Introduzione ai Prontuari di SP

Trattasi di brevi scritti redatti a tempo perso negli anni ’90. Nel tirarli fuori dal cassetto, mi rendo conto che meritano una buona strigliata, ma anche che mi fanno scappare qualche risata. Pian piano mi occupero’ della strigliata. Per ora riconosco il primo, Litania dell’ignavo (1991), e il secondo, Manuale dell’accidioso (1992). Il terzo è La signorina Doremifasol (1993). A seguire Prontuario del protervo (1994) e indi un incompiuto Lamento dell’avaro (1993-1994).
L’idea soggiacente a questo programma era quella di illustrare in modo più che laico i sette peccati capitali. Quindi mi mancherebbe da concepire la Lussuria e l’Ira (associo la Protervia alla Superbia, l’Ignavia all’Invidia, mentre la Signorina Doremifasol descrive la Gola.
Infine, una captatio benevolentiae: almeno due di questi testi narrativi sono stati scritti al momento dell’ascesa di Silvio Berlusconi e del suo primo governo, avvenimenti che furono per me traumatici prima di tutto sul piano linguistico.

 

Litania dell’ignavo (1991) prima parte

Ma cos’è questo, cos’è ciò io non lo so io. Sono sempre stupito davanti alla vita io, sono come un eterno bambino, sono io, sono sempre in stupore davanti al mondo, ma questo non mi piace vederlo no, non mi piace no, non mi stupisce ma mi affligge solamente ciò, mi affliggono davvero queste manifestazioni di intolleranza, questi casi patologici di violenza reciproca, questi gesti inconsulti, ecco per esempio chissà cos’ha quello da prendere quell’altro e da sbattergli la testa contro la persiana, chissà cos’ha, chissà, la quale persiana risuona seccamente all’urto, risuona nella via assolata, isolata, che sale a perdita di vista, ma cosa vuoi che ne sappia io, di ciò che quei due si tengono in sospeso, cosa vuoi che ne sappia, io, dei loro affari, e se mi allontano per la mia via, se per i fatti miei me ne vado, non è certo per ignavia ma solo per discrezione, se lo capite questo non so, fatto è che.
Fatto è che.  Che, ma sì, sulla via del ritorno verso casa, sul ritorno dalla mia passeggiatina, mi trovo ad assistere a un’altra scena edificante ed esemplare, perché questa è la situazione, oggi come oggi, e già perché qui se ne vedono di tutti i colori se ne vedono, e dato che la mia che concepisco in questo istante si vuole una cronaca fedele, bisogna che ne faccia menzione bisogna proprio così eh, già, e la scena cui mi trovo ad assistere e che mi darà modo di svelarvi una cosa interessante, di cui non poco vado fiero, di cui vado fiero non poco, di cui vado non poco fiero, e la scena è la seguente ed è che sulla via del ritorno mi trovo dal panettiere e chiedo un pane, il quale pane non è pronto, perché sta ancora nel forno, nel forno sta ancora e c’è da aspettare cinque, ma che dico, tutt’al più sei minuti sei, e dico allora al panettiere che aspetterò, aspetterò lì fuori e così è,  anche lui esce sul marciapiede che, lo si vede, non ha di meglio da fare, il panettiere, e il negozio vuoto è. Si sta lì fuori, lui sta appoggiato al palo del semaforo, io sto vicino alla vetrina, e cosa dirgli non so, non lo so. Trova lui da dire qualcosa, quando scendono la via tre donne, tre donne che manco a dirlo non sono della sua razza, tre donne come tante, che scendono la via ridendo e scherzando ed è una bella immagine questa di tolleranza libertà e convivenza di genti disparate su uno stesso marciapiede e, cosa vuoi, le guardo costoro e le seguo con lo sguardo e anche il panettiere le osserva o meglio le scruta e quando quelle passano dice loro parole lubriche che certo quelle non intendono e cui non reagiscono, lui invece è contento di sé e mi sbircia, cerca la mia approvazione o cerca di vedere se sono per caso delle parti sue, e d’altronde questo potrebbe essere perché io assomiglio a chiunque e a chicchessia, fatto è che costui, il panettiere, dice a quelle donne slurp e gnamm e io lo capisco, quello che dice, lo capisco perché io conosco e capisco tutte le lingue o quasi e questo non è un mistero né un segreto, con un metodo speciale sono pervenuto a questo risultato, apprendendo cioè centoventi parole ogni giorno ho imparato tutte le lingue, e ciò grazie a questa brillante ed efficace tecnica mnemotecnica accompagnata, ciò va detto, a un costante esercizio della volontà, giorno dopo giorno, – e in quarant’anni di giorni ce ne sono eh, se ce ne sono – tutte le lingue ho imparato. Cento e venti parole al giorno, giorno dopo giorno, tale è il mio metodo ed è così che conosco tutte le lingue, tutte le lingue, almeno, che val la pena di imparare, questo va detto, questo, e perciò va detto e infatti qui lo dico.
E così ho preso il mio pane e me ne sono andato, non ho detto niente al panettiere, a cosa vuoi che serva, e poi davanti a tali manifestazioni di intolleranza mi cadono le braccia mi, e rimango così di stucco, anzi torno a casa, perché l’impiego no, ma la casa sì, quella l’ho, la casa che mi ha lasciato la mia mamma, la casa dove vivo io e i gatti, che di seguito vi vado a presentare.

I gatti mi aspettano sempre dietro la porta, stazionano tutti dietro la porta, lo sanno che arrivo, lo sentono, e stanno tutti lì, ad aspettare me e la pappa, tutti tranne i quattro nuovi che ancora non escono dalla scatola di cartone. cosa dire di questi animali, di questi amici dell’uomo, non è che non li ami certo, che ciò non sia detto, ma a volte vorrei non dover camminare su questo pavimento animato e impellicciato, vorrei non dover essere il cuoco e il cameriere di quest’orda, ma l’ho giurato alla mamma sul letto di morte, l’ho giurato che non li avrei abbandonati, non li avrei, l’ho giurato sul suo letto di morte, eravamo io e i gatti intorno a lei e se pure non li ami più di tanto questi venti o trenta animali, cosa vuoi, eravamo lì insieme intorno alla mamma e una qualche cosa l’abbiamo condivisa, una qualche, intorno al letto, intorno al letto di morte della mamma, quando parlava ancora e mi faceva tante raccomandazioni e anche dopo, quando non ha più parlato ed è durata quattordici giorni prima di andarsene davvero, chi l’avrebbe mai creduto ma così è stato ed è andata così e così sia.
E così rientro in casa e mi porto in cucina, mi porto in cucina e apro le scatole con l’apriscatole elettrico che la mamma aveva comprato quando poteva ancora uscire, e impiegava una mezz’ora almeno a raggiungere il negozio di elettrodomestici che sta sul viale, e il viale sta a non più di sessanta metri dal portone di casa, ma piegata com’era a novanta gradi, e con un passo che non poteva essere più lungo della lunghezza di un piede, questo era il tempo che le occorreva, e poi lei si fermava a studiare i cestini della spazzatura o a discutere col macellaio equino e così è che quando usciva per una compera tornava dopo mezza giornata, ma ciò nonostante non voleva farsi accompagnare no non voleva, voleva andarsene da sola a comprare i suoi giocattoli elettrici, era proprio quella la sua passione, sì, quella era la sua passione. Cosa c’è in questa casa di materiale elettrico non so se riuscirò a elencarlo, vedremo.
Me ne torno dunque a casa, mi porto in cucina, come ho già detto, apro le scatole con l’apriscatole elettrico, le vuoto nei piatti che coprono quasi tutta la superficie del pavimento, che più non si può camminare in cucina più non si può, più, e così ottengo un’ora di pace. Vengo nel salone, scosto di un filo la tenda rossa, di colore rosso vino, colore saturnino mi hanno detto ma è quello che mi piace cosa vuoi, scosto di un filo la tenda rossa per avere un filo di luce sullo scrittoio, lo scrittoio della mamma, dove la mamma faceva le sue parole incrociate e dove io ho impilato i miei vocabolari, e dove il dizionario magiaro è aperto alla pagina 721 e così è che mi ci chino sopra con impegno e diligenza, in questo periodo lavoro bene, con buona applicazione, e in due mesi o giù di lì ho raggiunto la lettera g.
Siamo ancora nella maledetta estate, anzi siamo proprio in mezzo all’estate e debbo accendere il ventilatore, non posso certo aprire le finestre con tutto quello che ne viene come suoni come odori e come immagini, con tutto quello che, e debbo mettere in funzione il ventilatore che sta sulla consolle, anche se so che l’aria fredda mi darà il torcicollo, mi darà, ma che vuoi, così è, cosa vuoi farci.
Me ne sto seduto allo scrittoio, me ne sto applicato al mio vocabolario, me ne sto dietro la tenda rossa, di colore rosso vino, che fa nella stanza una luce rossastra, ma che ora sta un pò scostata, per farmi quel raggio che mi occorre sullo scrittoio, me ne sto in applicazione e non voglio saperne niente, soprattutto non voglio vedere fuori, non mi importa quello che succede nella strada, non mi importa e lo sottolineo, tuttavia ho di tanto in tanto, di rado però, qualche momento di debolezza o di stanchezza o un vuoto momentaneo nella testa e allora mi alzo e faccio il giro dello scrittoio, attento a non urtare con la spalla le pile di vocabolari e manuali vari, i miei utensili linguistici, e un minutino fuori ci guardo, ma un minutino appena. Quasi sempre c’è l’uomo col braccio al collo, alto com’è e coi suoi tatuaggi sul collo e sulle spalle, non si può non vederlo, quello. Se almeno un giorno gli togliessero il gesso potrei confonderlo con altri come lui, della sua razza e categoria, ma deve trovarsi in cassa malattia, per via del braccio senza dubbio, senza ombra di dubbio, e non ha di meglio da fare che oziare fuori del cancello del palazzo di fronte, fuori di questa immensa casa popolare che mi hanno costruito davanti alle finestre, questo immenso edificio dove tutte le razze e tutti i colori convivono e alla mattina, quando tutti escono per andare chi alla scuola e chi al lavoro, dio che cafarnao, dio che torre di babele sfila sotto i miei poveri occhi, fatto è che, non ha di meglio da fare l’uomo col braccio al collo che oziare fuori del cancello e davanti alle mie finestre, davanti alla mia vista. Me ne torno allo scrittoio, me ne torno alla lettera g.
Me ne sto sulla lettera g e in particolare sulla parola gerendapárkány, che significa architrave, quando suona il telefono, squilla la soneria dell’apparecchio telefonico e chi è, è una donna a nome Antonia detta Antonina per via di, non so perché, ma un giorno o l’altro glielo chiedo e questo è. Telefona Antonina e dice quant’è che non ci si vede vediamoci stasera vediamoci vieni da me stasera che ti faccio da mangiare che ti faccio la pappa buona che piace tanto a te. Cosa vuoi dire quando ti dicono così, bene, dico, vengo e verrò da te stasera, e a sera verrò e riattacco il telefono e già mi preparo, vado in bagno e mi faccio la barba con uno dei rasoi elettrici che la mamma m’aveva comprato, mi faccio ben bene la barba e mi sciacquo sotto le ascelle, mi faccio presentabile insomma, e poi non so, mi lavo il pisellino o non me lo lavo, ma sì laviamolo poiché non si sa mai, non che io abbia celate intenzioni per carità di dio no, non lo sanno queste donne che sono io il parsifal moderno, dov’è che l’ho letta questa, ma è per un fatto di correttezza in senso generale, di inappuntabilità direi addirittura simbolica, è per questo è, solo per questo e per ciò, sì.
Sono pronto o quasi, scelgo una bella cravatta a righe rosse e nere e me la metto, passando il collo sotto l’annodatrice elettrica, uno degli ultimi regali della mamma. Passo le scarpe sotto la lucidascarpe elettrica e sono pronto, me ne esco. Me ne esco nella via e proprio sotto il portone c’è da scansare questi cinque, a quattro contro uno ci si sono messi così non vale, e l’hanno messo quello con la schiena al muro, colla schiena al muro l’hanno messo c’è poco da discutere e a calci e a pugni lo scendono a terra, certo quello sì che è un buon incassatore, scende giù davvero pian pianino.
Ma già sto in fondo alla via, già corro dietro al 67 e con una bella progressione lo raggiungo alla fermata. Antonina non ha ancora finito di cucinare quando arrivo, c’è da aspettare ma non me ne irrito no, non me ne dispiaccio né me ne dolgo, mi limito ad alzare la fiamma sotto i tegami quando lei per un motivo o per l’altro va di là, d’altronde quando lei torna la riabbassa e peraltro quando lei si allontana la rialzo, la fiamma, e così via facendo finché il cibo non è pronto. E poi, per farla corta, si passa di là e si consuma il pasto, e il pasto è consumato e poi non mi muovo dal mio posto, cosa aspetto non so, mi pare che lei sia stanca, vista la sua improvvisa laconicità e la disattenzione al mio dire, è vero certo che parlo un pò a forza, che spingo avanti le parole e quelle non mi vogliono lasciare, se ne vanno a malincuore ma Antonina le raccoglie con ancora meno cuore. E’ confusa la mia testa, cosa vuoi, notte e giorno a faticar e il vino Antonina è finanche finito, tieni qui quello che resta, bevi tu il fondo del mio bicchier. Lei s’avvicina e beve in piedi a me difronte, tiene il bicchiere a due mani come fosse una coppa di fiele o, se per caso esagero, come una tazza di tisana, come volete voi. Rimango seduto e, per non guardarla negli occhi, che in questo quadro si trovano proprio all’altezza dei miei, fisso con ostinazione, con tenacia, un punto fisso sul tavolo, gli è che percepisco qualcosa, cosa c’è, c’è che lei posa il bicchiere e m’abbraccia ma che fa, per la precisione mi mette le braccia intorno alle spalle e mi preme il viso sulla fronte, rimane così in piedi, va bene non è che sia contrario a tutto ciò, ma vogliamo essere precisi e chiari oppure no? E le faccio un bel discorso le faccio, le dico che no, qui non rimango perché il giorno dopo poi, il quadro non è tondo, e il giorno dopo si sa come è, sai com’è ma devo essere sincero devo essere corretto non gli è che possa promettere niente non sia mai non sia e non posso approfittare così no non posso no, non siamo mica qui, mi pare, nel quadro di un giorno dopo migliore. E glielo dico e glielo ripeto che sto per andare via, ma cosa vuoi è come una febbre come una malattia e lei è lì che non muove bocca e invece muove mano, e si sa che dove stanno le parole lì non c’è posto per le mani, e viceversa, dove stanno le mani non c’è posto per le parole e cosi è, però glielo dico che va bene accada pure ciò ma che sia per una sola volta, una volta sola e mai più, ma è certo ormai che qui e ora e in flagrante delicto ormai ci si trova a essere e cosa vuoi quando ti si conduce su un divano e ti si estrae dal pantalone quello che ti si estrae (e fortuna che, quanto a igiene e pulizia, ero stato previdente), quando ti si estrae quello che ti si estrae e gli si fa quello che gli si fa, cosa vuoi, la carne è carne e anche la carne ha la sua anima e che dire, rimango, mi trattengo, ma non più di quanto sia necessario all’atto, e quando lei si distende, si rilassa, dico che vado, cosa vuole, non vorrà certo che stia lì tutta la notte, e il mattino poi, come vuoi che sia presente al mattino, con le necessarie operazioni che ne conseguono, come vuoi che ti veda nella luce del mattino, cerca di capire, e poi ho da pensare ai gatti, cosa vuoi, ho le mie responsabilità io, e sono anche loro esseri umani, pardon, viventi, cerca di capire, cerca, e così dicendo non dico più altro perché se si fa posto alle mani, non ce n’è più per le parole, e poi mi rivesto e la saluto dalla porta, cosa ci posso far è come una febbre come una malattia, mi è sempre piaciuto chiudermi le porte alle spalle ed essere l’ultimo, e lei resta sul letto e mi guarda uscire, mi guarda con occhi proprio fissi e io esco poi ritorno perché ho scordato la cravatta, poi riesco e torno a casa a piedi dacché è tardi gli autobus non passano più, in un’ora torno a casa è un tragitto senza storia, sotto il portone di casa sta disteso quello di prima, il buon incassatore di cui prima, se ne sta lì da solo e disteso, non è in grado di ricevere un invito a bere qualcosa, me ne risalgo in casa, c’è da dar da mangiare ai gatti e da provvedere a ciò. Dopo posso accendere le candele sullo scrittoio e rimettermi al lavoro, che già mi avvicino alla lettera h, il cui studio sarà di maggior durata, perché conta tale lettera maggior numero di vocaboli che non la lettera g su cui sto attualmente chino e così il tempo passa, passa bene, Felicita mi viene sulle ginocchia, vi si addormenta e mi impedisce così di alzarmi, perché non posso certo disturbarla, ed è bene è bene così.
Ma non rimango al vocabolario che un quarto d’ora perché il telefono suona, squilla il telefono e mi alzo per rispondere e come mi aspettavo c’è un silenzio, sempre così fa lei, mi lascia questi cinque secondi di attesa prima di dire “sono io”, mi dà questi secondi, utili per riprendersi e prepararsi e dirla una bella frase pronta, una bella frase pronta per Wilhelmine che telefona e domanda dove sono stato finora, ché è tutta la notte che chiama, tutta la notte no, dico io, ché non è ancora finita, la notte, come dimostra il colore del cielo e il silenzio nella via, tutta la notte no, ché non è ancora passata, e quella che è passata l’ho passata a camminare, lo sai bene che la marcia e il tabacco sono le mie uniche consolazioni, sono.
No, fa lei, eri con una donna, lo so, perché non dirlo, perché non dirlo orsù, gli è giusto per sapere  ché, per me, puoi andare a letto coi tuoi gatti, gli è giusto per sapere. No ti dico le dico io, ero fuori a camminare cos’altro vuoi che faccia e poi una volta te l’ho detto e pensavo fosse abbastanza, te l’ho detto una volta per tutte che io non mento mai, mai non mento ad amici ed amanti. Se è così, dice lei, allora sia, ma non so, dice, se prendere un tassì e venire a chiaccherare lì da te, forse lo faccio, forse vengo e per ora ti saluto.
Verrà non verrà chissà. Vediamo, calcoliamo, diamole il tempo di prepararsi chiamare il tassì arrivare fin qui, le occorrerà un’ora un’ora e un quarto tutt’al più, ho il  tempo ancora di imparare una ventina di parole e sistemarmi un pò, magari faccio finanche una doccia perché non si sa mai, mai si sa come le cose vanno a finire. Passa un’ora e sono pulito lavato e vestito, mi seggo allo scrittoio e sfoglio un dizionario, mi ripasso un poco di polacco, che ultimamente ho forse tralasciato, sì a ripensarci debbo dire che ultimamente il polacco l’ho un poco trascurato. La via è silenziosa, e del resto è l’ora che è. Un’automobile si ferma e parcheggia ma non è un tassì, i tassì si riconoscono all’udito, per via del motore diesel che va a gasolio e perciò, fa quel tipico rumore caratteristico, quel tipico borbottìo dei motori diesel che vanno a gasolio. E a un certo punto lo intendo, che indugia all’altezza del portone, no, scosto la tenda, la tenda rossa di cui sopra, no, la scosto e guardo giù, no, guardo giù e giù non c’è lei, non c’è lei ma c’è solo qualcuno che viene spinto fuori dalla portiera, viene spinto fuori e quando il tassì se ne riparte quello se ne rimane così, come quello di prima, il buon incassatore, così anche lui allungato e senza moto, accosto al marciapiede.

