Prontuario del protervo (1994) prima parte

Me ne stavo, come al solito, sì, al Circolo Donatori di Organi, sì, impegnato in una di quelle partite a boccetta americana che non finivano mai prima di mezzanotte e passa, sì, me ne stavo, sì, impegnato, sì, quando squillò il telefono, sì, collocato sul muro, sul muro del vestibolo, sì.

“Chi sarà mai” disse Alessio, che sbuffò e ciabattò fino al ve­stibolo e quando ne rivenne annunciò che era me che si voleva al telefono. “Chi sarà mai” dissi, e guardai i Soci riuniti intorno al ta­volo con aria allibita, perplessa e circospetta, li guardai cioè io con aria allibita eccetera, perché loro di aria non ne avevano proprio nessuna, ché a forza di dare il proprio corpo personale per il bene del prossimo e dell’altrui non erano rimasti loro neanche gli occhi per piangere, ma lo stesso li guardai in quegli occhi che non erano più loro, ma che detenevano solo in prestito, in via eccezionale e per grazia di Dio, e li guardai volendo significare che non era mia colpa e responsabilità no quella inopinata inter­ruzione, non era mia no ma invece era di quell’ altro sì di quello scocciatore in attesa dentro il telefono nel vestibolo, e che aspettasse, non ero certo ai suoi ordini io, che a me nessuno mi dice quello che ho da fare, capito, capiert, capitt? Ma, bene o male, volere volare, mi staccai dal tavolo e mi portai nel vestibolo, dove pendeva la cornetta del telefono, appesa alla sua stessa corda ironia del destino, e arrivai appena in tempo per salvarla, sollevandola dalla sua incomoda posizione e portandomela all’ o­recchio.

“Pronto” dissi. Una voce ringhiosa ruggì nel ricevitore: “So­no papà”. Era il mio papà. “Vieni qui, vieni, ché ho del lavoro per te, vieni a casa coccobello di papà”: disse papà.

“Ma, papà, è mezzanotte e passa, si deve fare proprio stase­ra, non si può aspettare fino a domani, domani anche di primo mattino non dico di no, non si potrebbe no, proprio no?” Ma papà aveva già riattaccato il telefono, parlavo al vuoto e al nulla, parlavo senza più il e in mancanza del, naturale, interlocuto­re, ed è per questo che a mia volta rimisi al suo posto la cornetta, che se la vedesse lei con la sua forcella e il suo cordone, d’ altronde ci si era messa lei fra l’incudine e il martello e non sta a me intervenire nello spontaneo esercizio del libero arbitrio altrui, ah no, certo però se l’arbitrio fosse servo, allora in­vece interverrei, perché su di me si può contare, sì, quando si tratta di difendere gli oppressi oppure di raddrizzare i torti, allora io rispondo sempre presente, insomma ricondussi la benedetta cornetta al suo natu­rale stato di attesa e tornai in sala, a prendere congedo sì dagli amici del Circolo.

Presi così congedo dagli amici, del Circolo, e andai difilato dal babbo il quale mi disse non appena mi ebbe visto il quale non appena mi ebbe visto mi disse dissemi: “Ce ne hai messo, corpo di mille balene, ce ne hai messo di tempo per venire”.

“Sì è vero papa sì lo so ma d’altronde devi pur capire che il Circolo non è che stia dietro l’angolo, al contrario invece non sta proprio dietro l’angolo, capisci”.

“Capisco, capisco” disse burbero ma già in qualche modo rab­bonito papà, il mio paparino che urla sempre ma non è poi così cattivo come sembra, il mio papi sotto la cui rude scorza batte un cuore di gran signore, il mio unico e autentico genitore, il Padre, chi altri se non lui, il mio vecchio, il Grande Vecchio, che in quella circostanza di cui qui narro mi disse e anche mi disse, sì: “ma cosa ci andrai a fare in quel ritrovo di smidol­lati io non lo so, perché perdi tempo in quelle compagnie io non lo so, non mi piace no la gente che frequenti e dovresti sapere che chi va con lo zoppo impara a zoppicare e dimmi con chi vai e ti dirò chi sei e perciò, ma del resto la vita è tua e ne fai quel che ti pare, non sarò certo io che interverrò nella tua vita che è tua, dio me ne scampi e liberi, cosa vuoi che me ne importi di quello che combini e del resto che cosa potrebbe combinare un salame un imbelle come te ma lasciamo stare non mi far parlare che è meglio e vai piuttosto nello stanzino da lavoro, vai piuttosto nello stanzino che lì c’è del lavoro, c’è del lavoro per te, e bada a non ciurlarmi nel manico, ci sono altre dodici lettere da copiare, mettimele per bene in bella copia e in bel carattere, con diligenza e applicazione, come puoi se lo vuoi, e te l’ho detto e ripetuto mille volte che vo­lere è potere, cerca quindi di volere e vedrai che potrai e adesso su al lavoro, via”, disse papà concludendo la sua tirata con un affettuoso scapaccione sulla nuca (eh si devo dirlo che il mio papà non è poi così cattivo come vuole far credere e sopra! tutto è uno che dimentica tutto, che non ha risentimenti di sorta ecco questo è il lato bello di lui, per esempio mi rimprovera è vero per causa delle mie frequentazioni e compagnie, ma subito via un, bel colpo di spugna e tutto è acqua passata e cosi dovremmo fare tutti, perché cosi si vivrebbe meglio tutti quanti, questo e sicuro, sì, e veramente garantito, sì, davvero.

Me ne venni dunque al tavolino, dove mi aspettavano le dodici lettere di papà, si se ne stavano li buone buone ad aspettarmi, chiacchierando fra di loro in un allegro ciangottio in un argen­tino pio pio, ma subito al mio ingresso tacquero all’unisono le gallinelle e rimasero silenziose, perché la ricreazione era fini­ta e adesso si lavorava, e lo sapevano bene.

Mi sistemai per benino al tavolino, ben composto e ben dirit­to, io cioè composto e diritto e quanto al tavolino, quelli erano affari suoi, io intanto mi sistemavo diritto e composto, tanto che fra il mio dorso e lo schienale della sedia poteva passarci finanche un treno, così come mi aveva insegnato la Gretel, la mia istitutrice svizzero-tedesca di Sils-Maria, che fu la mia inizia­trice anche in ben altri campi che non nel solo galateo, come dirò più in là, sì. Mi sistemai bene bene, presi un bel foglio bianco, intinsi il pennino nel calamaio e mi accinsi a copiare la prima lettera, che suonava pressappoco così, sì:

“Egregio Signor Direttore,

le scrivo in merito a un annoso e penoso problema che è stato, sia pur fuggevolmente, evocato in un articolo del Suo pregiato giornale, di cui sono, come mi fregio di farle noto, un appassionato e fedele lettore, problema dicevo, annoso e penoso, che è stato meritoriamente, per quanto fuggevolmente, evocato in un articolo del Suo benemerito periodico, a firma G.S., che portava il titolo Nuovi e vecchi problemi del nostro quartiere.

L’ articolo in questione faceva riferimento a diversi fenomeni di malcostume dilagante e, per quanto in modo forse troppo fuggevo­le, al problema morale, che si rivela in mille e uno spie indizi e sintomi del comportamento umano, non ultimo fra i qual i quello su cui vorrei qui modestamente richiamare la Sua e quella dei Suoi lettori attenzione, e mi riferisco alla triste abitudine che vorrei in questa sede stigmatizzare, unendomi al coro delle persone civili e oneste che sono, lo sappiamo bene, divenute ormai merce rara, e mi unirò a questo coro nella mia qualità di ormai sessan­tennale Servitore dello Stato e nella mia veste. di Promotore e Presidente Onorario del Partito dei Reduci di Tutte le Guerre (P.R.T.G.), affiliato alla Cassa Previdenziale dei Reduci di Tutte le Guerre (C.P.R.T.G.) e all’Associazione Dopolavoristica dei Reduci di Tutte le Guerre (A.D.R.T.G.), Partito il quale, è doveroso aggiun­gere, ha conseguito lusinghieri e incoraggianti risultati in occa­sione dell’ ultima “kermesse” elettorale nella nostra circoscri­zione, ed è perciò forte di tale incoraggiante sostegno da parte di diecine di nostri concittadini che elevo la mia voce da questa tribuna, per stigmatizzare con forza la triste abitudine, così consueta ormai, in ispecie presso certi “signori” provenienti dai ceti sociali meno educati, di pizzicare o financo grattare, nel bel mezzo della pubblica via, le parti basse del proprio corpo o, per dirla schiettamente, i propri organi genitali. È questa una vera vergogna civile, e lo dico qui con vigore: se è questa dunque l’immagine di noi uomini adulti che vogliamo dare ai nostri piccini, come pretendiamo che di fronte a tali esempi possano essi credere in un futuro migliore? “Signori” che vi grattate le parti basse nel bel mezzo della pubblica via, riflettete su questo dato e pensate al bello spettacolo che offrite ai nostri bambini e alle nostre donne, pensate a quegli innocenti occhi che vi guardano, quando una subitanea prurigine richiama la vostra mano verso quelle parti, e da veri uomini sappiate controllarvi, sappiate resistere, se davvero ce li avete!

La ringrazio, Signor Direttore, della sua cortese attenzione.”

Ecco, come si vede è uno che gliele canta, il mio papà, sì, proprio, davvero, e non gliene scappa una, no, è proprio implacabile sì il mio paparino. E ne copiai altre undici dello stesso tenore, di queste lettere di fuoco, di questi messaggi di fiera e vibrante denuncia, toccanti i più vari e variegati aspetti della vita sociale e civile, ed è noto che undici più uno fa dodici, anche i bam­bini lo sanno questo e copiai perciò durante la notte ben dodici Lettere al Direttore, e l’indomani mattina di buon’ora le conse­gnai personalmente alle segreterie dei suddetti Direttori, dopodiché potei considerarmi sul rompete le righe sì e potei andare a pren­dere un meritato riposo al Club dei Portatori di Pacemaker, e di­fatti giunto costì sprofondai in una confortevole poltrona in “skai”, mi apersi un giornale finanziario sulla faccia e mi appisolai al­l’ istante.

Mi risvegliò un domestico, messaggero di notizie e in partico­lare della notizia che mi si desiderava al telefono, come dimostrava il fatto che egli stesso mi porgeva un ricevitore telefonico, che portai seduta stante all’ orecchio, per udire la ben nota voce del mio Big Daddy, il quale voleva sapere se avevo portato feli­cemente a termine la missione assegnatami, “sì papà non ti preoc­cupare certo papà ho fatto come dicevi tu le ho consegnate in Ma­ni Proprie le tue letterine e vedrai che domani le pubblicano tutte per intero, grazie alle tue note conoscenze, e potrai accluderle in tempo, ma in appendice beninteso, all’ ultima edizione degli Scritti Completi, e sì l’ho preso l’appuntamento col tipografo non ti preoccupare va tutto bene ho pensato a tutto anche alla dedica in carattere Times e ai ringraziamenti in corsivo corpo otto, ho tutto scritto tutto appuntato sul mio calepin no stai tranquillo non dimentico niente e del calzolaio sì me ne occuperò oggi stes­so ci passo dopo il tipografo o forse prima, vedremo, sì, la so­letta di vero cuoio e non di gommapiuma lo so si certo gliel’ho detto lo sai che lavora bene non ti preoccupare ci penso io poi te le porto questo pomeriggio sì adesso vai tranquillo a lavorare che ci vediamo poi, sì, ciao sì , ciao ciao, si sì ciao”.

