Prontuario del protervo (1994) prima parte

Me ne stavo, come al solito, sì, al Circolo Donatori di Organi, sì, impegnato in una di quelle partite a boccetta americana che non finivano mai prima di mezzanotte e passa, sì, me ne stavo, sì, impegnato, sì, quando squillò il telefono, sì, collocato sul muro, sul muro del vestibolo, sì.

“Chi sarà mai” disse Alessio, che sbuffò e ciabattò fino al ve­stibolo e quando ne rivenne annunciò che era me che si voleva al telefono. “Chi sarà mai” dissi, e guardai i Soci riuniti intorno al ta­volo con aria allibita, perplessa e circospetta, li guardai cioè io con aria allibita eccetera, perché loro di aria non ne avevano proprio nessuna, ché a forza di dare il proprio corpo personale per il bene del prossimo e dell’altrui non erano rimasti loro neanche gli occhi per piangere, ma lo stesso li guardai in quegli occhi che non erano più loro, ma che detenevano solo in prestito, in via eccezionale e per grazia di Dio, e li guardai volendo significare che non era mia colpa e responsabilità no quella inopinata inter­ruzione, non era mia no ma invece era di quell’ altro sì di quello scocciatore in attesa dentro il telefono nel vestibolo, e che aspettasse, non ero certo ai suoi ordini io, che a me nessuno mi dice quello che ho da fare, capito, capiert, capitt? Ma, bene o male, volere volare, mi staccai dal tavolo e mi portai nel vestibolo, dove pendeva la cornetta del telefono, appesa alla sua stessa corda ironia del destino, e arrivai appena in tempo per salvarla, sollevandola dalla sua incomoda posizione e portandomela all’ o­recchio.

“Pronto” dissi. Una voce ringhiosa ruggì nel ricevitore: “So­no papà”. Era il mio papà. “Vieni qui, vieni, ché ho del lavoro per te, vieni a casa coccobello di papà”: disse papà.

“Ma, papà, è mezzanotte e passa, si deve fare proprio stase­ra, non si può aspettare fino a domani, domani anche di primo mattino non dico di no, non si potrebbe no, proprio no?” Ma papà aveva già riattaccato il telefono, parlavo al vuoto e al nulla, parlavo senza più il e in mancanza del, naturale, interlocuto­re, ed è per questo che a mia volta rimisi al suo posto la cornetta, che se la vedesse lei con la sua forcella e il suo cordone, d’ altronde ci si era messa lei fra l’incudine e il martello e non sta a me intervenire nello spontaneo esercizio del libero arbitrio altrui, ah no, certo però se l’arbitrio fosse servo, allora in­vece interverrei, perché su di me si può contare, sì, quando si tratta di difendere gli oppressi oppure di raddrizzare i torti, allora io rispondo sempre presente, insomma ricondussi la benedetta cornetta al suo natu­rale stato di attesa e tornai in sala, a prendere congedo sì dagli amici del Circolo.

Presi così congedo dagli amici, del Circolo, e andai difilato dal babbo il quale mi disse non appena mi ebbe visto il quale non appena mi ebbe visto mi disse dissemi: “Ce ne hai messo, corpo di mille balene, ce ne hai messo di tempo per venire”.

“Sì è vero papa sì lo so ma d’altronde devi pur capire che il Circolo non è che stia dietro l’angolo, al contrario invece non sta proprio dietro l’angolo, capisci”.

“Capisco, capisco” disse burbero ma già in qualche modo rab­bonito papà, il mio paparino che urla sempre ma non è poi così cattivo come sembra, il mio papi sotto la cui rude scorza batte un cuore di gran signore, il mio unico e autentico genitore, il Padre, chi altri se non lui, il mio vecchio, il Grande Vecchio, che in quella circostanza di cui qui narro mi disse e anche mi disse, sì: “ma cosa ci andrai a fare in quel ritrovo di smidol­lati io non lo so, perché perdi tempo in quelle compagnie io non lo so, non mi piace no la gente che frequenti e dovresti sapere che chi va con lo zoppo impara a zoppicare e dimmi con chi vai e ti dirò chi sei e perciò, ma del resto la vita è tua e ne fai quel che ti pare, non sarò certo io che interverrò nella tua vita che è tua, dio me ne scampi e liberi, cosa vuoi che me ne importi di quello che combini e del resto che cosa potrebbe combinare un salame un imbelle come te ma lasciamo stare non mi far parlare che è meglio e vai piuttosto nello stanzino da lavoro, vai piuttosto nello stanzino che lì c’è del lavoro, c’è del lavoro per te, e bada a non ciurlarmi nel manico, ci sono altre dodici lettere da copiare, mettimele per bene in bella copia e in bel carattere, con diligenza e applicazione, come puoi se lo vuoi, e te l’ho detto e ripetuto mille volte che vo­lere è potere, cerca quindi di volere e vedrai che potrai e adesso su al lavoro, via”, disse papà concludendo la sua tirata con un affettuoso scapaccione sulla nuca (eh si devo dirlo che il mio papà non è poi così cattivo come vuole far credere e sopra! tutto è uno che dimentica tutto, che non ha risentimenti di sorta ecco questo è il lato bello di lui, per esempio mi rimprovera è vero per causa delle mie frequentazioni e compagnie, ma subito via un, bel colpo di spugna e tutto è acqua passata e cosi dovremmo fare tutti, perché cosi si vivrebbe meglio tutti quanti, questo e sicuro, sì, e veramente garantito, sì, davvero.