Ma c’è ancora tempo, perché cosa vuoi lei è fatta così, ché ama farsi attendere, ah ma quando verrà la stupirò. Mi porto nel bagno e mi colloco davanti allo specchio, mi sottolineo le palpebre con la matita nera e, perché no, mi metto un filo di rossetto sulle labbra e mi riguardo nello specchio e non mi trovo poi così male no. Un’altra mezz’ora è passata, un rumore di motore diesel che va a gasolio viene dal fondo della via, scosto la tenda per vedere, è solo un camioncino che passa oltre e neanche l’uomo disteso c’è più non c’è proprio più nessuno no, non c’è nessuno. Torno nel bagno, ora le farò vedere, le farò, lei non sa chi sono io, no, è chiaro che non lo sa ma lo saprà. Mi metto davanti allo specchio, mi sfilo la camicia, prendo dalla mensola un rasoio e con quello mi colpisco il petto, il petto mi martirizzo ma no niente paura è un rasoio usa e getta questo, non fa tanto male e il manico si piega e si spezza, ecco è già fatto, ah, se avessi posseduto uno di quei rasoi come si usava un tempo, uno di quelli che si affilavano sulla striscia di cuoio ma no, invece no, dispongo solo dei rasoi elettrici che la mamma mi aveva regalato e di due o tre di questi usa e getta, molto usati e mai gettati, con cui uso depilare Felicita e Lotte ed Esterina e non è che faccino più granché, un bruciore, un pizzicore appena, tutto qui. Ma qualcosa pure ne viene, lo vedo quando rimetto la camicia e una macchia rossa appare e s’allarga all’altezza del cor, tutto sommato ne viene una bella macchia, la si nota a prima vista, questa gliela farò vedere gliela, e se non viene, gliela spedisco a casa, domani gliela spedisco, sì, domani, così vede che uomo è quello che perde, così lo vede tanto peggio per lei, domani gliela metto in un pacchetto e gliela spedisco a casa, perché ormai non viene, il tempo io glielo avevo dato e non l’ha voluto e peggio per lei sì peggio è per lei.
E già viene il giorno, e pian pianino il cielo si fa grigio, viene quel lucore, quel lucore mattutino, viene un altro giorno, e anche in questo giorno dovrò fare un fioretto, una buona azione, anche oggi dovrò, anche oggi mi aspetta un bel pezzo di lavoro.
Mi tolgo questo nero dagli occhi, bagno un pezzo di ovatta e me lo passo sulle palpebre, sfrega stropiccia e strofina rimane sempre come un alone scuro non fa niente uscirò con gli occhiali da sole e difatti infilo gli occhiali e me ne esco. L’ora è ancora mattutina, difatti il lattaio non è ancora  non è ancora passato e i negozi sono ancora chiusi ma, ma al mercato i banchi sono già allestiti, frutta e verdure sono già in bell’ordine esposti e alcuni cartelli coi prezzi sono già appesi, segno questo che si può comprare e si può vendere, e già nell’aria ancora frescolina indugiano davanti ai banchi i primi clienti, con le sporte e con i carrelli, e fra questi primi clienti una donna vestita di lamé che compra una mela golden una e neanche l’ha pagata e già l’addenta e cosa vuoi, già mi pongo all’inseguimento, questa donna si avvia e già io la seguo, la seguo lì dove va lei, e dove va lei, lei va alla stazione della metropolitana, accanto a lei attendo il primo treno. Il primo treno si fa attendere si fa, cos’altro fare se non guardare la bella nuca e anche i due che si parlano da una banchina all’altra, così, davanti a tutti si parlano dei fatti loro, certo non sanno che non tutti possono capirli ma io sì, io che conosco non tutte le lingue ma quasi tutte, e la loro fra quelle. C’è lì il lancio del pacchetto, uno dei due chiede una sigaretta all’altro dei due e costui gli lancia tutto un pacchetto, quello lo afferra con buona elevazione, sfila una sigaretta e rilancia il pacchetto ma questi non ha altrettanto stacco e la sofisticata confezione rotola sul rude asfalto e questa è una bella immagine del contatto fra le cose differenti e questo è bello a vedersi.
Il treno arriva e ci si entra, me ne sto a distanza dalla donna ma, certo, non la perdo di vista e quando la vedo scendere scendo anch’io, e ci si porta entrambi ad un’altra banchina, dove ci aspetta un altro treno che corre in un’altra direzione. Qui ho modo di assistere a un episodio veramente esemplare e davvero degno di menzione.
Sul marciapiede difronte accade un episodio, e cioè si pone in atto, anzi si mette in essere, il pestaggio di una persona da parte di altre tre, trattasi di due tipi vestiti tutti di cuoio che tengono fermo un vecchietto, senza sforzo alcuno e si direbbe financo con una certa dolcezza e capacità di persuasione, e lo tengono seduto su di un banco, mentre un terzo tipo lo prende a calci, il vecchietto, nella pancia, senza passione né accanimento e, come dire, si direbbe addirittura che ci pensi su, fra un colpo e l’altro, che ci rifletta con coscienza e amor di precisione, perché si guarda intorno e guarda al cielo, cerca l’approvazione degli astanti o quella di dio non si sa, ma ecco che già si decide, prende un plastico slancio e colpisce di nuovo il vecchio, che all’urto si solleva e sobbalza, non è che lo tenessero poi così per bene i due telamoni, ma cosa accade qui così ex abrupto inopinatamente, accade qui che qualcuno dal mio marciapiede si mette a urlare, è una donna ed è proprio la mia donna, questa donna dai capelli ossigenati e dall’abito di lamé, questa donna che non è ancora andata a dormire, che torna a casa stanca dopo una notte di lavoro e cosa fa, interviene inopinatamente e urla basta così smettetela basta così e si direbbe che quello vestito di cuoio non attendesse altro che questo, si volta tutto contento verso di noi che siamo sull’altro lato dei binari e chi è dice chi è, e la donna gli ripete basta così adesso smettetela e quello gesticola e sbraita e fa il gesto aspetta che ora ti faccio vedere io ti faccio e fa il gesto di scendere calarsi dal marciapiede e attraversare i binari poi ci ripensa e va alle scale per venire qui ed eccolo appare sulle scale di questa banchina e si avvicina ma cosa accade, cose mai viste, accade che tutta la gente che stava qui ad attendere e a guardare, tutta questa massa di alienati depravati e indifferenti si muove e si stringe, senza che parola sia profferita, e l’uomo si trova dinanzi a questo muro di persone che lo separa dalla bionda platinata e cosa vuoi che faccia, se ne torna indietro, e poi il treno arriva e ci si sale dentro, ed è il momento buono per parlare a questa donna, mi avvicino dunque e le faccio presente quanto sia ammirativo e come avrei voluto imitarla ma sa com’è signora mia siamo diventati tutti così vigliacchi, così ignavi, dico io, così apatici e accidiosi, così abulici e astenici, astinenti anzi vorrei dire ma non lo dico perché lei mi interrompe e mi dice che quando è troppo è troppo e il troppo stroppia e certo dico io, facendo mia quest’espressione desueta e forse provinciale, è proprio così, è proprio il caso di dirlo che era troppo e che quello lo stroppiava ah ah, e ci facciamo una risata sopra, come si dice e si dice così.
Dopodiché viene tutto naturale, la invito al bar, ma non dopo essermi presentato e difatti lei permette che mi presenti e mi presento e l’invito al bar, ma non subito, stasera invece, che ora subito mi trovo a essere impegnato, e su ciò e su un preciso appuntamento si scende dal vagone e ci si accomiata e io cambio marciapiede e prendo il treno nell’altro senso, me ne torno a casa ché oggi un bel pezzo di lavoro già l’ho fatto.
Me ne torno a casa, ma prima di tornare compro le scatole per i gatti, altrimenti chi li sente, quelli, cosa volete, questa è la mia schiavitù. Dal salumiere in fondo alla via compro le scatolette, facendo attenzione a evitare quelle di coniglio, che ai miei gatti non piacciono, cosa vuoi che ci faccia.
Torno in casa, nutro gli animali, ah cosa farebbero senza di me, nutro dunque gli animali e me ne vengo allo scrittoio, allo scrittoio me ne vengo e alle ultime colonne della lettera g del, se si ricorda bene, dizionario magiaro. Accosto ben benino le tende, accendo il ventilatore e perché no, mi preparo il caffè con la caffettiera, manco a dirlo, elettrica della mamma. Verso il caffè in una tazza africana che poso su un piattino cinese che porto sullo scrittoio art déco e non posso non rimarcare questo incontro di culture composite e diverse, di cui detto fra di noi non sono responsabile, poiché è la mamma, non io, che ha portato in casa tutto ciò che vi si trova e che io, rispettoso come sono, non rimuovo e, se vi dico che la mamma era una grande accumulatrice potete credermi non lo dico tanto per dire, armadi a muro e ripostigli rigurgitano di pezze scampoli e ritagli di stoffe multicolor, debordano di giornali vecchi e scarpe scalcagnate, straripano di fili elettrici e cacciaviti spuntati, traboccano di lampadine fulminate e fili di ferro arrugginiti, perché per la mamma tutto era prezioso e tutto era da conservare tutto era santo e tutto era sacro ed era peccato buttare checchessia, cosa vuoi, ci sono dei tipi così, ramassano e accumulano ed è meglio non uscire a passeggio con loro perché ogni due minuti si fermano a raccogliere e intascare una vite spanata, con la scusa che porta fortuna, un pezzo di spago scamuffo, per il motivo che quando devi fare un regalo poi ti trovi senza nastro per il pacco e così via dicendo, e sarà questa mania un oscuro retaggio di questa gente venuta dalla campagna, chissà, o sarà che questa gente, questa generazione della mamma, ha fatto la guerra e si sa che al tempo della guerra i tempi erano quello che erano.
Me ne vengo in fin dei conti allo scrittoio dove ho poggiato la tazza col caffè, Esterina mi viene sulle ginocchia e mi accingo, mi accingo dico a una bella mattinata di studio ma. Ma qualcosa mi disturba e interrompe prima ancora che io abbia iniziato e cos’è è il telefono che squilla, è il telefono che suona, e quando alfine rispondo ci sono lì quei secondi di silenzio, ma sì è lei, è la mia torturatrice, è la mia croce e il mio cilicio, è Wilhelmine che chiama, che vuole sapere dove sono stato sinora, ché mi chiama da due ore mi, cosa vuoi le dico, sono uscito a camminare, lo sai bene che il sigaro e la passeggiata sono le mie uniche consolazioni sono, lo sai, e del resto cosa vuoi, non è che non ti abbia atteso fino al mattino e venuta non sei, mi sembra che tu non sia venuta. Sì lo so, dice lei, lo so che non sono venuta, è che avevo qualcosa da fare, avevo da scrivere una lettera e il tempo è passato e non me ne sono accorta, cosa vuoi. Se è così allora, le dico. E’ così, è così, mi dice. Se è così allora, allora sia, passiamo ad altro, sì passiamo a noi fa lei a noi veniamo dobbiamo davvero vederci passare un tempo assieme, vediamoci non so, quest’oggi, vediamoci in un posto diverso, un posto nuovo e strano, non mi porti mai in posti nuovi strani e diversi e pure sai che bisogno ho io di vivere, di vivere e vedere e per ciò sono pronta a tutto, ma solo per tutto vivere e tutto vedere. E sia e sia le dico non mi costa sforzo capirti per quanto cosa vuoi io sono differente io non sono così, bastano a me poche cose due o tre per essere contento e soddisfatto, bastano a me le parche occupazioni, lo scambio d’affetto con i gatti, ché anche loro sono esseri viventi, e il cibo condiviso, e gli oggetti intorno a noi, non so, una penna spezzata e rimessa insieme con lo spago, un insetto che si dibatte nel suo annaffiatoio, non ad altro anelo, non ad altro che a queste cose semplici, che bastano a sé stesse e nello stesso tempo informano il nostro mondo sensibile. Ma se è questo che vuoi, Wilhelmine, se vuoi qualcosa di strano, qualcosa di diverso, non pensare che io non abbia i miei mezzi e le mie conoscenze. Se è questo che vuoi, ti ci porterò, Wilhelmine, in un posto strano e in un posto diverso.
Ti porterò, Wilhelmine, in un certo posto, e prima ti attenderò in una certa piazza a una certa ora davanti a una certa fontana, quella dall’acqua colorata di rosso, di rosso dico e non di blu, e questo all’ora che tu vuoi ma che sia quella, ché come sai non tollero i ritardi, ah niente è più incorretto che essere in ritardo, te l’ho detto mille volte. Sì sì ho capito l’ho capito dice lei me l’hai detto mille volte veniamo al dunque al nostro appuntamento, ci vedremo dunque alla tale ora nel tale luogo e qui ti dico arrivederci e qui ti dico arrivederci e forse addio, ti dico addio e forse arrivederci. E su tali battute Wilhelmine si congeda, così come mi congedo io da lei.
Su questo tratto me ne torno allo scrittoio, ché non dimentico di essere rimasto stazionario, fin da ieri, intorno a gerendapárkány, che significa architrave e, se non ricordo male, lì sono rimasto fin da ieri ma, prima di mettermi al lavoro l’abitudine mi spinge alla finestra, mi fa scostare la tenda e mi fa dare un’occhiatina fuori e mi fa rivedere l’uomo col braccio al collo, che ha le sue abitudini anche lui, eccolo lì appoggiato al cancello, eccolo che guarda chi entra e chi esce, e di gente che entra e di gente che esce ce n’è, è un palazzo quello immenso e come il labirinto, che solamente fra scale e cortili ne avrà centotré. Una casa popolare come questa è proprio un termitaio e ne contiene di tipi umani, ne raccoglie di esemplari di varia umanità e qualcuno ve ne mostrerò. Ma quello che vorrei ora è tornare al mio studio, rivenire alla mia applicazione, e vorrei che distrazione stata non vi fosse, perché ridendo e scherzando abbiamo fatto mezzogiorno e le mie centoventi parole se ne vanno a farsi benedire se ne vanno, mentre io ozio indugio m’attardo e temporeggio. Su, su, bando alle ciance veniamo ai fatti, veniamo allo scrittoio e imprimiamoci bene in mente queste dieci dozzine di parole, poi facciamoci belli, mettiamoci una camicia indosso e non se ne parli più, usciamo nella città.
Usciamo nella città e dirigiamoci dove abbiamo dato e preso appuntamento e andiamoci di fretta perché si è fatto tardi e sì mi affretto, mi spiccio, mi sbrigo e come dio vuole arrivo, arrivo davanti alla fontana colorata e ne faccio il giro, ci giro intorno e nessuno sta in attesa, neanche Wilhelmine, e passa mezz’ora e lei non compare, e passa un’ora e lei non viene, e passa un’ora e mezza e lei non si presenta, ah ormai non potrò più dirle alla buon’ora! come avevo pensato, no, non mi rimane altro che andarmene e me ne vado davvero mi allontano ma passato l’angolo ci ripenso e torno lì, ma solo per un breve passaggio compiuto il quale vado via davvero.
Vado via davvero e dove vado, vado nel posto che avevo previsto, che conosco bene perché è quella l’accademia dei perdigiorno, è quello il mio territorio di caccia preferito, se posso esprimermi così, ed è lì che trovo quasi tutte le mie vittime, se posso chiamarle così, e si può dire che quello era il mio salotto e il mio burò, prima che la mamma mi accogliesse, prima che mi lasciasse la casa e i gatti e prima che anch’io infine avessi una vita regolare come tutti i cristiani con tutti i crismi e come tutte le persone che si rispettano. Lì mi recai e mi recavo e mi sono recato e mi reco ancora non perché il posto sia inusuale e strano, ma proprio per le belle conoscenze che vi si fanno, come ho già detto e come vi sarà qui infallibilmente mostrato. No, non sono persone straordinarie no, non sono tipi singolari quelli cui m’interesso nel parco delle attrazioni, non è il nano senza braccia e senza gambe, che scrive a macchina con la forza del pensiero, non è la contorsionista svizzera, che passa attraverso una scatola di fiammiferi svedesi no, le mie conoscenze immancabili sono le sartine e le pasticciere o come le vuoi chiamare, comunque quelle giovani donne che escono con le amiche, per svagarsi un pò, per distrarsi un pò dopo una giornata di duro lavoro. Ed è così che mi trovo a vagare fra un baraccone e l’altro, adocchiando e qui e là, finché non viene una buona occasione, l’occasione che viene a piovere e questo non era stato previsto no, nessuno ha previsto come ripararsi dalle intemperie. Rapido come un fulmine io, che sono uomo di mille risorse, esco dal parco, traverso la via, entro in un negozio di penne e valigie e compro un ombrello, un ombrello da pochi soldi, un modello davvero economico perché non c’è ragione di sprecare il proprio denaro e a casa ne ho uno della mamma che si apre e si richiude, inutile dirlo ma lo dico, elettricamente.
Torno nel parco e detto fatto ecco le mie due sartine, o pasticciere che dir si voglia, o fossero pure studentesse, che indugiano al riparo di un gazebo e non si decidono a uscire all’aperto, ma questo è proprio un giuoco da ragazzi, non ho che da avvicinarmi e offrire la protezione del mio ombrello e, quando questa è accettata, il resto è, come dire, un gioco da ragazzi, ci si prende la libertà di offrire un gelato alle signorine e poi non ve la faccio lunga, fatto sta che domani incontrerò le mie nuove conoscenze alle ore sedici in punto davanti al cinema Metropole.
Ma ora debbo accomiatarmi dalle due giovani, perché fatto è che ho un altro appuntamento, un appuntamento che è anche di lavoro, ed è contro la mia etica, che è etica dell’impegno e del lavoro, arrivare in ritardo a un appuntamento di lavoro. Ritrovo Salomé in un bar poco lontano, Salomé è la donna bionda di stamane, quella che urlava nella metropolitana e a cui mi sono in seguito accostato, la ritrovo in un bar, è già lì che aspetta, che aspetta e fuma una sigaretta, mentre mi avvicino con un bel sorriso. La conversazione nel bar è di breve durata e di insignificante contenuto e non vale la pena qui riportarla qui e non lo farò. Verrò piuttosto ai fatti, e i fatti sono che ci si è alzati e si è usciti dal locale e ci si è diretti all’abitazione di Salomé e qui giunti ella mi ha fatto accomodare su un divano e ha preparato qualcosa da bere, ha preparato una bevanda di sua confezione, che mi ha servito in certi bicchierini  grandi come ditali, per poi sedermisi accanto e bella questa camicia hawaiana ha detto e ha iniziato a sbottonarla e poi siccome mi passava la mano sul petto, sotto la camicia hawaiana, ha sentito delle asperità e ha voluto vedere ha voluto guardare e cosa sono queste cosa sono questi segni ancora freschi che cosa ti sei fatto, ah sì ho risposto sono stati i gatti, anzi è stato il gatto che mi è salito sul petto per raggiungere un moscone ma il moscone è scappato via e voilà, non è menzogna. Più che di gatto paionmi queste tracce di tigre, dice lei, ma disinfettato ti sei, ti sei messo qualcosa lì sopra che cazzo che pare tutto infettato? Beh sì ho risposto io nervoso, perché divento sempre nervoso quando ci si prende troppa cura di me, troppa pena per me si prende, mi fa pensare alla mamma ciò mi fa e mi vien da piangere mi vien, beh sì ho risposto io, ci ho passato l’allume quello che usi quando ti tagli col rasoio non so se lo conosci, brucia un pò ma efficace è. L’allume ma cosa mi dici mai ma cosa mi tocca di sentire dio me ne scampi e liberi ma senti questa questa è buona per davvero ora ci penso io. Se ne va nel bagno e torna con qualcosa, io sbuffo e protesto ma lei mi mette a tacere con un bacio e mi disinfetta il petto, me lo fa diventare tutto rosso ma cosa è questo dico io, non è niente è solo tintura di iodio, ah se è così allora. E adesso veniamo alle cose serie dice lei dopo aver riposto le sue boccettine le sue ampolle e le sue ovatte, veniamo alle cose serie dice lei e io le faccio ma lo sai che ciò accadrà una sola volta, mai più di una  questa è una regola per me. Come tu vuoi risponde, non è affar mio questo, chi paga sei tu. Anche questo è vero dico io, sfilandomi la cinta, e veniamo al dunque che non sto qui a raccontarvi perché anche da soli potete immaginare, e dopo mi rivesto e anche questa è fatta e di Salomé qui non si sentirà più dire.
Torno a casa, torno a casa e più non se ne parli, dò da mangiare ai gatti, mi metto allo scrittoio, ché io a dire il vero sono un tipo contemplativo, altro non sono a dire il vero che un tipo contemplatore, e ho bisogno di calma e solitudine, questo è. Me ne torno a casa mia, nutro i gatti miei, mi seggo allo scrittoio, me ne sto coi miei vocabolari, non venite a dirmi altro, basta.
Non mi venite a dire che chiamerà Wilhelmine, ah troppo facile sarebbe, ma sì invece, Wilhelmine chiama e dice ma cos’hai fatto perché non sei venuto, come non sono venuto dico io, ma se sono ancora tutto invelenito per causa dell’infeconda di te attesa, se sono ancora, ma se ti ho atteso per due ore e più, davanti alla fontana rossa, la fontana rossa, fa lei, ma quale fontana rossa, ma se mi hai detto ci vediamo alla tale ora davanti alla fontana blu, non sono mica cretina non sono, ah no faccio io, ma quale blu, era la rossa ti dico e ti ridico, ma ormai quel che è stato è stato, non stiamo a sottilizzare, insomma, per non farvela lunga c’era stato un equivoco, un malinteso, un qui pro quo e ciascheduno aveva atteso in un posto diverso, sì peccato dai non fa niente è andata così cosa vuoi non piangiamo sul latte versato, non buttiamo il bambino insieme con l’acqua sporca, restauriamo piuttosto questa nostra relazione che si è così consunta e logorata in un eterno gioco del dare e dell’avere, del concedersi e del sottrarsi, sì sì dice lei, sì anche tu mi manchi lo sai ma chissà che non sia troppo tardi dice lei, come troppo tardi dico io, sì troppo tardi, dice lei, vista la situazione nella quale mi trovo, come quale situazione, dico io, cosa intendi dire, e palpitar il cor mi sento. Vieni qui, dice lei per tutta risposta, vieni qui presto prima che. Prima che, cosa, mi allarmo io. Prima che, non so, mi sto per addormentare. Come, mi chiami e ti appelli a me solo per dirmi che vai a dormire, dico io poi capisco e le dico aspetta aspetta che arrivo aspetta solo mezz’ora. Riattacco il telefono e già sono fuori di casa, già sono in istrada e già corro alla stazione dei tassì, già sono nel tassì e dico all’autista di affrettarsi, di precipitarsi, di correre insomma e in meno di venti minuti mi trovo all’indirizzo richiesto. Salgo di corsa i sei piani, arrivo con l’affanno che si immagina davanti alla porta di Wilhelmine e sulla porta trovo appuntato un biglietto: stanca di attenderti, sono andata in un bar, in buona compagnia. Forse questo messaggio riguarda qualcun altro, l’ha dimenticato sulla porta, suono e risuono il campanello, non c’è risposta, non c’è movimento all’interno,  qui bisogna cervello adoprar, cosa far, introduciamoci nei luoghi. Vediamo se fra le mie chiavi c’è quella buona, sì c’è. La porta si apre, penetro nell’oscurità ambiente, mi avanzo nell’abitazione. Accendo le luci nelle stanze, in casa non c’è nessuno. In salone non mi avventuro, i dischi e le copertine di dischi tutti sparsi coprono il pavimento, coprono tutto, sarebbe difficile non calpestarli, ma che confusione, ma che disordine, e i posacenere pieni di cenere, e i piatti non sparecchiati, lasciati così sul tavolo con tutti gli avanzi dentro, vedo bene che due persone hanno qui desinato, ma quando, chissà. E nel bagno, tutta questa polvere sulle mensole, e la spazzola con le ciocche ammatassate, e l’accappatoio lasciato in terra, no non sarò io a mettere ordine qui dentro, e in cucina, il barattolo di minestra precotta, consumata a metà, lasciata sul tavolino a coprirsi di muffa, e i piatti nell’acquaio, staranno lì da un mese, ma cos’è questo io mi domando e dico, e in camera da letto, meglio non parlarne, meglio rispegnere le luci, uscire e chiudersi la porta dietro, dietro le spalle, e tornare nella città.

