Introduzione ai Feuilleton di SP

Sono testi scritti di getto, in reazione alla lettura abbagliante de I migranti di W. G. Sebald, una notte in treno, fra la Germania e l’Italia. Aggiungere le immagini richiede tempo ma lo farò stvb; mi sembra però che possano essere letti anche senza. Oggi farei delle correzioni, ma non ne cambierei lo stile generale, forse un giorno lo farò.

A seguire, Erranze intrecciate, Feuilleton 01, 02 e 03 (2002-2003).

Erranze intrecciate, feuilleton 01 (2002)

20 novembre 2002. Sono tornato al cimitero dei cani. Con la bussola che mi ero comprato ieri al bazar pakistano ho definito la direzione verso cui guarda l’immagine smaltata di Kiki, scimmietta ammaestrata lì sepolta dal suo anonimo e amoroso proprietario, in una data imprecisata fra il 1890, anno di fondazione del cimitero di Asnières, e il 1996, quando lo visitai per la prima volta e presi in fotografia la lapide che più delle altre mi aveva commosso.

A 105 gradi Est-Sud Est si rivolge lo sguardo di Kiki. Mi è parso opportuno trovarle al più presto un compagno che, forse altrettanto fermato nel tempo, potesse stabilire con lei una muta e –certo- finora inconsapevole comunicazione. Ho lasciato quindi Asnières e, rimontato in sella alla bicicletta leggera e dalle sette marce che Silvie mi ha regalato –previa spesa di riparazione- tre settimane fa, mi sono portato a Maisons-Alfort, che sta oltre Charenton, dall’altro lato del Bois de Vincennes. E’ una di quelle giornate parigine, in cui all’avventuroso ciclista pare di fendere una quinta di pulviscolo vaporoso e caliginoso, che respinge tuttavia il freddo estremo e, dopo la prima salita, si addensa in un ulteriore strato di umidità intorno al corpo, che fa da contrappeso al sudore lanuginoso che già copre l’epidermide e trasforma la bicicletta in una sauna a due ruote.

Se sono andato al Museo di medicina veterinaria di Maisons-Alfort è a causa di W. G. Sebald. Nelle ultime pagine del suo libro, Austerlitz, Sebald erra per queste parti della città di Parigi e dei suoi suburbi, i quartieri del sud e del sud-est, dove grandi trasformazioni edilizie cancellano quella che rimaneva come una enclave proto-industriale lungo il bordo della Senna. E’ in queste pagine che Sebald stende il suo più bel pezzo di furia intellettuale, è qui che inveisce –nel modo più argomentato e con tutte le ragioni del mondo- contro la nuova, Très Grande Bibliothèque.

Ho pedalato sul lungosenna, davanti alle quattro torri morte della biblioteca nazionale, distogliendone lo sguardo per attardarlo invece sulle sobrie arcate del ponte di Tolbiac, sui due silos rimasti sul greto del fiume e sui pochi mucchi di ghiaia che presto nessuna chiatta verrà più a caricare.

Alla Scuola nazionale di veterinaria non ho incontrato, una volta superate le scuderie a forma di ferro di cavallo, il vecchio guardiano con il fez descritto da Jaques Austerlitz, e il biglietto d’ingresso non somigliava a quello che –come racconta Sebald alla pagina 282 dell’edizione italiana- gli viene da costui teso “da sopra il tavolino del bistrò al quale sedevamo, quasi fosse qualcosa di affatto particolare” e che lo scrittore riproduce in fondo alla pagina 281.

Il mio guardiano era un nero corpulento, occupato in una telefonata di carattere palesemente intimo, che si è alzato per accendermi le luci e mi ha poi lasciato solo, dopo avermi messo in mano una guida dattiloscritta, untuosa e slabbrata, dalla quale ho appreso come Honoré Fragonard, dopo avere realizzato insieme con i suoi allievi, fra il 1766 e il 1771, i capolavori di preparazione anatomica che stavo per vedere, venisse cacciato –perché preso per folle o, più probabilmente, per conflitti di potere- dalla scuola stessa, per ricomparire, più di vent’anni dopo, al fianco del suo cugino germano, il pittore Jean-Honoré Fragonard, e del grande David, come membro della commissione artistica della Rivoluzione.

Ed è così che, dopo avere esaminato vari esempi di mostruosità zoologiche compresse in boccali di formalina o stipate in vetrine affastellate, e fra queste vari esemplari di vitelli e scimmie a due teste e una foca a due code, mi sono trovato nell’ultima stanza di fronte a una cadavere mummificato secondo i più moderni procedimenti del XVIII° secolo –fra cui l’iniezione di brandy al posto del flusso sanguigno- che rappresenta un Sansone il quale, brandendo un osso mascellare di provenienza equina, si scaglia contro i Filistei; personaggio questo invero impressionante, grazie all’immaginazione artistico-scientifica di Fragonard che, per farlo più terribile, non esitò a rompergli il setto nasale, oltre che a iniettargli cera fusa nel pene, a farlo orrendamente turgescente. Ma ecco, nella vetrina opposta, il famoso Cavaliere dell’Apocalisse. Non tiene più il morso del cavallo –anch’esso mirabilmente dissezionato e disseccato- con le redini di velluto blu, né più agita lo staffile che l’anatomista gli aveva messo in mano, e una brutta impalcatura di metallo verniciato di bianco tiene insieme cavallo e cavaliere, ma ciononostante la composizione risulta davvero minacciosa. Ho estratto dalla tasca la bussola e mi sono posto con le spalle al cavaliere, guardando nella direzione in cui egli guarda: 300 gradi Ovest-Nord Ovest. Ho annotato questo dato nel mio taccuino e ho lasciato le sale del museo.

Sono tornato al mio studio, il quale si trova all’altro capo della città, presso piazza Clichy e di fronte al cimitero di Montmartre. Avrò pedalato per un’ora, e i pensieri venivano a me, aiutati dallo scorrimento lubrificato della catena sulla corona e dallo scatto morbido delle marce. Se mai avessi avuto la fortuna di avere incontrato W. G. Sebald, gran camminatore e grande scrittore, mi sarei permesso di vantargli l’utilità della bicicletta per la ginnastica mentale. I dieci chilometri che, come racconta nelle ultime pagine di Austerlitz, fece a piedi per raggiungere, dalla cittadina belga di Mechelen, la fortezza di Willebroek –ove, fra gli altri, venne imprigionato e torturato Jean Améry- li avrebbe percorsi nel quarto del tempo, senza per ciò rinunciare alla dimensione contemplativa che dal moto delle gambe scaturisce. Avrei potuto, inoltre, parlargli del rapporto sororale che sempre è stato fra bicicletta e Resistenza.

Me ne sono tornato al mio studio, che è sito all’ultimo piano della Villa des Arts, al 15 di via Hégésippe Moreau ma con accesso dal 17, da quando, trent’anni fa, gli eredi del costruttore Guéret divisero gli appartamenti dagli studi che vi erano annessi e chiusero porte, alzarono tramezzi, separarono ingressi e vendettero buona parte delle parcelle così ricavate.

Il complesso edilizio della Villa des Arts è un vero e proprio labirinto di scale che reincontrano se stesse, di corridoi lunghissimi che finiscono su porte murate, di vasti antri bui che contengono solo vecchi mobili squinternati e, alla fine, di una dozzina di studi da pittore le cui grandi vetrate scendono su sei livelli, come una cascata di vetro e di zinco, fino al limite meridionale del cimitero di Montmartre –ciò che fa che, una volta saliti al proprio studio del sesto e ultimo livello, si è davvero alla presenza dell’assoluto: se si guarda verso l’alto, non vi è che cielo; se si guarda verso il basso, non vi è che terreno e ultraterreno, le tombe coperte di foglie secche e i rami, attualmente spogli, dell’anziano ippocastano che tocca il muro di recinzione-. Questo complesso, dicevo, fu costruito insieme con tutto il quartiere dal suddetto Guéret intorno all’epoca in cui fu innalzata la torre Eiffel e, si dice, con materiali di scarto –o di riserva- della torre stessa. Ed è vero che sono ben portanti e rassicuranti le putrelle imbullonate che incorniciano questa vetrata.

E’ in uno di questi studi ai piani superiori che Paul Signac, abitante della Villa dal 1892 al 1897, finì di dipingere il suo più gran quadro, Au temps d’harmonie (l’âge d’or n’est pas dans le passé, mais dans l’avenir), ambizioso manifesto anarchico di tre metri per quattro che, offerto a Horta per la Maison du Peuple che l’architetto stava completando a Bruxelles, e da costui implicitamente rifiutato (Signac, l’11 novembre 1900: “Le tirelignard de la maison du peuple, Horta, n’ayant pas daigné, en six mois, trouver le temps de faire installer les quatre planches qui devaient servir de cadre à ma décoration, je retire purement et simplement mon offre.”), finì per essere donato dalla vedova del pittore –nel 1938, in tempi di Fronte Popolare- al municipio comunista di Montreuil, dove tuttora si trova.

Au temps d’harmonie pose a Signac problemi cruciali, di ordine concettuale ed etico oltre che estetico. A causa del suo grande formato, la concezione stessa della divisione pura dei colori veniva messa in pericolo. Per poter difatti apprezzare, secondo il principio divisionista, il quadro nella sua interezza, occorreva una distanza che il pittore valutava fra i 12 e i 14 metri, ciò che lo indusse, durante la sua esecuzione, a farlo discendere nello studio, più spazioso, del suo vicino Eugène Carrière, e lì, avendolo visionato da una appropriata distanza, si trovò costretto a sovrapporre i margini dei tocchi di colore l’uno sull’altro e ad esclamarsi: ”Comme c’est difficile d’être honnête!”