Me ne venni dunque al tavolino, dove mi aspettavano le dodici lettere di papà, si se ne stavano li buone buone ad aspettarmi, chiacchierando fra di loro in un allegro ciangottio in un argen­tino pio pio, ma subito al mio ingresso tacquero all’unisono le gallinelle e rimasero silenziose, perché la ricreazione era fini­ta e adesso si lavorava, e lo sapevano bene.

Mi sistemai per benino al tavolino, ben composto e ben dirit­to, io cioè composto e diritto e quanto al tavolino, quelli erano affari suoi, io intanto mi sistemavo diritto e composto, tanto che fra il mio dorso e lo schienale della sedia poteva passarci finanche un treno, così come mi aveva insegnato la Gretel, la mia istitutrice svizzero-tedesca di Sils-Maria, che fu la mia inizia­trice anche in ben altri campi che non nel solo galateo, come dirò più in là, sì. Mi sistemai bene bene, presi un bel foglio bianco, intinsi il pennino nel calamaio e mi accinsi a copiare la prima lettera, che suonava pressappoco così, sì:

“Egregio Signor Direttore,

le scrivo in merito a un annoso e penoso problema che è stato, sia pur fuggevolmente, evocato in un articolo del Suo pregiato giornale, di cui sono, come mi fregio di farle noto, un appassionato e fedele lettore, problema dicevo, annoso e penoso, che è stato meritoriamente, per quanto fuggevolmente, evocato in un articolo del Suo benemerito periodico, a firma G.S., che portava il titolo Nuovi e vecchi problemi del nostro quartiere.

L’ articolo in questione faceva riferimento a diversi fenomeni di malcostume dilagante e, per quanto in modo forse troppo fuggevo­le, al problema morale, che si rivela in mille e uno spie indizi e sintomi del comportamento umano, non ultimo fra i qual i quello su cui vorrei qui modestamente richiamare la Sua e quella dei Suoi lettori attenzione, e mi riferisco alla triste abitudine che vorrei in questa sede stigmatizzare, unendomi al coro delle persone civili e oneste che sono, lo sappiamo bene, divenute ormai merce rara, e mi unirò a questo coro nella mia qualità di ormai sessan­tennale Servitore dello Stato e nella mia veste. di Promotore e Presidente Onorario del Partito dei Reduci di Tutte le Guerre (P.R.T.G.), affiliato alla Cassa Previdenziale dei Reduci di Tutte le Guerre (C.P.R.T.G.) e all’Associazione Dopolavoristica dei Reduci di Tutte le Guerre (A.D.R.T.G.), Partito il quale, è doveroso aggiun­gere, ha conseguito lusinghieri e incoraggianti risultati in occa­sione dell’ ultima “kermesse” elettorale nella nostra circoscri­zione, ed è perciò forte di tale incoraggiante sostegno da parte di diecine di nostri concittadini che elevo la mia voce da questa tribuna, per stigmatizzare con forza la triste abitudine, così consueta ormai, in ispecie presso certi “signori” provenienti dai ceti sociali meno educati, di pizzicare o financo grattare, nel bel mezzo della pubblica via, le parti basse del proprio corpo o, per dirla schiettamente, i propri organi genitali. È questa una vera vergogna civile, e lo dico qui con vigore: se è questa dunque l’immagine di noi uomini adulti che vogliamo dare ai nostri piccini, come pretendiamo che di fronte a tali esempi possano essi credere in un futuro migliore? “Signori” che vi grattate le parti basse nel bel mezzo della pubblica via, riflettete su questo dato e pensate al bello spettacolo che offrite ai nostri bambini e alle nostre donne, pensate a quegli innocenti occhi che vi guardano, quando una subitanea prurigine richiama la vostra mano verso quelle parti, e da veri uomini sappiate controllarvi, sappiate resistere, se davvero ce li avete!