 

Qui la seconda parte

Litania dell’ignavo seconda parte

Torno a piedi in città, come ho già detto sono un buon camminatore, capace di percorrere molti chilometri uno dopo l’altro, capace di attraversare la città da un capo all’altro, città che piccola non è no. Torno a piedi in città e ci vuole il tempo che ci vuole, quando risalgo in casa saranno le quattro del mattino e le ho fatte o no le mie centoventi parole ieri, mi par di no, no. E così mi metto allo scrittoio e ci passo un paio di ore, finché i felini non si risvegliano e non iniziano a vagare per la casa e a chiedere da mangiare, venghino signori venghino apro per loro una diecina di scatolette, queste bestie mi costano quello che mi costano mi, ma per fortuna la mamma non aveva al mondo altri che me, e per maggior fortuna era una così accurata risparmiatrice e una sì accanita accumulatrice, come in parte ho riferito, e una così parca spenditrice, se si eccettua la sua passione per gli oggetti elettrici, di cui anche ho fatto menzione, che mi ha lasciato di che nutrire queste fiere per qualche decennio ancora, chissà se ci saremo ancora, e per massima fortuna aveva la mamma una tale avversione per banche e istituzioni pubbliche in generale che conservava in casa tutto il suo denaro, in ripostigli vari vecchie borse barattoli di zucchero doppi fondi materassi e chi più ne ha più ne metta.
Era proprio incredibile, la mamma. Cosa vuoi, era fatta così, quando si tagliava le unghie si vedeva che  ne gettava via i residui a malincuore, e li lasciava difatti sul comò per giorni e giorni, se mai le fosse venuta in mente una maniera di riutilizzarli. E poi, invece, e poi invece questa mania strana che la spingeva a comprarsi lo stuzzicadenti elettrico, quando di denti lei non aveva più da vent’anni, e non s’era certo permessa la spesa di una dentiera, sia pure di silicone, ma se gliel’avessi trovata elettrica, la dentiera, stai pur sicuro che quella se la sarebbe comprata. Cosa sarà stato, chissà, forse ciò che amava era il ronzio dei motorini, o l’aspetto clinico e igienico di quegli articoli, chissà, o sarà stato che il suo ultimo marito, che era impiegato alle poste e telecomunicazioni, le avrà sempre ripetuto che nell’elettricità stava il futuro, nell’elettricità ti dico, non so, chissà, io non l’ho mai conosciuto, lui.
Fatto sta. Fatto sta che. Cosa vuoi, siamo passeggeri, qui, siamo passeggeri di questo mondo. E la vita continua, su, scuotiti, lascia le tue fantasticherie, trattasi ora di uscire di casa, una volta compiute, certo, come dire, le operazioni mattinali. Scosto la tenda, dò uno sguardo fuori della finestra, lo dò per vedere che tempo fa, per vedere se prendere l’ombrello oppure no, ma la miseria, quello c’è già, quello col braccio al collo, ma quando glielo toglieranno quel benedetto gesso, chissà. Io non mento mai, non mento quasi mai, e vi dirò che quell’uomo mi rende nervoso, e me, per innervosirmi, ce ne vuole. Ma guarda chi esce dal cancello della casa popolare, guarda chi esce con il suo cagnolino, col suo cagnolino al guinzaglio, esce una certa donna, esce la donna della scala B interno 18, questa donna, come si dice, ancora giovane, ancora piacente, che è sempre vestita di nero, che mi aveva interessato una volta e poi, com’è stato, mi è passata di mente, ad altri fugaci incontri mi sono dedicato. Dove è che se ne andrà, se ne andrà di certo ai giardini pubblici, i bei giardini di questa bella città, è lì intorno che tanta gente porta a spasso i cani. Mi occorre un pretesto, mi occorre perché, se pur di vista ci si conosce, ciò non giustifica di per sé l’approccio. Un guinzaglio, dove è che l’ho visto in questa casa, in quale ripostiglio la mamma metteva i guinzagli, certo insieme con gli spaghi e i fili elettrici, per analogia formale, e difatti lì ne trovo uno, lo metto al collo di Felicita, che detto en passant sarà grossa il doppio del chihuahua della signora, ed esco con Felicita al guinzaglio.
Ecco la donna in cima alla via, ecco che costeggia i giardini, la seguo da lontano e quando mi pare che stia per tornare indietro mi fermo e mi appoggio alla cancellata, lascio Felicita vagare intorno a un albero, tenendola al guinzaglio, e quando il cagnolino arriva lì vicino, come no, inizia ad abbaiare e lei a soffiare e non si sa chi dei due ha più paura e chi meno, chi graffierà e chi morderà, c’è da tenerli fermi e sgridarli e così una parola tira l’altra, non so se rendo l’idea, e si fa la conversazione, e anche questa è fatta o quasi, basterà ripassare per di qui domani.
Prendo dunque congedo dalla donna, riporto a casa il gatto, torno nella strada, faccio due o tre acquisti ma poi non ho voglia di tornare su, compro il giornale, vado a sedermi in un caffè, ché non ho di meglio da fare, ma vediamo un poco la gazzetta. No, non faccio in tempo ad aprire il giornale, non faccio a tempo che carissimo signore mi interpella il mio vicino di tavolo, caro signore non pare anche a lei, che come vedo si mantiene informato e per ciò stesso prende una sua posizione propria nel mondo e nella nostra tormentata società, non pare anche a lei signore caro che qui si è passato il limite, il limite di cosa chiedo allo sconosciuto, ma come di cosa signore mio non vede che cosa succede non si rende conto, dove è che vive lei mi fa questo vicino occasionale, quest’uomo ben vestito e bene in carne, quest’uomo che soffre di pressione alta lo vedo con il mio occhio clinico io, non vede cosa accade insiste costui, tutte queste violenze, tutte queste intolleranze, beh sì dico io, ma non vede insiste lui che così non si può più andare avanti, non si è più padroni in casa propria, e tutti questi tartari, questi ugro-finnici ed altaici, non li vede, sono questi il pericolo, glielo dico io, questi, mica quegli altri, i nostri pellirossa, con quegli altri in fondo ci si può intendere, si può ragionare, ma con questi no, questi sono proprio un’altra amministrazione, un’altra lingua, cosa ne dice lei. Ma cosa vuole che le dica, non lo so, non so cosa dirle, e del resto questi discorsi non voglio sentirli, non voglio proprio ascoltarli e quindi la saluto caro signore, e ciò detto mi alzo ed esco, perché certi discorsi non si possono proprio sentire, non si possono.
Me ne vado, me ne vado a passeggio, cammino per un’ora, ma cosa succede, oggi non succede proprio niente, mi fa specie di questa città, mi fa, che cosa ci sono venuto a fare, allora, in questa città dove ne succede una ogni giorno. Ma no, ma sì, eccolo l’episodio, eccolo qui. Mi si accosta uno sul marciapiede, uno che viene dall’altra direzione, mi si accosta, mi ferma e mi fa buongiorno, come sta, bene dico io e lei, bene dice lui e, poi, non mi potrebbe dare del denaro, sa com’è, del denaro per pranzare, sa com’è, sto sempre a pensare pensare pensare e non ho tempo per lavorare. Male, dico io, male. Lei dovrebbe sapere che fa male il troppo pensare, e poi cosa è questo, cosa è ciò, questo fatto che non si lavora perché si ha da pensare, ah no, questa non me la faccia sentire, non me la faccia, e cosa dovrei dire io allora, crede che non potrei passare il tempo a pensare, se volessi, io che in fondo sono un ereditiere e non lo dico con superbia né con arroganza di tempo ne avrei a bizzeffe per non lavorare, e invece io lavoro invece di pensare, mentre lei, lei che è ancora giovane e in buona salute, a quanto pare, quanto è che avrà, neanche cinquant’anni, e le gambe le ha per camminare ed le braccia anche, ah se la mamma fosse viva si rivolterebbe nella tomba a vedere questo, e allora, cosa vuole che le dica, e così dicendo l’ho lasciato e mi sono allontanato, che neanche gli ho dato il tempo di rispondermi ma, certo gliene ho date di che pensare. Ma cosa credono questi che mi fermano così per la strada, questi che mi parlano nei bar, cosa credono, che io non abbia i miei pensieri? Non lo sanno forse quante ne ho viste di cose, come è che non vedono scritte nei miei occhi, incise sulla mia fronte, quante ne ho viste, quante ne ho passate, debbo forse mettermi un cartello al collo, debbo forse, debbo? Non so, ditemi voi, io non so.
Io non so, dovrò pur le mie pene consolar, non so, dovrò pure cercare consolazione. E l’occasione si presenta, nella via affollata, nella via trafficata che da un’ora percorro in su e in giù. Esce una signorina da un negozio, esce con un acquisto che ripone nella borsa, scende la via senza fretta, si vede che è contenta di stare nella via, lo si vede da come indugia davanti alle vetrine. Non è bella questo no ma non è questo il punto anzi, io le ragazze belle non le posso guardare non le posso vedere no, cosa vuoi mi fanno male mi fanno troppo dolor, è una vista quella che mi fa male al cuor, cosa ci posso far. Ma cosa è che guarda questa signorina, guarda le vetrine degli ottici, si interessa agli occhiali da sole, si ferma persino davanti al banchetto di un venditore ambulante, si fa dare uno specchietto e prova due o tre modelli ma non è mai contenta, posa lo specchietto, ringrazia e prosegue, va oltre e io, che sono uomo di mille risorse, ho una bella idea, non ho che da sfilarmi i miei, di occhiali da sole, che sono di buona marca e di bella fattura, tanto che la signorina non potrà non apprezzarli, ed è così che, quando la vedo attardarsi davanti a una nuova vetrina, mi avvicino e le porgo i miei occhiali, glieli porgo con un bel sorriso e lei è invece si direbbe come spaventata, prenda questi le dico con bella galanteria, senza dubbio le doneranno, ma come reagisce la signorina, non reagisce bene, ma cosa vuole mi dice mi lasci in pace, e mi scarta e se ne va ma cosa le ha preso, non capisco, non vedeva sul mio viso l’immagine stessa della buona intenzione, ma che dico, della mancanza d’intenzione, non vedeva come fosse la mancanza di intenzione stessa che si faceva incontro a lei, che a lei si offriva e che lei, ignara e ingrata, ha disdegnato, tanto peggio per lei, se è così allora me ne vado vado oltre e altrove e così è.
Così è, e dove mi dirigo, non so. Vado ai giardini pubblici, non so, qualcosa vi potrebbe accadere, qualche incontro forse, non so. D’altro canto, sento già la nostalgia delle mie centoventi parole, e i gatti, chissà cosa staranno facendo, e se Wilhelmine  telefonasse? Forse torno a casa sì, forse ripasso per casa, anzi ci vado davvero, ma giunto che lì sono, i gatti se ne stanno tranquilli sulle poltrone e sui divani, i quattro neonati dormono nella loro scatola, Esterina se ne sta sul davanzale a spiare i piccioni, cosa fare, ciondolo da una stanza all’altra, mi metto allo scrittoio ma sono svogliato, vado alla finestra c’è sempre l’uomo col braccio al collo, vado in cucina a bere un bicchier d’acqua, i gatti mi seguono e già rivogliono mangiare, apro per loro qualche scatoletta ed è inutile dire che il telefono intanto non ha squillato. Ma cosa succede fuori nella via, cosa sono questi cozzi, queste urla, vado alla finestra, scosto la tenda, ah sono sempre le solite storie, questi che si picchiano, che si prendono a pugni e chissà perché poi, questi qui fra di loro non si distinguono, non hanno neanche le magliette di colore diverso, si prendono a calci e a pugni, c’è uno cui è caduto tutto in terra, borsello, occhiali da sole, portafogli, e un altro sta piegato in due, si tiene la pancia con le mani, e poi una delle due squadre si sgancia corre via e fugge e quegli altri dietro, strillando acchiappali acchiappali e indicandoli col dito ai passanti che non è che si muovano più di tanto, si sente poi uno sbattere di portiere, uno stridio di gomme e come no, uno sgasare di motore, sono quelli della prima squadra che se ne vanno via e quelli dell’altra, cosa vuoi che facciano, si guardano intorno, ma loro la macchina non l’hanno, rimangono a fissare nostalgici il fondo della via, dove i fuggitivi sono scomparsi, casomai il tempo tornasse indietro e quegli altri con quello. Riaccosto bene la tenda, me ne torno in cucina, mi apro una scatoletta, ma cosa pensate, una scatoletta di tonno mi apro, dio mio che cosa ci tocca vedere, dio mio quante ne ho viste, quante ne hanno viste i miei poveri occhi, non lo sa questo forse Wilhelmine, sì o no, eppure dovrebbe saperlo dovrebbe, non è da poco che mi frequenta, e quello nella via, quello che era triste perché pensava sempre e non aveva il tempo per lavorare, ora che ci penso ci ripenso sono forse stato un poco scortese un poco brusco e spiccio, l’ho congedato, se non erro, con una certa freddezza ed alterigia, spero che non me ne vorrà, non me ne, e non serberà di me cattivo ricordo, il quale ancor più triste renderlo potrebbe.
E ciò detto detto ciò me ne esco, non ho ragione di restare in casa, metto in atto appena una veloce toletta ed esco, ché lo so che Wilhelmine più non chiamerà, lo so perché lo sento, me lo sento, lo sento e lo so che non chiamerà, e non vorrà certo che lo faccia io, chiamare dico, ah no, questo no, che non sia mai, ed è così che prendo, prendo ed esco, riesco di nuovo. Del resto fra non molto avrò appuntamento, cosa si crede qui, che io non abbia niente di meglio da fare, che io non abbia?
Ed è così che, è così che me ne esco, ché ho da far passare tre o quattro ore, e vedrai che passeranno, perché a questo mondo tutto passa e, per ben principiare questa nuova passeggiata,  la propizio con un obolo a questo mendicante, a questo ubriacone, a questo pezzente, capita bene costui, che se ne sta steso contro il muro del palazzo e tiene un barattolo vuoto posato vicino, vicino alla bottiglia, gliela faccio l’elemosina, perché ai segni io sto attento e questo povero con il suo bussolotto sta lì proprio a dire che delle buone azioni un giorno, forse anche oggi stesso, ci sarà reso merito. E poi, umana cosa è l’avere compassione degli afflitti, e non mi si potrà qui ridire, non si potrà certo dire che, che io compassionevole non sono.
Ah questo non sia mai, questo non sia mai detto né soprattutto ridetto, ah no non vi sarà facile trovare macchia o fallo che dir si voglia nel mio comportamento, non lo vedete quanta cura ci metto, non lo si vede come levigato sia tutto il mio agire e come nulla al caso sia lasciato? E così è, non faccio qui questione di principi, trattasi qui di gentilezza e di compassione, trattasi di semplici e schiette qualità umane, e ne ho da vendere, io, dell’una e dell’altra, che mi trovi a praticare gli umani e che gli animali, quando trattisi degli uni e quando degli altri. E, d’altronde, non stanno forse scritte anche per strada, talune di queste qualità umani ed animali, sotto forma di raccomandazioni, a cura della nostra benemerita Amministrazione comunale?
Ma torniamo alla nostra passeggiata, torniamo alle sirene, alle sirene della polizia delle ambulanze dei pompieri, ma cos’è che succede, che cosa accade, ma io sto lì nel crocchio come lui, non lo vede questo, questo signore, che lo riconosco è quello del bar, non lo vede questo signore, perché allora lo chiede proprio a me? Non so arrivo adesso anch’io gli dico e lo metto a posto, ché d’altronde come vede, se gli occhi ce li ha, e non dico se ce li ha buoni, dico solo se gli occhi li ha anche lui, e mi pare che per averli li abbia, lo vede bene che portano qualcuno fuori da un portone, lo portano fuori in mezzo a due poliziotti, i quali sulla soglia lo trattengono costui un attimo perché, non si sa, né si sa chi si sia colui, fatto è che la folla antistante deve essere grata dello spettacolo perché si mette ad applaudire, cosa avrà da applaudire non si sa, ma per non essere da meno applaudo anch’io, non si sa perché non si sa, vedremo poi sui giornali, per l’intanto applaudo anch’io poi vedremo, una cosa alla volta per favore, e il signore di prima mi domanda che cosa succede, ma non lo vede da lei stesso gli dico, orsù un bell’applauso ed è tutto finito, su partecipi anche lei da bravo, faccia il bravo e ci faccia vedere che lei non è proprio l’ultima ruota del carro. Ma quale carro e carro fa quello, ma quale ruota dei miei stivali, fa lui e dice, fa un gesto con la mano e se ne va. D’altro canto neanch’io ho tempo da perdere, tempo da perdere non ne ho e mi stacco dall’assembramento che del resto già si disfa di per sé stesso.
Cammino verso il parco delle attrazioni, senza fretta né flemma, come un onesto cittadino, come una persona che si rispetti, e tutto quello che faccio è procedere in una determinata direzione e così è, ma direi a un certo punto che qualcuno mi segue, è dapprima, come dire, un’impressione, ho insomma la sensazione vaga che qualcuno mi segua, e in fin dei conti dirò che sono seguito, che qualcuno mi segue nella pubblica via. Prendo per una strada laterale dove non passa nessuno, dopo cento metri mi volto, non vedo nessuno. Mi sarò sbagliato, chissà. Ah no, viene un uomo in camicia bianca, si direbbe proprio il signore di prima, sarà lui, chissà, entro in un provvidenziale androne, mi nascondo dietro un bidone della spazzatura, ecco che costui passa e va oltre, chissà se mi seguiva davvero, riesco, sguincio per una viuzza e mi allontano a passi grandi e poi non resisto più e mi metto a correre.
E vengo alla mia nuova conquista, alla signorina Rachel con cui ho appuntamento, che incontro davanti al parco delle attrazioni che volete ci sono affezionato a questo posto, all’ora convenuta, c’è da dire anzi per la precisione che entrambi ci trovavamo sul posto con lieve anticipo, cinque minuti circa, e queste sì sono le cose sono le persone che danno soddisfazione nella vita, queste qui, non queste Wilhelmine che sembra lo facciano apposta a farti attendere, e difatti con la mia Rachel mettiamo in essere uno scambio di idee su questo fatto questo della puntualità, cui teniamo tanto io quanto quanto lei, ah questo è parlare! ah questo è dire! ah finalmente una persona precisa educata e ammodo, ah finalmente, ma sì certo signorina cara le dico, dacché tutto segno è, la puntualità è segno di correttezza e di rispetto per l’altro, non mi dica caro signore, fa lei, lei sfonda una porta già aperta, non potrei essere più d’accordo, non potrei, ah non vi dico come questa parola questo parlare mi ha non so mi ha davvero toccato il cuore mi ha proprio mandato alle stelle, perché non è tanto qui questione di buona educazione, quella non ci vuole tanto ad averla, non si penserà certo che io non conosca l’arte di vivere, non si penserà  che io mi metta le dita in mezzo ai denti dopo che ho ben mangiato o, le stesse dita, dentro il naso in un momento di inoperosità, anche se nessuno sta lì a guardare, non si penserà certo ciò di me? Non si penserà certo che, quando sono solo, non visto da nessuno, io possa infrangere le regole e mettermi, detto brutalmente, le dita nel naso? Ah, no, qui sta il bello, il bello sta nel fatto che anche e specialmente quando si è soli e non visti una certa forma una certa etichetta vanno mantenute, come se per l’appunto avessimo indosso gli occhi di qualcuno, e questo spiegavo appunto alla signorina Rachel, e su questo la signorina che – detto per inciso – non è pasticciera né sartina ma anzi studentessa, studentessa fuori sede come si dice, e quindi in fondo straniera come me in questa città dove meno la mia vita, e su di questo, dicevo, la signorina, dicevo, è su questo perfettamente d’accordo. con me, e così è.
Così è che ce ne andiamo a passeggio nel parco delle attrazioni e così ridendo e scherzando ce ne andiamo a passeggio per il parco delle attrazioni, leccando in santa pace i nostri gelati, il mio al gusto di limone, il suo ai gusti di crema e di cioccolato, gelati che ho offerto io, senza mancare di dire tenga pure il resto signorina alla gelataia che più signora era che signorina ma, che volete, queste sono le piccole generosità della galanteria, sì.
C’è poi, per farla corta e per farla breve, da andare al cinema, c’è da scegliere lo spettacolo e la sala, assistere alla proiezione della pellicola e così è così non è, ci sediamo poi in un caffè e non dico che non la si passi un’ora piacevole ma insomma quando è che veniamo al dunque, al dunque veniamo e al momento in cui passo a prendere informazioni sulle sue di lei abitudini di vita e di alloggio e, entrino signori entrino, venghino signori venghino, venghino pure che a questo giuoco non c’è nessun perdente, che qui nessuno perde, mi seguino e sentino come la signorina abiti da sola in una stanzuccia mansardata, una stanzetta insomma niente di ché, ah ma perché non me la mostra la sua bella stanzuccina, perché non mi ci porta sicché la veda e l’ammiri, ecco ma veramente dice lei sa com’è, mi dica mi dica, ecco un’altra volta forse è meglio, ma cosa mi dice mai non penserà mica male di me cara signorina, ah no dio me ne scampi e liberi caro signore, solo che solo che, ecco non so, solo che. Solo che, ecco, non so, solo che, sa com’è, ci conosciamo appena e già lei vuole salire nella mia stanza, non so a dirla tutta non so se posso fidarmi delle sue buone intenzioni. Mia cara signorina mi fa specie di lei mi fa, la credevo un tipo sagace e sensibile, e dire che mi pareva una persona così a modo, ma per chi dunque mi ha preso mi ha, ma cosa ne sa lei cosa ne sa, ma se fanno sette anni sette che vivo in assoluta continenza e castità, se non le pare questo un buon sigillo di garanzia non so, ha forse bisogno di una dichiarazione in carta da bollo? Quello che io penso caro signore, quello che penso io signore caro, è che lei con tutte le sue manfrine le sue moine le sue smancerie ad altro non mira se non alla mia carne, signore caro. Che non l’avesse mai detto, ah, che questo non l’avesse mai detto mai, ché piombo allora nel grande silenzio terribile e di piombo io, non posso più dire parola, povero me incompreso e reietto dal mondo tutto, e non lo vede ora la signorina come io sia diventato muto che non dico, non lo vede come fissi disperato e duro come pietra un qualche punto lontano di qui lontano da questo mondo, vicino alla gamba di un tavolino laggiù? E la faccia finita, caro signore, dice lei infine, la faccia finita e mi dica un poco, piuttosto, mi dica piuttosto, ché l’ascolto, mi dica, ché un paio di orecchie le ha trovate, sù, mi dica le sue sofferenze e le sue tribolazioni. No non posso no. Sù mi dica sù. No non posso no. Sù. No. No e poi no, no e no, no. E davanti a questa muraglia umana di reticenza ed omertà cosa vuoi che la signorina faccia, la signorina s’alza e se ne va senza neanche dire arrivederci e grazie, se ne va ex abrupto così.
Ma sì, è meglio così, è stato meglio così, non eravamo fatti per intenderci, non eravamo io e quella lì. Ma lo stesso lo confesso sono abbattuto colpito e avvilito, ora me ne torno a casa, me ne torno a casa e ai vocabolari, me ne torno dai miei gatti, quelli loro non mi deludono loro no, me ne torno a casa oppure no, perché rimane la signora di prima, la signora della scala B interno 18, la signora che vive sola nel palazzo di fronte a casa mia, ma sì, vado, entro nel palazzo, salgo le scale mi fermo davanti alla porta numero 18 no non ho coraggio mi manca il coraggio e una buona scusa, me ne torno a casa, non mi resta che tornare.
Non so, me ne torno eppure non mi sento contento, non mi sento bene con me stesso ecco, sono roso da un sentimento di inadempienza frustrazione e scontentezza, da questa malinconia propria al lavoratore che non ha potuto condurre a termine la sua onesta giornata ma che vuoi, non tutte le ciambelle vengono col buco, pazienza.
Sono in casa alla fin fine e sto allo scrittoio ma diciamocela tutta non è che proceda non è che avanzi con lena e con ardore, non sto che a gyenge e ai suoi suffissi e prefissi, annessi e connessi, e la lettera h non è molto più vicina di ieri ma, cosa dire, in questi giorni sono svagato, distratto, confuso, e poi, devo dire la verità, sono, non so, svagato, sono distratto e confuso e sì lo so perché: sono le donne che mi rovinano, me.
E se sono le donne che mi rovinano, ebbene sia, andiamo loro incontro lieti e giulivi, facciamo una rapida toletta, riavviamoci la capigliatura, annodiamoci al collo una bella cravatta, che nodo ci facciamo fare stasera vediamo vediamo un pò, forse il numero dodici “alla francese” dice il libretto d’istruzioni dell’annodatrice, sì, questo ci sta bene con la camicia a quadri, poi scegliamo una giacca leggera, scura ma non blu, ché ho i pantaloni marroni e non sia mai che accosti questi due colori, non sono mica un pacchiano, io, e quando siamo pronti usciamo e facciamoci portare da un tassì in un bar notturno, entriamo in questo bar che conosciamo, che frequentavamo in gioventù e fino all’altro ieri, entriamo in questo buon bar, come ai vecchi tempi, sistemiamoci a uno sgabello appartato, poggiamo i gomiti sul bancone, ordiniamo una bibita analcolica, rimaniamo nella penombra e guardiamoci intorno, guardiamo all’intorno nella sala affollata oscura e piena di fumo, chi c’è chi non c’è e guarda chi c’è avrei dovuto aspettarmelo c’è Wilhelmine, Wilhelmine c’è e non è sola, c’è Wilhelmine ed è con un uomo, danza con un uomo e con quale lascivia e con quale lussuria e con che trasporto e con che partecipazione, ah gliel’ho sempre detto che, gliel’ho detto sempre che lei si perderà a forza di perdersi così come si perde, gliel’ho sempre detto, e mostrasse almeno un pò di ironia non so, un qualche distacco, una qualche distanza, no, guarda lì, come gli tiene la mano, come gli intreccia le dita, guarda come se le streccia e se le intreccia le dita, quelle stesse dita che pur mi hanno toccato se non ricordo male, e guarda qui, come si lascia carezzare la schiena e finanche il fondoschiena, ah maledetta, e guarda qui come lo guarda negli occhi, il bel forestiere.
Finisce il ballo infine, se ne tornano al tavolino, lui si allontana, lei rimane sola, osserva la gente, ora mi vedrà, mi metto di profilo, e chi l’ha vista, quella, ma lo vedo che mi vede, lo sento che si alza e viene da me e mi staziona innanzi senza parola, ah sempre questa ricerca di effetto, ma io la guardo con ancor meno parola, e con un sorrisetto indosso ancor meno significante del suo, passa così quanto tempo non so, forse un minuto, alla fine è lei che parla, mi chiede se può interrompere i miei pensieri, come no le dico, e ciao cuore, inizia a raccontarmi una storia salvo ognuno ma cosa vuole che me ne importi cosa vuole che mi interessi ma l’ascolto ugualmente con pazienza tolleranza e comprensione, insomma la storia è che ha incontrato quest’uomo questo giovane a un angolo di via, che chiedeva informazione, e così spaesato lo ha trovato che ha pensato bene di portarlo a casa e anche al bar, è studente di fisica sai e ha fatto anche il saltatore con l’asta, interessante dico io, cosa vuoi che dica, certo, le faccio notare, si assomigliano tutte queste tue conquiste, questi bellimbusti dai denti sani, ah dici fa lei, così mi pare almeno dico io ma non stiamo a sottilizzare, queste discussioni non mi interessano lasciamo stare, ma no ma no hai ragione dice lei non ci avevo mai pensato forse è così davvero, e a dire il vero provo allo stesso tempo una immensa ammirazione e un immenso disprezzo per questi begli oggetti, per queste belle cose piene di forza e piene di salute, ma ciononostante sai com’è, per me l’anima è sempre stata la più importante, sempre l’anima è per me stata la più importante. Tu qui mi forzi la mano, le dico, e mi costringi a dire che anche l’anima ha un suo corpo, ha e, e vuoi mettere, vuoi mettere o no? Qui lei mi interrompe e non mi fa continuare, non mi fa proseguire perché mi chiede e tu, dimmi di te piuttosto, cosa fai, studi sempre l’urdu? E’ un punto sensibile, questo su cui Wilhelmine mi tocca e lo sa, certo che lo sa, lo sa bene che io non ho altro che questo, non ho altro che i miei vocabolari e i miei gatti, è tutto ciò che ho, d’estate e d’inverno, è tutto ciò che ho e non faccio per dire e no le dico, sei rimasta non aggiornata, mi sei rimasta all’urdu, intanto io sono già in Europa, sono tornato all’Europa, allo studio del magiaro attendo adesso. Il magiaro ma cosa mi dici mai, fa lei, hai per caso incontrato un’ungherese, suvvia Wilhelmine sii seria, cerca di fare mente locale, cerca di fare il punto, possibile che non ricordi mai ciò che ti dico, possibile che io parli sempre a vuoto sempre invano, ti avevo ben detto oppure no che tornavo in Europa, sì o no, te l’avevo detto, sì o no?