Mentre Paul Signac era impegnato nelle difficoltose trattative intorno alla destinazione della sua imponente opera, un altro illustre abitante della Villa, Paul Cézanne, faceva venire il suo mercante, Ambroise Vollard, quasi ogni mattina per tutto l’inverno del 1899, per un totale di centoquindici volte, per tre-tre ore e mezza ogni volta, a posare per il suo ritratto. Vollard, durante tutto quel periodo, non ebbe mai la sensazione di sentirsi più importante di una mela, agli occhi del ritrattista cui aveva commissionato il lavoro. Gli capitava, talvolta, nel corso di quelle interminabili sedute in cui Cézanne si limitava a deporre sulla tela due o tre tocchi di colore e passare il resto del tempo a scrutarlo in viso, gli capitava talvolta di addormentarsi, e allora il pittore si accalorava: “Malheureux! Vous dérangez la pose! Je vous le dis, en vérité, il faut vous tenir comme une pomme! Est-ce que cela remue, une pomme?”

Il mio vicino di studio, Pierre, un valente dipintore di tradizione post-espressionista, sostiene che il ritratto avrebbe potuto essere stato eseguito lì da lui. E’ all’altezza della sua vetrata, difatti, che gli occhi di una persona seduta si trovano, a quella angolazione, sulla stessa linea dei comignoli di terracotta rappresentati nel quadro. E le due strane forme circolari che si vedono al di sopra dei comignoli, e di cui oggi non v’è più traccia, erano verosimilmente due coperchi di camino che sono stati sostituiti da sfiatatoi in Eternit.

E’ vero anche che, scrostando la pittura bianca dello studio di Pierre, appare, proprio in quell’angolo, il colore originario del muro, un ocra-rossastro che corrisponde perfettamente a quello del dipinto. E’ altresì veritiero che, all’epoca, tali colorazioni delle pareti erano estremamente correnti e consuete, così come gli ambienti erano più scuri, essendo ingombri di mobili voluminosi, tappezzerie, briccabracchi di tutti i tipi, stampe giapponesi e fiori di stoffa, e illuminati da cannelli a gas, di cui d’altronde nello studio accanto rimane traccia. Potrò sbagliare, ma non ho memoria di un ritratto ottocentesco il cui sfondo sia bianco.

Bianco era il pettorale della camicia di Vollard, di cui Cézanne, riferisce il mercante nelle sue memorie, non fu completamente scontento. Lasciando il ritratto incompiuto dopo cento e quindici sedute e tornandosene a Aix en Provence, pare avesse concluso: “Je ne suis pas mécontent du devant de la chemise.”

Le cornacchie planano gracchiando sul lucernaio dello studio e, non so perché, la loro voce mi riporta alla targa della strada e al triste destino di Hégésippe Moreau. Portano sfortuna le cornacchie? Non lo so; certo è che costui fu un uomo sfortunato, uno di quegli artisti sfortunati e artefici della propria sfortuna che il secolo Ottocento ha prodotto con una incontestabile prodigalità.

Un paio di giorni prima –ero nel pieno di un periodo di ottusa rassegnazione, ché nessuno mi voleva, nessuno mi chiedeva e perciò non c’era motivazione a niente- Daniel mi aveva tirato fuori dalla solitudine bianca dello studio e mi aveva portato a pranzo al ristorante dietro l’angolo, il café des Arts, dove il proprietario algerino, un nobiluomo sempre sorridente e attento, serve il cuscus in piatti decorati da ideogrammi cinesi, eredità del suo predecessore, fatto questo che ci parla qui di multiculturalismo e ascolto dell’Altro con la A maiuscola che grazie al cielo andandosene ci ha lasciato il servizio buono e financo le sedie in similvelluto rosso ricoperto di plastica trasparente, il cuscus però al café des Arts è buono e perché no, bisogna prendere ciò che dal cielo ci viene, comprese le sedie con gli ideogrammi augurali sullo schienale.

In occasione di quel pasto memorabile Daniel, di fronte al mio palese smarrimento quanto all’eventualità pur remotissima di un qualsivoglia progetto futuro, mi parlò di un testo di Jean Christophe Bailly, pubblicato ventidue anni fa da un editore di Parigi. La XVIIIe dynastie à Berlin racconta di un suo soggiorno nella capitale tedesca, non ancora unificata e divisa in due parti da un lungo e alto muro. In quello che allora era il museo egizio di Berlino-Ovest, in una dimora patrizia situata esattamente di fronte al castello di Charlottenburg, Bailly contempla il busto di Nefertiti, regina d’Egitto: “Sa beauté, mais aussi le persistant sourire de toute l’Egypte ancienne m’ayant poussé à ne plus me contenter de la seule vue des objets, c’est muni d’une connaissance un peu moins vague que je retournai à Berlin, moins de deux ans plus tard, d’ailleurs pour d’autres raisons.”

In questo secondo soggiorno Bailly si porta all’altro lato della città, nella capitale della Repubblica Democratica Tedesca, e lì, visitando le collezioni egizie di Berlino-Est, che erano ospitate nel bel padiglione del Bode Museum, all’estremità dell’isola dei musei, si trova davanti al viso, imprigionato in uno scrigno, di Ankhesenpaaton, la figlia di Nefertiti. Ecco che questi due visi “exilés d’Egypte pour se retrouver de part et d’autre du mur de Berlin”, si guardavano, dice Bailly, da un lato all’altro del muro. Tale almeno era la sua suggestione, che decide di verificare nel corso di una terza stazione a Berlino. Ma i due sguardi, se pure si incrociano, non si incontrano. “Je notai alors ceci –scrive: ‘Les regards ne se croisent donc pas, et il s’en faut de peu. Il me reste, sans le signal, une histoire à raconter. Tout est bien ainsi’.” (4)

Ecco da dove mi viene la piccola illuminazione che, alcuni giorni fa, mi tirò dal materasso su cui mi ero appena accasciato e mi tenne sveglio, nell’attesa impaziente del mattino e dell’ora di apertura del cimitero dei cani.

Dispiego sul tavolino la carta di Parigi. Con matita e righello traccio la linea che, dal punto approssimativo in cui si trova la tomba della scimmietta Kiki, segue la direttrice 105° S-SE la quale, constato, traversa il boulevard périphérique all’altezza della porta di Clichy, taglia il viale delle Batignolles, sfiora la stazione di Saint Lazare e i grandi magazzini Printemps, tocca i giardini del Lussemburgo e il viale Auguste Blanqui, luogo di uno degli ultimi incontri fra W. G. Sebald e Jaques Austerlitz, si perde oltre il Kremlin-Bicêtre e l’ospedale di Villejuif, dove tanti italiani del sud vengono a curarsi il cancro perché non trovano al paese loro un’assistenza sanitaria adeguata.

Il cavaliere di Maisons-Alfort invece guarda, lungo i suoi 300° W-NW, a tutti i siti posti fra la città e la sua periferia orientale: Vincennes, la Porte Dorée, la porta Saint Mandé, Montreuil -dove scavalca la grande Armonia di Signac-, il canale dell’Ourcq e si allontana attraverso la Val d’Oise di Gérald de Nerval.

E -ancora oltre- i globi oculari di vetro soffiato del Cavaliere di Fragonard sono per l’eternità puntati verso la città di Calais e i suoi doganieri inospitali, solcano il canale della Manica e, prima di perdersi nelle brume dei mari del Nord, traversano la regione inglese del Norfolk, dove W. G. Sebald insegnò letteratura tedesca per trent’anni.

Dal canto suo Kiki è condannata a fissare per sempre il suo sguardo di ceramica oltre Villejuif e il suo ospedale dalla segnaletica in italiano e in francese, verso l’Essonne e la Borgogna, oltre la Côte d’Or e il Jura, verso la pianura padana e San Benedetto del Tronto, oltre il mar Adriatico e lo stretto di Otranto tomba di centinaia di immigrati clandestini, attraverso l’arcaico Peloponneso e sul filo dell’estremità occidentale dell’isola di Creta, fin sui deserti d’Egitto, dove né Nefertiti né sua figlia Ankhesanpaaton soggiornano più.

Kiki la scimmietta ammaestrata e il Cavaliere dell’Apocalisse non si incontreranno mai o, se mai si incontreranno, ciò accadrà agli Antipodi, in un punto qualsiasi dell’immensa distesa marina fra la Nuova Zelanda e la Tasmania, e io non sarò lì per raccontarlo.

19-21/XI/2002

Nota: aggiungero’ le immagini non appena avro’ tempo (dicembre 2015). Per chi volesse, si trovano nella versione francese del testo: Les errances tressées .

Erranze intrecciate, feuilleton 02 (2002)

Il Museo di sismologia e di magnetismo terrestre è una vera e propria casamatta affondata nel terreno, piantata al centro di aiuole ben rasate e fiancheggiata dagli edifici pesantemente neo-rinascimentali della Kaiser Wilhelm Universität –oggi ribattezzata Università Louis Pasteur. L’ingresso dell’osservatorio sismico, oggi trasformato in museo, fronteggia i cancelli dell’orto botanico e la cupola color antracite dell’osservatorio planetario, fatto edificare, così come l’università guglielmina tutta, dall’imperatore prussiano pochi anni dopo l’annessione dell’Alsazia e della Lorena al secondo Reich.

Erano anni, quelli, in cui la ricerca scientifica, il peso e la misura del mondo, procedeva a uno stesso passo marziale insieme con la sua appropriazione, a differenza dei tempi nostri, che vedono la ragionevolezza la volubilità e l’arte della conversazione dominare lo scacchiere geo-politico mondiale.

Ma allora era la forza che dominava e dettava le regole, e ai soldati vittoriosi seguivano gli alacri muratori, e agli alacri muratori seguivano i sapienti professori, il fior fiore del sangue intellettuale germanico che, fresco ed ambizioso, traversava il nuovo ponte monumentale sul Reno per occupare le solide costruzioni di pietra grigia della nuova università. Era, quello, il tempo dei fondatori.