La ringrazio, Signor Direttore, della sua cortese attenzione.”

Ecco, come si vede è uno che gliele canta, il mio papà, sì, proprio, davvero, e non gliene scappa una, no, è proprio implacabile sì il mio paparino. E ne copiai altre undici dello stesso tenore, di queste lettere di fuoco, di questi messaggi di fiera e vibrante denuncia, toccanti i più vari e variegati aspetti della vita sociale e civile, ed è noto che undici più uno fa dodici, anche i bam­bini lo sanno questo e copiai perciò durante la notte ben dodici Lettere al Direttore, e l’indomani mattina di buon’ora le conse­gnai personalmente alle segreterie dei suddetti Direttori, dopodiché potei considerarmi sul rompete le righe sì e potei andare a pren­dere un meritato riposo al Club dei Portatori di Pacemaker, e di­fatti giunto costì sprofondai in una confortevole poltrona in “skai”, mi apersi un giornale finanziario sulla faccia e mi appisolai al­l’ istante.

Mi risvegliò un domestico, messaggero di notizie e in partico­lare della notizia che mi si desiderava al telefono, come dimostrava il fatto che egli stesso mi porgeva un ricevitore telefonico, che portai seduta stante all’ orecchio, per udire la ben nota voce del mio Big Daddy, il quale voleva sapere se avevo portato feli­cemente a termine la missione assegnatami, “sì papà non ti preoc­cupare certo papà ho fatto come dicevi tu le ho consegnate in Ma­ni Proprie le tue letterine e vedrai che domani le pubblicano tutte per intero, grazie alle tue note conoscenze, e potrai accluderle in tempo, ma in appendice beninteso, all’ ultima edizione degli Scritti Completi, e sì l’ho preso l’appuntamento col tipografo non ti preoccupare va tutto bene ho pensato a tutto anche alla dedica in carattere Times e ai ringraziamenti in corsivo corpo otto, ho tutto scritto tutto appuntato sul mio calepin no stai tranquillo non dimentico niente e del calzolaio sì me ne occuperò oggi stes­so ci passo dopo il tipografo o forse prima, vedremo, sì, la so­letta di vero cuoio e non di gommapiuma lo so si certo gliel’ho detto lo sai che lavora bene non ti preoccupare ci penso io poi te le porto questo pomeriggio sì adesso vai tranquillo a lavorare che ci vediamo poi, sì, ciao sì , ciao ciao, si sì ciao”.

“Oh” dissi riconsegnando il ricevitore al solerte servitore, “neanche si può più riposare in santa pace in questo posto, mi porti un decaffeinato, buon uomo, mi faccia il piacere, sia gentile, grazie, vedrà che Dio gliene renderà merito e che magari ci scappa finan­che una bella mancetta, ci scappa, sì, ma ora vada, su, e mi torni con un bel decaffeinato, e vedrà che saprò mostrarle tutta la mia riconoscenza, ma si sbrighi, che diamine, cosa me ne sta lì impalato e tutto boccheggiante, razza d’idiota, si muova piutto­sto e visto che c’è mi faccia venire il Direttore, che gliene can­terà quattro, la faccio mettere in riga io la faccio, sì, cosa vuole che mi interessi se lei è un raccomandato di ferro, mi fanno un baffo a me quelli del Sindacato Detentori Organi Artificiali, lei è qui per fare il suo lavoro e non per farsi venire una crisi respiratoria davanti a un cliente che non faccio per dire ma di guai e preoccupazioni ne ha ben altri che lei”, e messo così al suo posto questo zoticone, questo pappamolla, con cui avevo perso già abbastanza tempo, ebbi infine il mio bravo decaffeinato , por­tatomi con le sue proprie mani dal Direttore stesso, tutto defe­rente, tutto sollecito, Direttore il quale, a furia di celie moine e lusinghe, il quale, ben uso a simili casi avvezzo e a tutte le esperienze rotto, Direttore il quale riuscì non senza dura fatica e sudore della fronte, riuscì a rabbonirmi e difatti fui rabbonito e come se niente fosse in men che non si dica  sorbito degustato e infine gradito e apprezzato il mio bel decaffeina­to (ma che bouquè questo suo decà, caro il mio bel Direttore, mio caro Direttore dei miei stivali, e che retrogusti, senta qui che retrogusti, si vede che questo è un arrivaggio speciale veramente, si annidano difatti in questa tazzina tutte le fragranze delle più selezionate raccolte dalle origini più controllate, cantano in questa tazzina qui i cori dei gioviali raccoglitori quechua pagati un miserabile sol alla gerba e frustati a sangue dai capo­rali a cavallo se per caso scivolano sul sentiero di montagna e rotola giù nelle valli qualche preziosa bacca, perché niente vale più di una gerba colma del più puro arabica arabica, insomma per farla corta mio caro Direttore questo suo decaffeinato fa proprio schifo, altro non è che rigovernatura dei piatti e niente più, al­tro non è che una vera ciufeca, proprio, sì, davvero, ma per oggi basta così, per oggi la perdono, se la beva lei alla mia salute questa pozione d’inferno, ché io ho da fare e me ne vado), me ne andai, cosi, sui due piedi, come se niente fosse.