E su questo viene il suo ganzo il suo cicisbeo il suo centometrista, viene con un bel sorriso aperto e amico, cosa vuoi che ne sappia, quello, cosa vuoi, viene e dice allò e poggia la mano sulla spalla di Wilhelmine e gliela tiene sulla nuca come se gli appartenesse, la nuca e Wilhelmine con quella, ma che modo di fare è questo io non so e qui non ci vedo più, più non ci vedo e non più non posso controllarmi eppure mi controllo e pensare, cara mia, le dico, e pensare che ti ho tolta dalla strada, ah non ricominciare adesso con le tue frasi fatte, con le tue recriminazioni, ribatte lei, cosa c’entra questo adesso, non gli è che sarai geloso per caso, non sarà questo, eppure sai che io sono fedele, te l’ho detto perfino davanti al vicesindaco, ah, a proposito, non dovevamo divorziare? Ma come, mi picco io, se eri tu che non volevi! Ah, sì, beh ora ho cambiato idea, fa lei ma già il suo amico, che a non capirci s’annoia e s’impazienta, se la porta via tra il lusco e il brusco e lei lo segue e, d’altronde, chi non seguirebbe, lei?
E io cosa faccio, cosa faccio adesso, cosa fare non so. Le mie parole, torniamo presto alle mie parole, veniamocene al vocabolario e non pensiamoci più, ché gli imperscrutabili linguaggi delle donne io non li comprendo, ma le parole quelle invece sì. E me ne sto sulle mie parole da neanche tre quarti d’ora quando suona il telefono, suona il telefono e c’è Wilhelmine, che ha lasciato il suo mezzofondista norvegese, che è sola in casa, ma non ti ho chiesto niente le dico io, ti ho forse chiesto qualcosa, no non mi pare no, non voglio proprio sapere con che sei o con chi non sei, non mi interessa davvero, cosa vuoi che mi interessi, lei neanche mi risponde, si mette invece a raccontarmi cosa vede dalla finestra, come se non lo sappia cosa c’è fuori della sua finestra, alle quattro del mattino mi telefona per raccontarmi cos’è che vede fuori della finestra cosa vuoi che veda vede un muro, vede un muro di pietra e un albero, c’è un poco di brezza e le foglie si agitano, frusciano e un’ombra si muove fra i rami, ma io so bene che dalla sua finestra non si vede nessun albero, e non c’è un filo di vento stanotte, stanotte non c’è un soffio né un fiato, l’aria si è fatta solida intorno a noi e non possiamo più muoverci anche volendo e lo dico a Wilhelmine, su Wilhelmine basta giocare basta scherzare con la vita, vieni qui piuttosto vieni ti pago il tassì vieni cara vieni zucchero mio di papà vieni non rispondermi col silenzio non stare nel silenzio vieni, vieni qui, ché sono così debole così stanco, sai, vieni che muoio senza te, non lasciarmi morire che senza te muoio lo sai, e morirò se non vieni morirò, e lei dice aspetta e si sente che parla con qualcuno e io riattacco il telefono e stacco la presa e questo è tutto per stanotte perché passa un’ora e viene l’aurora ed è già mattino.
E’ già mattino e squilla il campanello della porta chi sarà, mi alzo dal divano dove giacevo prostrato e mi trascino alla porta guardo dall’occhio di vetro e chi è chi non è che indugia sul pianerottolo, è Wilhelmine è, mi addrizzo mi dò un contegno e apro la porta, le faccio segno di entrare, lei fa un passo in avanti e subitamente ha un moto di repulsione, dio mio che puzzo dio mio che tanfo dio che lezzo immondo ma come fai a stare qui dentro si esclama, ma quale puzzo dico io non sento niente, ma malgrado ciò che dico lei si avanza e districa fra i gatti che curiosi la circondano e corre alla finestra scosta la tenda e orrore spalanca i vetri, non l’avesse mai fatto divento furioso ma cos’è questo modo di fare questo modo di agire le urlo dietro, questa intromissione questa interferenza che cos’è questo cos’è ciò io domando e dico ma non lo sai da quanto tempo questa finestra è chiusa è chiusa da quando la mamma, ma quale mamma e mamma falla finita mi interrompe lei, senza pietà e senza misericordia, ma non lo senti che non si respira, ma come fai a stare in questo tanfo, in questo puzzo immondo, si accanisce lei e io qui non posso resistere e va bene d’accordo attenersi alla massima discrezione al più impeccabile codice di condotta del mondo e a tutte le buone maniere del galateo universale, ma quando ci vuole ci vuole e qui ci vuole, le dico allora ma cosa credi ma cosa pensi non sei certo migliore di me tu non hai visto in che stato hai ridotto casa tua che poi è un poco mia, tutta quella feccia sui pavimenti, tutta quella muffa nel frigorifero, non sei certo più pulita più ordinata più a posto di me non sei, ma cosa ne sai tu mi fa lei cosa ne sai, poi ripensa e dice ah ma allora mi sei entrato in casa è così nevvero in casa mi sei entrato a mia insaputa come un ladro così è stato non è vero e quando è stato ah cane bugiardo e rognoso, sei un degno figlio di tua madre, chiunque ella fosse, e su questa affermazione mi si getta contro e cosa vuoi, se mi si tocca la mamma io non ragiono più, tutto mi puoi toccare ma la mamma quella no, mi viene il sangue agli occhi mi viene, e comunque quella mi si è gettata contro e cosa fare, dovrò ben difendermi o no, quella già mi cerca gli occhi con le unghie quella già mi pianta un ginocchio nelle parti basse, quella già mi morde il naso e quasi me lo stacca me lo, dovrò ben difendermi e lei è così asciutta e muscoluta, tiene queste braccia così dure che non riesco a tenere ferme e, cosa vuoi, prima che sia troppo tardi, prima che io stesso non venga sopraffatto, con il pregiudizio che si immagina, per l’immagine di me stesso che posso conservare, ora e negli anni a venire, per tutto ciò, prima che sia troppo tardi, le dò un bel pugno forte alla radice del naso e poi anche un altro perché quella non molla non cade non crolla come ci si potrebbe attendere anzi, qui non si scherza questa è una vera lotta per la vita e per la morte questa, e infine a forza di pugni alla radice del naso lei mi crolla, mi crolla a terra e mi rimane immobile in posizione orizzontale e a questa vista cosa vuoi, il sangue non è birra, l’uomo è fatto di carne e di sangue, cosa vuoi, lei mi sta lì così in quella posizione orizzontale e scomposta e non escludo che in questo suo stare, in questo suo essere-qui, in questa specie di apertura a ciò che è aperto non sia in atto, come dire, una sorta di seconda intenzione, magari inconscia o subconscia come vuoi, fatto è che, cosa volete, con tutto questo giacere, questo disordine delle vesti, cercate di capire, con quest’offerta, questa disponibilità, cosa dovevo fare, dovevo ben rispondere, non sarò certo un ignavo no, non sarò certo altezzoso e impassibile no, debbo pur essere con, debbo pur andare incontro, debbo pure andare verso, verso la gente e verso gli umani come me, debbo pure incontrarlo l’altro oppure no ed è così è così che su questo atto si faccia dissolvenza.
Ma Wilhelmine cosa fa non reagisce e d’accordo questo è anche logico lo posso capire con tutto questo trambusto quest’emozione questo scombussolio ma questa immobilità questa no non la capisco che cos’è che cos’è ciò cos’è no non farmi ciò non farmi questo non ci vuole  no proprio stamattina poi fammi prendere dell’acqua fammi spruzzarle il viso rovesciarle il bicchiere sulla faccia niente non serve a niente non si muove non reagisce non risponde cosa faccio adesso davvero non lo so veramente oh non è così che doveva andare oh non è questo che volevo no o dio o dio o dio che cosa ho fatto che cosa è capitato che cosa faccio adesso che cosa, intanto richiudo la finestra ecco adesso ragioniamo riflettiamo, non divaghiamo, veniamo al dunque, veniamo a Wilhelmine, veniamo a questa cosa che già non ha più nome, ragioniamo con calma, pensiamo che nessuno sa niente nessuno ha visto niente e siamo solo io e lei, che è solo una cosa ormai, qui in questa casa, io lei e i gatti, queste belve feroci, sempre affamate, che indifferenti ai miei guai e ai miei dispiaceri già reclamano da mangiare, con disperati reiterati lamenti, come ogni mattina, e che mi fanno venire in mente qualcosa di abnorme qualcosa di mostruoso, pensiamoci sopra, pensiamo che trenta gatti a digiuno, a duecentocinquanta grammi al giorno ciascheduno, no, non va, ci vorrebbero almeno quindici giorni, ma non mi fanno pensare questi qui, non mi fanno ragionare, perché non tacciono, perché non mi lasciano in pace, neanche c’è più niente da mangiare, a parte Wilhelmine, non ci sono più scatolette dovrò scendere a comprarle, i soldi dove sono ecco e le chiavi, non fosse che uscissi e non potessi più rientrare, ecco le chiavi esco e mi chiudo ben bene la porta alle spalle, mi chiudo me la chiudo e sono nella strada sono nella via affollata ecco ma cos’è questo cos’è non so, sono sempre stupito davanti alla vita io, sono come un eterno bambino, sono io, che sempre sono davanti al mondo come in uno stupore, come.