Lo stesso cammino venne percorso, cinquant’anni dopo, nel senso inverso, quando Strasburgo tornò alla Francia e, a partire dal 1919, la Repubblica vi inviò i migliori fra i suoi giovani ed ambiziosi professori. Fu a quel tempo che il Gran Pendolo venne ad arricchire e coronare la collezione di strumenti dell’osservatorio sismico, e si guadagnò il suo ingombrante posto accanto al Reubert-Ehlert (il progenitore dei sismografi moderni), al Wiechert, al Mainka, al Mintrop, al Galitzin e, per finire, al Vicentini.

Il Grande Pendolo, detto anche affettuosamente “le 19 tonnes”, è un mirabile esempio di collaborazione scientifica involontaria. La sua costruzione fu iniziata dai tedeschi nel 1910 e venne interrotta “in seguito alle vicissitudini della prima guerra mondiale”. Nel dopoguerra i nuovi direttori francesi della stazione decisero di utilizzare gli elementi installati dai loro predecessori per realizzare un apparecchio di “grande massa”, per l’appunto diciannove tonnellate, le quali vennero ottenute recuperando materiale militare quali assi di camion e pezzi di armi dimesse. Questa massa di diciannove tonnellate affondata nei giardini dell’università di Strasburgo, tenuta sospesa da quattro enormi molle e mantenuta sotto il suo centro di gravità da due bracci metallici, ha lo scopo di sostenere e di guidare, grazie a un preciso sistema di pistoni ad aria, il movimento di un semplice, sottilissimo ago il quale registra costantemente, su di un rullo di carta affumicata manualmente, i movimenti della terra sulla quale viviamo. Ed è tale, la precisione di un siffatto strumento, da riportare sul nerofumo lo sforzo nel terreno delle radici dei platani scossi dal vento, sul boulevard de la Victoire, o l’impatto delle onde sulle spiagge del Mare del nord, nei giorni di tempesta, oltre che, naturalmente, un eventuale piccolo terremoto in Grecia o un bombardamento aereo di media intensità in Iraq.

Ed è al cospetto di una tale macchina che ho tirato fuori di tasca la mia bussola di alta precisione ad ago sospeso in bagno d’olio, comprata al bazar pakistano per 1 euro e 52 cent, e ho misurato l’orientamento del rullo tinto di nerofumo, che corrisponde a: 79° E-NE.

Sono tornato, dopo la visita al museo di sismologia, in centro. Ho attraversato l’Ill sul ponte del Corvo, dal quale venivano calate le gabbie contenenti i condannati a morte e, più in particolare, le donne che avevano ucciso i propri figli non voluti, ponte sotto le arcate del quale, si racconta, sbocca una galleria sotterranea collegata direttamente al sottosuolo dell’ospedale medievale, che permetteva di trasportare senza indugio i cadaveri dei condannati dalla gabbia in cui erano stati affogati al tavolo di dissezione dell’anatomista.

Avendo oltrepassato le pont du Corbeau, avendo scantonato nella piazzetta della Grande Boucherie (Gross Metzig), avendo fuggevolmente e per l’ennesima volta ammirato un piccolo affresco da me prediletto, che orna la facciata del ristorante “Zuem Pfifferbriader” e raffigura un giovane pifferaio dal cappello a punta, in vedetta su una roccia sporgente sul flusso continuo di turisti tedeschi giapponesi e italiani che lì intorno vagolano, eccomi mi sono portato, così come faccio ogni volta che torno a Strasburgo, nella cattedrale.

C’è stato un periodo nella mia vita in cui usavo prendere il treno a cuccette Roma-Bruxelles, treno che è stato soppresso, ciò che ora rende necessario -a chi dalla capitale italiana desideri portarsi nel nord-ovest dell’Europa e abbia la sventura di trasportare generi di prima necessità o masserizie quali damigiane d’olio, bottiglioni di vino paesano o, magari, quadri in vetro e ferro- il cambio alla stazione di Milano, una stazione quanto mai fredda e inospite e dall’architettura di un eclettismo fanfarone superato solamente, forse, da quello del Palazzo di Giustizia di Bruxelles.

Il Roma-Bruxelles mi lasciava nel capoluogo alsaziano intorno alle sei e trenta del mattino. Non mancavo mai, allora, nell’attesa di un’ora civile per suonare il campanello degli amici, di entrare nella cattedrale, l’unico luogo aperto a quell’ora e l’unico rifugio dalla bruma umida e penetrante che da novembre a marzo avvolge senza posa l’opulenta città renana.

Non c’è stata una sola volta in cui, trascinando i miei pacchi di vetro e di ferro per le navate oscure e deserte, non vi abbia fatto una qualche scoperta: ora un fregio dai motivi intrecciati, ora una tappezzeria, ora una lampadina solitaria, l’ombra di un cero su una lapide, una statua monca impolverata in una nicchia, un battito inatteso dell’orologio astronomico, seguito da un’oscillazione della falce con cui lo scheletro meccanico segna i quarti d’ora. Anche stavolta, due dicembre 2002, vent’anni dopo la mia prima visita, ho fatto la scoperta di una griglia leggera tesa al disotto della cupola, a protezione dai piccioni che certo hanno trovato il modo di penetrarvi, griglia che diffonde una raggiera di luce velata e impalpabile sul coro e sulla navata centrale, luce che, materializzata in guisa di pulviscolo bianco, invita per una volta il mio intelletto a prendere in considerazione il concetto di sublime.

Sono uscito dalla porta del transetto meridionale, ho esaminato a lungo la figura elegantissima della Sinagoga, la quale è bendata, poiché non è stata in grado di riconoscere e aprire gli occhi alla venuta del Messia. Sull’altro lato del portale, al cui centro troneggia il re Salomone, sta la statua che rappresenta la Chiesa: ella volge verso la rivale sconfitta lo sguardo irato e trionfatore. Ho fatto un paio di foto della Sinagoga. Con la bussola ho calcolato l’orientamento dei suoi occhi celati o, meglio, quello del suo capo reclinato, che guarda a 126° E-SE. Non credo che farò uso di questa misurazione; per ogni evenienza la noto sul taccuino.

Ho attraversato la piazza della cattedrale, riempita da stand di paccottiglia e dallo stomachevole odore del Glühwein, di questa cittadina fiera di essere la “capitale de Noël”, e dove anche gli accattoni si vestono da Babbo Natale, e sono rientrato da Philippe e Sylviane, nella loro casa che odora di parmigiano reggiano e di prosciutto San Daniele, così come quella di Hänsel e Gretel doveva profumare di zucchero filato e pan di spezie ma, per caso, invece che nella casa della strega essi abitano al disopra di Chez Spagna, Comestibles italiens depuis 1957, e va bene così.

Per tutto il pomeriggio Sylviane e Philippe si sono occupati di me, come un vero e proprio Escort Service: quando l’una mi lasciava, l’altro mi riprendeva e cosivvia. Ed è così che l’uno mi ha accompagnato alla libreria antiquaria Gangloff, a rinverdire la mia bio-bibliografia storico-archeologica alsatica, e l’altra mi ha condotto in un quartiere di periferia, dove una giovane donna di nome Jenny ha praticato su di me un corroborante massaggio Shiatzu.

E la sera, mentre, troppo rilassate dal massaggio e dal vino di Borgogna che avevo portato per cena, le palpebre mi si chiudevano davanti a una choucroute all’anatra preparata per l’occasione, Philippe mi ha offerto di venire con me a Berlino, dove avevo appunto annunciato che mi sarei diretto.

La mattina successiva, di buon’ora, montavamo sulla sua Mercedes Benz Break del 1977 color verde oliva, targa 9620YY67, e penetravamo come coltelli nella foschia delle autostrade baden-wurtemberghesi, verso il profondo oriente d’Europa.

L’Isola dei Pavoni si trova all’altro capo di uno stretto braccio d’acqua, è già inverno ma l’Havel non è ancora ghiacciato, non si può traversare a piedi e non se ne parla di andarci a nuoto. C’è un traghetto a motore che fa servizio fino all’ora del tramonto e che, di questa stagione, trasporta solamente la vettura gialla del postino e i furgoncini dei giardinieri. Quando vi vede in attesa sul molo di terraferma il traghettatore viene immancabilmente a prelevarvi e vi sbarca sull’isola, previo pagamento di una semplice moneta che i vostri cari avranno avuto cura di scivolarvi sotto la lingua, al momento di interrarvi.

La Pfaueninsel fu acquisita da Federico Guglielmo II° di Prussia nel 1783 e venne usata inizialmente come riserva di caccia. Prima della fine del XVIII° secolo Brendel, il carpentiere di corte, vi aveva già costruito due edifici in forma di rovine: il castello, la cui facciata rivolta a meridione accoglieva i villeggianti in provenienza da Potsdam e dalla residenza di Sanssouci; e una fattoria dalla sembianza di chiesa gotica, all’altro capo dell’isola. Ho registrato l’orientamento della facciata del castello: 235° W-SW.

Intorno al 1800 vennero introdotte nell’isola diverse specie di animali domestici, allo scopo di fornire al visitatore una gradevole impressione di ambiente pastorale. Nuovi edifici vennero innalzati e radure vennero aperte fra un edificio e l’altro, dimodoché la vista potesse sempre ancorarsi a un grazioso manufatto. La popolazione animale crebbe fino a emulare quella di uno zoo: nuove gabbie si resero necessarie per contenervi le scimmie, i canguri, gli uccelli acquatici e le aquile, le capre selvagge, i lupi, le volpi, i lama e, infine, l’orso che arrivò nel 1826.

