oggetto di riflessione e di ri-presentazione. Questo dà l’arte di storia.
Tutti questi modi necessariamente si intersecano e nell’operare si fondono, ma io ne isolerei piuttosto uno, che trovo più interessante e fecondo: l’ultimo, quello che appare come la forma attuale della “pittura di storia” e quello che più degli altri avvicina la pratica artistica a una funzione di interpretazione del mondo, a un “dire il non detto”.
Come punto di partenza, una visione ermeneutica dell’arte ha tutti i suoi limiti, certo, che si situano nella possibilità stessa dell’interpretazione di ciò che abbiamo intorno e dentro di noi. Ma, se ci si è autodefiniti “artisti”, se si è scelta l’arte come forma di vita, è perché ci si è trovati, all’origine, precisamente di fronte alla questione del significato, cui non si è saputo dare altra risposta che questa: né semplicemente registrare, né semplicemente esprimere, ma trasformare quello che è dato. In altre parole, attraversare e lasciarsi alle spalle l’interpretazione, e fare dell’opera d’arte un’opera di traduzione, di “appropriazione metamorfosante”, secondo la definizione che ne dà Georges Steiner.
Una pratica metamorfica del lavoro artistico ha, almeno, l’interesse di non lasciare questo alla pura affermazione di sé; dà forma comunque al tentativo, cui l’etica ci condanna, di ritessere, di ricucire, di rincollare i pezzi, senza posa e senza fine, in trame e in orditi diversi da quelli che, senza avervi ambito, abbiamo ereditato e di cui portiamo testimonianza. E questo senza la pretesa di poter ri-creare qualcosa, ma solo con quella di dire ciò che resta, che equivale a dire ciò che è perduto.
Un tale lavoro di appropriazione e di traduzione può, e anche deve, rimanere oscuro e anche inconsapevole nel suo farsi, essendo necessaria, al trascendere dell’oggetto scelto, una certa perdita di memoria da parte di colui che quell’oggetto ha scelto.

Un’arte che si interessa all’eredità storica non è, necessariamente, un’arte della memoria né, tanto meno, un’arte politica. Se ha qualità di arte, è politica. Quanto è facile celare l’insufficienza estetica dietro l’appello alla memoria come valore in sé positivo e comunque consolatorio, dietro la petizione di principio e la buona volontà riparatrice; mentre rimane  intera, e decisiva, la questione della qualità del lavoro artistico, che sola giustifica la ripresa e la trasformazione delle immagini-storia, e restituisce all’artista una posizione di artefice. Altrimenti, il kitsch, che non trasforma ma solamente sposta, è dietro l’angolo.

Se è arte, non è storiografia. Non è lì per dire: “guardate, vi dico come è andata”. Non è neanche lì per dire che “avrebbe potuto andare in un altro modo” o per dare insegnamenti su come potrebbe andare. Per fortuna, anche fra gli storici si pensa ora diversamente. Che, allora, l’arte abbia una funzione di trasmissione di una verità più vera di quella che riuscirebbero ad avere le altre discipline? Non è neanche questo. Forse, però,  più di altri un’arte della storia può dire il possibile, e questo proprio grazie alla sua vocazione “parassitaria”, di cui vogliamo rendere conto in questo piccolo volume.
Parassitaria, un’arte della storia lo è: essa dipende direttamente dal suo documento. La fonte storica viene vista generalmente in due modi: o come mera e veritiera testimonianza, o come un testo “suggestivo”, “evocativo”. Si cerca qui un altro modo di trattarlo, che metta al centro la sua eventuale trasformazione: essa può avvenire solo attraverso un processo allo stesso tempo interpretativo e metamorfico.

La storia venga dunque sottoposta all’arte, a condizione che si traccino – ed è per questo che il nostro discorso ruota intorno alla posizione del documento – le frontiere  rispettive: da un lato le scorie, le spoglie, i reperti; dall’altro l’attenzione, la scelta, la metamorfosi.
Ed è primaria la questione dell’inclusione e dell’esclusione, la questione della scelta, quando si tratta, come qui si tratta, della ripresa di un materiale dato. Si torna, infatti, al primo interrogativo di questa raccolta: cosa è che viene designato come documento, perché viene scelto e attraverso quali percorsi diviene materia di una possibile opera?  Nella scelta, nella ripresa, c’è evidentemente la riduzione del possibile a un disegno formato da tutte le condizioni di una soggettività e di un’epoca data. Ma, in taluni casi, scelta e ripresa spaziano proprio nel campo delle infinite possibilità.
Inverno 1998-1999

Tradurre o imitare (1990)