Manuale dell’accidioso (1992) prima parte

Un capriccio

Faccio il cieco. Sai cosa ti dico, oggi faccio il cieco. Metto gli occhiali affumicati da saldatore, ritrovo nel ripostiglio la canna che ho dipinto di bianco, infilo un impermeabile liso e impataccato, mi calco sulla fronte un cappelluccio di lana col pon pon, vado e mi apposto al semaforo sul viale, e ce ne sarà uno che si fermerà, sì uno ce n’è sempre, un signore premuroso o meglio ancora una cortese signorina la si trova sempre che si senta in dovere di aiutare il povero cieco ad attraversare la strada, in mezzo a tutti quelli che passano e vanno oltre, non che non lo vedano no, gli altri, il cieco, ma non lo vogliono importunare con una indiscreta attenzione, questo è, e hanno il tatto di lasciargli tutta la sua autonomia, al povero invalido, che la strada di casa certo la conosce, non vorrà mica andarsene a passeggio così, il povero cieco, senza scopo né ragione, sarà certo a casa che se ne torna, e la strada di casa vuoi che non la conosca, pensa a tutte le volte che avrà contato i passi, pensa alle volte che avrà calcolato e previsto ogni singolo ostacolo ogni asperità e accidente del terreno da attraversare, di qui a lì e di lì a qui, pensa che ti pensa è perciò che sto da dieci minuti davanti alle strisce e non c’è un uomo pietoso che si fermi né una compassionevole signora, ah ma che mondo è mai questo, questo qui, che mondo è mai questo, questo qui io domando e dico ma che mondo è, che mondo è questo, questo qui?
Ma no, lo vedi che sei ingiusto con il mondo, lo vedi che eccone lì uno, eccolo lì un baldo giovanotto, che esita e temporeggia dall’altra parte della strada, mi osserva ed è indeciso, non sa se continuare per i fatti suoi oppure no, fa due passi e torna indietro, sì lo so lo capisco è seccante è imbarazzante per davvero mostrarsi ai passanti questi sconosciuti nei propri lati deboli e pietosi, lo so non sei mica il buon samaritano ragazzo mio, ma io di qui non mi muovo e la via non la traverso certo da solo e, ti vedo infine che cedi e vieni a me  e, me la metti la manina sotto il gomito e, mi ci conduci in salvo sul marciapiede opposto e, quando già ti senti in salvo e già con la mente e col pensiero voli alle belle cose che ti aspettano, ah, proprio allora proprio quando vuoi congedarti e proprio per cortesia mi chiedi se vado lontano, proprio allora oh no questa non ci voleva proprio ti devi sentir dire che sono per l’appunto uscito a passeggio e che sì davvero veramente la gradisco la tua compagnia porcaccia la miseria questa non ci voleva proprio ma guarda tu proprio a me doveva capitare questo qui me la devo portare a spasso questa piattola e proprio qui dove tutti mi conoscono, e così ce ne andiamo sottobraccio per la via come due vecchi amici, e la gente sì che ci guarda, ah se la gente guarda questa coppia singolare, questo bel giovane elegante e davvero perlaquale e quel povero straccione invalido, il quale struscia i piedi e avanza così piano, ma così piano, e vuole che l’altro gli racconti che cosa c’è a destra e che cosa a sinistra, come se non lo vedessi da me stesso, come se non lo vedessi da me, quello che c’è a destra e quello che c’è a sinistra, ma che vuoi ne ho ben il diritto anch’io, anch’io ho diritto oppure no, ce l’ho anch’io oppure no non ce l’ho, ce l’ho il diritto anch’io alla mia razione settimanale di calore umano, sì ce l’ho ve lo dico io ce l’ho, e alla resa dei conti ce l’ho avuta anch’io sì, un qualcuno che mi ha parlato per mezz’ora c’è stato sì anche per me, e questo scambio questo contatto benedetto lo si è praticato sì, oh, e allora.
E allora, e allora mi faccio deporre davanti a un qualsivoglia portone qualunque, e dico a costui dico a questo bel giovane gli dico mi lasci pure qui bel giovane, gli dico che questa è casa mia e lo congedo, ed eccolo già lo vedo con gli occhi del pensiero lo vedo che già se ne corre via, leggero come un uccellino se ne corre via, lui, e quanto a me, quanto a me, non mi rimane che infilarmi gli occhiali scuri in tasca, nascondere la canna bianca sotto l’impermeabile e tornare alla roulotte.
Eh sì, queste sono le cose che nella vita fanno piacere, questi radi incontri occasionali che sono il sale della vita, oppure queste sane abitudini come, ad esempio, quando te ne torni al calduccio nel tuo bravo posticino e ti spogli e ti adagi nella tua cuccettina e ti prepari a un meritato sonnellino e, sai com’è, con gesto automatico e direi quasi non so ti gratti fra le cosce e ti passi la mano destra sul tondo ventre e il dito medio esplora la cavità dell’ombelico e rinviene quel batuffolino formatosi con lo sfregamento della canottiera invernale, formatosi per l’esattezza con lo strofinio del tessuto lanoso sulla superficie cutanea, così come le alghe del Mediterraneo, battute e ribattute sull’ospite battigia, si trasformano nelle graziose sfere vegetali che tutti conosciamo, e quando il dito mignolo della mano destra con abile movimento d’uncino estrae e porta alla luce la cosina lanosa e grigiastra, ed ecco, ecco, non so perché ma in quei momenti mi si apre il core, non so perché ma è perché senti in modo confuso che questo è uno dei piccoli piaceri della vita, che dirti, sarà che la vita non ne dà poi tanti, di piaceri, a voler essere davvero sinceri, ma se volete saperlo ebbene questo ne è uno.
Sì, non si può negare, no non si può, questo no, no non si può negare no che questo è un bel momentino, quando ti infili come un baco nel suo bozzolo, come una salsiccia nella sua pelle, come un uomo nel suo sacco a pelo conservato dai tempi del servizio militare, e tiri la chiusura lampo, a lasciare fuori solo le braccia, che sistemi sotto la nuca, a comporre il corpo tutto in questa posizione tipica del sognatore, no non si può negare no che questo è un bel momentino e perciò lo consiglio specialmente, questo giaciglio, o brandina, o scendiletto o, sia pure, materassino di gomma, materasso ad acqua, materassa di lana, di crine, con le molle o senza, saccone di foglie, di capecchio, pancaccio, letto di assi o semplice lettiera, insomma sia dove sia distendersi una buona volta in posizione supina; porre entrambi gli avambracci al disotto della nuca; lasciar vagare lo sguardo  sulle macchie di umido del soffitto imbiancato a calce (avete voluto risparmiare sul materiale, bel risultato, adesso ve lo tenete), sulle travature ripassate col mordente del soggiorno rustico, sugli affreschi cortigiani della dimora principesca, sull’impiallacciatura del controsoffitto spagnolesco, sulla controsoffittatura di canne sfondata dal terremoto dell’ottanta e mai riparata, sull’intreccio di strame della capanna bantù, sull’assito di abete della baita alpina, sulla lamiera ondulata della baracca carioca, sulla rastrematura pietrosa del trullo salentino, sul foro di aerazione del wigwam algonchino, sul tetto di plastica della roulotte nostrale; lasciar vagare lo sguardo su tutto ciò e lasciar correre il pensiero ai tempi andati e a quelli a venire. Vedrete, l’effetto è sicuro e lo consiglio a tutti, a grandi e piccini, sarete come nuovi ve lo dice zio, sarete come prima e come dopo la cura, ma a me, questa cura benedetta, quando è che farà effetto, me lo vuole dire o no, dove è che andiamo a forza di guardare il soffitto e di ripensare, lontano non andiamo no, ah se penso se ripenso che le leggevo Kierkegaard in danese, seduto sul bordo della vasca da bagno, mentre lei si sciacquava e s’insaponava, si risciacquava e si rinsaponava interminabilemente, con quei suoi due bottoncini rosa che facevano cucù dall’orlo della schiuma, mentre lei diceva che sì capiva, capiva tutto, come  avrebbe potuto non capire non amare qualcosa che dalle mie labbra usciva, lei che di me amava perfino il cerume delle orecchie e non per altro, ma solo perché era proprio mio di me, ah capirete allora come dovessi ricorrere a tutto il mio self control, per continuare la lettura. Ma sono altri tempi quelli e non voglio qui rivangarli, veniamo invece piuttosto a noi.
Veniamo invece piuttosto a noi e più precisamente veniamo a me. Veniamo piuttosto al fatto che, essendo io scivolato inavvertitamente nel sonno, bene o male ne sono anche uscito, ed è già mattino per fortuna e per grazia di dio, è mattino anche oggi questa sì ci voleva proprio, lo so che è mattino perché le automobili passano più fitte sul cavalcavia sotto il quale ho parcheggiato la roulotte e la fanno tremare, a darmi questa dolce sveglia e così mi sveglio, mi sveglio e guardo l’orologio, no è ancora presto c’è da aspettare ancora dieci minuti ma com’è, hanno fretta di andare a lavorare oggi tutti questi automobilisti che mi hanno svegliato dieci minuti prima del solito ma io ho la mia tabella da rispettare sono un tipo preciso io e la tabellina sta lì appesa alla parete che lo dice: ore otto, sveglia, e questa è fatta; ore otto e quindici, operazioni igieniche (vado a compierle dietro il pilastro del cavalcavia); ore otto e trenta, prima colazione (mi preparo sul fornellino la solita pappetta ai semi di lino e di girasole); ore otto e quarantacinque, attività lavorative.
E, difatti, quando si sono fatte le otto e quarantacinque diciamo le nove meno un quarto, quando quelle ore lì si sono fatte, quando a un bel momento infine si sono fatte ho preso dal ripostiglio i miei strumenti di lavoro e al lavoro mi sono avviato, mi sono anzi di buona lena avviato, mi sono dunque di buona lena avviato al lavoro, ma non senza aver preso in mano i miei strumenti, e ho preso dunque l’asta di legno alta un metro e quarantacinque in cima alla quale è saldamente fissato, in posizione diagonale rispetto all’asse dell’asta, è saldamente fissato, per mezzo di uno spago girato e annodato,  è saldamente fissato il manico di un pennello piatto misura otto, fatto di setole sintetiche non è il caso di scialacquare qui, con i tempi che corrono, e ho preso dunque l’asta di abete annerita dall’uso, alta un metro e quarantacinque centimetri, ho preso quella e un barattolo di conserva da mezzo chilo (B), scoperchiato da un solo lato e opportunamente forato, grazie a un provvidenziale chiodo metallico, in due punti opposti situati un mezzo centimetro al disotto del bordo superiore, praticati in modo tale da poter essere penetrati da un apposito fil di ferro (C) il quale, opportunamente ritorto, forma due occhiellini che lo fissano al bordo della latta e, adeguatamente incurvato, forma un mezzo cerchio al disopra del barattolo (B) e costituisce così un aggraziato e acconcio manico, un vero fatto apposta, atto al trasporto del barattolo (B), grazie alla semplice introduzione del dito mignolo o anche di un altro a scelta (D), al disotto del cerchio (C) di cui sopra, e tale barattolo (B) è ripieno, o preferibilmente è pieno per due terzi di una sostanza lubrificante di natura variabile, che può essere oggi olio di lino o di girasole o financo di motore, domani strutto o sego o sugna o semplice grasso di maiale, dopodomani ancora vaselina o stearina o persino crema nivea, variando ciò secondo le disponibilità in stock o al dettaglio e le alterne vicende del mercato di sostanze untuose e grassi in genere, e insomma quello che trovo trovo e lì dentro lo metto, quello che conta è il risultato e il fatto che le saracinesche io le sappia lubrificare a regola d’arte.
Avendo or dunque gli strumenti di lavoro che vengo di descrivere in mano, avendo gli strumenti in mano, avendoli descritti, avendoli e descritti e in mano, avendo gli strumenti posso avviarmi al lavoro e non pongo tempo in mezzo, no non lo pongo no, invece mi avvio al lavoro perché i puntuali negozianti, pizzicagnoli e norcini, tarallari e acquafrescari, e i capaci panettieri, e i capienti macellai, e i sapienti librai, eccetera eccetera la lista è lunga e tutti costoro intanto hanno già aperto bottega non aspettavano certo me, e hanno tirato su la saracinesca, che fosse stata a grata, a griglia, a losanghe a fasce o a doghe che dir si voglia, insomma fosse stata come fosse stata ormai l’hanno già alzata e l’hanno sentito l’attrito il cigolio la resistenza della materia, e l’hanno avuto il mal di schiena o finanche il colpo della strega, a chinarsi così, in pieno inverno, a scoprire il dorso demunito di fascia elastica e a fare sforzi bruschi inutili e dannosi alle reni e per farla corta e per farla breve questo è il momento buono per apparire nella via e lanciare il mio grido della strada.
E sì, questo sì, questo è un buon momento della mia giornata, quando nel fresco e anche rigido mattino calco l’asfalto urbano e mi avventuro in un nuovo quartiere, verso sconosciuti luoghi, verso incontri fugaci e imprevedibili e sì, è un buon momento questo, che fin dal risveglio ho atteso e dilazionato, è un buon momento questo, quando prima di affacciarmi al primo negozio, prima di offrire il mio ben noto viso a questi ignoti visi, mi attardo brevemente a un cantone, il tempo di trovare col dito la maliziosa cispa che durante la notte s’era installata all’angolo dell’occhio, e avendola appena, per puro piacere, tastata fra pollice e indice, infilarla nella scatolina che ho estratto dalla tasca del cappotto e riporla, nella scatolina, nella tasca, nel cappotto, insieme con le sue compagnucce belle, a nanna sù bella a cuccia sù dai stai lì buona da brava dove ti ha messo papà, gioca con le amichette e non disturbare i grandi, che come vedi hanno da fare e devono lavorare e devono tirare a campare e devono oliare questi ingranaggi o meglio questi binari perché, perché qualcuno che le faccia aprire, queste porte, queste barriere sociali, qualcuno ci vuole penso io, altrimenti, altrimenti ditemi voi: come è che si andrebbe avanti, eh?
Eh, si va avanti, si va avanti, dove vorresti andare altrimenti, si va avanti e non indietro, ah no, andare indietro? questo no non potrei mai accettarlo mai, tutto ma non che si vada indietro invece che andare avanti, e così vado avanti e non indietro, mi faccio avanti davanti e davanti alla porta di questo bel fondaco lancio il mio urlo rituale, il mio sopracitato grido della strada e così come è giusto risposta me ne viene.
Me ne viene risposta, sì, una risposta c’è, non è forse quella che avrei voluto leggere su quelle labbra ma una risposta c’è ed è forse questo ciò che conta, cioè questo fatto qui che cioè volevo dire sì ecco questo fatto qui che non manchi questo ecco questo dialogo questo scambio, che rimangano aperte cioè come dire ecco le chiuse della comunicazione e, anche se ti dicono vattene sparisci fuori dai piedi sciò vai a vagabondare da un’altra parte, ecco anche se ti dicono così e cosà, anche se ti si rivolgono in tal modo caro fratello incivile e indecoroso, anche se voglio dire caro fratello ti si rivolgono in tal modo incivile e indecoroso, sappi che Dio li vede, e consolati pensando che è pur sempre questa dico io una forma di rapporto di colloquio e di dialogo e me ne vado quindi contento e soddisfatto, non me ne vado con la coda fra le gambe no, non me ne vado come un cane battuto no, al contrario, è tutt’essendo vispo e arzillo che riprendo il mio marciapiede, che me ne vado per la mia strada mia di me, non senza purtuttavia al passaggio meditare su questo esempio di ignoranza umana e di lì su questa insensibilità diffusa e su questa caduta verticale, propria dei nostri egoistici tempi ingrati, dei valori di solidarietà e di convivenza, non ingannino no le pur lodevoli manifestazioni di segno contrario, non ingannino no le pur lodevoli manifestazioni di segno contrario, contrario alla verticale caduta dei valori di solidarietà e di convivenza di cui sono testimoni i nostri tempi egoistici e ingrati, non ingannino no e si pensi invece al cartello che quello si era messo in vetrina, si pensi a come si era dipinto quel tale che mi ha sgarbatamente scacciato dalla soglia della sua bottega, si pensi al contenuto di quel cartello che diceva La cortesia ci contraddistingue La convenienza ci caratterizza L’esperienza ci qualifica, io dico qui ce n’era almeno una o due di troppo, ditemi voi se non era ipocrisia umana questa oppure no, ditemi voi, e ditemelo! se questa è sincerità trasparenza e cuore in mano e non piuttosto doppiezza lingua biforcuta e cuore peloso, mi si passi l’espressione, che però ci vuole, visto il modo in cui vengono trattati gli onesti lavoratori, in questo pubblico esercizio delle mie galosce, e non si possono qui che condannare, ne converrete con me cari colleghi, non si possono qui che condannare questi scellerati atteggiamenti ambigui e ambivalenti, ma in fondo tutto ciò non importa no, non fa niente no, io vado oltre e vado avanti e non ho certo bisogno dei suoi Trattamenti Specifici io, delle sue Prestigiose Marche di Cosmesi io no, non  ho bisogno né di lui né di nessuno io e tantomeno di voi cari colleghi e non vi ci mettete anche voi adesso no non mettetevici no, lo so che state sempre sul chi va là, anche voi, lo so che ci pensate sempre due volte prima di, e che ci andate coi piedi di piombo, ci, in questo tempo di peste e d’ignoranza, dove non puoi girarti un attimo che già ti fanno le scarpe, che già ti scavano la fossa, che già ti mettono con le spalle al muro e cosivvia dicendo, ah! se penso quando penso che, con tutta la mia delicatezza la mia sensibilità, quando penso che, avvinto allacciato e congiunto a lei nell’atto amoroso, all’approssimarsi del momento supremo, non omettevo mai di sospirarle all’orecchio: “posso?”. Bel ringraziamento, ne ho avuto.