In questa specie di Kunstkammer all’aperto neanche gli esseri umani vennero trascurati. Sorgeva a quel tempo un certo interesse per l’antropologia, ciò che dette adito all’introduzione nell’isola di Heinrich Wilhelm Maitey, nato in Oahou nelle isole Sandwich nel 1807 e residente alla Pfaueninsel a partire dal 1830, e dell’africano Karl Ferdinand Theobald Itissa. Un gigante, Karl Friedrich Licht, e due nani, Christian Friedrich e Maria Dorothea Strackon vissero in compagnia del nero e del polinesiano. Mi domando se mai ebbero ad imbattersi nel fantasma di un altro tipo balzano in quei luoghi vissuto, il celebre alchimista Johannes Kunckel, detentore del segreto per la fabbricazione del vetro rubino, per il quale venne costruito un laboratorio all’estremità settentrionale dell’isola, laboratorio che bruciò fino alle fondamenta nel 1689, quattro anni dopo la sua costruzione, e le cui fornaci mai nessun vetro di rubino sfornarono, con somma disgrazia del buon Kunckel presso il Grande Elettore e sua conseguente cacciata.

Tagliamo corto ai prolegomeni e passeggiamo piuttosto per i ben rastrellati viottoli, senza fumare né calpestare l’erba dei prati, Wir bitten Sie, auf den Wegen zu bleiben und das Rauchverbot zu beachten, ammiriamo piuttosto la geometrica rispondenza dei fabbricati seminascosti dalle fronde e velati in lontananza dalle brume, ma pur sempre l’un dall’altro visibili: il tempietto dorico la rovina alessandrina il castello scozzese il Kavalierhaus di Schinkel, la cui torre medievale è un montaggio dei resti di una casa gotica di Danzica.

Usciamo, sì, dal nostro tempo, entriamo nel tempo delle favole e nel regno delle rovine fatte apposta, nel mondo dei castelli di gesso e di legno dipinto, nell’epoca in cui i potenti si dilettavano di giardinaggio e di decorazione d’interni e schizzavano i tempietti e le follie che i loro architetti avrebbero poi disegnato perbenino e come si deve.

Immaginiamo di essere ancora nel tempo, mi dico, di questa Prussia dalle “sconfinate possibilità”, in cui l’affettazione Biedermeier non aveva ancora ceduto il passo al Tempo dei Fondatori. Era allora ancora concepibile l’edificare rovine, mi dico, quando non era ancora rovina tutto ciò che ci circonda, e ci si poteva ancora dilettare con l’idea di uscire dalla storia, in una sorta di extraterritorialità temporale protetta dal servizio diurno del traghetto che unisce il Nikolskoer Weg, a pochi chilometri dal centro di Berlino, al molo dell’Isola dei Pavoni. Il gusto kitsch delle rovine artificiali -ne concludo- è semplicemente una forma di a-storicità, ma non è anodino incontrarlo qui, in questa città. Mi piacerebbe conoscere l’alchimia che ha trasformato questo paesaggio da operetta nell’incubo del ventesimo secolo: non è sulle sponde di queste stesse acque che è stata pianificata la Soluzione Finale?

Accade che ancora ci si accanisca a fabbricare rovine. Quello stesso giorno, dopo la visita all’isola e dopo quella alla casa della Conferenza di Wannsee, ci si è trovati, insieme con Philippe, al centro di Berlino, sulla Schlossplatz, ed ecco ci si è trovati di fronte a un’altra Künstliche Ruine: è un angolo di palazzo in mattoncini rossi. Risulta essere il facsimile di uno degli angoli della Bauakademie di Karl Friedrich Schinkel, edificata fra il 1832 e il 1836, demolita nel 1962, e di cui si richiede la ricostruzione “à l’identique”. Per suffragare tale progetto si è innalzato un siffatto specimen, a testimonio augurale di ciò che potrebbe essere l’intero edificio, una volta ricostruito. La marcia indietro nel tempo sembra essere un’altra diffusa passione odierna, insieme con quella di non voler vedere il tempo passato. Rimodellare la storia come se non si trattasse di una materia compiuta e irrimediabile e propria a se stessa, pensare che qualche centinaio di mattoni disposti a fare un angolo possano dare il vetro rubino della redenzione. Non sai se ridere o piangere.

Del resto, la prima volta in cui venni in questa città, mi imbattei in centinaia di persone intente a fabbricare rovine, ma in un altro spirito ancora. Appena lasciata la Bahnhof Zoo, ove ero arrivato di primo mattino, mi ero perso per i boschetti e i laghetti del Tiergarten quando un impressionante ticchettio metallico mi guidò verso la Potsdamer Platz. Centinaia di persone stavano allineate contro una lunga parete, e avvicinandomi vidi che non erano lavoratori forzati ma che picchettavano tutti spontaneamente, con martelli, cacciaviti, scalpelli e coltellini a serramanico il muro che un mese prima divideva ancora la parte orientale dalla parte occidentale della città. Da questa scalmanata attività ricavavano infinitesimali pezzetti di cemento e di ghiaia, che avrebbero poi spedito a casa o conservato per ricordo. Quello che rimaneva di quel muro smangiato venne poi sollecitamente rimosso, sicché tre mesi dopo non c’era più traccia dell’antica separazione ma invece, lì dove c’erano stati i camminamenti delle ronde, le garitte delle sentinelle e i doppi e triplici filari di filo spinato, erano apparsi giardinetti pubblici, prati, alberelli piantati di fresco e, perché no, i cantieri di nuovi palazzi d’uffici. Oggi infine non rimane che un breve tratto dell’antico muro, lungo forse una cinquantina di metri, sulla Bernauerstrasse. E’ stato isolato in una spianata e circondato da una palizzata e viene regolarmente ridipinto e restaurato, perché questo monumento al negativo non venga più aggredito dai tardivi cacciatori di souvenir, ma rimanga invece ad ammonitrice testimonianza di un passato le cui tracce ci si è indaffarati a cancellare.

In quei giorni invernali del 1990 usavo vagare dal mattino al tramonto per la città sconfinata, trascinando i piedi nei mucchi di foglie secche, gli occhi che scorrevano sulle facciate crivellate e slabbrate dei palazzi d’anteguerra, la mente tenuta all’erta dall’aria fredda e dalla fatica sicché, se mai mi sedevo in un caffè tranquillo e ben riscaldato, come il Cinema café –che tuttora affeziono, nell’Häckerscherplatz, ex Marx-Engelsplatz-, la testa mi ciondolava e mi appisolavo istantaneamente sulla tazza di caffelatte che mi avevano appena servito.

Raccoglievo a quel tempo piccoli oggetti perduti sui marciapiedi e sulle carreggiate: rondelle, guarnizioni, viti arrugginite, biglietti di tram, ramoscelli. Alcuni li incartavo e ne facevo regalo a Christine, quando rientravo la sera. Altri li disponevo su tavole di truciolato e li prendevo in fotografia. Mi piaceva, in tal modo, classificare l’inclassificabile, tanto che classificavo anche me stesso: ero certo l’unico cliente di una vecchia cabina automatica, poggiata e dimenticata in un sottopassaggio pisciazzato di Neukölln; forniva certi foto-ritratti neri d’inchiostro al punto da rendervi irriconoscibile, ciò che in linea di principio non è la funzione precipua di una fotografia d’identità.

Non sono mai riuscito a convincere nessuno dei miei amici berlinesi a farsi fotografare, per puri scopi artistici, da quella macchina. Accettavano solo di darmi le loro vecchie foto da passaporto per la mia collezione di memorabilia. Le foglie morte le mettevo nei naturalia, i bulloni spaccati negli artificialia, i pezzi del muro nei mirabilia. In tutto e per tutto la mia collezione portatile mi riempiva le due tasche superiori del cappotto.

Avevo immaginato, a un certo punto, di scavare una buca circolare nei terreni ancora abbandonati fra le due parti della città. Vi avrei gettato, in forma rituale, così come Romolo, secondo il racconto di Plutarco, aveva fatto alla fondazione di Roma, gli oggetti da me raccolti. “Il mondo è aperto!” avrei gridato ai venti sordi del Meclemburgo e della Pomerania.

Ma sarebbe stata la mia una pigra parodia. Romolo aveva fatto venire d’Etruria i sacerdoti specializzati, “i quali gli nominavano e insegnavano punto per punto tutto il cerimoniale che occorreva osservare secondo le norme divine e i libri sacri, come fosse un mistero o un sacrificio. Fecero dunque, innanzitutto, una fossa rotonda nel luogo che oggi è chiamato Comitium, nella quale misero le primizie di tutte le cose di cui gli uomini usano secondo le norme come buone, e secondo natura come necessarie; poi vi gettarono anche una manciata della terra da cui ciascuno di loro era venuto [i reprobi e i fuggitivi accolti da Romolo nell’Asylum] e mescolarono tutto insieme (chiamano questa fossa, nelle loro cerimonie, il Mundus, che è il nome con il quale i Latini designano l’universo), e intorno a questa fossa tracciarono il contorno della città che intendevano fondare, né più né meno come chi tracciasse un cerchio intorno a un centro”. Ed è una volta che la fossa è ricolma di terra e richiusa che Romolo si esclama: “Mundus patet!” il mondo è aperto!

I dotti ci insegnano come queste fossero pratiche rituali di controllo dell’universo, in cui il calcolo dell’asse sul quale la conca celeste incontrava quella terrena e questa quella ultraterrena eccetera aveva fini propiziatori, scaramantici e propedeutici: “La giustapposizione della “conca terrestre” e di quella “celeste” che la sovrasta, riproduce un cerchio e con questo il simbolo dell’Universo nel suo insieme. La correlazione tra il cerchio geometrico e quello idealmente descritto dal Mundus e dalla volta celeste va letta a due livelli: a) a livello orizzontale, sul piano ove si erge Roma, l’Umbeliculus corrisponde al centro della circonferenza, e colloca per ciò stesso la città eterna al centro del Mondo; b) in sezione verticale le due conche, idealmente unite da un asse (espresso da un punto in sezione orizzontale) – l’asse del mondo – definiscono rispettivamente le realtà celestiali e infernali; il piano di intersezione tra le due semicirconferenze è quello terrestre al cui livello, e al cui centro, viene nuovamente a essere collocata Roma che a buon diritto per questo motivo, può fregiarsi del titolo di Caput Mundi.”