“Oh” dissi riconsegnando il ricevitore al solerte servitore, “neanche si può più riposare in santa pace in questo posto, mi porti un decaffeinato, buon uomo, mi faccia il piacere, sia gentile, grazie, vedrà che Dio gliene renderà merito e che magari ci scappa finan­che una bella mancetta, ci scappa, sì, ma ora vada, su, e mi torni con un bel decaffeinato, e vedrà che saprò mostrarle tutta la mia riconoscenza, ma si sbrighi, che diamine, cosa me ne sta lì impalato e tutto boccheggiante, razza d’idiota, si muova piutto­sto e visto che c’è mi faccia venire il Direttore, che gliene can­terà quattro, la faccio mettere in riga io la faccio, sì, cosa vuole che mi interessi se lei è un raccomandato di ferro, mi fanno un baffo a me quelli del Sindacato Detentori Organi Artificiali, lei è qui per fare il suo lavoro e non per farsi venire una crisi respiratoria davanti a un cliente che non faccio per dire ma di guai e preoccupazioni ne ha ben altri che lei”, e messo così al suo posto questo zoticone, questo pappamolla, con cui avevo perso già abbastanza tempo, ebbi infine il mio bravo decaffeinato , por­tatomi con le sue proprie mani dal Direttore stesso, tutto defe­rente, tutto sollecito, Direttore il quale, a furia di celie moine e lusinghe, il quale, ben uso a simili casi avvezzo e a tutte le esperienze rotto, Direttore il quale riuscì non senza dura fatica e sudore della fronte, riuscì a rabbonirmi e difatti fui rabbonito e come se niente fosse in men che non si dica  sorbito degustato e infine gradito e apprezzato il mio bel decaffeina­to (ma che bouquè questo suo decà, caro il mio bel Direttore, mio caro Direttore dei miei stivali, e che retrogusti, senta qui che retrogusti, si vede che questo è un arrivaggio speciale veramente, si annidano difatti in questa tazzina tutte le fragranze delle più selezionate raccolte dalle origini più controllate, cantano in questa tazzina qui i cori dei gioviali raccoglitori quechua pagati un miserabile sol alla gerba e frustati a sangue dai capo­rali a cavallo se per caso scivolano sul sentiero di montagna e rotola giù nelle valli qualche preziosa bacca, perché niente vale più di una gerba colma del più puro arabica arabica, insomma per farla corta mio caro Direttore questo suo decaffeinato fa proprio schifo, altro non è che rigovernatura dei piatti e niente più, al­tro non è che una vera ciufeca, proprio, sì, davvero, ma per oggi basta così, per oggi la perdono, se la beva lei alla mia salute questa pozione d’inferno, ché io ho da fare e me ne vado), me ne andai, cosi, sui due piedi, come se niente fosse.

Come se niente fosse no, perché io non sono uno che prende o fa le cose alla leggera io no, invece al contrario io ci penso e ci medito sopra, ed è così in fondo che la ciambella viene con il bu­co, altrimenti no, non viene né l’una, e né l’altro, e già. Perché io sono un uomo preciso, sono un vero paradiso. Sono un uom ché molto vale, non son mica neutrale. Sono un uomo assai palese, non son certo un eschimese. Sono un uomo eccezionale, sono un figlio naturale. Sì fatto è che nell’uscire dal Club, mentre indugiavo sul marciapiede antistante, allo scopo di accendermi uno dei miei Avana grandi come portaombrelli per cui vado famoso in tutta la città, mentre indugiavo dicevo sul marciapiede antistante il Club mi imbattei in qualcheduno che entrava, e questo qualcheduno dov’è che l’avevo già visto, era al Sodalizio, o non piuttosto invece all’Unione Nazionale, fatto è che quella persona lì mi ricordava qualcuno, ma dov’è che l ‘avevo già vista, ah ma certo dove è che li avevo gli occhi, non è che li avevo lasciati anch’io alla Cas­sa del Circolo (e sarebbe stato un bell’errore, perché quando hai ancora gli occhi per vedere, cos’altro vuoi di più, e tutto il re­sto sono quisquilie), no invece ce li avevo ancora e difatti me ne servivo per riconoscere e identificare quel tale, e quel tale era, sì, indovina chi, perché questi sì sono dati su cui riflettere, quel tale era, ebbene sì, quel tale era, e fatti furbo, quel tale era, indovina indovinello, quel tale era, fuochino fuochetto fuoco fuoco, quel tale era, oohh, quel tale era proprio Antonio, ma cosa ci faceva lì, mi domandai, e poi girai la domanda a lui stesso:

“ma Antonio che cosa ci fai qui?””

“Cercavo proprio Lei, Signorino” rispose Antonio, il nostro ze­lante maggiordomo. “Il suo Signor Padre difatti mi ha inviato costì, presagendo che con ogni probabilità ve La avrei trovata, e difatti mi allegro all’averveLa incontrata, e all’aver in tal modo condotto in porto la mia malridotta alberatura, così come mi era stato prescritto” e detto fatto Antonio si fece latore di un mes­saggio per me, e il messaggio era: che non dimenticassi di passare dal calzolaio a ritirare le scarpe badwürtemburghesi del mio Si­gnor Padre, “Lei lo sa quanto Egli ci tenga a quelle scarpe conta­dine che Gli offerse il Bürgermeister di Todtnauberg in persona, e che erano state portate, si dice, da Martin Heidegger stesso”. Sì sì lo so va bene grazie per il servizio ma ora vai torna a casa e riferisci quanto segue e cioè che le scarpe di papà stanno in cima ai miei pensieri e ora vai levati dai piedi sciò pussa via.

Sbarazzatomi così del vecchio Antonio, che è una pasta d’uomo e davvero fedele come un cane, ma che è anche un po’ anzichenò noioso, sbarazzatomi così brillantemente di lui, potei ricondurmi infine presso la mia signora, che si era a quell’ora certamente risvegliata e senza ombra di dubbio mi attendeva tutta acconcia e bene agghindata, davanti a un bel piatto di maccheroni alla salsa di pomodoro, e sì presto potetti constatare che così era ef­fettivamente, sì.

Quel giorno la mia signora indossava un completino che non le avevo ancora visto indosso, un completino giacca pantalone di la­netta a larghe strisce verticali bianche e rosse, forse un po’ leggero per la stagione, ma che d’altro canto ben sposava le di lei opulente forme, in ispecie ai fianchi e al calcagno, lascia­to a mezzo scoperto; tocco finale a questo variegato quadro, un, paio di scarpe nere con tacco a spillo, e niente calze a coprire i piedini rosati, degni modelli di un Rubens, che un Rubens cioè avrebbe potuto benissimo dipingere, se solo lo avesse voluto, o per meglio dire che ancora attendono il loro Rubens, ah perché non sono nato pittore, pittore di quadri! ma chissà che un giorno non mi ci metta… ma no non si tema, non lo farò sfigurare no il genere umano tutto, con l’esibizione della mia maldestria, lo so che non ci sono portato me lo sento lo sento e lo siento, e perciò non mi ci proverò niente paura, perché le idee ci sarebbero quelle sì ma di lì ad avere del talento quella è un’ altra storia, quello o ce l’hai o non ce l’hai e perciò mi accontenterò saggiamente di contemplare il mio piedino stretto nella scarpa di cuoio nero con fibbia d’argento e tacco a spillo con punta d’acciaio, mi accontenterò perciò solamente della pura contemplazione, come prescriveva il buon vecchio Schopenhauer e del resto, quando hai gli occhi per contemplare, cos’altro vuoi di più inoltre, e bando alle ciance rimettiamola al suo posto sì questa perfezione di piedino vicino all’altra che non è da meno, come perfezione, di piedino, ohi ahi ma che calma, ahi ma che lusso, ahi che voluttà, ah che oasi di pace questo calmo rifugio questo lussuoso nido quest’alcova voluttuosa che è il regno della mia Tatiana! (Certo, mi è costato un occhio della testa, ma quale gioia della vista, per quello che m’è rimasto!)

E fu così che all’ammirazione e contemplazione del piedino del sottoscritto, all’ammirazione e contemplazione cioè del sot­toscritto del piedino, o come dir meglio fu così che all’ammira­zione e contemplazione da parte del sottoscritto del piedino, no: fu così che all’ammirazione e contemplazione del piedino da parte del sottoscritto, oh, fecero seguito, infine! succedettero gioio­se agapi, allietate da una languida musica baiadera, diffusa nel­l’ambiente da un apposito impianto stereofonico a fedeltà davve­ro altissima, fornito dal sottoscritto a suon di assegni a otto cifre, come del resto tutti gli accessori e le varie suppellettili del nostro nido  d’amore e, al termine delle suddette agapi, per chiudere quest’ora di incontro conviviale, venne firmato il libro d’oro, o per meglio dire venne staccato e deposto sulla consolle un congruo e pingue assegnuccio, ahi quanto mi costi mia bella baiadera, ahi che sufrimiento del corazón tirar fuori all’aperto ed esporre alle correnti d’aria quel povero carnet ma che soddi­sfazione, anche, e per essere giusti bisogna dire che si ha quel che si dà, come regola generale e, poi, non c ‘ è che dire, non appena io sento la parola “amore”, io estraggo la mia credit card, seguendo in ciò una vocazione umanista perpetrata di generazione in generazione, e più particolarmente di padre in figlio e in questo caso il figlio sarei io sì.

Eh sì, e quanto all’amore, la mia Tatiana sapeva davvero come farsi voler bene. E ne fu ben ripagata: la sua vita accanto a me è stata infatti sempre costellata di gioielli, animali da compagnia e doni vari. Tra i molti regali che le ho fatto, quel li che ricordo con più tenerezza sono due dolcissimi gatti siamesi, chiamati Johnny 1 e Johnny 2, purtroppo prematuramente scomparsi in tragiche ed oscure circostanze, e uno splendido canarino rosa, Dioniso ; quanto ai gioielli, essi erano per la maggior parte, come detta il buon gusto, piccoli, di fattura delicata e poco appariscenti.

Eh sì, neanche applicando il metodo decimale del Dewey potrei catalogare tutti i doni e le offerte che ho deposto avanti a quel­l’amoroso altare, ma d’altronde, d’atro canto, d’altra parte, ne sono, come ho già detto, stato davvero ripagato, e già, e con gli interessi, sì ah, quale fonte di ispirazione non è stato esso per la mia arte, non è stato per la mia arte esso, non è stato no uno di quegli amori che fanno scoprire in te stesso vocazioni letterarie e ti fanno scrivere poesie, novelle e financo romanzi fiu­me, o che suscitano in te insospettate aspirazioni teatrali, e ti fanno allestire scenari di suicidio, non è stato esattamente ciò ma solo perché altre erano e mie vocazioni e le mie aspirazioni, ben altre, sì, come presto si vedrà su queste stesse pagine. Ma ciononostante conservo a tutt’oggi della Tatiana un indelebile e affettuoso ricordo, sì.

Ma per tornare a quel giorno, fu senza malinconia, malgrado i forti legami che ci avevano unito, che mi accomiatai dalla Tatia­na, difatti già sapevo che l’indomani l’avrei riveduta e non c’era quindi da fare tante smancerie, che la smettesse dunque di ag­grapparmisi alle ginocchia e la piantasse con i suoi pianti da coefora e lamentatrice professionale, basta, sciocche lamentanze sono queste e femminili, dai che domani torno, non piangere più adesso Tatiana, non piangere più Tatiana adesso, basta ho detto oppure ti faccio vedere, ah lo vedi che ti calmi se ti prendo dal verso giusto e adesso ciao, e che cazzo!

Oh, ma cosa faccio loro io alle donne, ché non vogliono mai la­sciarmi andar! E con tutto il lavoro che mi aspetta! Ma sì, amore e lavoro quelli li avevo non chiedevo altro no, e perciò era ora di passare al secondo, al lavoro, cioè!

Per prima cosa, punto uno: calzolaio. E lì tutto andò come pre­visto: consegnato scontrino, pronte scarpe, aperto sacchetto, ve­rificate suole, solette, linguette e tacchi, perfetti, un lavoro proprio di fino, davanti al quale papà non avrà davvero niente da ridire, almeno spero, liquidato calzolaio, missione compiuta.

Punto due: tipografo. E anche lì tutto sarebbe andato bene, se questa commissione non fosse stata turbata da un funesto episo­dio. Difatti, dopo aver discusso in tutta serenità con il brav’uomo le postille e appendici varie da apporre all’ Opera Omnia, ebbi la malaugurata idea di congedarmi lanciandogli, mentre ero già sulla porta, un “e lei, come va, tutto bene?””

“Sì, beh, veramente, ho appena perso mia moglie, proprio avant’ieri, è stato un attacco improvviso e fulminante, in pieno sonno, così, pace all’anima sua, non s’è accorta di niente, se ne è andata così la mia Amalia che m’ ha lasciato solo, erano quarant’anni che eravamo sposati, sa”.