  1. Traduzioni

Nel 1835, all’età di cinquantadue anni, il console francese a Civitavecchia decise di dedicarsi alla ricostruzione scritta della  sua vita, per combattere, come dichiarava, l’ozio e la noia in cui era immerso e per “darsi il piacere di guardare indietro un istante”. Questo scavo nella memoria, così minuzioso che nei tre grossi volumi che riuscì a  riempire lo Stendhal non arrivò a rievocare che i suoi primi diciassette anni, doveva procurargli un immenso piacere. Questo salta agli occhi quando vedono gli schizzi e le piantine con cui fin dalle prime pagine lo scrittore interrompeva e infarciva il suo manoscritto, rivisitazioni gioiose dei suoi luoghi d’infanzia.
Il libro, che rimase incompiuto, era destinato a essere pubblicato. Non sappiamo se i disegni sarebbero stati compresi nel testo oppure no. Un precedente c’era, ben conosciuto e amato da Stendhal, il Tristram  Shandy del pastore Laurence Sterne, pubblicato settantacinque anni prima. Come si sa la fittizia autobiografia di Shandy scava talmente all’indietro che dell’eroe non si vedrà mai la nascita. Simboli, disegni, schemi grafici sono spar si qui e là a intercalare la narrazione scritta, a testimoniare l’audacia inventiva di Sterne, l’intrusione e l’integrazione nel testo di codici impropri.
A un amatore di pittura potrebbe presentarsi, difronte a questi due libri, una sfida: utilizzare il procedimento anamnesico di Stendhal e Sterne ma invertirne i termini. Usare il mezzo pittorico, la presentazione visiva, agitandolo e stravolgendolo con l’incursione della scrittura. E’ una sfida che si pone immediatamente come un problema di traduzione, e di traduzione intesa come rifiuto di un approccio specialistico.
Praticare una contaminazione delle forme, porsi come traduttore (il traduttore è colui che sposta, è quindi per definizione estraneo all’originalità), significa fare proprio un atteggiamento da amatore. Da un lato è andare contro il primato della tecnica e dell’abilità e contro un certo appiattimento dell’individuo che la specializzazione comporta; dall’altro è scegliere, con la leggerezza, la possibilità continua di scelta che l’amatorialismo (dico amatorialismo e non dilettantismo) permette. C’è poi la considerazione determinante: che resta poco da dire oggi, in arte, è vero, e che, per quanto ognuno possa parlare all’infinito, e rappresentare sè stesso all’infinito, non ha, come dice Fitzgerald, che una o due idee originali e proprie da dire, una o due fissazioni, e passa la vita a dirle meglio che può e in tutti modi che può, ma rimane che sono sempre quelle,una o due. Percio’ non è necessario produrre e produrre, non è necessario. E’ meglio dare piuttosto il tempo all’attesa, caricare l’attesa, di esperienza e di sguardo, per tradurla, se capita, nell’opera.
C’è da aggiungere che essere amatori non è privo di rischio, perché il rischio non è nell’impegno prometeico e totalizzante, ma proprio nel vuoto e nell’attesa. Vuoto e attesa che non significano forzatamente concentrazione o contemplazione. Potrebbero incarnarsi, meglio, in una sorta di attenzione distratta, in un guardare di sbieco.
Non è l’intenzione che è interessante e ancor meno l’esecuzione che a quella segue, l’interessante è la sorpresa; non è l’artista che sorprende l’opera ma, al contrario, è l’opera che sorprende e cambia l’artista nei suoi momenti di negligenza, nella sua parte di cecità che quando c’è arriva come un dono.
Guardare di sbieco, parlare di sbieco. Non nominare, non prendere possesso, ma chiamare la cosa e lasciarla a sé.
C’è da confessare qui tra due capitoli una simulazione: che non si sia vista nessuna pittura di questo secolo, che si sia vergini davanti ai libri e che quindi la traduzione sia a senso unico, dagli scrittori cioè ai pittori.

2. Aurora

I quadri devono essere silenziosi. Ma i silenzi non sono tutti uguali. Il difficile è trovare una buona qualità, un buon tono del silenzio. Il tono del silenzio è importante: è la restituzione di possibilità.
Il silenzio più profondo non è quello del vuoto ma quello del pieno; non è nell’assenza ma nella presenza. Il tempo passato contiene in sé il silenzio più profondo.
Come affondare nel tempo dentro a un quadro: tramite il movimento, che lega spazio e tempo; cercando il movimento, è l’unica cosa che valga la pena ricercare. La difficoltà è trovarlo con i colori, che sono i mezzi dell’amatore in pittura. Il verde e il rosso ad esempio, che malagevolmente vanno bene insieme, la lentezza di un verde e la velocità di un rosso.
Occorrerà affidarsi alla smemoratezza. Il quadro sarà il mare della dimenticanza, da cui riemergeranno i frammenti anamnesici. Visto che l’artista, l’amatore, è un traduttore, o un macinino, o un alambicco, o un crogiolo, i frammenti verranno a galla in modo arbitrario, a caso. Si può solo sperare che una qualche “mano di ferro della necessità scuota il bossolo del caso” (Deleuze).
L’artista sarebbe un nomade, che prende qui e là, confidando di essere strumento di qualcosa. Sarebbe un assemblatore, ma incompleto, perché lavora nel silenzio e il silenzio, visto che siamo in un mondo di umani, non presenta sé stesso ma il non detto, l’omissione sarà sempre lì quindi, e la frustrazione. Certo la felicità non è quella dell’oblio ma quella di poter ricordare tutto, di possedere dunque, siano solo i propri ricordi, ma è raro che  i ricordi dicano: “abbiamo bisogno di te”.
Si tende sempre a una qualche origine, in questo cammino a ritroso, forse quella di quando “sulla terra crescevano in gran numero delle teste senza collo, erravano delle braccia isolate e prive di spalle e vagavano degli occhi cos’ com’erano, che nessuna fronte li arricchiva” (Empedocle).
Tra i diritti che si arroga il nostro artista c’è quello di far convivere a forza sopravvivenze o scarti di campi semantici e di epoche diverse. Come se fosse un povero si interessa ai dettagli e ai rifiuti dello scambio sociale.