Come se niente fosse no, perché io non sono uno che prende o fa le cose alla leggera io no, invece al contrario io ci penso e ci medito sopra, ed è così in fondo che la ciambella viene con il bu­co, altrimenti no, non viene né l’una, e né l’altro, e già. Perché io sono un uomo preciso, sono un vero paradiso. Sono un uom ché molto vale, non son mica neutrale. Sono un uomo assai palese, non son certo un eschimese. Sono un uomo eccezionale, sono un figlio naturale. Sì fatto è che nell’uscire dal Club, mentre indugiavo sul marciapiede antistante, allo scopo di accendermi uno dei miei Avana grandi come portaombrelli per cui vado famoso in tutta la città, mentre indugiavo dicevo sul marciapiede antistante il Club mi imbattei in qualcheduno che entrava, e questo qualcheduno dov’è che l’avevo già visto, era al Sodalizio, o non piuttosto invece all’Unione Nazionale, fatto è che quella persona lì mi ricordava qualcuno, ma dov’è che l ‘avevo già vista, ah ma certo dove è che li avevo gli occhi, non è che li avevo lasciati anch’io alla Cas­sa del Circolo (e sarebbe stato un bell’errore, perché quando hai ancora gli occhi per vedere, cos’altro vuoi di più, e tutto il re­sto sono quisquilie), no invece ce li avevo ancora e difatti me ne servivo per riconoscere e identificare quel tale, e quel tale era, sì, indovina chi, perché questi sì sono dati su cui riflettere, quel tale era, ebbene sì, quel tale era, e fatti furbo, quel tale era, indovina indovinello, quel tale era, fuochino fuochetto fuoco fuoco, quel tale era, oohh, quel tale era proprio Antonio, ma cosa ci faceva lì, mi domandai, e poi girai la domanda a lui stesso:

“ma Antonio che cosa ci fai qui?””

“Cercavo proprio Lei, Signorino” rispose Antonio, il nostro ze­lante maggiordomo. “Il suo Signor Padre difatti mi ha inviato costì, presagendo che con ogni probabilità ve La avrei trovata, e difatti mi allegro all’averveLa incontrata, e all’aver in tal modo condotto in porto la mia malridotta alberatura, così come mi era stato prescritto” e detto fatto Antonio si fece latore di un mes­saggio per me, e il messaggio era: che non dimenticassi di passare dal calzolaio a ritirare le scarpe badwürtemburghesi del mio Si­gnor Padre, “Lei lo sa quanto Egli ci tenga a quelle scarpe conta­dine che Gli offerse il Bürgermeister di Todtnauberg in persona, e che erano state portate, si dice, da Martin Heidegger stesso”. Sì sì lo so va bene grazie per il servizio ma ora vai torna a casa e riferisci quanto segue e cioè che le scarpe di papà stanno in cima ai miei pensieri e ora vai levati dai piedi sciò pussa via.

Sbarazzatomi così del vecchio Antonio, che è una pasta d’uomo e davvero fedele come un cane, ma che è anche un po’ anzichenò noioso, sbarazzatomi così brillantemente di lui, potei ricondurmi infine presso la mia signora, che si era a quell’ora certamente risvegliata e senza ombra di dubbio mi attendeva tutta acconcia e bene agghindata, davanti a un bel piatto di maccheroni alla salsa di pomodoro, e sì presto potetti constatare che così era ef­fettivamente, sì.