E già alla memoria gli si inumidivano gli occhi, oh no, già lo vedevo, questo mi si metteva a piangere davanti non so se ren­do l’idea, no, per fortuna s’è trattenuto, anche perché prontamente io gli dissi: “sia forte, su, non si lasci abbattere , su, su con la vita, le rimane sempre il suo lavoro, pensi piuttosto a quello e al suo impegno morale e civile nei confronti dei suoi clienti, che hanno bisogno di lei, che non possono fare a meno di lei, coraggio, suvvia, coraggio” gli dissi.

“Sì, grazie, grazie”, balbettò il pover’uomo.

“Ma le pare, per carità, si figuri, se possono farle un po’ di bene alcune semplici parole consolatrici, non vedo perché dovrei dispensarmi dal pronunciarle, ma ora devo andare che vado di fretta, vedrà che la prossima volta già mi starà meglio, vedrà, mi prenda delle vitamine, mi mangi carne rossa con una bella insalata vicino, non mi disdegni un bicchierino di moscato di tanto in tanto, se le viene la voglia, e vedrà che in poche settimane mi tornerà come nuovo, su, pensi che nella vita non c’è solo il matrimonio e poi, figli ne avrà, no?”

“No”.

“Ah… Beh, in ogni modo, si tiri su, eh, non sia pessimista” e colpeggiandolo sulle spalle infossate dal dolore presi congedo dal povero tipografo e dal suo caso pietoso, e me ne andai per i fatti miei, ma ero davvero intristito (non paia eccessiva questa mia tristezza; quell’uomo era davvero un brav’uomo; e poi, fin da quando ero bambino, sono sempre stato troppo sensibile, sì).

Ma veniamo al punto tre: scappatina al Sodalizio. Dovevo infatti incontrare colà qualcuno, un tipo, un elemento, un affi­liato, insomma una pedina essenziale del mio piano accuratamente ordito, ah se papà mi avesse visto, egli che di nulla sospetta­va, egli che ignaro della Grande Impresa nella quale il suo pu­pillo si era imbarcato si cullava ancora nelle rimembranze delle sue passate glorie, cosa avrebbe detto, eh? se mi avesse visto in quel momento con gli occhi del pensiero, se mi avesse con gli occhi del pensiero visto in quel momento, se con gli occhi del pensiero mi avesse in quel momento visto, mentre mi intrattenevo con il mio uomo, nei gabinetti della sede del potente Sodalizio Portatori Organi Artificiali, mentre mi intrattenevo con Alber­to X, il mio uomo presso lo S.P.O.A., cosa avrebbe detto, eh? il mio Grand’Uomo, che si faceva beffe di me, che mi trattava da lavativo e da buono a nulla, che cosa avrebbe detto, eh? ma un bel giorno l’avrebbe visto, ma per l’intanto se non a lui, all’igna­ro visitatore che si fosse trovato ad avventurarsi nei gabinetti dello S.P.O.A. si sarebbe offerta la vista inconsueta di due uo­mini maturi che confabulavano dietro il separé di marmo rosa fatto venire espressamente da Carrara in convoglio eccezionale, grazie a certe conoscenze del Presidente, il quale ci teneva a che la Sede Centrale fosse decorata con quanto di più moderno e ricercato il mercato offrisse, e che si era perciò rivolto nel campo specifico dell’Arredamento Sanitari Architettura Interni a un’a­zienda leader nel settore, la quale azienda risultò poi essere intestata al marito della figlia cadetta, del Presidente, la quale figlia deteneva anche la maggioranza azionaria della Marmi Rosa e Affini S.p.A., principale fornitrice dell’azienda leader di cui sopra, come è logico, nonché della ditta a cui era stato affidato il restauro del palazzetto settecentesco, di puro stile baroc­chetto, opera dell’esimio per quanto non eccelso Guarinucci (1689-1788), che si vide , il palazzetto dico, nonché forse anche il Guarinucci lì dall’alto dei cieli, si vide la leggiadra facciata rivestita da cima a fondo di marmo rosa di Carrara, fornito per l’appunto dalla Marmi Rosa e Affini S.p.A. di cui sopra, ma non stiamo qui a sottilizzare, né saltiamo di punto in bianco o come suol dirsi di palo in frasca, torniamo piuttosto nelle riti­rate marmoree del palazzetto del povero Guarinucci, e vediamo che cosa combinano questi due dietro il separé, che cosa trafficano, che cosa cincischiano, ah no, non creda il gentile lettore che io agiti così avanti a lui lo spettro dell’omofilia, no, ci mancherebbe altro, quello che si fa lì dietro io e il segretario dello S.P.O.A. è pura cospirazione politica, altroché.

Altroché, altroché, altroché perdersi in ciance, qui si lavo­ra! Si lavora e si prepara qualcosa che valga davvero la pena, qualcosa per cui valga la pena vivere e morire, qualcosa che ha nome: futuro.

Ecco, mi asciugo l’angolo dell’occhio, perché ogni volta che sento la parola futuro io tiro fuori il mio fazzoletto, anche se sono io che la dico, poi rimetto nel taschino il fazzoletto e dico quello che facevo nei bagni dello S.P.O.A. insieme con il suo Segretario, e quello che facevo con il suo Segretario era trasmettergli le mie istruzioni, istruzio­ni concernenti data e ora di un certo avvenimento che è il cuore stesso del racconto che qui sto facendo, perché è ora che la ve­rità sia detta, anche se questo significa mettere a nudo se stes­si, in riguardo tanto alla vita pubblica, quanto alla propria vi­ta privata, che d’ altronde oggigiorno sono così intimamente lega­te e indiscernibili l’una dall’altra, sì.

Fatto dunque quello che avevo da fare – e anche questa era fat­ta – presso la sede dello S.P.O.A., e fattolo, quello che avevo da fare, grazie alla minuziosa organizzazione curata da me stes­so e dai miei fidi collaboratori, e consapevole finalmente del fatto che la macchina era ormai inesorabilmente messa in moto, e non era più questione che di oliarne scrupolosamente gli in­granaggi, non tralasciando neanche un dettaglio della trama ordi­ta con pazienza certosina e geometrica precisione, fu a cuor leggero che mi presentai al ”’briefing” pomeridiano con papà.

Ed ecco ciò che accadde quel pomeriggio, nella residenza pater­na. Antonio, dopo avermi sbarazzato del cappello all’aviatora e del sacchetto con le scarpe badwürttemburghesi, mi introdusse, come di consueto, nella biblioteca: Egli sedeva alla scrivania, intento a riordinare alcune carte. Alzò il capo quando mi udì entrare e parlò.

E il padre disse al figlio: “Accomodati pure sul seggiolino”. Il figlio disse al padre: “Non avresti qualcosa di un po’ più como­do su cui poggiare i miei lombi affaticati da una prolungata sta­zione eretta?” Il padre disse: “Sei il solito lavativo. Quando è che ti deciderai a prendere esempio da tuo padre, non lo sai che da sessant’anni dormo sulla mia brandina da campo di tela grezza e mi vedi, diritto e svelto come un tenentino di prima nomina!” Il figlio disse: “Con il tuo permesso, babbo, sono vent’anni che ogni giorno facciamo questa discussione. Ma non fa niente, ecco, mi accomodo sul seggiolino ai tuoi piedi, ecco qui il tuo scriba fe­dele, cosa detta oggi Sua Signoria?”

E presa carta e penna mi accinsi alla stesura scritta di ciò che il Generale via via prendeva a contare, e già il Generale par­lava parlava, e io scrivevo scrivevo di buona lena e i fogli scritti si ammontavano sul pavimento al lato dello sgabellino finché: “trenta!” annunciai a papà. Allora egli smise di parlare e inter­ruppi io anche di scrivere. E mentre a capo chino radunavo i fo­gli di carta e rimettevo il calamaio al suo posto presi il co­raggio a due mani e dissi: “Babbo, ti debbo parlare”.

“Dimmi, figliolo” disse il babbo.

“Avrei bisogno di denaro. Ho perso al gioco” (non era vero, anzi avevo vinto, ma mi occorreva sempre più contante per finanzia­re le mie mene ardite, pagare i differenti fornitori ad esempio, e collaboratori e informatori di ogni sorta).

“Ah, di nuovo la boccetta, ma quando la finirai con quest’ar­te, eh? E quanto ti occorre?” (Si, del mio papà si può dire tut­to, ma non che sia taccagno, questo no non lo si può proprio dire, e difatti mentre mi parlava già tirava fuori il portafoglio).

“Cinque milioni”.

“Cinque milioni? Ecco, tieni, e adesso non farti più vedere. Non avrò bisogno di te fino a domani. Ti attenderò alla solita ora. Ora vai”, disse solennemente, indicandomi la porta con il suo indice inanellato di rubino. Mi ritirai discretamente e a reculòn, senza dargli la schiena cioè, come mi aveva insegnato la Gretel, l’istitutrice di Sils-Maria sul conto della quale ce ne sarebbero delle belle, da raccontare. Più tardi, sì.

Era l’ora dell’aperitivo. Come di consueto un taxi, chiama­to dall’inappuntabile Antonio , mi attendeva fuori del cancello.

“Alla stazione, presto” dissi all’autista. In realtà non andavo alla stazione no, andavo bensì alla sede della potentissima Società di Mutuo Soccorso dei Portatori di Protesi Dentarie, che dalla stazione distava un cinque-seicento metri, ma desideravo sfuggire a occhi indiscreti, e in particolare agli occhi di qualche accolito di mio padre (da tempo sospettavo che egli mi facesse segretamente spiare).

La sala riunioni della S.M.S.P.P.D. era giù piena e non si at­tendeva altri che me. Dopo i brindisi di rito – si festeggiava di­fatti quel dì il ventesimo genetliaco della Società e al tempo stesso il suo milionesimo aderente – presi brevemente la parola, a nome mio personale e in rappresentanza del mio genitore che una subitanea indisposizione eccetera eccetera, per ricordare l’im­portanza del fattore associativo nella vita moderna, e di conseguenza l’importanza di associazioni categoriali quali quella alla presenza dei cui membri avevo l’onore di trovarmi, e quindi l’im­portanza della presente riunione, giuliva e conviviale sì, ma an­che occasione, oltre che di incontro. fra cittadini aventi analo­ghi interessi particolari, di raccoglimento e di riflessione. Su cosa difatti eravamo chiamati a raccoglierci e a riflettere in questa pur gaia circostanza? Eravamo chiamati a raccoglierci e a riflettere, in questa pur gaia circostanza, ad una nozione di spe­ranza e di futuro (e lì più d’uno dei presenti – oltre che me stesso -tirò fuori non uno ma due fazzoletti e ci fu anche chi levò alta la fiammella del suo “briquet” in segno di partecipazione), speranza e futuro cui dovevamo tutti credere, perché, perché, perché e a qual fine comprendere l’avvenire e il progresso così come si comprenderebbe un teorema algebrico? Potevano essere ridotti, l’Avvenire, il Progresso, a meri teoremi algebrici? No, risposi io a nome di tutti, perché noi vogliamo credere, dobbiamo credere, perché tutti noi abbiamo bisogno di credere, perché – e su questo concludevo – l’illusione è forse l’unica realtà della vita.

………………..

E la seconda parte

Prontuario del protervo seconda parte

Non mi attarderò sulla palpabile emozione che il mio breve ma ardente discorso aveva prodotto sull’ uditorio lì convenuto. Dirò solo che, mentre la maggioranza dei convitati si affollava presso le tavole del buffet, un comitato ristretto si riunì nel sottoscala, e non mi costò fatica trarre del tutto a me gli animi già impressionati dal mio “speech”, così come convincere gli ele­menti più riottosi fra i membri del Consiglio Direttivo della S.M.S.P.P.D.

E fu con un sentimento di soddisfazione per il buon lavoro compiuto, e per distendermi un po’ dopo questa giornata cruciale e febbrile che, consumato un breve spuntino presso un chiosco di piazza delle 120 Giornate, mi recai al Circolo per la consueta partita serale di boccetta americana. Nessuna importuna telefona­ta mi disturbò costi quella sera, e fu veramente a cuor leggero che me ne tornai a casa, feci una doccia, mi rasai (per non perdere tempo l’indomani mattina), infilai un pigiama di raso nero e mi misi a letto con un buon libro (quella sera: le Odi Barbare del Carducci, in una speciale edizione in pelle di cucciolo foca , of­fertami da papà per i miei quarant’anni).