3. Muri

Vorrei indicare un percorso tra il mare della smemoratezza e il muro del tempo storico. Più che la scena della memoria, dicevamo, o l’alba del big bang), ciò che interessa è qualcosa che giri intorno all’origine, da qualche parte che non sia più preistoria e non ancora storia, non ancora burocrazia. Sarebbe una breccia in un punto indeterminato del tempo circolare, sul cerchio del tempo (si suppone che il tempo dell’artista sia antimoderno). Si suppone che l’artista mescoli passato e futuro, è lui che opera sotto questo emblema: Strach e touha, paura e desiderio-nostalgia.
La paura, che è il sentimento che domina i momenti più rischiosi e decisivi dell’operare e dello stare, quei momenti in cui dalla distrazione e dalla sventatezza prende corpo la chiara presenza, e in cui una sospensione dell’essere apre il varco all’incontro della coscienza e del rapimento.
Il desiderio-nostalgia, tensione dolente verso qualcosa che non si ha o non si ha più, che in tante lingue si esprime con una stessa parola, come touha in céco; si vagheggia il passato con la stessa  parola con cui si vagheggia il futuro. Tutto è buono tranne il presente. Del resto il sentimento vero e irrimediabile di qualcosa o di qualcuno è quello che si origina con la perdita, quando non c’è più, quando non è più presente. E anche, forse, quando non c’è ancora, e il tesoro è tutto nell’immagine: fare un figlio, cambiare continente, compiendo un gesto non diverso da quello “che sempre ci tenta: prendere un animale in casa, cane, gatto, uccello, tartaruga o criceto, attratti da un impulso profondo, subito da esso distratti” (Ramondino).

4. Corpi

I muri si incidono, i corpi anche.
Coi quadri si lotta corpo a corpo, si danno e si ricevono colpi dolorosi. Come dice Nietzsche, quasi tutti possono sopportare il dolore, dato che si ha poca scelta; arduo è trovare la forza di arrecarli i dolori. Ma si tratta di una restituzione, ché si dipinge o si scrive per pagare i propri debiti e siccome gli artisti sono rancorosi i loro sono risarcimenti avvelenati. Mordono l’opera con dente avvelenato.
Non c’è corpo senz’anima, non c’è niente da fare. L’anima è il segno, probabilmente, e nello stesso tempo porta il peso. Il corpo è il corpo e nel segno si disintegra. Questo è ciò che appare nella tortura etrusca descritta da Aristotele (via Cicerone): “Noi subiamo un supplizio simile a quello patito da coloro che in altri tempi, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, venivano uccisi con una crudeltà ricercata: i corpi vivi di costoro erano legati assieme a dei  morti con la massima precisione, dopo che la parte anteriore di ogni vivo era stata adattata alla parte anteriore di un morto. E come quei vivi erano congiunti con i morti, così le nostre anime sono strettamente legate ai corpi”.
5. Cifre

Poco rimane da dire ma rimane il primato della lingua. I segni, le cifre, ne sono il richiamo, i testimoni. Non si distinguono dal quadro, vi affondano.La pittura sarebbe solo una messa in pagina.
Ma la scrittura in questione, quella di un quadro siffatto, che sia greve di cifre galleggianti sul mare della smemoratezza o incise qui e là sui muri labirintici, dovrebbe imitare quella di un’orchestra. Sarebbe però un’orchestra che non esprime ancora niente di armonico, o solo a  tratti, a caso; sarebbe fermata in quel momento, “falsamente banale, spesso turbante che precede il concerto, e in cui si accorda, cioè si assembla.” (Burger)
Le cifre sono testimoni e non simboli; sono come elementi naturali, bastoncini o pietre, quasi ma non ancora lettere di alfabeto, perché non significano niente; sono dunque bozzoli del linguaggio, che stazionano nell’anticamera della grammatica e della sintassi, e non superano la porta dell’arti colazione. Corteggiano l’utopia della lingua inarticolata e del soffio nel deserto, dicono che “se il mondo ha un futuro, è un futuro ascetico” (Chatwin). In fondo sta l’immagine dell’immobilità geologica, dell’identità con la natura allo stato minerale, sgombro il campo dei residui del desiderio.

Inverno 1990