Quel giorno la mia signora indossava un completino che non le avevo ancora visto indosso, un completino giacca pantalone di la­netta a larghe strisce verticali bianche e rosse, forse un po’ leggero per la stagione, ma che d’altro canto ben sposava le di lei opulente forme, in ispecie ai fianchi e al calcagno, lascia­to a mezzo scoperto; tocco finale a questo variegato quadro, un, paio di scarpe nere con tacco a spillo, e niente calze a coprire i piedini rosati, degni modelli di un Rubens, che un Rubens cioè avrebbe potuto benissimo dipingere, se solo lo avesse voluto, o per meglio dire che ancora attendono il loro Rubens, ah perché non sono nato pittore, pittore di quadri! ma chissà che un giorno non mi ci metta… ma no non si tema, non lo farò sfigurare no il genere umano tutto, con l’esibizione della mia maldestria, lo so che non ci sono portato me lo sento lo sento e lo siento, e perciò non mi ci proverò niente paura, perché le idee ci sarebbero quelle sì ma di lì ad avere del talento quella è un’ altra storia, quello o ce l’hai o non ce l’hai e perciò mi accontenterò saggiamente di contemplare il mio piedino stretto nella scarpa di cuoio nero con fibbia d’argento e tacco a spillo con punta d’acciaio, mi accontenterò perciò solamente della pura contemplazione, come prescriveva il buon vecchio Schopenhauer e del resto, quando hai gli occhi per contemplare, cos’altro vuoi di più inoltre, e bando alle ciance rimettiamola al suo posto sì questa perfezione di piedino vicino all’altra che non è da meno, come perfezione, di piedino, ohi ahi ma che calma, ahi ma che lusso, ahi che voluttà, ah che oasi di pace questo calmo rifugio questo lussuoso nido quest’alcova voluttuosa che è il regno della mia Tatiana! (Certo, mi è costato un occhio della testa, ma quale gioia della vista, per quello che m’è rimasto!)

E fu così che all’ammirazione e contemplazione del piedino del sottoscritto, all’ammirazione e contemplazione cioè del sot­toscritto del piedino, o come dir meglio fu così che all’ammira­zione e contemplazione da parte del sottoscritto del piedino, no: fu così che all’ammirazione e contemplazione del piedino da parte del sottoscritto, oh, fecero seguito, infine! succedettero gioio­se agapi, allietate da una languida musica baiadera, diffusa nel­l’ambiente da un apposito impianto stereofonico a fedeltà davve­ro altissima, fornito dal sottoscritto a suon di assegni a otto cifre, come del resto tutti gli accessori e le varie suppellettili del nostro nido  d’amore e, al termine delle suddette agapi, per chiudere quest’ora di incontro conviviale, venne firmato il libro d’oro, o per meglio dire venne staccato e deposto sulla consolle un congruo e pingue assegnuccio, ahi quanto mi costi mia bella baiadera, ahi che sufrimiento del corazón tirar fuori all’aperto ed esporre alle correnti d’aria quel povero carnet ma che soddi­sfazione, anche, e per essere giusti bisogna dire che si ha quel che si dà, come regola generale e, poi, non c ‘ è che dire, non appena io sento la parola “amore”, io estraggo la mia credit card, seguendo in ciò una vocazione umanista perpetrata di generazione in generazione, e più particolarmente di padre in figlio e in questo caso il figlio sarei io sì.

Eh sì, e quanto all’amore, la mia Tatiana sapeva davvero come farsi voler bene. E ne fu ben ripagata: la sua vita accanto a me è stata infatti sempre costellata di gioielli, animali da compagnia e doni vari. Tra i molti regali che le ho fatto, quel li che ricordo con più tenerezza sono due dolcissimi gatti siamesi, chiamati Johnny 1 e Johnny 2, purtroppo prematuramente scomparsi in tragiche ed oscure circostanze, e uno splendido canarino rosa, Dioniso ; quanto ai gioielli, essi erano per la maggior parte, come detta il buon gusto, piccoli, di fattura delicata e poco appariscenti.

Eh sì, neanche applicando il metodo decimale del Dewey potrei catalogare tutti i doni e le offerte che ho deposto avanti a quel­l’amoroso altare, ma d’altronde, d’atro canto, d’altra parte, ne sono, come ho già detto, stato davvero ripagato, e già, e con gli interessi, sì ah, quale fonte di ispirazione non è stato esso per la mia arte, non è stato per la mia arte esso, non è stato no uno di quegli amori che fanno scoprire in te stesso vocazioni letterarie e ti fanno scrivere poesie, novelle e financo romanzi fiu­me, o che suscitano in te insospettate aspirazioni teatrali, e ti fanno allestire scenari di suicidio, non è stato esattamente ciò ma solo perché altre erano e mie vocazioni e le mie aspirazioni, ben altre, sì, come presto si vedrà su queste stesse pagine. Ma ciononostante conservo a tutt’oggi della Tatiana un indelebile e affettuoso ricordo, sì.