L’indomani, destatomi come sempre di buon’ora, ed eseguiti al­cuni semplici esercizi ginnici, e fatti i miei cento giri di corsa lungo il muro di cinta del giardini, e frizionatomi il corpo con l’acqua di colonia, e consumata una frugale prima colazione, e accesami una delle mie pipe lunghe come corni svizzeri, per cui vado noto anche oltrefrontiera, e che sono manufatte in esclusiva per me da un artigiano dei Grigioni, ed effettuata la lettura quotidiana dei giornali, e ritagliatine e segnatine i passi salienti con la matita rossa e blu (sarebbero pervenuti al babbo in matti­nata), e scelto l’abito da indossare quel giorno, un giorno dav­vero speciale, per cui andava scelto un abito altrettanto specia­le (e difatti non senza esitazioni e ripensamenti optai per un completo tre pezzi colore azzurro cielo, con panciotto giallo oro e pantaloni svasati in fondo, che non era senza ricordare taluni modelli maschili un po’ “osés” del mio stilista preferito (mi cadeva bene? sì mi cadeva bene), e calzato un bel feltro bianco a strette tese e nastro marrone (mi calzava bene? sì mi calzava bene), e trasmesse alcune concise di­sposizioni all’ impeccabile Antonio, uscii nella città, sì.

Puntuale come sempre mi presentai dalla Sonia e, come di consueto, bussai con i piedi, volendo significare con ciò che avevo le mani troppo occupate per poter bussare con quelle, e cioè questo vole­va dire che non mi presentavo no a mani vuote e difatti, oltre a un pacchettino di babà al rum, portavo un piccolo dono, un gradi­to omaggio che quel mattino stesso l’ineffabile Antonio, seguendo le mie precise istruzioni, mi aveva procurato, e quel semplice oggettino, giuntomi appositamente dalla Val Gardena, era una per­fetta riproduzione di una baita alpina, tutta di legno di abete e quindi deliziosamente odorante di resina, al centro della quale troneggiavano due cuori dipinti di rosso, allacciati da una ban­deruola azzurra, sulla quale era scritta in lettere dorate la la­pidaria frase: “due cuori e una capanna” .

Venni introdotto nella camera della Sonia. Vidi che quel giorno ella aveva preparato uno dei suoi piatti forti: pollo coi peperoni. Era un piatto di origine cecoslovacca. Insieme con i babà al rum, di cui la Sonia era molto ghiotta, e di cui si rimpinzava non appena io mi giravo dall’altra parte, questo era uno dei rari “strappi” alla sua ferrea dieta.

Quel giorno, mi ricordo ancora, la Sonia sfoggiava una giacca di cuoio marrone, con frange penzoloni alla cao boi, calzoni bian­chi di maglietta, molto aderenti, scarpe marroni con tacco a spil­lo, che snellivano il suo polpaccio forse appena un poco muscolu­to. Al collo, sopra la maglietta alla marinara: un foulard leggero, a pois rossi su fondo bianco. Ma quel giorno, più che su altri dettagli, mi attardai sulla sua manina, la sua manina rosa usa a coglier viole e carezzar pargoletti, la sua manina artistica (di­ta affilate, palmo e attaccatura del polso ben proporzionati, pol­lice diviso in due falangi di eguale lunghezza, come un Dante Gabrie­le Rossetti avrebbe potuto dipingere), la sua manina che presentava un anello di Venere largo come un Vallo ia Lucania e una linea della vita diritta come un’ autostrada nella foresta amazzonica, segni certi questi di buone predisposizioni artistiche e vitali, la sua manina tranquilla e lieta, che parlava d’amor, di primavere, che parlava di sogni e di chimere, di quelle cose che han nome, a buon intenditor, poesia.

Ma cosa non vidi quel giorno su quella manina rosa, cosa non ti vidi, non ti vidi un segno, no sì lo vidi sì un segno rivelatore e lo vidi invece proprio lì, su quella manina rosa, fra la percus­sione e l’indice, la vidi sì quella linea del cuore così spezzata, cosi frammentata, lo vidi sì quel disastro di linea, segno sicuro di incostanza e infedeltà, e il sangue mi si raggelò nelle vene, ed è così che, da quel momento, all’uomo felice ch’ero io, stette il sospetto accanto, e fu da allora che nascosi a tutti la mia vera tortura, la tortura della gelosia!

E del resto, e d’altronde, non l’avevo forse letto, il mio oro­scopo, quel mattino, e cosa diceva, eh, nero su bianco, che cosa diceva, lo so a memoria quello che diceva: “Persona e lavoro: sol­tanto nella seconda metà della settimana troverete quel coordina­mento tra pensiero e azione che garantisce il successo nell’im­presa. Intanto cercate di dare più ascolto a chi vi è vicino. Affetti: per colpa della vostra fantasia rischiate di amare una persona diversa da quella che avete creduto. Dovete essere molto più cauti. Salute: cautela con il cibo. Giorno favorevole: venerdì”.

Eh, sì, in un certo senso me l’ero cercata! Ma non feci in tem­po a portare alle dovute conseguenze questa mia scoperta, almeno sotto forma di rimproveri recriminazioni e rivendicazioni varie, che mi si venne ad annunciare una chiamata telefonica: era il fe­dele Antonio; mi disse che il papi mi chiamava presso di sé con la massima urgenza. C’era qualcosa di strano nella sua voce. Mi congedai dunque, forse un pò freddamente, dalla Sonia, dicendo­le che i babà se li poteva mangiare anche da sola, per quello che mi importava, e me ne andai così, senza prestare attenzione alle sue proteste né ai suoi pianti da coccodrillo.

Mi feci dunque portare verso casa, in quel tepido primo pome­riggio autunnale, in cui illanguidiva il cielo sui tetti della città e, attraverso i vetri aperti del taxi che sfrecciava sul­la corsia preferenziale, vedevo addensarsi laggiù, verso l’orizzonte, qualcosa come un’ombra (forse era soltanto il riflesso di un’ombra, oppure l’ombra di un’ombra). Sfilavano rapide le immagini della città natale: un bambino con un ciuccio in bocca leggeva il Mein Kampf, seduto sulla scala di casa; un vecchio ubriacone vagava barcollando e urlava “ma insomma, l’Uomo, cos’è?”; una giovane donna esibiva sul marciapiede il movimento dinamico del suo cane al guinzaglio.

Giunsi infine a casa, suonai al portone. L’Antonio mi venne ad aprire, l’espressione sconvolta. “Cosa c’è, cosa accade?” domandai allarmato, il cuore già gonfio di tristi presentimenti. Ma lo sa­pevo bene, quello che era successo. Papà aveva avuto un malore. Mi precipito nella sua stanza; egli è disteso sulla sua brandina da campo e non fiata, non risponde ai miei richiami, mi guarda con i suoi occhi muti, se ne resta rigido, così. So cosa fare in questi casi. Si prende in mano la situazione, si manda a chiamare il dot­tore. Sopraggiunge il medico di famiglia. Apre la sua valigetta, tira fuori ago e siringa, fa un’endovenosa al babbo. Il babbo chiude gli occhi dolcemente e si distende. Il medico dice: “Lasciamolo riposare” e mi prende in disparte. “Anche questa volta” mi dice, “siamo arrivati in tempo. Ma bisognerebbe convincere suo padre a smettere, una buona volta; lei sa che passati gli ottanta l’eroina non è più uno scherzo, non sono più noccioline non sono, e io l ‘avviso: una di queste, suo padre ci rimane “.

Ciò detto, si fece pagare profumatamente e se ne andò. Mi appoggiai alla sponda del letticciuolo dove riposava mio padre, e scru­tai pensieroso la sua testa bianca, per lungo tempo. “Cosa fare?” ripetevo in cuor mio.

Venne infine il momento di ritirarmi e di affidare papà alle cure del vigile Antonio. Poiché nulla, neanche i problemi del bab­bo con la droga, potevano distogliermi dalla mia missione, dal mio Magnum Opus.

L’ appuntamento con i gemelli era stato fissato in un luogo davvero sicuro, in un locale molto alla moda ed estremamente ben fre­quentato, dove nessuno ci avrebbe notati, il Zum Kater Hiddigeigei, dove era veramente agevole, in mezzo a tutto quel danzare quel pi­roettare quel conversare ridere e scherzare, dove era veramente agevole parlare con due inti­mi di cose serie e sostanziali, in quello sfavillio di “mises” femminili e in quel risuonar di tacchi d’ufficialetti, dove era veramente agevole discutere con i terribili gemellini dei nostri progetti, in quella rutilante composizione di tenui rosa e riposanti verdi appena ritmata dagli sprazzi bianchi delle giacchette dei camerieri (si sarebbe detto un quadro del Degas), e decidere con i due sicari le nostre prossi­me mosse, no non potevo lasciarmi distrarre no e d’altronde, se non aveva potuto finora distrarmi dai miei superiori compiti la cono­scenza degli infamanti vizi di mio padre, come si pretende che io abbia potuto essere distratto da un qualunque sgonnellio, da un qualsivoglia scavigliar di fanciulla?

Trovato quindi un tavolo d’angolo appartato e in disparte e ordinati tre, anzi due boccali di birra, mi immersi in una fitta discussione con gli elegantissimi gemellini i quali, oltre a esse­

consumati gagà, erano due tipi davvero a posto e veramente a modo, ed erano i miei migliori elementi. C’era però una difficoltà nel mio rapporto con loro, e questa difficoltà era costituita dal fatto che non era proprio possibile distinguere i gemellini l’uno dall’altro, per quanto l’uno, come era palese, mangiasse troppo, e l’altro troppo poco, o forse anche niente, ma ciononostante, grazie a chissà quale fluido psichico che li collegava, rimanevano assolutamente indistinguibili e io non sapevo mai a chi era che mi rivolgevo, all’uno, o all’altro?

Chissà. Ma ciò che contava era senza dubbio il risultato, e quanto a quello, avrei potuto metterci la mano sul fuoco, perché quei due erano proprio un tutt’uno, e rispondevano al mio appel­lo come un sol uomo.

C’era solo con loro un altro problema, un’altra incongruità, fonte di non pochi imbarazzi, e questo problema era il fatto, che trovavo sì davvero incongruo questa è la parola giusta, e questo problema era il fatto che i due non erano della stessa madrelingua, vai a sapere perché, ah questo sì che era incongruen­te (uno solo parlava anche la mia lingua, quello che mangiava troppo? quello che mangiava troppo poco? mah!), fatto è che i due per poter comunicare fra loro dovevano usare un terzo idioma, che non era né quello dell’uno, e né quello dell’altro, e nel caso speci­fico era la lingua inglese, lingua, come è noto, che è il latino dei giorni nostri (se vogliamo riferirci a quello che è stato l’impero romano per l’antichità), ed era difatti in un inglese davvero maccheronico, in un idioma davvero “Tertii Imperii”, che i due co­municavano fra di loro. Per fare un semplice esempio, quella se­ra, quando uno dei due mi fece; “attento che hai la braghetta sbottonata”, si sentì tenuto a tradurre immediatamente: “Look at the guy, he has got his fuckin’ zipper open”. In ogni modo, se anche avessero avuto ben altri difetti, io non potevo fare a meno degli inseparabili gemellini. Perché, io domando e dico, che cosa sa­rebbe una lama senza il suo manico, eh? o un manico senza la sua lama, eh? ed è solo nella loro unione reciproca che lama e mani­co fanno: un coltello. E non c’è coltello senza ferita, e non c’è ferita senza grido, e non c’è grido senza canzone, cosi come non c’è rivolta senza inno, e il nostro inno era: tutti per uno, e uno per tutti!

Era intanto purtroppo giunto il momento di accomiatarmi dagli spietati gemellini, perché ero atteso a una cena sociale cui non potevo proprio mancare, e difatti per quella sera di partita a boccette al Circolo non se ne sarebbe parlato no, con mio grande dispiacere, fatto è che congedai i due fanatici gemellini e li seguii con lo sguardo, mentre si allontanavano in mezzo alla fol­la danzante e ignara, facendosi urtare qui e là la testa dalle ginocchia dei distratti ballerini.