Ma la vera Caput Mundi e il vero centro della terra, posso qui rivelare, non è né il Comitium della Roma antica, né la fossa della “19 tonnes” di Strasburgo, né il terreno ingombro di detriti fra la Stralauerplatz e l’Ostbahnhof. Il centro del mondo è Vaduz, perché tutto intorno a Vaduz ci sono i Tagicchi e gli Usbechi, e tutto intorno tutto intorno gli Afgani e i Nuristani i Punjabi e i Sinti, tutto intorno a Vaduz ci sono i Kazachi e i Manciù, i Masai e i Bakumba, gli Appalacchiani e i Martinichesi, i Canadesi-Francesi e gli Eschimesi polari, tutto intorno tutto intorno a Vaduz.

Nella primavera del 1974 era stato chiesto a Bernard Heidsieck di comporre un poema sonoro per l’inaugurazione di un centro d’arte a Vaduz, capitale del Lichtenstein. Ma che fare su Vaduz? Che poesia si può tirar fuori da Vaduz, capitale del Lichtenstein, si chiese per mesi Heidsieg. Girò in tondo, Bernard Heidsieck, per mesi e settimane, “autour de ce nom de ‘Vaduz’, en quête d’une motivation vraie, justifiant l’entreprise et ce travail. Que faire, sinon tourner à la recherche d’un axe de correspondance. Le justifiant. Rigueur oblige! […] Après avoir décidé de faire de Vaduz, ce maxi-village, Capitale de ce mini-territoire situé au centre de l’Europe, de notre sublime Europe, le Lichtenstein, l’un, sans doute, des plus petits pays au monde, le centre même de notre Globe, de notre fichu Globe terrestre!, il s’est agi alors, de tracer sur une carte du Monde, à partir de Vaduz, des cercles d’égale largeur, s’éloignant en parallèles successives jusqu’à en boucler la surface totale.’’

Su questi cerchi concentrici il poeta trascrisse i nomi delle etnie (“non delle nazioni”) che vi abitano, a partire dalle più prossime al centro e fino alle più estreme. Tale attività egli svolse per tutto il secondo semestre del 1974, nel tempo lasciatogli libero dal suo impiego di vice direttore della Banque française du commerce extérieure.

Ed è così che questo poema, che non venne scritto a tempo dovuto e non è mai stato letto a Vaduz, gira per il mondo insieme con il suo autore, sotto forma di un manoscritto lungo diversi metri, che viene spiegato mano a mano che la lettura procede, e che una banda sonora accompagna e amplifica, fino a crescere in un boato di folla che copre le ultime parole: des Déplacés des Paumés des Laissés pour compte des Emigrés des Fuyards des Désintégrés et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres et bien d’autres…

21 dicembre. Sono venuti a svegliarmi nel fondo della notte, urlando il mio nome dal corridoio. Non era il sogno. Quando uno dei miei compagni di cuccetta è riuscito a sbloccare il catenaccio dello scompartimento e il finanziere è entrato accendendo il neon del soffitto, gli ho chiesto: “come mai?”. “Scandaglio”, mi ha risposto, facendo il segno di chi pesca a caso. “Tuttavia”, ho replicato in una lingua che dalle nebbie primordiali del sonno emergeva in forma di patois gallo-romanesco, “ciò mi accade sì di frequente, di essere controllato su questi treni notturni che traversano l’Europa cosiddetta di Schengen e della libera circolazione dei suoi cittadini, che mi domando cosa porti voi benemeriti finanzieri servitori dello Stato a scandagliare sempre proprio me, sarà l’immagine barbuta e torva della mia foto d’identità Made in Neukölln, sarà la menzione ‘artista’ che figura in calce alla dicitura ‘professione’, ma cosa sarà?

Il militare mi ha risposto tacendo e continuando a frugare con dita abili nel mio sacco, tirandone, fuori le mie pillole che assaggiava con la punta della lingua, i miei fogli di carta che esaminava in controluce, il mio tabacco Gauloises extra-légères che annusava come un vero segugio. Poi ha estratto un oggetto metallico: “questa è una bussola, vero?”, e senza neanche aprirla, e come se tale scoperta avesse dato il segnale della mia innocenza, se ne è andato via, lasciandomi a rimettere a posto il mio bagaglio scompaginato.

Ed è così che, dopo una delle notti più interminabili che sia, sono sbarcato intorno all’alba alla stazione di Verona Porta Nuova, ho tranciato grumi di studenti che sul piazzale attendevano il loro autobus accendendosi la prima sigaretta della giornata, e mi sono incamminato verso il centro della città, servendomi del libro di W. G: Sebald, Schwindel, Gefühle, come di una guida.

Una guida in verità davvero poco utile quella di Sebald: Il San Giorgio e la principessa del Pisanello non si trova difatti sul lato sinistro della basilica di Santa Anastasia, al di là di “un tavolato pittato di marrone e ritagliato da una porta, dietro la quale si trova oggi la stanza da soggiorno, se non l’alloggio intero della sagrestana”, e sorvegliato dalla perpetua sospettosa che l’autore descrive. L’affresco si trova oggi al proprio posto, sull’arcone della cappella dei Pellegrini e, datasi l’altezza della sua collocazione e la scarsa illuminazione del transetto di destra, una bella presentazione video dello stesso vi è proposta ad libitum, se solo abbiate cura di applicare il ditino sullo schermo di un maxi-computer piazzato davanti alla cappella (dimenticavo: l’accesso alla chiesa è a pagamento).

Gli è vero che il testo di Sebald descrive un’esperienza del 1980, epoca alla quale il termine “post-moderno” diventava appena di moda e i new media interattivi erano lungi dal venire. Ed è forse per sperimentare, per una volta, una condizione sospesa nel tempo, che mi sono portato, sulle tracce di “All’estero”, che costituisce la parte centrale di Schwindel, Gefühle ma non ne è il suo più bel testo, malgrado contenga mirabolanti pezzi, quali una fantasmagorica descrizione del servizio mattutino al buffet della stazione di Venezia Santa Lucia, che mi sono recato oltre l’Adige e oltre il Ponte Nuovo, al Giardino Giusti.

Ho passato circa un’ora per i sentieri e nei labirinti di bosso sempervirens dei giardini, disinteressandomi del famoso cipresso di Goethe ma battendo la statua sonora della Prosperità con il martello di legno, montando fin sopra il mascherone di marmo che in occasione delle feste barocche vomitava fuoco e fiamme, figurandomi su quale panca W. G. Sebald avesse potuto stendersi, ascoltando “il raschiare tenue del rastrello del giardiniere sui viali di ghiaia”. Da tempo non m’ero sentito così bene, scrive Sebald. Speravo di ritrovare qualcosa del genere nell’atmosfera sospesa dei giardini Giusti. C’era invece silenzio assoluto nei viali deserti e una nebbiolina umida non dissimile da quella che un paio di settimane prima avvolgeva l’Isola dei Pavoni.

Mi sono appoggiato alla balaustra sovrastante il mascherone, ho aperto il taccuino e ho scritto: “Negli ultimi mesi il corpo di mia madre si era enfiato fino a che il suo volume non le rese impossibile l’alzarsi, il sedersi o il camminare da sola. Perché potesse andare in bagno e avervi una qualche privatezza smontammo la porta del bagnetto di servizio, in modo che i suoi fianchi, debordanti dalla sedia a rotelle, potessero passarvi. Ma ragione di grande umiliazione era, per lei che sempre era stata di una pulizia da micio, il non poter più raggiungere con le mani le sue parti intime. Fu d’uopo che mio padre se ne occupasse, e sono sicuro che mai fra loro sia stata una tale prossimità, venata dall’irascibilità vergognosa di mia madre e dalla pazienza ovina di mio padre.

Fu infine giocoforza portare Pierina all’ospedale. Si coprì il viso con uno scialle, perché non voleva incontrare la compassione delle vicine al vederla in quello stato, e la portammo di peso giù per le scale, fino all’auto parcheggiata nel garage. Di fronte al pronto soccorso, mentre mio padre correva a prendere una lettiga e io la estraevo piano piano e pezzo a pezzo dalla portiera della macchina, si lasciò scappare: ‘c’ho paura’. ‘E’ normale’, le risposi, non sapendo cos’altro dire.”

 09-23/XII/2002

 Nota: aggiungerò note e immagini non appena avrò tempo.

Erranze intrecciate, feuilleton 03 (2003)

12 dicembre 2002. Sì, è stata una giornata fin troppo adatta a un pellegrinaggio sebaldiano.

Lasciato il sacco al deposito bagagli di Liège-Guillemins, ho atteso un treno locale per Flémalle-Haute. Già sulla pensilina di Liegi scendeva il nevischio. All’uscita della stazione di Flémalle era diventato una pioggia gelida e battente. Ma la mia ricerca, anche se vana (“di Café des Espérances ce ne sono a migliaia in Belgio”, mi avevano detto), andava compiuta e andava compiuta a piedi.

“Già pochi giorni dopo esserci conosciuti nella Salle des pas perdus alla stazione centrale, mi imbattei in lui per la seconda volta in un quartiere operaio alla periferia sud-ovest di Liegi che avevo raggiunto verso sera arrivando a piedi da Saint-Georges-sur Meuse e Flémalle. Il sole squarciò ancora una volta la cortina di nubi blu inchiostro di un imminente temporale, mentre i capannoni e i cortili delle fabbriche, le lunghe file di case operaie, i muri di mattoni nudi, i tetti di ardesia e i vetri delle finestre luccicavano come se un fuoco vi ardesse dentro. Quando per le strade la pioggia incominciò a scrosciare, mi rifugiai in una minuscola taverna che si chiamava, credo, Café des Espérances e dove, con non poca sorpresa da parte mia, trovai Austerlitz curvo sui suoi appunti a un tavolino di laminato plastico. Come sempre da allora, anche in occasione di questo primo nuovo incontro riprendemmo la conversazione senza spendere una sola parola per commentare la stranezza del nostro ritrovarci in un luogo come quello, che nessuna persona ragionevole avrebbe mai frequentato.”