Ma per tornare a quel giorno, fu senza malinconia, malgrado i forti legami che ci avevano unito, che mi accomiatai dalla Tatia­na, difatti già sapevo che l’indomani l’avrei riveduta e non c’era quindi da fare tante smancerie, che la smettesse dunque di ag­grapparmisi alle ginocchia e la piantasse con i suoi pianti da coefora e lamentatrice professionale, basta, sciocche lamentanze sono queste e femminili, dai che domani torno, non piangere più adesso Tatiana, non piangere più Tatiana adesso, basta ho detto oppure ti faccio vedere, ah lo vedi che ti calmi se ti prendo dal verso giusto e adesso ciao, e che cazzo!

Oh, ma cosa faccio loro io alle donne, ché non vogliono mai la­sciarmi andar! E con tutto il lavoro che mi aspetta! Ma sì, amore e lavoro quelli li avevo non chiedevo altro no, e perciò era ora di passare al secondo, al lavoro, cioè!

Per prima cosa, punto uno: calzolaio. E lì tutto andò come pre­visto: consegnato scontrino, pronte scarpe, aperto sacchetto, ve­rificate suole, solette, linguette e tacchi, perfetti, un lavoro proprio di fino, davanti al quale papà non avrà davvero niente da ridire, almeno spero, liquidato calzolaio, missione compiuta.

Punto due: tipografo. E anche lì tutto sarebbe andato bene, se questa commissione non fosse stata turbata da un funesto episo­dio. Difatti, dopo aver discusso in tutta serenità con il brav’uomo le postille e appendici varie da apporre all’ Opera Omnia, ebbi la malaugurata idea di congedarmi lanciandogli, mentre ero già sulla porta, un “e lei, come va, tutto bene?””

“Sì, beh, veramente, ho appena perso mia moglie, proprio avant’ieri, è stato un attacco improvviso e fulminante, in pieno sonno, così, pace all’anima sua, non s’è accorta di niente, se ne è andata così la mia Amalia che m’ ha lasciato solo, erano quarant’anni che eravamo sposati, sa”.

E già alla memoria gli si inumidivano gli occhi, oh no, già lo vedevo, questo mi si metteva a piangere davanti non so se ren­do l’idea, no, per fortuna s’è trattenuto, anche perché prontamente io gli dissi: “sia forte, su, non si lasci abbattere , su, su con la vita, le rimane sempre il suo lavoro, pensi piuttosto a quello e al suo impegno morale e civile nei confronti dei suoi clienti, che hanno bisogno di lei, che non possono fare a meno di lei, coraggio, suvvia, coraggio” gli dissi.

“Sì, grazie, grazie”, balbettò il pover’uomo.

“Ma le pare, per carità, si figuri, se possono farle un po’ di bene alcune semplici parole consolatrici, non vedo perché dovrei dispensarmi dal pronunciarle, ma ora devo andare che vado di fretta, vedrà che la prossima volta già mi starà meglio, vedrà, mi prenda delle vitamine, mi mangi carne rossa con una bella insalata vicino, non mi disdegni un bicchierino di moscato di tanto in tanto, se le viene la voglia, e vedrà che in poche settimane mi tornerà come nuovo, su, pensi che nella vita non c’è solo il matrimonio e poi, figli ne avrà, no?”

“No”.

“Ah… Beh, in ogni modo, si tiri su, eh, non sia pessimista” e colpeggiandolo sulle spalle infossate dal dolore presi congedo dal povero tipografo e dal suo caso pietoso, e me ne andai per i fatti miei, ma ero davvero intristito (non paia eccessiva questa mia tristezza; quell’uomo era davvero un brav’uomo; e poi, fin da quando ero bambino, sono sempre stato troppo sensibile, sì).