La cena sociale cui ero atteso era un ricevimento del Liver Club. Niente a che vedere con il mio progetto di vasto respiro, ma cosa dire, certe relazioni, certi contatti, erano pur sempre da coltivare, e in mezzo a quei borghesi qualche tipo disinteressato, suscettibile di essere affiliato, magari in una seconda fase, c’era anche. E poi, non avrei certo macchiato il nome che portavo, facendomi notare per un’ingiustificata assenza da un ri­cevimento del Liver, ed è perciò che, avendo indosso uno dei miei migliori vestiti, ed avendo preparato un bel discorsetto, mi portai quella sera presso l ‘Hotel Holiday Inn, e ne valse davvero la pena, perché proprio lì nel bel mezzo della hall mi si av­vicina un socio, uno che conoscevo di vista, un vero V.I.P., un magnate della stampa, l’editore della celebre Tribuna dei cuori spezzati, il quale, avvicinatomisi, mi fa: “Mi trovavo presente ieri presso la S.M.S.P.P.D., per puro caso, mi trovavo dunque per una fortunata combinazio­ne presente al suo discorso e devo dire che l ‘ho trovato davvero, non so, davvero pregnante, e devo dire che l’afflato ideale di cui lei ha dato prova mi ha in modo particolare emozionato e commosso, sì è chiaro che lei non è uno di questi propagandisti a mezzo servizio che ci hanno, come diciamo dalle parti nostre, scocciato i c*** , mi scusi l ‘espressione , si vede invece che lei ha una tempra e un carattere veramente fuori del comune, ed è per questo che le propongo, a nome del comitato di redazione tutto, di scrivermi per domani un bell’articolo di fondo, che comparirà nella prima pagina della mia Tribuna”. Rimasi muto per la sorpresa e il piacere: potermi esprimere liberamente dall’alto del più influente dei “media” nazionali’! Ebbe l’accortezza di mostrarmi reticente.

“Lei non ignorerà”, continuò lui sornione, “che il nostro giornale tira a venti milioni di esemplari, disponibili gratuitamente presso tutti i distributori di Kleenex”. Non lo ignoravo certo, e così mi lasciai convincere. Quest’uomo me l’ave­va mandato la Provvidenza!

E così anche quella sera mi coricai contento e soddisfatto. Le cose si mettevano bene, e davvero per benino.

L’indomani, venerdì, sarebbe stata una giornata intensa. Già di buon’ora avevo un impegno, come mi ricordò l’ineffabile Anto­nio, entrandomi in camera con, ben piegata sulle braccia la divisa nera, con la divisa nera sulle braccia, ben piegata. Ero stato di­fatti chiamato a fare da arbitro a un incontro di calcio del cam­pionato regionale di seconda divisione della Federazione Nazio­nale Privi di Arti Inferiori, e trattavasi perlappunto della tanto attesa finalissima, Senza Gamba Destra contro Senza Gamba Sinistra.

Era quella per me una situazione molto delicata, in cui dovevo dimostrare tutta la mia equidistanza e il mio sangue freddo. Ave­vo infatti accettato quel ruolo arbitrale solo per evidenti ragio­ni diplomatiche, ma devo ammettere che in quel campo ero del tutto a digiuno. Com è come non è, mi feci il segno della croce e mi portai ai bordi del campo. l gemellini, che avevo designato come guardalinee, già mi attendevano. Dopo il tradizionale lancio della monetina, fischiai il calcio d’inizio, con la trepidazione che si immagina. Ma tutto si svolse bene; il gioco era corretto, anche se non privo di qualche intervento falloso, soprattutto da parte del terzino destro dei Senza Gamba Sinistra; è vero che la mez­zala sinistra dei Senza Gamba Destra non era da meno, anzi. Fui costretto a fischiarla spesso, ad ammonirla più volte e infine ad espellerla; la squadra dei S.G.D. se ne trovò mutilata. l guarda­linee collaborarono al meglio; solamente, quando ne chiamavo uno per conferire su di un caso controverso, arrivava sempre anche l’altro, per via della traduzione: “l saw, this is a fuckin’ corner” diceva uno; “ha visto, è corner”, traduceva l’altro. Poi tornavano ai propri posti (che probabilmente si scambiavano, ma chi vuoi che se ne accorgesse).

E come Dio volle l’incontro ebbe termine, ai calci di rigore, e il risultato, cosi come era stato l’arbitraggio, fu davvero equo e imparziale. Ne trassi motivo di lustro e di compiacimento. Quasi quasi dimenticavo la Tatiana. Invece no: con appena un quarto d’ ora di ritardo (una breve “reception”, che aveva seguito la consegna delle coppe, era stata per me occasione di fruttuosi conciliaboli con alcune personalità presenti negli spogliatoi, ma mi aveva preso più tempo del previsto) bussavo alla sua porta; come al solito, le portavo un bel pacchettino, uscito fresco fresco da “Chez Gennaro” , le très prestigieux pâtissier de fora ô vascio, chillo ‘ncopp’ ‘a Pasquale, sì, chilIo cu’ ‘a faccia ‘e cane ‘e presa, ma come li fa lui i babà, signora mia, non c’ è tema di paragone, creda a me, e creda, eh, se glielo dico io, e che diamine, vuole che le rac­conti delle balle, belìn, ocio, non mi ha preso mica per un bada­lòn, no? Lo so mi che a fine mese i schei no basta mai, ghe xe le scarpe nove e i vestiti d’inverno da comprar, ma non perciò sarò meno onesto, e dirò sempre, sempre dico, pane al pane, vino al vi­no, e babà al babà, si, ohh.

Quel giorno la Tatiana portava uno scamiciato bianco, di cotonina, con volàn pieghettato di color rosa, lungo fino alla cavi­glia (ma piuttosto scollato sulla schiena), e calzava scarpe aper­te di color bianco, un pò consunte forse ma ben ripassate col bianchetto. I tacchi: a spillo.

Malgrado io fossi giunto in ritardo, lei stava ancora cucinando (ah, sebbene morso dalla gelosia, resistetti a chiederle cos’è che aveva fatto sinora, eh?) e dopo avermi salutato tornò nel suo angolo cottura, dandomi la schiena. La Tatiana stava ancora preparando la salsa di pomodoro; mi avvicinai a lei, volevo ap­profittare dell’occasione per studiarle la nuca, che era quanto di più fine si potesse desiderare, come articolo corporeo: su un collo che era una torre d’avorio, dalle sfumature rosate, la flessibile nuca, lasciata scoperta dalla bionda capigliatura raccolta in crocchia sul capo, si distingueva per la sua delicata incavatura centrale, una vera valle di delizie, ma tutta la muliebre postura della Ta­tiana era un incanto, e si sarebbe detta quella una scena dipinta dal Feuerbach stesso per quanto, per quanto, per quanto, iniziassi a considerare che la Tatiana si chinasse un po’ troppo spesso e talvolta scompostamente sulla salsa, non era poi così necessario rigirarla di continuo, no, quella benedetta salsa di pomodoro, e bi­sognava proprio abbassarsi fin quasi a ficcarci il naso dentro, a quella salsa, e sì trovavo davvero irritante quel gesto ripetuto, quel chinarsi sul tegame, così sgraziato e privo di “fair play” e fu lì che ebbi d’un tratto la rivelazione, e la rivelazione era che non l’amavo più, sì ora lo vedevo lo sapevo, nulla più di quella donna, che pure tanto avevo amato, nulla più mi moveva a commozio­ne.

E ora, ora che tutto è finito fra me e la Tatiana, io mi do­mando: cosa ha fatto sì che d’un tratto io l’abbia vista sotto la sua vera luce, e perché proprio lì davanti alla salsa di pomodoro e non invece in un’altra qualsivoglia circostanza, e poi, è poi detto che quella fosse davvero la sua vera luce e non invece, non invece un mero abbaglio? Era il naso nella salsa che me la rende­va indesiderabile e me la alienava per sempre, o non era piutto­sto lo stesso venir meno della mia passione (lentamente erosa dalla frequentazione bisettimanale, e dalla “routine” che inesorabilmente si impone al più sperimentato dei ménages) o non era piutto­sto lo stesso venir meno della mia passione che mi rendeva indesi­derabile il suo naso nella salsa?

Domande che resteranno forse, chissà, senza risposta.

E, lasciata lì la Tatiana senza neanche avere assaggiato la sua famosa salsa, giunsi con un qualche anticipo al consueto incontro con papà.

Bussai. Entrai. Mio padre era seduto alla scrivania, intento a riordinare alcune carte. Alzò il capo quando mi udì entrare. ­

“Accomodati pure, il seggiolino è tutto tuo” disse. E aggiun­se, preso da un subitaneo e spaventoso accesso d’ira: “E così, pa­rev che a guerr foss frnut e, invec, è appen’ accumnz ‘t! Sì, perché l ‘ho saputo, razza di animale, che hai fatto un bel discorso sovversivo, alla Società di Mutuo Soccorso. È così dunque che metti in piazza il nome che ti ho dato, eh? E da quando in qua ti sei montato la testa, eh? E dove pensi di andare a finire, eh? Se continui di questo passo, eh? Lo lo so è tutta colpa mia, che ti ho sempre lasciato briglia libera, che non ti ho mai stretto il morso, che non ho mai affondato lo sperone e questa è la ri­compensa questo è il ringraziamento, no non dire niente è tutto inutile non ci sono se e non ci sono ma, lo so bene che con te non c’è niente da fare è andata così, e chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, ah se mi vedesse il mio povero papà, cosa direbbe di me, te lo dico io cosa direbbe, direbbe che l’ho deluso, che l’ho tradito, direbbe che non sono capace di raddrizzare neanche un buono a nulla come te, direbbe. Ma sì, infanga, infanga pure il no­stro nome, profitta pure dell’indulgenza del tuo povero padre, troppo vecchio omai per porre rimedio alle tue bravate. Sobilla e complotta pure, Catilina d’avanspettacolo! Ma sappi che no non andrai lontano. no!”

“Ma, papà…”, tentai di difendermi…

“Basta! Qui non c’è più ma, non c’è più papà!”, tagliò corto lui, e aggiunse, ma già con un tono in qualche modo raddolcito: “Che non se ne parli più, adesso. Passiamo piuttosto al lavoro, ché abbiamo perso già abbastanza tempo. Allora, scrivi?”

“Sì, papà, scrivo” dissi, prendendo carta e penna. Per fortuna s’era calmato. La bufera era passata.

E scrissi sotto dettatura, sì, e lo feci anche quel giorno il mio bravo dettatino, e lo redassi il compitino, ah quante volte lo avevo sentito, eh, l’Antonio dirmi che il brodo vegetale era buono (a me che, fin da piccolo, non appena vedevo qualcosa di color verde, mi veniva da vomitare), “e mangialo su fallo per papà, e mangia su altrimenti il babbo è triste e piange” maledetti ipocriti, ma chi volevano far fesso, “altrimenti il babbo piange” buona questa, ma quale babbo e babbo, facciamola finita, ma qua­le papà, ma quale paparino, ma quale papi, è forse un padre que­sto, che sembra non possedere, nel suo vocabolario intimo, la pa­rola “affetto”, è un padre questo, che mi chiama solo quando ha bisogno di me e mi tratta come l’ultimo dei sottoposti? No, io dico che questo è un padre che padre non è. Ma, mi dico anche, cosa farebbe, senza di me, quel vegliardo canuto e in fondo così solo, ed è per questo che rimango invece di andarmene via lontano, ed è per questo che ogni giorno scrivo sotto dettatura un nuovo capitolo della sua au­tobiografia, è per questo che gli ritiro gli scarponi alla Heidegger dal calzolaio e gli preparo già sottolineati in rosso e blu i rita­gli di giornale, e chiudo gli occhi sui suoi problemi con la droga, i bambini e i cavalli. Ma un giorno lo vedrà, di cosa sono capace, sì.