Ecco, quando penso a tutto ciò, ecco allora sento che mi hanno, mi hanno, mi hanno tradito, proprio così, ecco ora mi è uscita lo so che è grossa ma questa, questa dovevo dirla.
Ma scacciamo i cattivi pensieri  e torniamo alla bisogna, alla bisogna e a un nuovo negozio, il cui gerente è un tipo ammodo e perbene, ah questo qui sì, non come quell’altro, questo qui sì che è cortese e gentile e mi dice ma prego si accomodi facci pure, ah no, dico io, lei è cortese gentile ammodo e perbene lo si vede subito e il suo invito difatto conferma questa prima impressione, ma a me lei facci non lo dice no, sarebbe come se lei mi dicesse venghi invece che venga, capisce, qui o si è precisi e corretti oppure, me lo dica lei, dove è che andremmo a finire, me lo dica lei, me lo dice no non me lo dice anzi mi caccia, mi caccia via dal suo locale a manate e quasi a calci va bene ho capito me ne vado da solo me ne e mi ritrovo di nuovo sull’inospite e ventoso marciapiede, dove mulinano cartacce e foglie secche e i gas di scappamento mi bruciano gli occhi, ma cosa farci, sono un uomo della metropoli io, un uomo della folla sono e con la pioggia e col bel tempo le mie otto ore di marciapiede le devo fare, costi quel che costi in termini di raffreddori influenze tossi bronchiti, reumatiche e non, nasi otturati, congiuntiviti, mal di testa e nevralgie, nasi che colano, dolori artritici e muscolari, forme infiammatorie varie, e mal di piedi, calli duroni e vesciche, e piedi piatti, tendiniti, borsiti, pelli secche e screpolate, dolori renali e vertebrali e per oggi basta così potete andare a casa.
Voi potete ma io no, la mia giornata è appena cominciata e se ne vedranno ancora delle belle, restate quindi ai vostri posti, non perdetevi il seguito e guardate, guardatemi qui quest’uomo qui che cammina avanti a me si scarta un bonbon se lo infila in bocca e butta via la carta colorata e la stagnola, questo essere inurbano ed egoista, e devo chinarmi per due volte a raccattare i suoi rifiuti e datosi che un cestino, dei rifiuti, nei paraggi non c’è o almeno non si vede, eccomi costretto a deviare dal mio percorso e a vagare inutilmente per vie secondarie e prive di esercizi commerciali, e alla fine entrare in un portone e cercare nell’androne il bidone della spazzatura.
“Cosa ci fa lei qui?”, non faccio in tempo a sollevare il coperchio del bidone che questa voce mi raggiunge alla schiena come un coltello affilato e mi paralizza all’istante. Mi giro lentamente e chi ti vedo piazzato sulla porta della sua miserabile guardiola, chi ti vedo che mi guarda con sguardo rinfrignato e sospettoso, non lo indovinerete mai perciò ve lo dico io: sulla porta della sua miserabile guardiola, mentre mi guarda con sguardo rinfrignato e sospettoso, ti vedo un portiere, un bel ripugnante portiere come ce n’era una volta, uno di quelli che, quando si stava meglio quando si stava peggio, avrebbe già suonato il fischietto solo a vedermi e mi avrebbe già affidato ai servizi di quelli del Partito, in quanto elemento asociale e di tipo criminale, e dire che io volevo solo mettere una carta di caramella al suo posto in mezzo ai rifiuti, né di più né di meno, non volevo certo frugare nei bidoni di quel puzzolente condominio, cosa vuoi che me ne importi del contenuto di quei ributtanti bidoni, ho da lavorare, io, ed ecco invece dove mi conduce il mio civismo il mio senso dell’ordine e della pulizia, mi conduce davanti a questo, a questo portiere e, per fortuna siamo in regime democratico, già mi vedevo davanti a scribi satelliti Uditori e Giudici del Fisco, e vaglielo a spiegare che volevo solo buttare via una carta di stagnola, quando mai avrebbero potuto capirlo, e hai voglia a tendere il povero arco del tuo intelletto e cercare un’altra spiegazione del tuo essere lì in quel luogo e a quell’ora, e, atrocemente, lungamente, inutilmente sarei stato martoriato da scherani sgherri aguzzini esecutori vari e come me ne sarei uscito, chissà, chissà se sarei mai più tornato uccel di bosco, o anche solo di passo o, perché no, appena di ripasso.
Chissà. Fatto è che i tempi non sono più quelli che erano, sono altri e il portiere non ha più il suo fischietto di bachelite nera ma ha solo questa voce acuta e tagliente come un rasoio, con cui mi chiede cosa faccio io qui e cosa vuole che le dica, signore mio, mi trovo qui in rispetto delle più elementari norme di igiene e di sicurezza pubblica, e mostrandogli il barattolo e l’asta col pennello gli faccio: “Io sono il Lubrificatore Municipale”.
“Cosa?”, fa lui, “ah questa è bella”. Bella o non bella, signore caro, così è e mi lasci fare il mio lavoro, e ciò detto mi metto ostentatamente all’opra, e sollevo e riabbasso il coperchio del bidone e appoggio l’orecchio alla cerniera ad auscultare da dove è che viene precisamente il cigolio che c’è, e che quel coperchio cigoli questo negare non lo si può di certo, ed intingo quindi il pennellino nell’olio e lo passo sui cardini di ferro zincato e già il lamento del metallo si assopisce in un soffio e, svolto con successo questo compito me ne posso andare, ah se penso che questa mia urbanità questo mio senso civico mi sono costati almeno un decigrammo di olio di colza, oh sono proprio sfortunato io, fammene andare adesso e me ne vado difatti, lasciando il maledetto guardiano esterrefatto ed interdetto.
Sì, lascio interdetto l’esterrefatto guardiano, sicché profittando di questa sua provvidenziale interdizione mi metto in salvo, guadagno l’uscita e mi lascio alle spalle lui e la trappola del suo lercio immobile infestato di blatte scarafaggi boje panatere scaroze e scarafoni, ah non si respirava davvero lì dentro, fammene uscire all’aria aperta, fammi prendere una boccata d’aria, fammi cambiare aria, e qui dico aria come nel deserto direi acqua, e come in mezzo agli oceani in tempesta direi terra, e come perso fra i ghiacci polari direi fuoco, e come nel fondo di una segreta direi pane, ora però dico aria e aria sia, ma d’aria non si campa no lo sappiamo tutti e passata l’ora me ne torno al lavoro e mi affaccio alla porta di una boutique, questo sì è un posto locupletato è, guarda quanti oggetti belli, vedrai che qui saranno generosi e magnanimi, saranno di manica larga e forse avranno anche le mani bucate, e varco difatti la soglia dell’esercizio, spingo la porta vetrata che si apre con un beneaugurale scampanellio e chi c’è chi non c’è laggiù in fondo seduto alla scrivania, chi c’è seduto dietro la bella scrivania in puro stile direttorio, chi c’è seduto alla scrivania con i gomiti sul piano, della scrivania, e la testa fra le mani, chi c’è che sta seduto dietro una scrivania di puro stile direttorio, per quanto sommariamente riverniciata e ridorata che sia e forse persino in parte contraffatta, chi è che se ne sta poggiato alla scrivania con la testa fra le mani e i gomiti sul piano, della scrivania, e si lamenta così, e ha un’aria così sfastidiata e sconsolata e financo sfigata, mentre le lacrime gli scorrono sul viso e gocciolano piano sulla doratura della scrivania stile direttorio, chi è. E’ un signore, è l’esercente della boutique.
E siccome io sarò un tipo autonomo ed emancipato ma insensibile no questo non lo sono, mi avvicino all’uomo che vedo in quest’ambascia in quest’angustia in questa ipocondria, mi accosto al mio prossimo al nostro fratello che soffre e gli faccio: “ma che fa, piange?”. Costui alza il capo, si asciuga le lacrime col dorso della mano, tira su col naso e mi fa: “ah, è lei”, come se già ci conoscessimo, come se avessimo mai pranzato insieme o anche solo preso un caffè al bar ma non mi formalizzo no quest’uomo è sconvolto dal dolore, bisogna perdonarlo, è affranto dalla perdita, come si vede infatti dalle unghie che porta listate a lutto, e infatti mi guarda negli occhi e mi annuncia: “mi è morto il gatto”.
Davanti a questo io rimango senza parole, poi le trovo e chiedo a quel signore: “gli voleva molto bene?”. Non l’avessi mai detto, ecco che mi si rimette a piangere, ecco che mi scoppia in pianto, ecco che mi piange come una fontana, ed è tra un fiume di lacrime che mi indica col dito un povero fagotto che giace al suolo dietro la scrivania, è un qualcosa avvolto in carta di giornale e legato con lo spago. Bisogna seppellirlo, mi vien di dire, o affidarlo alle acque, o esporlo su un trespolo, o cremarlo e spargerne le ceneri al vento, mi vien di dire e lo dico, gli prospetto cioè praticamente tutte le possibilità offerte dalla nostra premiata casa, medaglia d’argento al salone funerario di Algeciras 1908, ed è un modo anche per riportarlo alla ragione, questo, e, difatto, il signore fa “sì, sì”, si alza da dietro la scrivania, tira fuori un fazzoletto dal taschino del blazer, si asciuga gli occhi, si soffia il naso, dice: “andiamo”. Solleva il pacchetto e me lo mette in mano, prende dal cassetto della scrivania due mazzi di chiavi e, da me seguito, esce in strada, chiude a chiave la porta del negozio e, da me seguito, si infila in una bassa macchinetta sportiva, mette in moto e in un batter d’occhio ci troviamo presso la discarica comunale, che giace presso il greto del fiume. Ma è oltre la discarica che andiamo, lungo la sponda ciottolosa, ed è lì che l’uomo si ferma e mi indica un punto qualunque, e io poso i miei arnesi, mi chino e scavo fra i ciottoli con le mani, e poi nella fanghiglia fredda, ed è lì che lasciamo cadere il povero involto, che un tumuletto va a coprire alla men peggio, poi il commerciante mi abbraccia e mi colpeggia la schiena, mi dice “grazie, grazie”, torna alla macchina ma dimentica di aprire la portiera dal mio lato, mette in moto e se ne va e io lo lascio, lo lascio solo con il suo dolore, come si conviene. Quanto a me, mi basta la coscienza di aver compiuto il mio dovere.
Compiuto il mio dovere, non mi rimane altro da fare adesso che tornare a piedi in città e, eccomi, ecco qui, lo faccio, lo vedete anche da voi stessi che me ne torno a piedi in città o, se non lo vedete, basta che vi figuriate (in campo lungo, per oggi, direi), basta che vi figuriate un omino che muove le gambe, poi una strada diritta diritta e sommariamente asfaltata, costellata di buche fangose e laggiù, no, lì, un pò più a sinistra, ecco bravi proprio lì, laggiù ecco i primi palazzi della città, quelli che hanno dipinto di rosa per farci appunto la vita più colorata a noi tutti quanti che siamo.
E cammina cammina, che cosa si offre allo sguardo del nostro omino, del nostro eroe, a un incrocio di due strade? Si offre allo sguardo del nostro omino, del nostro eroe, a un incrocio di due strade, si offre allo sguardo del nostro, si offre allo sguardo, si offre, si, si offre un’amena locanda, un’amena locanda si offre allo sguardo del nostro omino e del nostro eroe a un incrocio di due strade. E un invitante cartello lo lusinga, lo lusinga egli affamato camminatore suburbano e potenziale cliente, lo hanno scelto davvero bene il loro target questi inserzionisti, e hanno vergato a caratteri d’amanuense un invitante cartello che dice: Pranzo a prezzo fizzo. Compozto da: un primo piatto, un zecondo con contorno, 1/4 di vino, 1/4 di aqua minerale, pane e coperto, caffè. Beh di fronte a un tale invito come resistere e non resisto per niente no non resisto proprio per niente ci mancherebbe altro, non resisto no ed entro in questa trattoria rusticana, entro appoggio l’asta al muro e il barattolo a terra e mi accomodo a un tavolo, e nel fare questo sono fedele al mio programma, che al punto 5 prescrive: ore dodici, pausa pranzo.
Non per essere qui pedagogico né didattico, no, ma vorrei qui a questo punto della mia narrazione aprire una parentesi e dire come codesta regola della fedeltà al proprio programmino quotidiano sia davvero una regola aurea, e dovrebbe sempre essere il primo dei nostri precetti questo qui, cioè quello di farsi una bella scaletta e seguirla passo passo, perché l’esecuzione segue sempre la concezione, ed entrambe danno alla nostra vita quel senso e quella finalità che noi tutti ricerchiamo.
Si prenda dunque un bel foglio a righe o a quadretti o anche bianco, in tal caso la quadrettatura la si farà opportunamente con squadra righello e matita, si prenda dunque un tale foglio, vi si tracci una riga verticale nella parte sinistra, e sarà questa la colonna delle ore (si esegua, incolonnando le ore, da 8 a 22); si tracci quindi, al disotto di ogni cifra oraria, una riga orizzontale al di sopra della quale si indicheranno, ben allineate, le funzioni corrispondenti alla tale ora e, infine, all’estrema destra della tabella un’apposita colonna sarà adibita alla segnatura con una x dell’effettivo compimento delle operazioni prescritte; ciò consentirà di praticare, alla fine della giornata, il più scrupoloso degli esami di coscienza. Tale modello è confacente ad attività di ogni ordine e grado, perché che siate scolari o laureandi, semplici apprendisti o esperti maestri d’opera, capitani d’industria o pubblici impiegati, un tale sistema serve a tutti, provate e resterete soddisfatti.
Vedete che mentre voi provate io non perdo tempo e fettuccine al ragù zcaloppine alla valdoztana inzalata verde frutta di ztagione caffè 1/4 di aqua e di vino pane e coperto li ho consumati e posso passare al punto 6 della mia tabellina che prescrive: ore tredici e trenta, passeggiata igienica. Esco dunque dal ristorante e mi porto a passeggio ma, se ne parli per l’ultima volta, ma devo dire che a me questa regola aurea è più necessaria che agli altri, perché con questa mia vita libera e indipendente, con questi miei sbalzi d’umore, e questo girovagare alla ricerca di qualcosa chissà cos’è, con tutto questo ci vuol bene una struttura uno scheletro della tua giornata, altrimenti che cosa ti resta fra le mani, che cosa che cosa ti rimane, se ti lasci andare così, seguendo solo l’istinto e la fantasia?
Ma riveniamo alla nostra passeggiata, piuttosto, riveniamo a quello che ci aspetta oggi, e che cosa ci aspetta, ci aspetta il lavoro quotidiano cos’altro vuoi che ci aspetti, non c’è certo qualcuno qui che mi dica fai questo e quell’altro, ti prego fallo, fallo per me, se non vuoi che per me sia finita, se non vuoi che io muoia, se non vuoi che io scompaia per sempre, no uno o una che mi dica così non c’è e allora cosa vuoi, se non lo dico io a me quello che ho da fare, chi altro vuoi che me lo dica?
E quello che ho da fare non è cosa da poco, trattasi difatti di oliare per così dire i cardini dello scambio e della comunicazione fra gli uomini, aiutandoli in tal modo a essere in pace e in commercio tra di loro. E’ per questo e non per altro che, assunte qui le forme di un povero lubrificatore, scendo in città e mi affaccio a tutte le soglie e cortesemente mi annuncio agli esseri umani: “buongiorno, sono qui per l’unzione”, oppure, a seconda dei luoghi, sgarbatamente urlo: “ungo?”.
“Ah, lei capita a proposito”, può accadere financo di sentirsi dire, raramente però, e questi sono davvero quei rari momenti belli che raramente mi riserva questa ingrata professione, bei momenti e rari quando qualcuno ti dice “ah, lei capita a proposito”, e non ti resta più che fare ciò per cui sei venuto, farlo dunque, e ricevere di ciò la giusta mercede; no, non domando mica la carità io, e quando mi si chiede quanto è che mi si deve, non vorrai mica che io dica “faccia lei bontà sua” no, io la mia tariffa ce l’ho, sarà irrisoria e risibile e ridevole quanto si vuole ma è pur sempre una regolare tariffa con tanto di annessi e connessi, spesa per la materia prima, tempo di impiego della manodopera, detto anche tempo-lavoro, indennità varie e contributi sociali; ma anche sommando tutti questi fattori, ve lo assicuro, non fa gran cosa, e i clienti questa cosa la danno veramente a cuor leggero, e rimangono contenti perché il servizio l’hanno avuto, e con che abilità, e con che destrezza, il servizio l’hanno avuto e qualcosa di positivo l’hanno fatto anche loro, un negozio con qualcuno l’hanno avuto anche loro, chi vuoi altrimenti che sarebbe entrato in quella rivendita di libri usati, dalle vetrine così polverose che neanche la sagoma dei libri esposti si distingue, chi vuoi che oggi come oggi avrebbe rivolto la parola a quel vecchietto dalla testa d’uccello che fa tutt’uno con il ciarpame che ha accumulato qui dentro, chi vuoi che avrebbe con lui scambiato cortesi parole sulla pioggia e sul bel tempo, chi vuoi che, chi vuoi che, che abbia compassione di questo personaggio dimenticato dai secoli, di questo vecchio signore gentile e inutile, di questa persona che a malapena ha ancora una forma e parvenza e appena appena obbedisce anch’essa come noi tutti alle leggi della gravità, chi vuoi che abbia ancora compassione di questo sedimento di questo scarto dei nostri tempi obliosi, di questa cosa che sta affondata in fondo a una poltrona ammuffita e che è tanto se ha ancora una voce, una voce quasi inaudibile, che porta ancora parole, che dice “ah, lei capita a proposito”, quando quella saracinesca non l’alzava né l’abbassava più da almeno vent’anni, questo lo vede anche un profano, lo vede, che era costipata e incarognita da un disuso di trent’anni, quella serranda, ve lo dice zio, topi e ratti sorci e pantegane avevano fatto il nido nel cassettone del rullo da almeno cent’anni, ve lo dico io, sono arrivato io a disturbarli e a farli fuggire a frotte, questa è la pura verità, ve lo dico io, ma si vede che il vecchio l’aveva visto subito che io questo lavoro lo faccio con l’anima, ed è vero, lo faccio con l’anima io e si vede, in quanto il lavoro è lavoro, e ho scrostato col manico dell’asta le guide impastoiate di lanugine e di guano, e a forza di tirare l’è venuta giù la serranda, alla fin fine è venuta e l’obolo del libraio l’ho proprio meritato questo va detto sì e poche ma sentite parole le ho pronunciate sì e ho dichiarato che di saracinesche ne avevo viste, eh se ne avevo viste, ma una così no mai, no una così non l’avevo mai vista mai, sicché è stato veramente con l’aria di scusarsi che il vecchio ha sospirato e ha tirato di tasca la moneta e, per non farlo sentire in imbarazzo io, ché sono un cuore tenero io, per non farlo stare a disagio mi sono attardato a chiaccherare con lui del tempo che faceva, e faceva freddo sì, di questo si accorgeva anche lui, perché glielo facevano sapere le sue povere ossa, glielo, a lui, per quanto questo inverno qui, come mi ha rivelato, non fosse niente in confronto a quello del quarantaquattro, quando fece così freddo che, se proprio volevi azzardarti a urinare all’aperto, allora dovevi farlo camminando all’indietro, se non volevi che un arco di ghiaccio ti penetrasse per l’uretra fino al cuore, uccidendoti all’istante.
“Ma no!?” faccio io, a sentire questo resoconto. “Ma sì!” fa il vecchio, sorpreso della mia incredulità, di cui subito e precipitosamente mi scuso, ah se penso che ho fatto pesare l’incognita del dubbio sulle parole di questo povero vecchio, come potrò mai perdonarmene, come? Ci penso e intanto ascolto l’uomo che mi racconta la sua vita e sono stanco di stare all’inpiedi, ché i piedi mi fanno ancora più male quando staziono immobile e non li muovo, i miei poveri piedi che mi fanno male, e le varici, quelle chi le sente, quelle, sentitele voi perché io di starle a sentire la pazienza non l’ho più non l’ho, ma il fatto è che il momento buono per congedarmi non l’ho trovato e poi gli voglio già così bene, a questo vecchietto, gli voglio così bene che me ne vengono le lacrime agli occhi e vorrei stringermelo al petto e baciarlo sulla fronte veneranda perché egli è il papà di noi tutti, il papà che non si cura più di noi perché ai suoi libri ha da pensare, e vorrei baciarlo sulle tempie, questo piccolo vecchio dalla barbetta bianca, ma non lo faccio, non lo abbraccio né lo bacio e invece ascolto in piedi il suo racconto interminabile, e passa il tempo, il tempo passa e siamo proiettati all’indietro nel tempo, perché così è, voliamo verso il passato e l’occhio lo voltiamo dall’altra parte, e così non vediamo niente, non vediamo proprio niente no di quello che c’è sotto di noi, così è, ma non voglio immalinconirvi no con le mie storie e voglio invece solo finire di narrarvi di questo vecchietto, si pensi ad esempio che, dopo aver fatto quello che ha fatto, dopo aver fatto quello che ha fatto e tutte le altre belle cose che ha fatto, di cui mi ha riferito, ecco che si trova a finire i suoi giorni in quest’umida e buia bottega, ma che vuoi, purché abbia un libro in mano, lui, tutto il resto gli è indifferente, e ha bisogno solo di qualcuno con cui discutere di tanto in tanto e del più e del meno, esigenza questa che io comprendo bene, perché anche la mia autosufficienza non è che sia eterna, e passata una settimana un corpo umano devo pur toccarlo, un qualche contatto con il mio simile devo pure averlo, perché farei allora il cieco con la canna bianca, perché farei lo sciancato col carrellino, perché farei quello che entra nel bar e sviene sul pavimento, lo faccio perché uno che ti prende per le spalle e ti rimette in piedi lo trovi sempre, perché farei quello con due gambe ingessate e le stampelle rotte allora, lo faccio perché qualcuno che ti prenda per mano o anche sottobraccio compaia e il prezioso contatto con il mio simile l’abbia anch’io, ah se penso che a questo mi sono ridotto, non crediate no che non sia consapevole della mia miseria no, ah se penso, se penso all’ingratitudine umana, se penso alla marezzatura dé suoi capelli biondi, che più non pettinerò con dita trepide, se penso al dedalo di venuzze nella trasparenza del suo seno colmo, che il mio sguardo avido più non percorrerà, se penso alle affusolate falangette che più non suggerò tra le labbra tremanti, se penso alle pelluzze tra unghia e lunula che più non le reciderò con i dentuzzi, no, che più non, che non più, che non più da che, da quando un giorno le dissi, non l’avessi mai fatto, da quando un giorno le dissi, porgendole le chiavi di casa, le dissi … ed è così, gentili astanti, è così, o voi del cortese pubblico, è così, belle persone, è così che io sono, oggi come oggi, in senso assoluto, l’ultimo dei reietti, proprio così.
Proprio così, ma a prescindere da tutto ciò, su cui rilascio cadere il velo che ho avuto la debolezza di sollevare, sia pure per un attimo, a prescindere da ciò c’è qui il mio vecchio, che continua a parlare parlare m’ero distratto un attimo ma che alla fine dichiara che l’ora è tarda e i suoi ricordi anche sono stanchi, e come lui cominciano a ciondolare il capo, a palpebrar le palpebre, a sbadigliare, e insieme con lui reclinano la nuca sullo schienale della poltrona e si riaddormentano.