Questo era il passaggio che aveva motivato la mia gita invernale.

La mia intenzione era di scendere alla stazione di Flémalle e di lì rendermi a piedi a Liegi per i circa dieci chilometri della Nazionale 617, percorrendo i quartieri operai ove doveva trovarsi il Café des Espérances e ove Sebald aveva collocato la scena di uno dei suoi incontri casuali con Jaques Austerlitz. Quello era il mio programma, andava quindi seguito. Mi sono calato sulle orecchie il passamontagna, mi sono incamminato lungo la fila di case di mattoni e per i marciapiedi sconnessi che fiancheggiano la Nazionale 617.

Flémalle: fabbriche dimesse, cokerie in corso di demolizione e in attività, memoriale 1946-1996 ai minatori italiani, deposito di autobus, castello con lapide al sindaco resistente e vittima dei nazisti, chiesa gotica in pietra grigia, videoshop, negozio di ferramenta in liquidazione.

Jemappes: Zeeman Textiels Super, Café Le Normand, Superplus Sport, maison à vendre Te Koop, le grand Canyon, Super Partner Plus.

Seraing: Eurorent, cavalcavia dell’autostrada E 25, I.P.E.S.S, deposito di pneumatici, studio à louer 049/467069, Selectcolor peintures émaux vernis, Isotort Isoplast, Aretino spécialités italiennes, Cockerill Sambre.

Tilleul: Le capital tue! Mort au capital! Marichal Ketin, Jupiler Le Corner, Jupiler The Cup, Taverne le Rouge et le Blanc, stadio dello Standard, Marmaris friterie pitas snack sandwich, vêtements de travail et de loisir, ateliers de la Meuse.

E’ il tardo pomeriggio quando mi trovo nella piazza del Generale Leman, alla periferia meridionale di Liegi, sono zuppo di pioggia fino al fondoschiena, dalle scarpe mi sale un vapore purulento, le articolazioni delle ginocchia mi fanno gnecche-gnecche e so già che stasera dovrò munirmi di aghi roventi per bucarmi le bolle, ma un Café des Espérances per la mia via non l’ho incontrato. Ah, la licenza letteraria sebaldiana!

Cerco un luogo ove sedermi, liberarmi del pastrano, andare alle toilette per asciugarmi sommariamente. Ma non c’è un bar ove non mi sentirei notato e scrutato, si vede che questi sono tutti posti da habitué. Cammino ancora. Mi trovo, non lontano dalla riva della Mosa, in un parco pubblico. A lato di un vialetto fangoso e di fronte a un laghetto mezzo asciutto si erge come un monumento mussoliniano, “nella sua necessaria solitudine”, un vespasiano dipinto di blu. C’è un curioso edificio lì davanti, un gazebo dalle dimensioni sproporzionate e, proprio difronte, un padiglione modernista dalle forme curvilinee e puntute. C’è una porta vetrata e, al di sopra della porta, una pubblicità di birra. Si tratta, vedo, di un museo e della sua caffetteria.

Ecco dove troverò riposo e ristoro. Vado al bagno e faccio ciò che avevo previsto di fare, in più ordino alla barista un bel tè. Vedo che ci sono quadri dipinti tutt’intorno alla sala, e anche in un’altra saletta, e vedo che il sottosuolo del locale ospita un Musée de l’Art différencié.

Questa arte differenziata, che si distingue dall’art brut di Jean Dubuffet, è arte prodotta da handicappati mentali, come spiegano i vari opuscoli posti alla disposizione del pubblico. Mi pare di aver capito che la differenza fra questi creatori e quelli raccolti sotto la definizione di “brut” è che questi ultimi sono “personnes obscures, étrangères aux milieux artistiques professionnels” (Dubuffet 1963), mentre per i primi viene rivendicato uno statuto di artista a pieno titolo. Io non trovo quelli meno potenti di questi, ma è certo che ci sono qui belle personalità, come Salvatore Difranco, autore di sensibili opere d’après Modigliani e Magritte, o Luc Wos, che dipinge labirintiche piante di città che nulla hanno da invidiare a un Klee dell’età di mezzo.

Mi sono riscaldato, parzialmente asciugato, ristorato nel fisico e financo nell’intelletto. Sono stato infine capace di protrudere sguardi lunghi e nostalgici verso la vivace barista dai capelli corvini intrecciati alla Rasta, ma non c’è stata reazione no, me ne sono uscito nella desolazione fredda oscura del parco d’Avray, che ho traversato in direzione della stazione ferroviaria, che ho raggiunto in pochi minuti, dove ho atteso il treno che veniva da Colonia e mi riportava al mio studium e alla mia città putativa.

Questo spostamento geografico, questa escursione culturale, fu dunque un buco nell’acqua. Passeranno tre mesi prima che io sia di nuovo capace di mettermi in cammino e di mettermi sulla strada. Nel frattempo c’è stato il devastante incontro con Madeleine.

14 dicembre 2002. A Parigi nessuno mi invita mai a una serata e, se mai qualcuno mi invita, sarà, nella maggior parte dei casi, una serata compassata e costipata, fissata con sei settimane di anticipo, e ove nessuno si prende la briga di presentare i nuovi venuti agli invitati abituali ed è così che, generalmente, finisco per prendere una postura torva di statua del Commendatore, mi acquatto nel primo sgabuzzino che trovo, di lì non mi muovo, nessuno mi accosta e perciò, penso, più nessuno s’azzarda ad invitarmi a una serata parigina.

Invece, mi ricordo, cosa era andare a una serata moscovita. Ci andavo con persone per le quali pareva che tutto, il proprio destino personale e le sorti del mondo, dipendesse da quello che si sarebbe incontrato in cima alle scale buie da cui erano state asportate tutte le lampadine, dietro la porta immensa il cui campanello si trovava a tentoni. Ci si fermava a un chiosco per comprare una bottiglia di vodka o di spumante moldavo e via, ci si avventurava rumorosamente dentro gli ascensori cigolanti e puzzolenti di urina, portando già l’allegria con noi.

Non mi aspettavo dunque una cosa del genere quando, nel tardo pomeriggio del 14 dicembre 2002, mi presentavo, al numero 7 del boulevard Saint Michel, all’appartamento di certe persone che conoscevo appena. Mi dicevo che avevano invitato me non tanto per simpatia ma perché un artista barbuto in un bel party dà sempre un tocco decorativo. Ma i miei ospiti, i signori Broher, erano non solo polacchi ma erano tutto tranne che parigini, e non avevo ancora toccato il campanello che già ero stato adottato, preso in braccio, trasportato da un angolo all’altro del salone, presentato a tutti i presenti senza eccezione, dissetato, nutrito, intrattenuto. Una calma sovrana mi ha pervaso, è crollata la crosta di gesso del Commendatore, ero lì al cento per cento, pronto a tutto accogliere, pronto financo ad andare incontro a qualcheduno. Lì è apparsa Madeleine che mi ha ipnotizzato con la sua voce di contralto e che, quando ha visto che il mio bicchiere era vuoto, si è allontanata da me ed è andata a prepararmi una vodka con spremuta di arancio di cui non avevo alcun desiderio e, non so perché, ho trovato tale gesto così incredibile che già avrei voluto accendere un cero in quel punto esatto del parquet in cui il suo polpaccio aveva compiuto una torsione di 68° e il profilo della sua anca aveva indicato la direzione Est-Nord Est, prima di scomparire oltre la porta della cucina. L’attesa sospesa che ha seguito quel movimento mi fu deliziosa. Quando lei è tornata e mi ha teso il bicchiere con la bevanda, l’ho bevuta in ottemperanza della mia condanna definitiva. L’ammirazione è sempre la prima tappa della caduta.

Mi rimarrà, dei successivi incontri tanto brevi da parere videoclip oppure apologhi neo-testamentari, una serie di immagini frammentarie e di impressioni aptiche registrate quando la sensibilità si affievoliva e potevo ricordarmi di ricordare, sapendo che a quelle immagini e a quelle impressioni rimemorate sarei ricorso nelle notti solitarie che senza dubbio sarebbero rivenute. Così è stato.

22 gennaio 2003. E’ stato certo il giorno più bello della mia vita. Non è accaduto niente, quel giorno. Come al solito l’ho trascorso fra lo studio e le vie del quartiere. Ma il colore del mio ozio operoso è stato fondamentalmente diverso da quello che ho conosciuto per il novantanove per cento dei miei giorni, negli ultimi quindici anni. Il 22 gennaio 2003 il mio ozio e la mia operosità sono stati sovrani e ne avevo coscienza, mentre infine abbandonavo il trascorrimento nello spazio e mi spostavo dentro il tempo. A sera sarebbe venuta Maddalena.