Ma veniamo al punto tre: scappatina al Sodalizio. Dovevo infatti incontrare colà qualcuno, un tipo, un elemento, un affi­liato, insomma una pedina essenziale del mio piano accuratamente ordito, ah se papà mi avesse visto, egli che di nulla sospetta­va, egli che ignaro della Grande Impresa nella quale il suo pu­pillo si era imbarcato si cullava ancora nelle rimembranze delle sue passate glorie, cosa avrebbe detto, eh? se mi avesse visto in quel momento con gli occhi del pensiero, se mi avesse con gli occhi del pensiero visto in quel momento, se con gli occhi del pensiero mi avesse in quel momento visto, mentre mi intrattenevo con il mio uomo, nei gabinetti della sede del potente Sodalizio Portatori Organi Artificiali, mentre mi intrattenevo con Alber­to X, il mio uomo presso lo S.P.O.A., cosa avrebbe detto, eh? il mio Grand’Uomo, che si faceva beffe di me, che mi trattava da lavativo e da buono a nulla, che cosa avrebbe detto, eh? ma un bel giorno l’avrebbe visto, ma per l’intanto se non a lui, all’igna­ro visitatore che si fosse trovato ad avventurarsi nei gabinetti dello S.P.O.A. si sarebbe offerta la vista inconsueta di due uo­mini maturi che confabulavano dietro il separé di marmo rosa fatto venire espressamente da Carrara in convoglio eccezionale, grazie a certe conoscenze del Presidente, il quale ci teneva a che la Sede Centrale fosse decorata con quanto di più moderno e ricercato il mercato offrisse, e che si era perciò rivolto nel campo specifico dell’Arredamento Sanitari Architettura Interni a un’a­zienda leader nel settore, la quale azienda risultò poi essere intestata al marito della figlia cadetta, del Presidente, la quale figlia deteneva anche la maggioranza azionaria della Marmi Rosa e Affini S.p.A., principale fornitrice dell’azienda leader di cui sopra, come è logico, nonché della ditta a cui era stato affidato il restauro del palazzetto settecentesco, di puro stile baroc­chetto, opera dell’esimio per quanto non eccelso Guarinucci (1689-1788), che si vide , il palazzetto dico, nonché forse anche il Guarinucci lì dall’alto dei cieli, si vide la leggiadra facciata rivestita da cima a fondo di marmo rosa di Carrara, fornito per l’appunto dalla Marmi Rosa e Affini S.p.A. di cui sopra, ma non stiamo qui a sottilizzare, né saltiamo di punto in bianco o come suol dirsi di palo in frasca, torniamo piuttosto nelle riti­rate marmoree del palazzetto del povero Guarinucci, e vediamo che cosa combinano questi due dietro il separé, che cosa trafficano, che cosa cincischiano, ah no, non creda il gentile lettore che io agiti così avanti a lui lo spettro dell’omofilia, no, ci mancherebbe altro, quello che si fa lì dietro io e il segretario dello S.P.O.A. è pura cospirazione politica, altroché.

Altroché, altroché, altroché perdersi in ciance, qui si lavo­ra! Si lavora e si prepara qualcosa che valga davvero la pena, qualcosa per cui valga la pena vivere e morire, qualcosa che ha nome: futuro.

Ecco, mi asciugo l’angolo dell’occhio, perché ogni volta che sento la parola futuro io tiro fuori il mio fazzoletto, anche se sono io che la dico, poi rimetto nel taschino il fazzoletto e dico quello che facevo nei bagni dello S.P.O.A. insieme con il suo Segretario, e quello che facevo con il suo Segretario era trasmettergli le mie istruzioni, istruzio­ni concernenti data e ora di un certo avvenimento che è il cuore stesso del racconto che qui sto facendo, perché è ora che la ve­rità sia detta, anche se questo significa mettere a nudo se stes­si, in riguardo tanto alla vita pubblica, quanto alla propria vi­ta privata, che d’ altronde oggigiorno sono così intimamente lega­te e indiscernibili l’una dall’altra, sì.

Fatto dunque quello che avevo da fare – e anche questa era fat­ta – presso la sede dello S.P.O.A., e fattolo, quello che avevo da fare, grazie alla minuziosa organizzazione curata da me stes­so e dai miei fidi collaboratori, e consapevole finalmente del fatto che la macchina era ormai inesorabilmente messa in moto, e non era più questione che di oliarne scrupolosamente gli in­granaggi, non tralasciando neanche un dettaglio della trama ordi­ta con pazienza certosina e geometrica precisione, fu a cuor leggero che mi presentai al ”’briefing” pomeridiano con papà.

Ed ecco ciò che accadde quel pomeriggio, nella residenza pater­na. Antonio, dopo avermi sbarazzato del cappello all’aviatora e del sacchetto con le scarpe badwürttemburghesi, mi introdusse, come di consueto, nella biblioteca: Egli sedeva alla scrivania, intento a riordinare alcune carte. Alzò il capo quando mi udì entrare e parlò.