Amici! Cosa volete che faccia io adesso. Faccio quello che vi aspettate da me, e cioè rimbocco il plaid sulle gambe del pover’uomo e me ne esco cheto cheto senza far cricchiare l’uscio, immaginate solo il tempo che ci ho messo, ma alla fine nella via mi sono ben ritrovato e non senza sollievo ho riprovato il gusto della libertà! che consiglio a tutti quanti, è davvero delizioso, e così ho ripreso i miei sentieri il cielo sia lodato, si è svolta veramente all’insegna della perdita di tempo questa giornata, ma non voglio qui recriminare, è andata come è andata e va bene così, ma devo ora recuperare il  tempo perso, perché come una diga incombe su di me il punto 8: ore diciannove, cessazione del lavoro, e che cosa ho combinato oggi, quale traccia ho lasciato del mio passaggio in questo mondo su questa terra, che cosa ho lasciato? Un bello zero, ecco che cosa ho combinato oggi, proprio così, finanche il vecchio la monetina se l’è tenuta stretta in mano e ci si è addormentato sopra, un bello zeri spaccato ho concluso, e questo qui che dico mi esce dal fondo del cuore, mi dispiace ma dovevo dirtela la verità fa male lo so ma quando ci vuole ci vuole, anche se questa rivelazione può comportare gravi conseguenze sullo sviluppo successivo del soggetto e anche taluni scompensi e squilibri del sistema psicofisico e financo pericolose affezioni psicosomatiche, perché qui siamo tutti soggetti a rischio, siamo, e nessuno sta in una botte di ferro, no nessuno ci sta no, e andiamo tutti avanti di pari passo, andiamo avanti, verso quella che è la nostra destinazione finale, e tornatene quindi al tuo posto, e cerca di mettere la testa a partito e vedi di quagliare qualcosa anche oggi e tira a te la maniglia di questo spaccio di generi coloniali, visto che la targhetta dice “tirare” e non dice “spingere”, tirala dunque la maniglia e con quella la porta e introduciti nello spazioso fondaco dove troneggiano dietro l’alto bancone i busti di due opime donne, madre e figlia, lo si vede subito difatti fin dal primo colpo d’occhio che quelle due donne opime madre e figlia sono, lo si vede perché quelle due donne sono proprio come due gocce d’acqua sono, sono davvero il ritratto sputato l’una dell’altra, solo, si direbbe, la figlia è il  ritratto della madre con vent’anni di più, e la madre è il ritratto della figlia con vent’anni di meno, a parte ciò entrambe sono occupate con i clienti, non è il caso di chiamare dal fondo del locale, mi accodo quindi ai clienti e aspetto il mio turno, che non arriva mai e poi mai, perché nuovi clienti entrano nell’esercizio e vengono tutti serviti prima di me, non mi vedono né loro né le bottegaie, ma come è questo fatto che quando c’è da fare una coda divento sempre invisibile e tutti mi passano davanti, ma com’è? Tanto è che, stanco dell’inutile attesa, volto le spalle al bancone e torno nella strada, lo vedi che qui invisibile non sono perché i passanti si scostano per non venirmi addosso, è vero però che mi sono piantato in mezzo al marciapiede mi sono e, allora, fatta questa prova qualità, visto che quando davvero lo voglio invisibile non lo sono no, fatta questa prova passiamo al prossimo, veniamo al prossimo e veniamo a questo negozio di calzature, che farà almeno 200 metri quadri di superficie interna, senza contare vetrine e spazi espositivi diversi, e per non parlare della facciata, che è tutta rivestita di marmi preziosi e incastonata di lapislazzuli e ametiste e che farà almeno trenta metri di lunghezza e avrà quindi altrettanta metratura di serrande, questo sì mi incentiva e mi motiva, entro perciò difilato in questo luogo spazioso e ben illuminato, entro ma non c’è nessuno qui, forse perché è vicina l’ora di chiusura chissà, si sente però un tramestio che viene dal retrobottega, aspetto pazientemente e nell’attesa raddrizzo un quadro storto, è un’elegante stampa che rappresenta un’antica conceria e a maggior ragione non posso lasciarla così storta, mi fa venire il nervoso mi fa. Attendo pazientemente e dopo non molto compare qualcuno da dietro la tenda compare una ragazza che mi fa “desidera prego”, ma questa ragazza è di una tale bellezza, ma di una tale bellezza che ne sono abbagliato e abbacinato e che tutto confuso impacciato e vergognoso arretro e sgaiattolo via senza profferir motto, perché davanti a tale bellezza si può solo morire.
Ed è scaduto così il tempo a mia disposizione, si sono fatte le diciannove e con quelle si è fatto il momento di cessare il lavoro, suona la sirena dentro la mia testa, ché non ho bisogno di orologio io per sapere che ore sono, ché me lo sento io a che punto siamo. Siamo al punto di dover operare un cambiamento, siamo a una svolta delle indagini sul caso mio di me, siamo al punto in cui si apre avanti a noi la lunga serata e bisogna trovare qualcosa da fare, non è a caso che talvolta in questi momenti mi viene una malinconia mi viene come un’uggia e con quella l’estro di cambiare aria, cambiare di posto e andarmene via verso nuovi lidi e nuovi orizzonti, per fortuna il punto 10 della scaletta sta lì, come una bitta sul molo dello sconforto, come uno scoglio nel mare dell’inoperosità, sta lì che dice: ore ventitré, ritorno al domicilio.

 

Qui la seconda parte

Manuale dell’accidioso seconda parte

Ma, di qui alle ventitré, di tempo ce n’è. Ieri ho fatto il cieco, ma oggi? E ieri era domenica, e oggi è lunedì, sì oggi è un giorno feriale e implacabile il punto 9 della mia tabellina recita: ore diciannove e trenta, pasto serale e attività ricreative e, datosi che così recita, ebbene non mi rimane che entrare in una bettola una locanda un’osteria che dir si voglia, non mi rimane che, se vogliamo procedere per esclusione,  non mi rimane altro che entrare in una bettola una locanda o un’osteria che dir si voglia, ed entrato in questa qui che è terreno già calcato e luogo a me ben conosciuto, entrato in questa qui proprio questa e non un’altra vedo che è già piena di avventori, ma non vorrete mica che me ne torni fuori con il freddo che fa, ho tanto camminato per giungere sin qui, ho consumato tante di quelle suole per venire fino a qui che ne ho perso il conto, e non me ne posso certo andar via così. E guarda che ti guarda un posticino lo vedo, sarebbe, questo posticino, a un tavolinuccio dove siede un uomo solo, secco secco e alto alto, ha un viso così triste, ma così triste, quest’uomo, e così solitario, che nessuno siede a lui difronte, meglio così, ci andrò io, che voglia di parlare ne ho ancora meno di lui, e non fa niente se ha quelle mani coperte da quei guanti di gomma, se ha queste due mani nascoste da questi guanti da massaia arancione gialli e blu, si vede che ne ha infilati almeno tre strati uno sopra l’altro, tanto che gli impediscono quasi di sollevare il bicchierino, no impressione non mi fa perché me, per farmi impressione ce ne vuole, perché me non mi fa impressione niente no, e poggiati i miei attrezzi e il pastrano vicino all’entrata mi seggo a costui dfronte, ordino il mio piatto e nell’attesa mi guardo intorno, non guardo certo lui no, cosa vuoi che me ne importi, me, delle sue mani guantate di gomma arancione gialla blu e invece, qui lo volevo, invece lui mi apostrofa e mi fa: “lei si domanderà senza dubbio caro signore come mai io vada in giro conciato a questo modo”.
“Io? No, perché?” ribatto io e già guardo altrove, ci mancava solo la conversazione con quest’esemplare dell’umanità umana, ci mancava. Ed è finita lì, io ho mangiato la mia bistecca con le patatine fritte, lui ha bevuto la sua grappa, ma, poi, cosa volete, sono un cuore solitario io ma, talvolta la curiosità la vince sulla mia naturale discrezione, la curiosità la vince talvolta e si finisce per dirglielo poi a quell’uomo, si finisce per dirglielo “ebbene sì me lo domando” e si viene così’ a sapere, si viene così a sapere, dalla pronta e circostanziata risposta dell’uomo in questione, si viene così a sapere, dalla pronta e circostanziata risposta dell’uomo, si viene così a sapere, dalla pronta e circostanziata risposta, si viene così a sapere, si viene a sapere così, si viene, si, che l’uomo in questione ha le mani elettriche e, se stringe la mano a qualcuno, quel qualcuno salta in aria colpito come da una scossa, colpito mortalmente questo no, ma neanche leggermente, un qualcosa sui cento-centodieci volts lo attraversa e un brividino glielo dà, ed è per questo che l’uomo elettrico che siede avanti a me ha dovuto prendere questa precauzione, di coprirsi le mani con guanti isolanti, per non essere di pericolo né per sé né per gli altri, in questo caso di stretta di mano ma anche in tutte le altre eventualità che la convivenza umana gli pone difronte, supponiamo ad esempio che inavvertitamente egli si appoggi a un oggetto che sia un buon o anche un mediocre conduttore, un bancone di bar ad esempio , magari di zinco o di alluminio dio me ne scampi e liberi, vi lascio immaginare le conseguenze in termini di ustioni di primo, secondo e terzo grado, imbianchimento o caduta dei capelli, pelli d’oca e altri traumi vari, per non parlare poi dei soggetti particolarmente sensibili alle scosse elettriche, ed è così che questo paria questo relitto della società vaga per il mondo con queste due mani arancioni gialle e blu che sono come un dito accusatore puntato contro di lui, quest’uomo che nessuno vuole più, quest’uomo di cui ci si ricorda solo quando viene a mancare la corrente e sono finite anche le candele e allora tutti i vicini lo vogliono e lo cercano, allora sì, per potergli mettere in mano una lampadina, che lui mantiene alta sopra il capo come la fiaccola della libertà, fra le dita pollice indice e medio, a illuminare di flebile luce le interrotte riunioni familiari, luce flebile certo, ma quei cento-centodieci volts non sono mica da disprezzare, no? e tanto sono gratis. Ah mi viene proprio da piangere a sentire questo racconto, mi sono davvero commosso e vorrei abbracciare questo povero uomo ma me ne astengo. Sì, non è il nostro un paese di larghi spazi, lo so, non è questa una terra di praterie sconfinate e terre vergini da dissodare, e ci si sta già strettini qui dentro sì questo lo so e, lo so, il posto al sole qui lo trovi solo se sei figlio di Tizio e di Caio, ed è così difficile l’integrazione del soggetto isolato in questo sistema di valori, e con queste mani elettrificate poi, cerchi di capire, come mi si presenta qui, anche lei però, lo so capisco tutto ma che diamine, possibile che in questo paese di antiche e umanistiche tradizioni un posticino un impieguccio non glielo si possa trovare, possibile che non vi venga in mente qualcosa per quest’uomo che in fondo una rara qualità ce l’ha, possibile che non si possa dare un senso un indirizzo a questa vita sprecata e spericolata, signore e signori non voglio qui fare l’anima bella sulle spalle di questo povero cristiano e non lo voglio certo ammollare a voi, e non ve lo darei per trenta, e non ve lo darei per venti, ma che dico non ve lo darei per dieci, ma per niente sì, insomma pensateci voi perché a me questo qui m’ha già stancato e non sono mica un Don Bosco io, non sono mica la fata dai capelli turchini, e adesso, solo per via di queste maledette orecchie che gli ho prestato per neanche dieci minuti dieci, ecco che mi viene dietro e non mi lascia più, ecco che mi segue come un’ombra nella notte buia come la pece, nelle lunghe silenziose vie della città addormentata ma guarda se proprio a me doveva capitare, questa mi mancava solo questa, e lo stupore vergine, sorto in me al cospetto di questo specimen umano, si è già trasformato in fastidio e insofferenza per la sua assiduità, eppure glielo avevo detto, all’uscire dal locale, detto glielo avevo che tenevo che fare, che i miei affari mi chiamavano e mi attendevano e, quantunque e, quantunque e, quand’anche e, quand’anche.
E quand’anche, e quand’anche me lo voglia sgrommare di dosso e, quantunque, quantunque cerchi di ignorarlo, fatto è che questa creatura disumana mi segue e mi alita sul collo e poi mi si accosta e prende il mio passo, facciamo proprio una bella coppia, il tracagnotto coll’asta e col pennello e lo smilzo coi guanti di gomma colorati  ci manca solo un pinocchio che difatti si presenta sotto forma di un cane randagio al quale cosa viene in mente, di accodarsi proprio a noi, bella soddisfazione, questa testimonianza di solidarietà, ma cosa gliene viene poi, a quello, a farsela con noi, ah no questa situazione è troppo scabrosa e quasi ridicola, ho una dignità io da difendere non fosse che ai miei occhi, cos’altro vuoi che faccia, gambe in spalla e fuoco alle polveri me ne scappo a grandi falcate, cosa vuoi che faccia, se non è zuppa è pan bagnato e quella zuppa non mi piaceva più e già quei due non si vedono più, me li  sono lasciati indietro li ho seminati e sono arrivato primo sono arrivato uno e sto infine in salvo nella mia roulottina teneramente cullata dalle vibrazioni del traffico sul cavalcavia, me ne sto nella mia roulottina, rimetto a posto gli arnesi, faccio un poco appena un pò d’ordine infilo qualche mattonella di carbone nella stufetta e sono pronto per andare a letto mi spoglio parzialmente mi infilo il pigiamino di flanella e seggo sul bordo della cuccetta accavallo le gambe mi studio i piedi passo l’indice fra le dita dei piedi e la pesca che ne ritiro è soddisfacente la ripongo nella scatolina con l’etichetta corrispondente e con questo è giunto il momento del meritato riposo, momento turbato solo dall’idea che domani dovrò alzarmi prima del solito, avendo dovuto abbandonare nella fuga il barattolo coll’olio, magra spoglia per quei due barboni, per me prezioso strumento di lavoro, cui dovrò al più presto trovare un qualche ersatz, un provvisorio sostituto, un interimario rimpiazzo o quel che sia, purché alla sua funzione funga.
Ci si desti quindi di buon’ora, non si ciondoli né si temporeggi inutilmente, non si giri in tondo né ci si porti a spasso sconsideratamente, si vada invece diritti al proprio scopo, non si aggiri con argomenti capziosi il nocciolo della questione e si vedrà che con la semplice osservanza di tali suggerimenti si otterranno successi eccezionali, e infatti a cercare dietro questo condominio in mezzo alla spazzatura che gli operatori ecologici non sono ancora passati a ritirare, a cercare sul retro di questo condominio una scodella sbreccata la si è trovata, che non manca persino sì di una certa linea e di una sua grazia, che bella mostra di sé può ancora fare, a vantaggio mio personale e della comunità tutta e in ogni modo siccome chi fa da sé fa per tre, e chi la dura la vince, e chi la fa l’aspetti, e chi dorme non piglia pesci, e chi non risica non rosica, e chi cerca trova, siccome tutto ciò e altro ancora, io la mia brava scodellina me la sono guadagnata col sudore della fronte, ce l’ho e me la tengo stretta, e nessuno me la toglierà, e nessuno potrà recriminare, perché qui non ci sono santi in cielo no, non ci sono no, e guardatemi qui piuttosto questa bella ciotolina, ammiratemi questa birichina linea azzurra che le cinge la taglia per intero, osservatemi prego i teneri fiorellini, dipinti a mano e non con i piedi no, osservatemi dicevo questi graziosi fiorellini blu che bordano come in un gaio girotondo la bianca convessità smaltata, ditemi se non sono un amore, e ditemi voi se non è questo un pezzo speciale, di quelli che non capitano tutti i giorni, ah no, questo non lo si può certo dire no, che di pezzi come questo se ne trovino ad ogni cantone, non lo si può dire no, non lo si dica allora e si taccia cortesemente.
Cortesemente si taccia, silenzio prego, il pezzo è stato aggiudicato, niente proteste, niente recriminazioni, si seguano piuttosto nel prossimo numero le nuove avventure del nostro eroe, ed eccolo qui il nuovo numero, fresco fresco che odora ancora d’inchiostro. Al sommario: I. In quali ulteriori drammatici frangenti si troverà oggi il nostro eroe? II. Sfuggirà alla spietata caccia di Cane Randagio e Uomo dai Guanti di Gomma? III. Riuscirà a procurarsi la sua dose quotidiana di lubrificante ?
Cominciamo dall’ultima domanda. La risposta è: sì. Ho già una bella idea, quella di rivolgermi al meccanico che sta sulla tangenziale, lui l’olio di motore usato me lo dà senza tanto discutere, me lo regala anzi e sempre volentieri, non mi va di andarci però perché in cambio vorrà mostrarmi la sua ultima opera, e io non so mai cosa dire davanti a questi suoi lavori e devo sempre cercare nuove parole di elogio che non vengono a me spontanee, ma non vorrai certo urtare l’artista, con un silenzio che suonerebbe condanna, proprio quando sta nel mezzo della sua opera, quando sta dentro l’opera e non fuori, e non ha quindi la necessaria distanza emotiva e la serenità di giudizio, potresti ucciderlo potresti, non vorrai mica farmi questo no, colpire un uomo nel suo punto vulnerabile, colpirlo, per così dire, nelle parti basse della sua vulnerabilità? Ma cosa vuoi il lavoro è lavoro ed esige anche una certa parte di compromesso, di mediazione, senza dubbio, fra sé stessi e il mondo, mondo che è qui rappresentato dal mio fornitore di olio di motore, un meccanico di nome Ambrogio, che ha un cuore d’artista sotto la sua rude scorza e il suo petto tatuato con aquile reali draghi e serpenti fasci littori falci e martelli stelle e strisce e chi più ne ha più ne metta e questo personaggio, questo bel tipo è il detentore della mia riserva di capitale variabile e a lui debbo sottostare, per farla finita vado da Ambrogio che, tò! è contento di vedermi e tiè! ha qualcosa di nuovo da mostrarmi e qui va premesso che Ambrogio non è un artista che possa scindere arte e vita vissuta, no lui non è di quelli, le sue opere hanno sempre un diretto riferimento alla vita reale, per quanto, per quanto mi senta di dire che demone è a ciascheduno il suo modo di essere, e che, per quanto faccia, il nostro non arriva a controllare sino in fondo la propria pratica operativa, e si lascia spesso convogliare in una pura gestualità, che dalla mera rappresentazione fenomenica lo trasporta piuttosto verso una espressione schiettamente vitale, una sorta di sinfonica e metaforica lauda del mondo sensibile, e in questo la sua rara maestria tecnica non è senza rendergli servizio e, pur nella mancanza di quel controllo irrigidente che menzionavamo sopra, pur nella mancanza di pastoie ideologiche e preconcetti vari dicevamo, le sue sperimentate doti virtuosistiche gli consentono sorprendenti risultati formali. Si parlava più sopra di sinfonia: come non pensare, ad esempio, a questa maniera di rendere i cozzi dei metalli e le urla delle lamiere contorte: non è forse questa una degna dimostrazione di quell’analogia che lega suono e colore, musica e pittura? ecc… Ma vai a spiegare tutto questo ad Ambrogio, cosa vuoi che ne sappia, lui. Purché mi dia il mio olio e mi lasci andare via, mi lasci infine uscire dal suo sgabuzzino, purché mi lasci ritrovare la mia strada e la mia libertà, non essere triste Ambrogio, sù, cerca di capire, non mi trattenere per la giacchetta tanto è inutile li vedrò un’altra volta i tuoi quadri del periodo ecologico, adesso devo proprio andare non farmi questo faccino no, non farmi questo visino smunto e patetico no, non farmelo no, ché mi pari una Maria Maddalena, e di pura scuola mantegnesca direi, se non erro, se erro correggimi ma lasciami andare ti prego ti scongiuro farò tutto ciò che vuoi, oh! infine libero!
Infine libero ma in terribile ritardo, dove mi porterà questo mio buon cuore non si sa ma intanto monto sulla mia automobilina e guido fino a un nuovo e distante quartiere, e qual’è questo nuovo e distante quartiere verso il quale ho intrepidamente diretto la mia vettura? Questo nuovo e distante quartiere è: il quartiere Tal dei Tali. Non mi chiedete altro, non mi tirerete fuori altro neanche con la tortura, neanche se mi scorticate vivo, anzi ho già parlato troppo, e non pensiate no che io lo faccia per me, no non è per me che lo faccio, che mi metto in piazza a questo modo ma, volete saperlo per chi è, è per voi, è per voi che mi metto in piazza questo modo, è solo per voi e per il vostro bene che lo faccio, quindi state buoni, sedete diritti e a braccia conserte, ché ora ve lo dico che cosa mi è capitato in questo quartiere Tal dei Tali, ve lo dico ora o mai più, e non mi ci devo certo spremere il cervello, perché i fatti stanno qui nudi e crudi e sono quello, sono quello che sono, sono quello che sono e basta.
Ragazzi! Ecco che il vostro eroe parcheggia la sua auto nel parcheggio, ecco che esce dall’auto e la chiude a chiave, ecco che si guarda intorno con aria di sfida, si infila i mezzi guanti di lanuccia, si rialza il bavero dello spolverino, ecco che il vostro eroe calca la terra battuta della via principale e  nel vento si avvia e, trovandoci noi in un paese in cui non tanto lo spazio quanto il tempo domina, trovandoci noi in un tale paese, ecco che in un battito di ciglia mi trovo nella piazza del mercato, dove mi riprometto di acquistare un nuovo pennellino per la mia asta da lubrificatore e guarda qui guarda lì, per confrontare prezzi e qualità e trovare in tal modo il miglior rapporto qualità-prezzo, guarda qui guarda lì non riesco a decidermi. Perché, se uno è economico, avrà le setole in plastica, che cadranno al primo uso come foglie d’autunno e, se è uno di quelli buoni, se è un puro cinghiale o addirittura una pura martora, allora sai che prezzi, non ne parliamo neanche, ah, come è difficile trovare la giusta via di mezzo o, per dirla in latino, questa benedetta laurea mediocritas!
E guarda che ti guarda, cerca che ti cerca, prova che ti prova, fra una bancarella e l’altra, arrivo in questa zona dove c’è la rete e, dietro la rete che è, questo va detto, che è a maglie larghe più che strette, dietro la rete stazionano in riga questi venditori non autorizzati, imbacuccati nelle loro pelli lapponi, ed espongono ciascuno un articolo o al massimo due, a terra davanti ai piedi calzati di stivali alla cavallerizza, o appesi con corde di budello alle maglie della recinzione, e sono sempre gli stessi articoli, che non interessano nessuno: un pesce salato o affumicato qui, un salsicciotto di cavallo lì, una bottiglia di schnapp fatto in casa là, un paio di bamboline d’osso qua, ma perché verranno costì a perdere il loro tempo, perché hanno tutto questo tempo da perdere, costoro, non si sa, due giornate ad aspettare al bordo della nazionale la corriera che magari arriva già carica e non si ferma neanche, e poi sette giorni e sette notti di viaggio senza mai poter scendere, perché la corriera passa e non si ferma mai, per poi trovarsi qui alla periferia di questa metropoli ignara e indaffarata, trovarsi qui ad aspettare davanti a quel pescetto secco e striminzito, davanti a quel barattolo di unguento per i cavalli, davanti a quel desueto strigile d’osso, davanti a quello scialle a fiori sottratto con la forza alla nonna, ma perché hanno tutto questo tempo costoro, non si sa, non si sa ma avviciniamoci a costoro guardiamoli bene in viso vediamo cosa c’è nel loro sguardo, c’è l’atavica indolenza di un popolo abituato a essere dominato, o c’è invece la rude fierezza di una razza accostumata alla guerra e alla scorreria? C’è fredda determinazione e spietata ferocia, nei loro occhi tondi a mandorla sporgenti infossati azzurri neri, nei loro occhi che parlano, oppure c’è mite docilità e rassegnata sottomissione, che cosa dicono cosa, cosa dicono questi occhi che parlano, parlano e dicono di sereno laborio campestre o parlano e dicono di terribili razzie notturne, non diranno piuttosto entrambe le cose, eh?
Ma non voglio qui sfondare porte già aperte dai nostri più autorevoli scienziati analisti e commentatori, non agogno no a competere con i più insigni specialisti e dottori ex causa no non anelo no, mi limito, ecco, mi limito appena a suggerire alcuni spunti di studio e di riflessione, a porgere umilmente alcune mie osservazioni estemporanee, suscitatemi dalla vista e dall’esame in loco di questi tipi umani, quasi reperti frammentari rinvenuti accidentalmente dal modesto escavatore quale io sono, nel corso di tutt’altra campagna di ricerca, e cioè la ricerca di un pennellino piatto numero otto, in setola sintetica o eventualmente naturale.
Ma ecco che la fortuna mi arride, sì, un momento, sì, sì, mi arride, sì. Mi arride e mi si presenta sotto forma, sotto la forma di un uomo appoggiato alla rete, un uomo che guarda maliconicamente dalla nostra parte e non si attende certo un compratore, e che cosa vende quest’uomo, ve lo dico subito quest’uomo vende un  pennello, e qui non so davvero contenere l’anelito nel mio petto, lo vedo immediatamente che quello non è un pennello di quelli che incontri tutti i giorni no, non è uno di quelli che ti tirano dietro a ogni angolo di strada no, è un bel pennello solido come se ne facevano una volta, con un manico di legno duro, polito, di pioppo nero certo o financo di castagno, dalla bella curvatura, e un legaccio impeciato che tiene salde e strette le ben mondate e pettinate setole che, oh cielo, me ne accorgo bene al tatto, appartenevano al più puro e robusto fra gli zibellini, uno zibellino che ha cacciato e predato nelle sconfinate taighe del nord, che ha vissuto la sua vita e ha avuto la sua morte, non uno di questi zibellini da allevamento che mangiano pappette e kit kat e si spelacchiano alla prima spennellata no, ma mi contengo, cerco di non far trasparire la mia emozione e il mio interesse, è un fatto di semplice senso degli affari, e addirittura me ne vado a fare un giro ma subito non ne posso più e torno lì e l’uomo, il cielo sia lodato, c’è ancora e il pennello anche. E come è presentato questo pennello, caso dei casi, e come avevo potuto non notarlo sin da prima, ma dove li avevo gli occhi, eh? dove è che li avevo, eh, gli occhi? Perché questo pennello è fissato alla cima di un’asta e fa con quella un angolo di, a occhio e croce direi, sì, sessanta-sessantacinque gradi, ma l’asta amici miei, l’asta quella sì che è un’asta, una signora asta, un’asta come si deve, un’asta con tutti i crismi, ma cos’è il mio crisma davanti a quelli, e cos’è il mio crismale, quel povero scodellino sbreccato e crepato, che cos’è davanti a quel panciuto orciolo di terra rossa, ornato di un leggero manico di bambù e decorato a figure nere, che lo straniero oltre la rete ha poggiato al suolo, come un’offerta ai sordi dèi, e la mia asticciola stenta che cos’è, cos’è davanti a questa bell’asta ardita tutta intagliata da cima a fondo di belle rappresentazioni cosmogoniche e mitologiche, lì una battaglia di eroi e gasteropodi, qui la scoperta dell’isola di Vineland e là la conferenza di Tubinga, e cos’è che avrà spinto quest’uomo dal volto malinconico e nostalgico, cosa l’avrà spinto a disfarsi di questi preziosi strumenti, di questi pezzi da collezione, di questi veri e propri capolavori dell’arte untoria, cosa l’avrà indotto cosa, cosa l’avrà portato a questo punto di non ritorno, debbo saperlo devo, cosa ha condotto qui a questa rete infame il mio fratello dell’altra sponda, cosa e che, perché e che cosa, questa è la domanda che mi sta sulla punta della lingua e che non posso formulare, perché dico io manchiamo di una lingua comune?