4 aprile 2003. Ho ripreso la mia vita di artista a quattro ruote. A Vietri sul Mare ho ritirato dagli Scotto le due cassette di maioliche che avevo dipinto in gennaio (cosa fare di quella su cui ho scritto “celle-ci est pour Maddalena?”), trascrivendo col blu di Delft la sesta pagina di La philosophie dans le boudoir. Si aggiungevano, quelle venticinque piastrelle 20×20, ai tre metri quadri di Sade che avevo già trascritto e che formeranno il pavimento leggibile di un vero e proprio boudoir ricostruito che somiglierà in verità piuttosto a una cella di clausura e che sarà visitabile presso lo spazio 3A, in vicolo Sforza Cesarini 3a a Roma, dal sabato 12 alla domenica 13 aprile 2003. 4

Caricato il cofano dell’auto con il metro quadro di Sade (questa è l’ultima volta, giuro, che lavoro con la ceramica; pesa troppo, è troppo fragile e non vedo proprio quale collezionista possa anelare al possesso di una siffatta stanza da bagno) ho tempo da perdere e da far passare ma anche lavoro da fare. Dovrò ben mostrare qualcosa, al 3A, oltre al pavimento sadiano, dovrò! Riprenderò le anatomie dipinte e le dissezioni disegnate che feci cucire a mia madre col filo rosso sulle tele di garza alte tre metri, bei sudari barocchi trasparenti che spaccio per opera mia quando mi sono invece limitato a fornire il tracciato a mia madre e farla lavorare di fretta e di notte, perché dovevo tornarmene a Parigi per farle vedere a una esposizione. Allo stesso modo ora ho fretta, e la mia crisi creativa assortita di leggera depressione che dura ormai da qualche anno (un effetto post-thòrunniano, più in là mi spiegherò) va combattuta in stato d’emergenza e sotto mostra, con una trovatina come questa: attingere al proprio repertorio e prodursi in una variazione sul tema, allungandosi nella direzione di una radicalità che, se non potrà essere estetica, sarà almeno tematica.

Queste dissezioni verranno quindi riprodotte al tratto, con pittura trasparente color rosso sangue, dipinte su due vetri sovrapposti, uno dei quali rivoltato, in modo da avere un disegno sdoppiato e una doppia ombra, pure rossa, al muro.

Metto in moto e guido verso Raito, che sovrasta Vietri Cerco un posto dove parcheggiare, un bel posto panoramico. Lo trovo sotto Villa Guariglia, che è il museo della ceramica. Parcheggio fra due pulman da cui sono scese le scolaresche in gita, ma mi sento osservato dagli autisti che si fumano le sigarette, riavvio l’automobile e la porto su di un piazzaletto sterrato, fermo le ruote proprio sul bordo del dirupo, davanti a me c’è tutto il golfo di Salerno. Armeggio nel cofano, tiro fuori le lastre comprate alla Vetreria S. Ciro di Vico Equense, i colori, i pennelli. Trovo una bottiglietta vuota di Coca Cola, ne ritaglio il fondo col coltello a seghetto che tengo sempre in macchina e che uso in genere per fare la cicoria durante le mie soste presso le aiuole delle autostrade, in tal modo mi faccio una ciotolina che riempio di acqua Ferrarelle e che userò per pulire i pennelli. Mi seggo al posto accanto a quello di guida, pulisco i vetri con lo sputo e un fazzolettino di carta. Il fazzolettino di carta lo butto fuori del finestrino, ce ne sono già tanti a terra, questo deve essere un luogo di appuntamenti notturni e furtivi, io non ho appuntamento con nessuno ma vedi, i miei fazzolettini li ho anch’io e li getto fuori dal finestrino così sporchi di rosso come sono, in mezzo a tutti gli altri.

Chino come sto su qualcosa affaccendato, chiuso dentro l’auto, gli autisti dei pulman scolastici che – vedo nello specchietto retrovisore – mi guardano di lontano, penseranno certo che mi sto facendo le pere. Lavoro di tratteggio con la pittura purpurea per un paio d’ore; mano a mano poggio le lastre ad asciugare sui sedili e poi sul ripiano del finestrino posteriore. Lavoro senza voglia ma con stolida diligenza; stavolta sono io quello che dà l’ordine ma anche colui che esegue. Ho riempito tutto lo spazio disponibile nell’automobile, mi rimetto al posto di guida, esco in retromarcia dalla piazzola, mi immetto nella S. S. 163 della Costiera Amalfitana, ridiscendo a Vietri, traverso la piazza, esco dal paese, imbocco l’autostrada A3 in direzione nord.

6 aprile 2003. Il Museo campano di Capua è uno di quei tesori poco noti o noti solo a qualche fanatico storico dell’arte tedesco od inglese, che esistono solo in Italia meridionale. Ma forse sono ingiusto, non so, forse schiere di e stuoli di semplici cittadini si pressano alle porte del palazzo principesco dei San Cipriano per avere visione dei bassorilievi e delle steli raccolte da Theodor Mommsen nel lapidario o, nella pinacoteca, della Deposizione di Bartolomeo Vivarini, oppure delle teste colossali salvate dalla demolizione della porta federiciana, oppure della raccolta di antichità italiote, romane, greche, fra cui alcuni vasi a figure rosse poggiati su mensole come voi poggereste una tour Eiffel di latta dorata, ma questo pubblico colto e civile io il 6 aprile nel polveroso museo campano di Capua non l’ho visto, c’erano, è vero, alcuni studiosi occhialuti nelle sale della biblioteca annessa al museo, che è ricca di 50.000 fra pergamene carte geografiche e volumi vari, in-folio, in-ottavo, in-quarto e financo in-sedicesimo, ma quel pubblico che il museo di Capua meriterebbe doveva trovarsi in visita a una qualche pappa fatta tipo “Tutti i Caravaggi sintetici” o “I ninnoli di Picasso dalla collezione East-Southampton di Levallois-Perret”.

Nel 1845 il signor Patturelli, proprietario di un terreno in località Petraia, presso la via Appia, aveva ordinato di sterrarlo per edificarvi un muro di cinta. Vennero fuori dalla terra fregi e sculture antiche. Immediatamente il Patturelli fece ricoprire i reperti, per evitare noie e perché non gli venisse bloccata la costruzione del muro. In questa circostanza vari pezzi vennero danneggiati o asportati per essere rivenduti, e la voce della scoperta iniziò a circolare. E’ quindi probabilmente alle enclosure borghesi dell’Ottocento che dobbiamo le Matres.

Nel 1873 iniziarono degli scavi un po’ disordinati, regolarizzati solo qualche anno più tardi. Rividero la luce più di centosessanta statue lavorate nella pietra locale, il tufo. Rappresentano tutte donne sedute con in braccio uno o più neonati in fasce (fino a ventisei, ma in media ce ne sono sette o otto) e sono state eseguite nell’arco di forse mille anni, dal neolitico fino all’epoca imperiale, e traversano tutti gli stili e le tecniche plastiche dell’antichità; vi si intrecciano le influenze osche, etrusche, greche, latine ed ellenistiche. Si tratta delle Matres Matutae, monumentali offerte votive per ringraziamento di un parto riuscito o per propiziazione della fertilità familiare e insieme mostra della ricchezza acquisita. Per mille anni tutta una città si è avvicendata sul luogo di culto della Mater italica, depositando doni e lasciando la più meravigliosa collezione di variazioni sul tema della fecondità, dalle appena sbozzate forme geometrizzanti alle opime figure “tozze e mostruose sì che sembrano rospi” (Mancini, cit.) ai morbidi panneggi e ai volti ovali dell’ultimo secolo prima di Cristo.

Scelgo proprio la più antica madre, quella che il guardiano chiama ironicamente “picassiana” e – del resto – è ben autorizzato all’ironia, visto chom la guida a stampa del museo reciti “Gli errori nella costruzione della persona sono tanto singolari da rendere l’immagine particolarmente attraente”. Misuro dove guarda e annoto che guarda a nord, a 27° N-NE per essere precisi. Buono a sapersi.

23 aprile 2003. Sulla S. S. 1 Aurelia, in direzione Europa. Quante volte avrò percorso questa strada, diecimila, ventimila, non so. Potrei chiudere gli occhi e dire a quale chilometro ci troviamo, secondo l’odore dei campi fertilizzati o delle centrali termoelettriche o del mare sugli scogli, secondo l’ampiezza di una curva o la ramificazione delle crepe nell’asfalto, secondo il frinire delle cicale o quello dei cavi dell’alta tensione.

La vetturetta che guido è stracolma: i miei archivi personali, i taccuini, gli scritti battuti e ribattuti, le foto di famiglia, quelle di mio fratello, rotoli e pacchi di lavori incompiuti, senza presente né futuro. Tutto ciò che mi appartiene o mi definisce viaggia oggi insieme con me: se avessi ora un incidente e questa auto bruciasse insieme con il suo contenuto, di me non resterebbe che qualche quadro appeso in appartamenti di amici che non si conoscono fra di loro e un paio di articoli in diverse lingue, pubblicati qui e là in riviste a diffusione confidenziale.

Sto re-trasmigrando a Parigi, città ove ho vissuto per quasi quindici anni. Eppure ho la sensazione di andare in esilio. Per le mie carte avrei ben volentieri trovato un bel rifugio rurale: una casupola di collina con vista sul mare Mediterraneo, per esempio. Ma quello che mi è capitato è uno studio a Parigi: noi accettiamo, accogliamo ciò che viene, che sia Madeleine che si fa conoscere a mezzanotte o Xavier che mi offre un atelier in mezzo alle chiacchiere di un vernissage, ed ecco sto sulla statale Aurelia per la ventimillesima volta, ma non vado stavolta a insegnare ai bambini di Torrimpietra, non vado a pescare anfore romane al largo del porticciolo di Tarquinia Lido, non vado con la ragazza nell’appartamento vuoto umido d’inverno a Porto Ercole, non vado a imparare il mestiere di falegname a Genova nel sestiere di Pré, non vado a ridipingere una casa a Hyères, dormendo in un capannone sulla spiaggia insieme con mio fratello. No, me ne vado a Parigi con il mio fottuto archivio personale e qualche capo di vestiario inzeppato dentro il cofano.

Quando guido non ho fretta ma ho ansia e non ho voglia di fermarmi. Se lo faccio, è solo per svuotare la vescica e riempire il serbatoio. Del resto non appena metto i piedi a terra le gambe mi tremano a causa delle vibrazioni e solo quando mi riseggo in auto il tremore passa. Siamo un tutt’uno io e la mia Fiat Uno.