E il padre disse al figlio: “Accomodati pure sul seggiolino”. Il figlio disse al padre: “Non avresti qualcosa di un po’ più como­do su cui poggiare i miei lombi affaticati da una prolungata sta­zione eretta?” Il padre disse: “Sei il solito lavativo. Quando è che ti deciderai a prendere esempio da tuo padre, non lo sai che da sessant’anni dormo sulla mia brandina da campo di tela grezza e mi vedi, diritto e svelto come un tenentino di prima nomina!” Il figlio disse: “Con il tuo permesso, babbo, sono vent’anni che ogni giorno facciamo questa discussione. Ma non fa niente, ecco, mi accomodo sul seggiolino ai tuoi piedi, ecco qui il tuo scriba fe­dele, cosa detta oggi Sua Signoria?”

E presa carta e penna mi accinsi alla stesura scritta di ciò che il Generale via via prendeva a contare, e già il Generale par­lava parlava, e io scrivevo scrivevo di buona lena e i fogli scritti si ammontavano sul pavimento al lato dello sgabellino finché: “trenta!” annunciai a papà. Allora egli smise di parlare e inter­ruppi io anche di scrivere. E mentre a capo chino radunavo i fo­gli di carta e rimettevo il calamaio al suo posto presi il co­raggio a due mani e dissi: “Babbo, ti debbo parlare”.

“Dimmi, figliolo” disse il babbo.

“Avrei bisogno di denaro. Ho perso al gioco” (non era vero, anzi avevo vinto, ma mi occorreva sempre più contante per finanzia­re le mie mene ardite, pagare i differenti fornitori ad esempio, e collaboratori e informatori di ogni sorta).

“Ah, di nuovo la boccetta, ma quando la finirai con quest’ar­te, eh? E quanto ti occorre?” (Si, del mio papà si può dire tut­to, ma non che sia taccagno, questo no non lo si può proprio dire, e difatti mentre mi parlava già tirava fuori il portafoglio).

“Cinque milioni”.

“Cinque milioni? Ecco, tieni, e adesso non farti più vedere. Non avrò bisogno di te fino a domani. Ti attenderò alla solita ora. Ora vai”, disse solennemente, indicandomi la porta con il suo indice inanellato di rubino. Mi ritirai discretamente e a reculòn, senza dargli la schiena cioè, come mi aveva insegnato la Gretel, l’istitutrice di Sils-Maria sul conto della quale ce ne sarebbero delle belle, da raccontare. Più tardi, sì.

Era l’ora dell’aperitivo. Come di consueto un taxi, chiama­to dall’inappuntabile Antonio , mi attendeva fuori del cancello.

“Alla stazione, presto” dissi all’autista. In realtà non andavo alla stazione no, andavo bensì alla sede della potentissima Società di Mutuo Soccorso dei Portatori di Protesi Dentarie, che dalla stazione distava un cinque-seicento metri, ma desideravo sfuggire a occhi indiscreti, e in particolare agli occhi di qualche accolito di mio padre (da tempo sospettavo che egli mi facesse segretamente spiare).

La sala riunioni della S.M.S.P.P.D. era giù piena e non si at­tendeva altri che me. Dopo i brindisi di rito – si festeggiava di­fatti quel dì il ventesimo genetliaco della Società e al tempo stesso il suo milionesimo aderente – presi brevemente la parola, a nome mio personale e in rappresentanza del mio genitore che una subitanea indisposizione eccetera eccetera, per ricordare l’im­portanza del fattore associativo nella vita moderna, e di conseguenza l’importanza di associazioni categoriali quali quella alla presenza dei cui membri avevo l’onore di trovarmi, e quindi l’im­portanza della presente riunione, giuliva e conviviale sì, ma an­che occasione, oltre che di incontro. fra cittadini aventi analo­ghi interessi particolari, di raccoglimento e di riflessione. Su cosa difatti eravamo chiamati a raccoglierci e a riflettere in questa pur gaia circostanza? Eravamo chiamati a raccoglierci e a riflettere, in questa pur gaia circostanza, ad una nozione di spe­ranza e di futuro (e lì più d’uno dei presenti – oltre che me stesso -tirò fuori non uno ma due fazzoletti e ci fu anche chi levò alta la fiammella del suo “briquet” in segno di partecipazione), speranza e futuro cui dovevamo tutti credere, perché, perché, perché e a qual fine comprendere l’avvenire e il progresso così come si comprenderebbe un teorema algebrico? Potevano essere ridotti, l’Avvenire, il Progresso, a meri teoremi algebrici? No, risposi io a nome di tutti, perché noi vogliamo credere, dobbiamo credere, perché tutti noi abbiamo bisogno di credere, perché – e su questo concludevo – l’illusione è forse l’unica realtà della vita.

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E la seconda parte