Questa è dunque la paradossale situazione: avere di fronte a sé, separato appena da qualche centimetro di aria fredda e gelida e da una rete metallica, avere di fronte a sé un collega, un sodale, un maestro, vederlo così ridotto dalla fame e dagli stenti a rivendersi i suoi stessi strumenti di lavoro, a cedere a uno sconosciuto i suoi unici mezzi di sussistenza, solo perché questo sconosciuto dispone di alcuni biglietti colorati e numerati, disegnati con il più grande cattivo gusto, questo è davvero il colmo signori miei, e tutto questo non è che non glielo dica, glielo dico ma nella mia lingua che è l’unica che so e costui non può capirmi, mi fa un sorriso perso e un segno di V con le dita. Debbo fargli intendere almeno che sono anch’io uno della congregazione, e perciò torno all’automobile, e ne estraggo gli arnesi, l’asticella col pennello e la scodella, ed è assai probabile che certe anime belle troveranno improponibile un simile approccio, e avranno ragione, perché quando l’uomo oltre la rete mi vede arrivare con i miei poveri attrezzi, che gli mostro come trofei, venite a intender li sospiri miei, oi cor gentili, venite pure anime belle di tutte le razze e di tutti i colori, ridete anche voi di me, così come, al vedermi arrivare ride quell’uomo e mi indica col dito e chiama anche gli altri e tutti quelli dall’altra parte della rete mi ridono addosso e sopra e dietro, ridono di me e della mia ciotolina e del mio pennellino, ridono del mio yin e del mio yang, del mio yoni e del mio linga, e come volete che dopo questa prova io abbia ancora fiducia nell’umanità? Davanti a ciò mi cadono proprio le braccia o per meglio dire le loro appendici e scivolano a terra il bastone e la tazza, e me ne corro via da quel maledetto posto e luogo, ma perché, perché tutto ciò, perché questo mal di vivere questo vivere male perché questo tedium vitae che capita a me, perché, perché.
Perché, perché partir bisogna, prendi la tua automobile, piccolo uomo, prendila e vai, torna sotto il cavalcavia della tangenziale, attacca la roulotte al gancio dell’auto e vai, parti nella sera e vai, immettiti nella tangenziale che conduce in tutte le direzioni, segui le lucette rosse avanti a te, pensa a dove te ne potresti andare, pensa a un posto che sia fatto per te, pensa a un posto così, un posto pieno di futuro e non di passato, un posto in cui avresti magari anche potuto andare con lei, a rifarsi una nuova vita, a ricominciare tutto daccapo, ah se ci ripenso mi vien di piangere mi vien, tempo ne è passato ma non ha lenito le tue ferite, il tempo passa ma ti trovi sempre imbottigliato in questa coda sulla tangenziale, a neanche due chilometri dal tuo cavalcavia, te ne stai nell’oscurità protettrice dell’abitacolo e sgorgano infine lacrime consolatrici e necessarie, son lacrime d’amor, son più grosse di quell’altre, sono lacrime d’amor per te, lo vedi che qualcuno che ti vuole bene c’è, non essere triste sù, e datti un contegno ché qualcuno potrebbe vederti, cosa penserebbero i vicini di coda, a vedere un uomo grande e grosso, con tanto di vettura regolarmente immatricolata e di roulotte al seguito, che piange così come una femminuccia? No non ci far fare queste figure per favore no non farcele fare no ecco da bravo tira fuori il fazzoletto soffiati il naso e non ci pensare più no, ecco, sù, va diminuendo, vedi, bravo, ecco, in un soffio, in un fiato, sottovoce sottovoce, come in un sospir, ecco.
Ecco, non si sente più adesso che il ronfare tranquillo del motore, sarà quello che sarà Ambrogio come artista, ma come meccanico non c’è che dire, senti qui senti che registrazione delle puntine senti qui che messa a punto delle valvole senti che smerigliatura delle candele ma questo motore è proprio un orologio senti qui che ritmo cronometrico senti che melodia metronomica ma senti, altro che Rossini, altro che Bach, ma questo è un vero Paganini del cacciavite, questo è un luminare della meccanica moderna, no nessuno come Ambrogio sa coniugare in tal modo estro ed armonia, padronanza tecnica e intuito creativo, conoscenza del soggetto e fantasia inventiva, e devo proprio mandargliela una bella cartolina di ringraziamento da lì dove andrò, sì, ma dove è che me ne andrò?
Luce! quadro! fuoco! riflettori occhi di bue luci psichedeliche faretti multicolori palle rotanti lampade scialitiche e fotoelettriche su questo conducente che prende infine la sua decisione tanto cogitata e si infila nella corsia d’emergenza e supera gli altri tutti quanti ma dopo neanche un chilometro c’è uno svincolo il guidatore lo imbocca e si trova fuori della tangenziale via dalla calca in una strada di campagna una specie di siberia oscura e nebbiosa e, guida che ti guida su questa carrareccia interminabile vede un lumicino laggiù in fondo e poi due e poi tre a dire il vero è quella tutta una luminaria festaiola, bisogna dire che è veramente illuminato a festa il piazzale del ristorante Da Luigi, come se stesse ad aspettarti non deluderlo non andare a parcheggiare la roulotte nell’angolo buio in fondo non rinchiuderti lì dentro non infilarti nella cuccetta sotto le coperte, in compagnia delle tue pallottoline delle tue caccole delle tue cispe dei tuoi muchi che collezioni nelle scatoline etichettate, esci di lì, vai incontro al mondo, entra nel ristorante Da Luigi, sarà pure vasto e tutto vuoto ma due parole col cameriere potrai scambiarle pure, no, da questo orecchio non ci sente, guardate, già dorme con la testa sul tavolo. Me ne torno alla roulotte. Domani forse andrà meglio, si vedrà.
Ed eccolo l’indomani: una vita nuova forse prenderà inizio, sù, sveglia e al lavoro, ché una nuova vita inizia oggi e, pagare per vedere, oggi inizia una vita nuova, allora volete vedere ebbene sia vedete qui, vedete vedete vedete, vedete che non scherzo e invece faccio sul serio, ché al mattino si vedono le cose con altri occhi, con occhi cioè che non sono quelli della sera precedente ma piuttosto quelli del mattino successivo, e difatti ecco, ecco, arrivo e vengo e sono a voi, ma cos’è, non so, mi sento come impedito, mi sento rattrappito e congestionato, non so. Su, dai, prova metticela tutta mettiti di impegno e di buona volontà alla grande dai sù, procedi come ti diciamo noi. No no non voglio no lasciatemi in pace no. Ora basta, basta con le tue frigne le tue astenie basta su, dai prova, dai vedrai che ce la fai: i piedi, spingili fuori dal letto e poggiali entrambi a terra, ecco, da bravo, su, anche l’altro adesso, bravo, ecco, sei già a metà dell’opera, ma adesso viene il bello, e cioè passare dallo stato seduto a quello eretto, andiamo avanti allora: flettere le ginocchia, spingere sui talloni, raddrizzare il busto (si vegli a che il paziente non si distragga in questo delicato frangente: un malaugurato passo falso, con conseguente ritorno alla posizione di partenza, risulterebbe di nocumento e pregiudizio a tutto l’insieme psico-fisico della nostra terapia d’urto).
E allora, ci si vuole mettere bene in piedi e ritti sulle gambe, sì o no? Raddrizzare il busto attenzione non distrarsi ecco ancora un piccolo sforzo, e ci siamo ecco bravo ci sei riuscito ce l’hai fatta tieni lo zuccherino bello di zio nel cerchio di fuoco ci salterai più tardi ma adesso da bravo infilati le scarpe o almeno questa specie di cioce dove sono concresciuti muffe e licheni, che tu chiami scarpe, infilatele insomma ed esci nel nuovo mattino affacciati alla porta e come ti era stato promesso questo è un altro giorno, si vedrà, noi fin qui ti ci abbiamo portato, ora vai avanti con le tue gambe bello di mamma e se non ti va giù ti arrivano due sberle due sganassoni che senti ti faccio vedere io ti faccio se li sai usare o no quei due stecchi che tieni al posto delle gambe, correre, su, correre, cento giri di corsa del piazzale e chi non è contento, che protesti pure, che faccia l’arruffapopolo, vedrà se non gli spaccheremo il culo, a lui e a tutti quelli della sua razza, quanto è vero iddio.
Ah ma quanto è grande il piazzale del ristorante Da Luigi detto la Siberia è grande sì, nel lucore plumbeo del mattino sulla piana, è grande vuoto e polveroso, si direbbe davvero una piazza d’armi. C’è perfino il pennone con la bandiera.
E c’era una volta un omino tracagnotto e coi piedi piatti, che non aveva voglia di camminare perché gli facevano male i piedi. Quest’omino era triste triste, perché era tracagnotto, aveva i piedi piatti e questi gli facevano male quando camminava. Ma non aveva altro che i suoi piedi, l’omino tracagnotto e coi piedi piatti, per andare al lavoro e sbarcare così il lunario e, lavora lavora, cammina cammina con il suo barattolino di olicino e l’asticella col pennellino, cammina cammina i piedi gli facevano sempre più male e le sue scarpe erano sempre più sformate. Ma, direte voi, ma perché quest’omino tracagnotto e con i piedi piatti non se li compra un paio di zoccoli del Dr. Scholl’s e non la smette di lamentarsi? Eh no, dovete sapere che il nostro omino è un vero cicalone e si è mangiato già tutto quello che aveva guadagnato l’altrieri, se lo è pappato tutto all’osteria e conta e riconta, e fruga e rifruga in tutte le tasche e in tutte le saccocce, non gli rimane più che una sola e unica banconota, che non è sufficiente neanche per comprarsi una soletta di gommapiuma, figurarsi un paio di scarpe buone.
Ed è così che il nostro omino indugia sulla porta della sua roulotte, indugia e non sa decidersi, e intanto che lui si decide voi potete osservare, signore e signori, alla vostra sinistra un bel filare regolare di eucalipti importati per noi specialmente d’Australia e dritto avanti ai vostri occhi potete ammirare l’imponente architettura postmoderna del restaurant Da Luigi Sale per Banchetti Ricevimenti Feste Aziendali Conferenze Meetings Summit Incontri al Vertice e alla Base Riunioni Segrete Incontri Particolari Cure Estetiche di Prima Classe Massima Discrezione sconti speciali per onanisti monchi, se accompagnati dalla nonna, e alla vostra destra no c’è solo questa utilitaria con rimorchio che non era prevista dal prospetto e come mi è capitata dentro il quadro non si sa, e quell’uomo che orina dietro la roulotte come mi è finito qui dentro, portatemelo via ecco e passiamo al punto successivo del nostro programma che come potete vedere dal depliant prevede: Mattinata interamente dedicata alla visita di queste famose Lande Desolate, con soste nei luoghi più caratteristici. Raccolta di cicoria selvatica e altri tipici prodotti locali. In caso di maltempo, caccia alle rane nei fossi. Pranzo al sacco. Pomeriggio libero. In serata rientro in hotel, cena e pernottamento.
Un programmino come questo non glielo invidio certo a questi escursionisti, ah questa abitudine tutta nostrale di organizzarci la vita fin negli infimi dettagli io non la capisco no, e dove è finita l’anima artistica, dove è finito lo spirito d’avventura per cui andavamo famosi nel mondo intero? Vuoi mettere quando al mattino ti alzi e la giornata è tutta intera avanti a te, promettente e trepidante nell’attesa che tu faccia di lei ciò che vuoi, vuoi mettere o no? Vuoi mettere quando sei così aperto al caso e all’imprevisto, e avanzi i tuoi passi sul bilico dei bilici su questa scala senza balaustra che è la nostra esistenza? Ma non voglio lasciarmi andare no a questi accenti lirici, e dopo aver raccolto quello che c’era da raccogliere stamane all’interno delle mie froge e aver riposto il raccolto lì dove ha da esser riposto, dopo avere raccolto quello che c’era da raccogliere e dopo averlo riposto lì dove doveva essere riposto, dopo avere raccolto il raccoglibile e riposto il riponibile, dopo aver raccolto, dopo aver riposto, dopo che il raccoglibile è stato raccolto e il riponibile riposto, come è giusto e come qui dico a futura memoria, ora sono libero e posso andare alle toilettes del ristorante Da Luigi, per ottemperare anch’io alle più recenti misure igienico-sanitarie, e nelle toilettes avverrà una scena che sarà affidata a un cast davvero d’eccezione e ne saranno interpreti e protagonisti due stelle fra le più gettonate che vanno per la maggiore sui nostri schermi: il Lubrificatore di Saracinesche, nel ruolo di Col Sapone sulla Faccia, e il Cameriere, nel ruolo di Senza sapone sulla Faccia.
Buongiorno – disse Col Sapone sulla Faccia.
Buongiorno – disse Senza Sapone sulla Faccia.
Come va? – disse Col Sapone sulla Faccia.
Bene, grazie, e lei? – disse Senza Sapone sulla Faccia.
Bene, grazie, non c’è male – disse Col Sapone sulla Faccia.
Fine della scena. Si torna all’aria aperta. Si torna all’aria aperta e alla roulotte parcheggiata in fondo al piazzale deserto e spazzato dal vento che sembra una piazza d’armi ma che potrebbe essere anche la piazza San Pietro o anche la piazza del Palazzo d’Inverno, perché c’è, se volete saperlo, c’è nell’aria del tempo un qualcosa, c’è come una domanda o un’attesa di una qualche rappresentazione, o raffigurazione, o come dire una qualche incarnazione dell’essere o del destino della comunità (e questo nome stesso sembra, solo a evocarlo, risvegliare un tale desiderio identificatorio), e cosa c’è di meglio che una bella piazza, per contenere questa domanda e quest’attesa e riempirla di simboli, figure, rituali e presenze atte a fornirla questa bella identificazione cui tutti aneliamo, e non potremmo riempirlo allora questo inutile e che non aspetta altro piazzale del ristorante Da Luigi, non potremmo riempirlo alla bisogna di una bella folla che acclama e applaude, non potremmo organizzarci una bella adunata oceanica, l’impianto stereo c’è e quello delle luci anche, che cosa volete di più?
No, vedo che quest’idea  non piace a nessuno e non fa niente come non detto, me ne torno in macchina metto in moto e torno sulla carrareccia polverosa, sono di nuovo solo davanti al mio destino e nessuno ha bisogno di me no nessuno la comunità non mi vuole e se è così, se è così ebbene io non voglio lei, anzi prima che me lo dica lei glielo dico io, glielo, e glielo dirò con sguardo perso lontano verso l’infinito: “mi dispiace davvero signora mia ma è andata così non potevo fare diversamente mi dispiace ma è andata così se ne dia pace in fondo è meglio così, non eravamo fatti per intenderci, noi due”, ah ma se penso a quell’altra, se penso a quell’ultimo incontro, ah! lo avessi presentito, che quell’insperato contatto materiale e spirituale, quel suo subitaneo cedimento al mio desiderio era destinato a non più riprodursi, ah se penso che quegli sguardi che mi ubriacavano come calici di vino, che mi giungevano fino ai precordi…ah! non pensiamoci più, lasciamo stare, và!
E, mentre lascio stare e più non ci penso, scorre a perdita di vista avanti a me il nastro bianco del tratturo, scorre scorre e scorrono scorrono a destra e a sinistra gli eucalipti australiani e sobbalza sobbalza la vettura sui dossi e nelle buche, ed ecco mi trovo davanti alla recinzione dell’aeroporto. Accosto in uno slargo. Scendo dall’automobile. Mi appoggio alla rete. Guardo gli aeroplani che scendono giù e salgono su. Anch’io voglio volare.