E’ quasi il tramonto quando, dalle parti di Basilea, mi fermo per fare benzina. Non vendono birra alla stazione di servizio, e questa è l’ora in cui ho bisogno d’un petit remontant, quoi! E perciò mi trovo costretto ad aprire il vano del cruscotto, tirarne fuori una bottiglia sigillata di Jameson e tirarne tre belle sorsate. Dopo di ciò la strada è più sgombra e il motore più brillante, sorpasso tutti cantando a squarciagola e mentre affondo nel bel tramonto color pastello mi si schiarisce la testa e mi vengono finanche nella mente quelle idee che mi sono mancate per tutto il mio soggiorno in Italia, paese che è per me quello degli affetti (oh, affetti, oh, affetti cari, come vorrei fondermi in voi e nell’alcol e smettere alfine di essere inafferrabile dai più!) ma non quello dell’intelligenza.

23 maggio 2003. Ecco, sono di nuovo fuggito. Questo è il mio movimento, non appena manco di movimento. Passo una giornata normale come di più non si puote, cerco materiali in giro per i bazar, srotolo stoffe di organza e poliestere al Marché St. Pierre, mi costruisco una porta scorrevole fra bagnetto e corridoio, raccolgo con le dita le scagliette di vecchia pittura cadute sul piancito dello studio, mi faccio venire in mente un lavoro di grosse dimensioni, che potrebbe portare per titolo, diciamo, Quattro tesi sul fascismo, faccio bollire quattro patate e due uova che depongo in un sacchetto di plastica, metto il sacchetto in una borsa e prendo una metropolitana per la stazione del Nord.

Ecco sono arrivato di mattino presto, come al solito, alla stazione Zoo e sto per iniziare una delle giornate più insulse della mia vita. Ho lasciato la borsa in una cassetta del deposito automatico, ecco sono uscito sulla Hardenbergerstrasse pulito e leggero come fossi anch’io un berlinese. Mi dirigo innanzitutto verso la Bauhaus su Kurfürstendamm, è una lunga camminata ma voglio vedere che materiali e attrezzi vari vendono lì. Alla Bauhaus mi carico di una decina di tubi di silicone solo perché costano una trentina di centesimi meno che a Parigi.

Sono di nuovo nella strada, di nuovo carico di peso materiale e morale ma senza assolutamente nulla da fare e senza alcuna voglia particolare. Sulla Westphälischestrasse c’è mercato, una decina di camioncini aperti su un lato per un pubblico che, come sempre in questa città vuota spaziosa silenziosa, è ben rado.

Senza perdere tempo mi compro un bockwurst, anelavo a ritrovare la sensazione della pelle che resiste e poi cede sotto la pressione degli incisivi che affondano nella carne molle e rosea della salsiccia, ed inizio con questa esperienza mattutina una vera e propria tournée di analisi comparata. E’ vero, difatti, che nel bockwurst della Westphälischestrasse la pelle scrocchia bene sotto i denti, ma la polpa è, non so, direi, come granulosa. Al mercato di Wittenbergplatz il Wurst è forse meno caldo, ma il gusto del maiale è più delicato. Alla fine mi servirei piuttosto al chiosco sulla Savignyplatz: buona resistenza al morso, affondamento graduale nella ciccia, ottima temperatura di servizio, soddisfacente persistenza nel palato.

E dopo queste coscienziose prove ho avuto voglia di birra e mi sono messo alla ricerca, ma non potevo accontentarmi di una lattina comprata al supermercato no, cercavo un buon bar ma a forza di camminare mi sono trovato nella parte più vuota di questa città vuota, dalle parti del Tiergarten e della Lützowplatz. Non ci caffè né chioschi né pizzerie qui. Mi sono deciso a entrare in un hotel, perché grandi alberghi chiese cattoliche e biblioteche pubbliche sono gli ostelli dei vagabondi come me, in tali luoghi infatti nessuno ti fa domande se entri e vaghi qui e lì e una poltrona o un sedile gratuito nessuno te li nega, provare per credere.

L’Hotel Berlin sulla Lützowplatz non fa eccezione a questa basica regola. Il cortese groom mi ha messo sulla buona direzione per il bar ma la hall e i corridoi sono ingombri di banchetti e stand fieristici illuminati da spot e proiettori, guardati da uomini rubicondi dalle cravatte fantasia, seduti dietro mostre di apparecchi cromati, bisturi e trapani di tutte le taglie e dimensioni, calchi di chiostre dentarie, dentiere vere e finte, protesi in ceramica vetroresina oro platinato e platino placcato, braccetti telescopici e motorini stroboscopici e strumenti speciali per odontotecnici mancini, mi sono trovato nel bel mezzo dell’ottavo simposio internazionale di impiantistica odontoiatrica, mi districo infine fra espositori e materiali umani e disumani, seggo a uno sgabello del bar, bevo le mie due birre ascoltando di sottecchi un giapponese e un polacco che discutono a segni della maniera migliore di ricostruire al laser un secondo canino inferiore destro distrutto -insieme con tutto il resto di una dentatura alla Presidente del Consiglio- da un colpo di ferro da stiro marca “Optimus”.

E’ ancora l’inizio del pomeriggio quando, gonfio di birra e di salsiccia e più stolido che mai, mi trovo sulla riva del Landwehrkanal e mi appoggio alla ringhiera a guardar passare i gai battelli che trasportano le gite aziendali. Mentre la pioggia inizia a scendere più fitta ne passa uno piano piano: una trentina di uomini e due donne, tutti con occhiali da vista dalla montatura di tartaruga, ballano al suono di “Mamma mia” degli Abba. Seguo la schiuma del battello allontanarsi verso il Möckernbrücke e mi distacco dalla ringhiera, mi affretto verso la biblioteca nazionale, nell’androne c’è una bella fila di poltroncine comode allineate lungo la vetrata sul Kulturforum, basta poggiare la testa sullo schienale e ci si addormenta all’istante.

Mi risveglio dopo mezz’ora, non so, adesso ho bisogno di caffè e sigaretta. C’è un chiosco proprio difronte all’ingresso principale della biblioteca, ha una pergola che protegge dalla pioggia, seggo a un banco, sonnecchio oppure guardo la gente che aspetta l’autobus alla fermata del 148. Mi salva l’ora che passa, è quasi sera ed è tempo di ritrovare gli amici.

26 maggio 2003. Al centro della città di Potsdam, proprio a ridosso della chiesa cattolica di San Pietro e Paolo, c’è un piccolo cimitero che raccoglie i corpi di 372 soldati sovietici caduti nell’ultima guerra mondiale. Mesi fa capitai in questo luogo per caso, una volta in cui, vagando per un quartiere olandese tutto ripulito e occupato da antiquari e centri di abbronzamento, venni attirato verso la piazza del mercato dall’odore del Potsdamerwurst e, mentre ne addentavo uno, scorsi la cima di una piramide scura fra le fronde dei tigli limitrofi alla piazza. So che la piramide, simbolo di resurrezione, è frequente nei monumenti funerari sovietici. In Russia avevo spesso visitato cimiteri le cui lapidi erano semplici tralicci di ferro a forma di guglia o di obelisco, dipinti di grigio e sormontati talvolta da una stella rossa. Ero solo sorpreso che un tale memoriale si trovasse nel pieno centro di una città barocca ben preservata, per quanto parzialmente danneggiata dai bombardamenti alleati del 1945.

Passato il cancello del cimitero e percorsi in cerchio i vialetti, esaminai da vicino il monumento che avevo scorto dalla piazza e vidi come, dei quattro soldati di bronzo in pose eroiche che decoravano la base della piramide, uno solo era senza movimento e in postura di saluto sull’attenti ed era quello che guardava verso l’est, “verso la madrepatria”, pensai, sicché il suo sguardo, ulteriormente ripreso dalla linea di mattoni sul suolo del parco antistante, guardava diritto, oltre il Brandenburgo, la Slesia, la Galizia e la Bielorussia, in direzione di Mosca, e alle sue spalle la punta dell’obelisco addirittura copriva, se guardata da posizione frontale, la cuspide della chiesa retrostante, il cui abside, come spesso nell’architettura religiosa, era rivolto a oriente, al sole levante e alla resurrezione dei corpi che di lì verrà annunciata. Insomma lo scultore Brams, che aveva disegnato il monumento nel 1949, lo aveva allineato sulla St. Peter und Paul Kirche e, al di là di quella, sull’asse est-ovest di questa pianificata città di guarnigione e capitale estiva dei re-soldati prussiani, affermando in tal modo un sincretismo, non so quanto consapevole, fra fede nella resurrezione cattolica, culto socialista dei morti e razionalismo militar-prussiano. Una bella riuscita, pensai, che dovrò degnamente ricordare con un cartello apposto avanti al cimitero, cartello clandestino o autorizzato che sia, ma che, in ogni modo, porti una firma al mio pensiero.

Ho il cartello con me, l’ho preparato prima di partire, il testo me lo sono fatto tradurre in tedesco da Andreas, l’ho riprodotto su acetato trasparente, è protetto da scotch e plexiglas, ho solo dimenticato le cordicelle per appenderlo alla griglia metallica. Non fa niente, aspetto che non ci sia più passaggio fra la Bassinplatz e il mercato, i giardinieri lavorano lontano e non mi guardano né mi vedono, poggio il cartello sulla ringhiera presso il cancelletto, lo contemplo un attimo e scivolo via verso la stazione.

(2002-03)

 Note:

  1. 1: W. G. Sebald, Austerlitz, Milano 2002, pp. 35-36, traduzione di Ada Vigliani.
  2. 6: Amministrazione Provinciale di Caserta, Il Museo Campano di Capua. Guida per i visitatori, Capua 1998
  3. 6: L. M. F., Il santuario del fondo Patturelli, http://www.cib.na.cnr.it/capua/testi/patt.html.

PS: quanto alle immagini, me ne occuperò al più presto (dicembre 2015)