Per l’intanto ho un nuovo impegno, sì perché urge l’opra, e si avvicina il momento culminante. E mi portai Il dove ero uso por­tarmi ogni venerdì, nel tardo pomeriggio. Per tutto l ‘autunno di quell’anno difatti sarebbe stato possibile vedere – per chi l’aves­se solamente voluto – il sottoscritto aggirarsi per i viali peri­ferici della nostra amata città, lì dove erano state drizzate le tende e parcheggiate le roulotte dei circhi ambulanti, con tutto il loro seguito di cani e di gatti, di giocolieri e di saltimbanchi, di ammaestratori, di morti di fame e cosivviadicendo, ammaestratori di mor­ti di fame, cioè, e così, via, dicendo, e chi si fosse trovato a seguirmi in quel variopinto mondo multicolore non avrebbe potuto supporre altro che io fossi alla ricerca di una qualche facile distrazione, al vedermi entrare in un crocchio di curiosi raduna­tisi intorno, ad esempio, al “caditore dalle scale” (pare che fosse costui un tale che aveva questo difetto, di origine senza dubbio psicofisicomotoria, e questa singolarità infermità, e cioè: che non appena egli si trovava in cima a una scala, ecco, non poteva resistere, cadeva giù; non c’era niente da fare, non poteva resi­stere, era più forte di lui; aveva consultato i migliori specia­listi, tutto inutile; poi qualcuno gli suggerì di mettere a pro­fitto questa sua anomalia, e difatti a quel giorno aveva costui messo da parte, sembra, un bel gruzzoletto, lasciandosi cadere giù da scale di tutti i tipi, mobili, a libretto, biscagline (ma il suo pezzo forte, il suo non plus ultra, erano le scale a chioc­ciola), ed esibendosi come attrazione speciale nelle feste di compleanno della “jeunesse dorée”, oppure in “parties” privati o, talvolta, nelle pubbliche fiere, usufruendo di una scala aerea messa appositamente a disposizione dalla locale stazione dei pompieri e, grazie al generoso contributo della premiata macelleria “da Nando Supercarni” – PEZZI DI PRIMA SCELTA -TAGLI DI ALTA QUALITA’ ­SPECIALITA` CARNI LOCALI E SALSICCIE PAESANELLE (presentando alla cassa questa pagina, ritagliata seguendo la linea tratteggiata, si ha diritto all’osso per il cane in omaggio) SI EFFETTUA SERVIZIO A DOMICILIO). Questo caditore pare avesse – mi si scusi la digres­sione – pare avesse rubato la “vedette” a un celebre “saltatore in basso”, alle cui esibizioni non avevo avuto purtroppo la fortuna di assistere, detentore di tutti i record (meno 24 m. e 56 cm., re­cord mondiale tuttora imbattuto, categoria pesi di piombo), ormai ridotto dall’età e dagli acciacchi a più miti consigli, costretto infine al ritiro, di conseguenza precipitato in una profonda de­pressione, da cui non si risollevò se non per suicidarsi plateal­mente, gettandosi dall’alto di una palma nana che cresceva davanti al palazzo della Commissione per l’Abolizione della Legge di Gravità, immolandosi cosi a nome di tutta la sua categoria, la cui esistenza stessa era messa a repentaglio dall’operato della sud­detta Commissione.

Ma, per tornare a noi, chi si fosse trovato a seguirmi in quei luoghi non avrebbe potuto sospettare che io facessi altro che darmi a uno svago innocente, a un innocuo passatempo. Non mancavo difatti di arrestarmi davanti a ogni palco su cui si desse uno spettacolo, mescolandomi così alla folla dei curiosi, ma non rimanen­dovi che qualche minuto, il tempo – chi vuoi che se ne accorges­se – di soffiare un ordine all’orecchio di un adepto, che ne aveva istruzione di trovarsi puntualmente in quel tal luogo e alla tale ora, ogni tardo pomeriggio, in quei venerdì d’autunno. Ogni venerdì, nel tardo pomeriggio, quell’autunno.

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Lamento dell’avaro (1993-1994)

8 settembre. Mi scappava la cacca mannaggia proprio allora proprio sul più bello mi scappava la cacca no perché così non va così no proprio quando stavo per concludere qualcosa di buono qualcosa di giusto proprio allora proprio quando lei stava per pronunciare il suo fatidico sì ma ciononostante cosa vuoi ho dovuto con un pretesto qualsiasi allontanarmi proprio sul più bello e cosa vuoi quando sono tornato, e quando sono tornato il momento magico era già passato, l’incantesimo era rotto e lei si era già ricomposta, aveva lasciato il divano per accomodarsi ben ricomposta sulla poltrona e avvertii immediatamente in lei qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, e in fin dei conti una certa qual freddezza, ma perché, ma perché, in fondo non m’ero assentato che per dieci minuti, cos’era potuto accadere nel frattempo, vallo a sapere, vallo a capire, valle a capire tu queste donne perché io, io non ci capisco più niente, uno si assenta per un attimo, è vero sì in un momento cruciale e particolarmente pregnante, però si trattava di un attimino appena, cosa vuoi che sia, e quando torna, ecco, già il paesaggio generale è cambiato, già lo scenario è stato rimpiazzato, e ci si trova di fronte a questa freddezza a questa distanza a questa generale mancanza di coinvolgimento io non capisco proprio ma cos’hai le dico cosa ti è successo c’è qualcosa che non va dimmi su dimmelo dai, e dimmelo, su, e dimmelo, dai, dimmelo cos’hai, vedrai che dopo ti sentirai più leggera, come sgravata, macché, era come parlare al muro, niente, e allora sai che ti dico le ho detto, sai che ti dico, che preferisco andarmene, preferisco rimanere solo con il mio dolore.

E me ne sono andato, forse un po’ troppo di fretta, non so, forse avrei potuto darle un po’ più di tempo, non so, un’ultima chance, non so, ma è tardi ora per ripensarci sopra, forse vedremo domani.

9 settembre. Oggi è domani. Oggi per domani e ieri per oggi. Oggi come ieri come domani, per l’eternità fedele. Oggi qui, domani là. Oggi nel mondo. Oggi come oggi. Oggi no, oggi no. Ma se non oggi, quando? Se non oggi, sarà domani. Se io fossi un extracomunitario, e tu una signora, tu credi davvero, che mi vorresti ancora? Avresti negli occhi la stessa dolcezza, oppure sarebbe soltanto tristezza? Avere negli occhi la voglia di guardare, avere nelle scarpe la voglia di andare. Scarpe rotte, eppur bisogna andar. Basta la salute e un par de scarpe bone. O con le scarpe o senza scarpe i miei alpini li voglio qui. Qui, qui e ora, come prima e più di prima, oggi più che mai. Oggi gnocchi. Domani non si sa. Sarà quel che sarà. Chi vivrà vedrà. Intanto non ci vedo dalla fame. Me li mangio con gli occhi, gli gnocchi. Me la mangio di filata, la frittata. Me la mangio in tutta fretta, l’Antonietta.

Antonietta, Antonietta, il tuo comportamento di ieri sera mi risulta tuttora incomprensibile e imperscrutabile. Ce ne stavamo così bene, ce ne stavamo, mano nella mano, impegnati in uno dei “petting” più spinti che mai a memoria d’uomo siano stati tentati, quando ho dovuto allontanarmi a cause di una impellente necessità fisiologica e quando sono tornato a te, tutto pronto e davvero pronto a tutto, io non so io tuttora non capisco, spero solo che un giorno capirò, spero solo che allora non sarà troppo tardi e che sarò ancora in grado e in condizione di capire.

Oh Antonietta, miantonietta, comedovequando potrò rivederti, come, dove e quando potremo riparlarne potremo riconsiderare la quistione, la questione delle questioni, l’anten ata di tutte le questioni?  Nell’attesa ci ripenso, a quel drammatico ieri sera.

Rivediamo con calma il filo degli avvenimenti: ho forse chiesto io di essere messo al mondo quel 10 di aprile dell’anno 1962 in quel di Palma di Maiorca? L’ho chiesto io, forse? No, non mi pare. L’hai chiesto forse tu? Nemmeno. Quindi, da questo punto di vista, nessuno di noi due è responsabile, almeno per quanto riguarda la mia presenza in questo bel mondo. E così abbiamo spuntato un primo punto e acquisito un primo dato, il quale ci introduce difilato al secondo dei nostri soggetti di riflessione e cioè alla controversa nozione di: responsabilità.

No no no così non va, sento che la sto prendendo troppo alla larga, ma lo sai è colpa del mio tatto, del mio solito tatto ma adesso te la dico tutta:

………………

Il resto a seguire nelle prossime settimane…

La signorina Doremifasol (1993)

Melodramma allegorico in due quadri

 

Personaggi:

LA SIGNORINA, Mezzosoprano

S1, Tenore

S2, Baritono

CANE CATTIVO, Basso

LO SCRIVANO, Baritono

UN CERTO MARIO, Tenore

LA MAMMA, Contralto

I

            Un ufficio nella penombra. Le uniche fonti di luce saranno quella fissa di un abat-jour su un tavolino rotondo e quella mobile della lampada usata dallo scrivano (la tiene applicata sulla fronte, per avere le mani libere). La Signorina, accovacciata al centro della scena, coperta da una larga stoffa, è una forma scura. Gli altri personaggi saranno di stature e corporature molto differenziate.

            S1: Siamo qui con lei riuniti, cara Signorina, in veste in veste di di amici, sì, ma che dico, dirò di più Signorina mia, siamo qui come sodali e come fratelli lei mi capisce e qui siamo riuniti sì per farci quattro chiacchere fra noi in spirito di franca cordialità e lieta convivialità, lei converrà con me, cara Signorina, Signorina cara, Signorina bella, allora ce le possiamo fare queste quattro chiacchere in tutta serenità sì o no ma sì ma sì che ce le possiamo fare…

            LA SIGNORINA: (rantolante) Do – re – mi.

            S1: Eh? Come? Sì? Sapevo che ci saremmo intesi, Signorina, sapevo che anche lei avrebbe sentito il richiamo, il richiamo di quella causa superiore che a tutti è cara che a tutti tiene a cuore e che ha nome, sì, Verita, lo sapevamo Signorina che solo per la Verità e non per altro no Signorina ci saremmo intesi sì, non per altro che per questa povera e tanto bistrattata cosa che si chiama si chiama Verità.

            S2 e CANE CATTIVO: (all’unisono) La Verità, la Verità, sì.

            S1: (intenerito) Sì, la Verità.

            LA SIGNORINA: (flebile) Sol – re -do.

            S1: Sì, sì, davvero, sì, e allora, Signorina bella, ce la dà questa mano? (Sommesso, agli altri) Dài che viene, dài che viene, dài che ci siamo (Alla giacente) Ce la dà, sì, sì, sì, eccola la vedo che viene, sù un piccolo sforzo, si calmi si distenda, prenda pure tutto il suo tempo, sì, faccia pure con comodo, sì, e via quell’aria sgomentata, sù…

            LA SIGNORINA: (ansimante) Mi – do – do –mi.

            CANE CATTIVO: (minaccioso) No – o?

            S2: Ma sì, ma sì, la lasci riflettere, la lasci concentrare, ecco che arriva, guardi (si avvicinano tutti alla forma accucciata, che non si è mossa).

            S1: (dopo un tempo) Ah ma Signorina Signorina mia perché non ci vuole ascoltare perché, perché non lo vuole capire che siamo qui solo solo per il suo bene, perché non lo vuole capire lei che è una persona così fine così sensibile, una persona venuta dal mondo artistico, che ha avuto tante esperienze, belle e brutte, buone e cattive, che ha conosciuto tanti successi e anche tante delusioni, e che a causa di queste delusioni, lo so, e di tutta l’ingiustizia del mondo che cattivo è, ha fatto quello che ha fatto…

            CANE CATTIVO: Ah, perché non mi lasciate fare a modo mio?

            S1: Taccia, la prego.

            S2: Sì, taccia, non lo vede che ci siamo? Non ce la spaventi proprio adesso, nevvia!

            S1, CANE CATTIVO, SCRIVANO: (in contrappunto) no – no – no – no, no – no – no – no, no – o – no – noo.

            LA SIGNORINA: (in una sorta di ululato) Sol – fa – re –do –sol!

            S1: (animato da nuova speranza) Ci capisce, Signorina, ci capisce? Sì, ci dica che ci capisce, ci faccia un segno, ci dia un segno, un segno d’assenso, muova un ditino in sù e in giù, lo muova la prego lo faccia per noi, lo faccia per noi che le vogliamo tanto bene ecco sì mi pare sì ecco, no? E` stanca? Se è stanca ce lo dice e noi sospendiamo la seduta non siamo mica ai tempi dell’inquisizione ci mancherebbe altro certo ma poi torniamo e lei allora ce lo dà quello che vogliamo da lei ce lo dà nevvero? Sì, sì che ce lo darà, a noi che l’amiamo tanto a noi che siamo e sempre siamo stati i suoi ammiratori incondizionati e senza condizioni, sì cara, sì bella, le vogliamo bene, cocca di casa sua, sì cuore mio, sì cuore, sì patatina bella di zio, sì, sì, guardi come striscio ai suoi piedi guardi come mi prostro e mi umilio avanti a lei, guardi, e guardi!

            LA SIGNORINA: (la cui voce sale in modo elicoidale e poi si spezza) Do – do –mi – fa – sol.

            S2: (secco, autoritario) Bene, facciamo entrare il Mario (lo scrivano esce; ritorna introducendo un certo Mario).

           LA SIGNORINA: (affannosa e palpitante, come se pronunziasse: Mario!) Do – mi -fa!

            S2: Ecco scrivano prenda nota diamo atto che introdotto un certo Mario il summenzionato è stato immediatamente e senza fallo riconosciuto dall’inquisita andiamo avanti andiamo.

            UN CERTO MARIO: (fa un gesto di grande sorpresa; sollecito e premuroso si fa di presso alla giacente) Tu qui! Chi l’avrebbe mai creduto! E dire che… Oh, quanti ricordi! Ti ricordi, cara… il cancelletto che cigolava… il giardinetto… la casetta… e ora tutto ciò… ma bando ai tristi pensieri! Parliamo di noi piuttosto… allora… eh… beh, che mi racconti di bello? (Una pausa) Ma perché perché non me l’hai detto allora di questa di questa situazione di questa che ti tieni dentro perché? Ecco io ti avrei io t’avrei aiutata t’avrei, dovevi solo dirmelo farmelo sapere e non ci saremmo ritrovati così con una… come dire… mano davanti e una didietro così come ci ritroviamo oggi come oggi, è per il tuo bene mia cara che io parlo e dico così, e non è l’amico che qui ti parla no non è l’amante no non è il protagonista fortuito e casuale d’una avventura fugace no, ma è un fratello che qui ti parla con le mie parole di parole di fede di carità e di speme che il core a lacrimar invoglia e sforza sì lo vedo lo vedo che mossa sei a compassione e glielo fai ora a questi bravi signori il regaluccio che da te tanto aspettano glielo fai lo vedo sì, dài, dài, un piccolo sforzo ed è fatta dài sù…

            S1: Dài sù!

            S2: (riprendendo S1, come in una litania) Dài sù!

            S1: Dài, sù!

            S2: Che ce la fai!

            S1: Dài…

            S2: Che ce la fai.

            S1: Dài fallo per mamma tua…

            S2: Dài!

            S1: Fallo per il paparino…

            S2: Dài!

            S1: Fallo per lo ziuccio…

           S2, CANE CATTIVO e MARIO: (all’unisono, quasi come in un gospel) Dài!

            S1: Fallo per il cagnolino che ti vuole tanto bene…

            S2, CANE CATTIVO, MARIO: Dài!

            S1: Fallo per il canarino della nonna!

            S2 ETC.: Dài!

            S1: Fallo per i pesci nell’acqua!

            S2 ETC.: Dài!

            S1: E gli uccelli nell’aria…

            S2 ETC.: Dài, sù!

            S1: Fallo per tutte le creature…

            S2 ETC.: Sì!

            S1: Fallo per sora luna!

            S2 ETC.: Sì!

            S1: Fallo per frate sole!

            S2 ETC.: Sì!

            S1: Fallo per qui fallo per là fallo di sù fallo di giù…

            LA SIGNORINA: (estenuata) Sol – re – do.

            CANE CATTIVO: Ah, maledetta!

            S1, S2 e UN CERTO MARIO: (invitandolo a tacere) Sshsshsshssh!

            UN CERTO MARIO: (con fare persuasivo) Ragiona cara. Vivesti d’arte, vivesti d’amore, non facesti mai male ad anima viva! Perché, perchè nell’ora dell’ineluttabile reddizione… lo sanno bene, tanto che sei stata tu!

            S1: (lo interrompe) Risolva, Signorina!

            UN CERTO MARIO: Sì, risolvi!

            S2: O gliela tireremo noi fuori, con le buone o con le brutte! Anche la pazienza ha i suoi limiti, Signorina bella!

            S1: Sì!

            CANE CATTIVO: Sì!

            S2: Lei è così bella, Signorina, e così poco amabile. Cosa le chiediamo, in fondo, è ben poca cosa, è cosa d’un istante! Non farà male, vedrà, un attimo e sarà passata. Pensi a come le saranno tutti grati, pensi, pensi a come la ricorderanno sempre, in vita e in morte, e ci aiuti, Signorina, ci aiuti, e guadagni quell’imperitura riconoscenza che tanto merita, e vedrà come se lo gusterà infine il suo agognato successo, che finora le è ingiustamente mancato! La prego sù la prego sù ancora un piccolo sforzo e ci siamo ce l’abbiamo quasi fatta siamo ormai in dirittura d’arrivo sì, sì che tutti insieme ce la facciamo, sì, dai tutti insieme, sù! Ce lo dia, sù!

            S1, CANE CATTIVO, UN CERTO MARIO, SCRIVANO: (come se sollevassero un peso) Oohh… oohh… oohh…

            CANE CATTIVO: (dopo un tempo) No, niente.

            UN CERTO MARIO: (all’orecchio di lei) Ascolta, comprendi, fai mente locale, capisci. E` successo un fatto strano, sì? E allora, cosa vuoi, le condizioni non sono più quelle di una volta, capisci, comprendi, compiacerli ora dobbiamo, dài, che poi… che poi… dài, ce ne andiamo io e te sì lontano da tutto lontano da qui da questo mondo che prigioniero è, sì, che ora torno a te sì, che son qui per te, sì, che…

            LA SIGNORINA: (in una sorta di rignhio) Mi – fa – do -do.

            S1: (spazientito) Ma perché, Signorina, io domando e dico, ma perché non vuole essere contenta di sè, eh? (Allo scrivano) Scrivano, metta agli atti che la Signorina, la signorina rifiuta di essere contenta di sè, ecco, e cosi sta scritto nero su bianco e non se ne parli più, ecco, e sospendiamo la seduta.

 

Un tempo. Sipario.

 

II

            Stesso luogo, un’ora più tardi.

S1: Bene eccoci qui di nuovo eccoci vede il tempo glielo abbiamo dato glielo di ristorarsi nel corpo e nello spirito e anche noi il nostro bravo cappuccino coi bigné l’abbiamo avuto quindi eccoci qui di nuovo, freschi riposati e bendisposti, disposti a tutto pur di farle piacere Signorina cara, cosiffacendo peraltro piacere anche a noi stessi. Ecco, come ha visto il bel Mario l’abbiamo allontanato che anzi ci siamo sbagliati a farlo venire, che dio ce ne scampi e liberi quello cara mia è un mangiapane a tradimento quello, glielo dico io che di cotte e di crude ne ho viste ne ho, io, sì, ma insomma dove è che eravamo rimasti?

            LA SIGNORINA: Re – re – fa – re.

            S2: (insinuante) Sì Signorina sì stavolta ce la faremo sì se siamo solidali e uniti tutti insieme perchè in fondo, no? Siamo tutti sulla stessa barca, sì? E allora? E allora, remiamo! (ride). Ah! Ah! Ah!

            CANE CATTIVO: (sforzandosi di essere suadente) Per farla contenta signorina ecco le abbiamo preparato una sorpresina una sorpresuccia ecco guardi qui che cosa le abbiamo portato chi le abbiamo portato ecco guardi lo vede che cosa non facciamo per lei, eh? (Al suo cenno lo scrivano esce e torna introducendo la Mamma. Costei, allo scorgere la figura della figlia, che le viene indicata da Cane Cattivo, si slancia verso di essa, ma i gesti simultanei di S1, S2 e della Signorina stessa la fermano a mezza strada). (Alla Mamma) no, non la si può toccare, non è permesso (La Mamma, diligente, si arresta).

            LA MAMMA: Oh piccola di mamma tua, o core di mamma, o core, come stai come ti senti come ti trattano qui, hai mangiato, almeno, sì? Chissà se ti danno almeno da mangiare in questo posto, che cosa ti danno, eh? dimmi, dillo a mamma tua che ti fa un bel puré, che ti fa una bella minestrina di verdura come piace a te, tieni tieni qui, t’ho portato le caramelle che piacciono a te. (Estrae dalla borsa una manciata di caramelle in carta d’argento, ne dà un paio alla Signorina, che le porta alla bocca, distribuisce le rimanenti agli altri presenti; tutti, lei compresa, le scartano e le masticano; le stagnole vengono intascate o gettate a terra. Per un momento tutti, Signorina compresa, sono accomunati dall’attività di masticazione). (A Cane Cattivo) Sa, la m’e sempre stata di buon appetito, la mia gallinella! (Alla Signorina) Beella di mammuccia sua! Allora hai dato a questi bravi signori quello che vogliono da te, sù non fare la smanciosa, non farti pregare che non sta bene, fai vedere ai signori come sai comportarti tenerti in società che non per niente t’abbiamo preso la fille au pair svizzera, che non per niente t’abbiamo comprato il pianoforte che c’è costato quello che c’e costato, a papà tuo buon’anima ch’era tanto troppo buono e te le dava tutte vinte te le, ed è per questo che mi sei finita qui te lo dico io, ché se era per me altro che, sai come li vedevi la fille au pair e il pianoforte rosa e l’ovino sbattuto ogni sacrosanta mattina e tutto il resto, col binocolo li vedevi te lo dico io, e dire che contavamo tanto su di te, tante belle speranze avevamo riposto in te e guarda qui bella soddisfazione guarda la figura che ci fai fare in faccia a tutto il mondo, questo e il ringraziamento, eh? questo è? ah mi vien financo di piangere mi vien.

            S1: Signora, si controlli, la prego. Cerchi piuttosto di convincere la sua figliola, glielo dica glielo che è solo per il suo bene che siamo un pò insistenti, ce la convinca, sù, da brava, che così ce ne torniamo a casa tutti felici e contenti e non se ne parla più e anche il mondo tutto sarà più contento.

            LA MAMMA: Sì, sì, ma cosa vuole, signore caro, l’è sempre stata così testarda questa figliola, quando si metteva una cosa in testa, niente da fare, quella doveva essere. Pensi che una volta la ci fece fare una figuraccia, la ci fece, eravamo invitati dai Mantecati, sa quelli della pasta dell’uovo, sì, proprio quelli, sì, e pensi che non volle mettersi le scarpette di vernice non volle, si figuri, e non ci fu verso, non ci fu, niente, a otto anni e già così cocciuta, niente, non ci furono santi, nisba, dovemmo portarcela in scarpe da tennis, pensi che roba, non ci crederebbe neanche a vederlo, dovemmo inventare che soffriva di calli la poverina, si figuri, gliene avrei date quattro gliene, avrei, a questa smorfiosa a questa sfacciata a questa impunita, pensi un pò, tutte le aveva vinte, tutte…

            CANE CATTIVO: Ma con noi è diverso, vedrà signora, vedrà che le caramelle non gliele daremo piu, eh? (Minacciosamente allusivo) Capito, Signorina?

            LA MAMMA: Sì, sì, fate bene, sì, chissà che voi non gliela facciate intendere, la ragione, ma non trattatemela male però, la mia piccina, che colpa non ha, ché la colpa è tutta delle male compagnie, ah…

            S1: (la interrompe) Sì signora, sì, ha ragione ma ora vada, vada pure, grazie tante del suo intervento, (allo scrivano) scrivano l’accompagni. (Alla Mamma) Le faremo sapere, signora, mille grazie ancora, ora vada, sì, vada pure, grazie, grazie tante.

            LA MAMMA: (si lascia portar via dallo scrivano) Sì, vado, si, ciao, cuore, ciao, amore, trattatemela bene eh mi raccomando, vedrete che con le buone maniere tutto si ottiene, ma non strapazzatemela, eh, ciao, sì, ciao, ciao.

            S1, S2, CANE CATTIVO: (con sollievo) Aaahhh!

            S2: Beh, riprendiamo, dove è che eravamo rimasti?

            S1: A “Caro amico” siamo rimasti, sempre lì siamo, sempre da capo a dodici, non c’è niente da fare non vuole intendere ragione, lo dice pure la mamma lo dice. (Lo scrivano rientra).

            CANE CATTIVO: Bando alle ciance. Occorre intervenir.

            S1: Sì ma lei capisce, ciò che ci deve restituire, non è che possiamo estrarglielo a forza, no?

            CANE CATTIVO: No, lei dice? So ben io come indurla a più miti consigli, la nostra brava Signorina qui presente, so…

            S2: (seccamente, allo scrivano): Non scriva più.

            CANE CATTIVO: Vi farò vedere io vi farò. (Allo scrivano) si conduca Ottavio.

            LA SIGNORINA: (sorpresa e supplice) Sol – fa – sol –re – do. (Lo scrivano esce. Rientra conducendo al guinzaglio un cane barboncino. La Signorina non ha smesso di modulare il suo lamento. Alla vista di Ottavio tende le mani verso di lui, invano: lo scrivano lo tiene fuori della sua portata).

            CANE CATTIVO: (allo scrivano) Mostri il cagnetto alla nostra amica. Ora lo riconduca di là. Indi… ai miei cenni… (lo scrivano riporta Ottavio fuori scena).

            S1: (con una certa compassionevole dolcezza) risolva, Signorina, ce lo ridia.

            LA SIGNORINA: (provata, forse incerta) Re – do – re – do.

            S2: (languido) Sì, Signorina, risolva. Non ci faccia fare ciò che non desideriamo, ciò che ripugna ai nostri sentimenti di alta umanità, ma…

            LA SIGNORINA: (su un tono dapprima cedevole, quindi, inaspettatamente, di diniego) Do – do – re – mi – fa – sol! Cane Cattivo, impaziente, fa un gesto nella direzione in cui lo scrivano e Ottavio sono usciti. Si ode un guaito di dolore) La Signorina, addolorata, spaventata, dà quasi un ululato). Mi – fa – fa – mi – mi.

            CANE CATTIVO: (incalzandola) Allora? Non resterà mica indifferente a questo guaito di dolore? Allora? Si decide, infine, a scriverla quest’ultima nota del suo melodramma? (Molto minaccioso) Oppure no?

            LA SIGNORINA: (non ancora remissiva, quantunque duramente provata) Do – re – re – re – mi. (Cane Cattivo fa un nuovo cenno. Un guaito prolungato perviene dalla camera della tortura. La Signorina si tiene la testa con le mani. Si lamenta, in una modalità non dissimile da quella di Ottavio) Mi – re – re – do – do.

            S1: Sù, e ce lo faccia, questo regalino!

            S2: Sì, ce lo faccia, sù! Ci ridia, infine, quello che ha sottratto. Ce lo ridia!

            CANE CATTIVO: O preferisce che andiamo avanti? (Urla, rivolto allo scrivano) Scrivano, j’amm’nnanz’! (Ma, prima che s’oda il gemito di Ottavio, la Signorina si scuote in un gesto di assenso, come potrebbe essere quello di un Pulcinella in un teatro dei burattini. Cane Cattivo ferma lo scrivano. I tre inquisitori si tendono verso la Signorina in una postura di attesa, un pò come dei cani da caccia).

            S2: (sottovoce) Ci siamo.

            S1: Ci siamo.

            CANE CATTIVO: Sì, ci siamo.

            LA SIGNORINA: (prende fiato, prima di emettere la nota, che durerà a lungo; dopo un tempo, sul suo la l’orchestra accorderà gli strumenti e i cantanti le voci; costoro, a braccia larghe, si rivolgeranno al pubblico; polifonia monocorde) La – la – la – la – la – la – la.

 

Sipario.

 

FINE

 

NOTA: Evidentemente, la nota la sarà assente dalla partizione del melodramma, e nessun la dovrà essere dato all’orchestra prima della rappresentazione.

 

………..
PS 2021. La fonte di questo testo è un articolo sull’incendio del teatro Petruzzelli di Bari (1991), su l’Unità del 26 luglio 1993.

 

Un’anima del Purgatorio (1988)

Questo testo è stato pubblicato in Linea d’ombra, numero 33, Milano 1988.

 

L’Anima se ne stava nel purgatorio.

Cosa trovò il suo amico, uno che prima era suo amico, che di cognome faceva Vitelli? Di andare lì dove preparano le figurine delle anime, ci lavorava uno che conosceva, andò lì e chiese di quello, stava nell’ufficio e venne subito, Vitelli gli disse così e così e quello: nessun problema, ti accompagno didietro, ti porto dall’operaio anziano, sta nel laboratorio dietro alla bottega.

L’operaio anziano faceva i pezzi difficili, quelli coi capelli ricci o i preti colla berretta e anche i tipi singolari; gli stava vicino uno che gli passava i blocchi d’argilla preparati, che già aveva sagomato la base e le fiamme; il torso le braccia e la testa, quelli li rifiniva l’operaio anziano. Un altro passava, raccoglieva le statuine, le metteva nel forno, un altro le ritirava, le allineava su una tavola di legno, una donna pitturava le fiamme, una più giovane il rosa dei corpi, una più giovane ancora gli occhi e i capelli.

Vitelli tirò fuori le fotografie, due ne aveva portate, nella prima si vedeva l’Anima insieme con altre persone, con la penna biro gli aveva fatto una freccetta sulla testa, era una foto di gruppo, stavano sullo sfondo di una marina, il sole tramontava dietro le teste e poco si distingueva, quello oltretutto era mezzo nascosto da uno vicino. La seconda era una fototessera, fotomat, cabina di stazione centrale, quello teneva il mento sollevato e strizzava gli occhi ma già si capiva di più; farò quel che posso disse l’operaio: che vede, in ogni modo su queste statuine arriviamo appena a notare i segni particolari, se ci sono; riportiamo giusto il colore degli occhi e dei capelli, più o meno la forma del naso, il contorno della faccia, se è grassa o magra, la lunghezza dei capelli, tutto qui; l’importante è il nome scritto davanti, disse, me lo deve lasciare, disse, che devo inciderlo sull’argilla fresca, me lo scriva per favore dietro alla fotografia più grande.

Il conoscente riaccompagnò Vitelli alla porta, quando sarà fatto chiese Vitelli, torna fra tre giorni e sarà pronto disse quello, lo devono mettere nel forno e dopo pitturare, la pittura si deve asciugare, poi te lo possiamo consegnare.

L’Anima se ne stava nel purgatorio. Sente che lo chiamano, chi sarà mai, si dice. Per un pò non risponde ma la voce insiste, la chiama per nome, deve per forza corrispondere. Chi mi vuole dice l’Anima, sono Vitelli risponde la voce. Cosa mi vuoi dice l’Anima, ti devo parlare Vitelli risponde. Parlami dunque l’Anima dice.

Gli è che potresti tornare, fa Vitelli.

Tornare? Fa l’Anima. Per fare? Che di nuovo?

Che è cambiata la sentenza, c’è stata l’indulgenza.

Ah no, fa l’anima del purgatorio, quale indulgenza che non ne voglio.

L’indulgenza, spiega Vitelli, quella nuova, che danno a chi ha scontato a sufficienza. L’ho chiesta io per te.

La sentenza in curva discendente, allora, l’interrompe l’Anima, ma niente io ho a che fare. Niente io ho a che vedere con quelli della sentenza. Non c’ho complicità.

Non essere sdegnoso, non essere pertinace, trattasi giusto d’una formalità, un passaggio procedurale; cosa di poco conto, la sbrighi e stai di nuovo qui fra noi.

Niente da fare dice l’Anima, se non sarà l’equidistanza non sarà niente.

Questa è dunque la tua ultima parola, questo dunque avrò da riferire, vuoi che la riporti dunque l’immaginetta, non altro c’è da dirsi, non più potrò chiamarti, debbo dunque lasciarti lì? Dice Vitelli, dice con voce dispiaciuta.

Se non sarà l’equidistanza no, niente se ne farà, l’Anima ribatte.

Eppur ti son venuti incontro.

Ma non io incontro a loro.

Eppure tuo fu il torto.

E me lo tengo tutto. Quello almeno mi dà un posto.

Ah, bel posto quello.

Cosa ne sai tu.

Lo so, ci sono stato. Anche a me m’hanno richiamato.

Non me l’avevi detto.

Non sono cose che si dicono.

Lo sai allora che non si sta poi tanto male, dice l’Anima.

L’uomo s’abitua a tutto; se ha qualcosa a cui abituarsi, dice Vitelli.

Come sei sapiente.

Certo. Certo non superficiale come te. Potevi stare più attento, potevi. Non te ne finivi lì.

Anche questo è vero. E` stato che mi sono distratto sul più bello.

Ah cane, ah maledetto, ceffo di basilisco, lacerta vermenara, semente di gramigna, si altera Vitelli; pur te lo dissi che ogni distrazione prepara l’accidente, pur te lo dissi.

E sia. Ma anche l’attenzione, che all’accadente attende, attende l’incidente, si difende l’Anima. Ben lo sapevo che per colui restar campione era cosa d’importanza, davvero non ci tenevo a rubargli il titolo, parlo con lingua diritta. Cosa potevo farci, dovevo pur mostrare i segni, cosa potevo farci se la forbice è spezzata dalla pietra ma taglia la carta che incarta la pietra. Fosse stato per me avrei sempre tirato, non so, orsacchiotto, sarebbe stato trapassato dalla forbice avviluppato dalla carta e tramortito dalla pietra. Ciò nonostante stavo attento e tiravo con ritardo, proprio agli ultimi colpi mi sono distratto.

Non è quello, non è quello, dice Vitelli.

E cosa allora.

E` il fatto l’altro, quello, l’altro.

Quello dell’orecchio? Ai fatti qui mi chiami, che sono accaduti. Un demonio certo comandava dentro me, nondimeno va detto che grande era la tentazione, la folla nel vagone mi ci spingeva addosso, ed era un orecchio talmente sodo e traslucido, arrossato per la ressa al punto giusto, mi stava giusto all’altezza dei denti… come non addentarlo, cerca di capirmi.

Non è quello, non è quello. Quello ti venne condonato in prima istanza, dice Vitelli. Mi fa specie di te, che non intendi.

Ora mi metti con le spalle al muro, dice l’Anima, si sa dunque di quei due? Quelli entrarono e si misero a sedere proprio di fronte a me, già lui col braccio le allacciava il collo e già lui le parlava nel collo e lei rideva, ridevano fin dall’ingresso, veramente, dovevano stare attenti, non lo vedevano che tenevo il carné e la penna in mano, e allora.

Ecco. Ora l’hai detto.

E` questo certo, lo sapevo. Perciò l’ammenda dunque, vedi, lo sapevo che era per questo l’indulgenza.

Ebbene?

E sia.

Così, così ti voglio, esclamò Vitelli.

Vitelli incontrò per strada il suo conoscente, quello delle anime.

Come è andata allora, sei rimasto soddisfatto, quello gli si rivolse.

Come no, fece Vitelli, di nuovo egli è fra noi, dopo breve reticenza ha deciso per il meglio. Piacere mi fa a sentirlo, oggi come oggi s’è fatto quasi raro, sempre meno ci richiedono le anime e capita spesso che di tornare non vogliono sapere, sei stato fortunato; e dove l’hai impiegato, sul posto di lavoro?

No, no, s’accomiatò Vitelli, lo tengo in casa, dà una mano a sbrigare le faccende e già i bambini lo chiamano zio, li porta a scuola e li riprende, davvero bene ci troviamo e la statuina sta in fondo a un cassetto che neanche so più quale, bene ci siamo trovati e ti manderò qualcuno che già so, e così dicendo mi accomiato; e detto fatto s’accomiatò.