Ritratto dell’artista da figliuol prodigo (2004)

01.
Espatriato permanente, eterno ritornante, l’artista è colui che ha lasciato una comunità d’origine, rimanendo sul luogo o cambiando di paese.
La comunità è stata lasciata, per seguire una ricerca estetica radicale o un bisogno di allontanamento fisico, quando è stato evidente come una collettività alla ricerca di soluzioni ai problemi concreti spingesse ai margini la creatività individuale. Relegata al ruolo di attività da tempo libero, l’esercizio della creatività prendeva il marchio dell’adolescenza prolungata, assumeva la colpa di chi apparentemente dispone di tutto il proprio tempo. La partenza, l’isolamento, le difficoltà materiali, parevano quindi l’espiazione necessaria. Più che di una scelta, si è trattato del riconoscimento di una condizione. La materia abbastanza impalpabile che si riconosce generalmente come “arte” ha fornito un polo alternativo, un parapetto abbordabile al bisogno immediato di cambiamento. Proprio nel momento di “mettere la testa a posto” ce n’è uno che volta le spalle e prende un cammino solitario. Più tardi c’è stato il bisogno di trasformare la defezione in forma. Questo esperimento può riuscire o meno; questo è uno dei pochi campi in cui non ci sono mezze misure e occorre andare a vedere per saperlo.

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Nel rigettare la sua origine l’artista ha dunque trovato una nuova posizione. Ma come può accadere che, nata da un’infedeltà a un percorso generazionale, questa divenga una posizione di rappresentanza della comunità?
Senza più testimoni compiacenti né compagni di strada, l’artista giunto a età matura ha bisogno di platea, e la sua platea ideale sarà sempre quella da cui non ha potuto essere seguito. L’artista ha bisogno di sapere cosa è diventato: tornerà sempre alla comunità di origine, per rispecchiarsi in lei, carpirne di nuovo l’affetto e poterla di nuovo abbandonare. In questo movimento di ripresa e di abbandono, di va e di vieni, di traduzione fra il passato personale e il presente pubblico, di trasmissione di un’esperienza nell’altra, è – indipendentemente dalla riuscita creativa e dal riconoscimento sociale – il senso storico della sua figura. Egli viene da un gruppo sociale che, consacratosi all’impegno politico negli anni dell’adolescenza e della formazione universitaria, ne è uscito senza attitudini particolari – salvo una certa capacità di critica e di interpretazione delle cose – pur rimanendo marcato da un senso vago di “dover” essere qualcosa, da un desiderio di “fare la cosa giusta”. Poi c’è stata la vita che si è vissuta; e colui che ha scelto la vita d’artista, la vita difficile, appare a posteriori come il più fedele a quello spirito del “non potere non” essere qualcosa. E’ come se egli – come un figliuol prodigo – non avesse più avuto biografia. In ogni modo la sua biografia è celata dietro le opere che mostra. A volte egli pare la mascotte di questa comunità desueta che fugacemente si rispecchia in lui. Egli ha raccolto qualcosa che è stato dimenticato dagli altri lungo la strada.

03.
Nella ripresa e nel sollevamento delle cose posate e accantonate sta il ruolo, se ce n’è uno, del creatore. Allo stesso tempo egli è colui che prende sulla proprie spalle una parte sacrificata dagli altri e colui che cede agli altri il peso della propria sussistenza (diventando il loro bambino). Ecco perché l’artista è in ogni modo l’artista del villaggio, della classe, della famiglia. Egli è un artefice che produce immagini, memoria ed esperienza estetica per lo stesso ambiente che fronteggia come un eterno espatriato. La comunità che egli rappresenta non è quella dei propri simili, dei propri colleghi creatori (scrittori, compositori, attori), ma quella – svanita e potenziale allo stesso tempo – di coloro che nel corso degli anni hanno fornito il materiale della sua opera. Memorie latenti, discorsi interrotti, forme appena abbozzate, conflitti sedimentati sono la materia di cui fa modello. Ma, più che un facitore, egli è un attore, poiché mette le cose in movimento e poiché la sua attività è inconcepibile al di fuori dello scambio. Tale scambio non è solo quello fra le sue opere e il denaro altrui, ma è quello degli incontri che danno vita a una forma. Dice Nietzsche: “ogni artista non dispone solamente della propria intelligenza, ma anche di quella dei suoi amici”.

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Dalle osservazioni – pur generiche – che precedono si può inferire quanto sia posticcia l’immagine del pittore o dello scultore solitario e sofferente nel suo studio, e quanto siano attardati gli artisti plastici che ancora vedono se stessi come produttori di immagini compiute, finite in sé, che vengono apposte al muro o appese nello spazio ad attendere il fruitore annunciato. Questa immagine modernista deve quantomeno accompagnarsi a una serie di attività collaterali e disperse. Così come una volta le conversazioni fra artisti giravano intorno ai soliti temi lamentosi, come fare a pagare l’affitto dello studio, come fare a far venire il critico o il gallerista, ora si parla di come trovare una buona borsa su Internet e di come confezionare il dossier per il ministero. E’ cambiato il soggetto dei discorsi, non la loro natura, che è quella di evitare la questione agghiacciante e paurosa: la qualità del proprio lavoro, la riuscita o il fallimento di quella rottura originaria, il ricorrente ritorno della domanda: “ma ne valeva la pena?
Il creatore diventa ubiquo. Raccoglie storie e tratta forme lì dove viaggia, che sia a Hong Kong o alla biblioteca municipale. Adatta e trasforma gli spazi in cui si trova. Affida allo scritto e all’Internet la rappresentanza di se stesso e della rappresentanza stessa fa arte. L’uso del computer ha ridimensionato il problema dello spazio; il volume dello studio non ha tanto più importanza come luogo privilegiato di produzione, quanto come luogo di deposito o di raccoglimento. Per poter sopravvivere, pare obbligatorio trasformarsi in “airport artist”, in concepitore di immagini e istruzioni spedite per via informatica a tecnici che le realizzeranno all’altro capo del mondo. L’artista non vive più nell’attesa del visitatore, diventa visitatore, torna e riappare come visitante.
Diventando ubiquo, diviene anche intercambiabile. La conoscenza istantanea di ciò che si fa intorno, l’omogeneizzazione dell’insegnamento artistico e l’accettazione di tutte le pratiche possibili fanno sì che non si possa più dire da dov’è che viene un certo autore, fanno sì che la sua madrelingua o la sua nazionalità non siano più elementi da tenere in conto. Si prenda un qualunque catalogo di fiera d’arte internazionale, si coprano i nomi sotto le opere e si provi a riempire gli spazi vuoti a fianco delle diciture Nato a… Il… Vive a… Si indovineranno frequentemente gli anni di nascita, raramente i luoghi.

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Senza più origine, l’artista non è più originale. Sarà forse globale, ma non è più locale.
Occorrerebbe offrirgli parcelle di origine e frammenti di esperienza, tappe di percorso e punti di ristoro intellettuali, perché si “de-internazionalizzi” e “de-specializzi” un poco… Offrirgli la possibilità di posarsi, per un tempo determinato, in un luogo che non cerca né di essere “professionale” né di somigliare a una scatola bianca, ma piuttosto a un trespolo in più su cui posarsi prima di ripartire.
Considerare l’artista come un figliuol prodigo (e non come un enfant prodige), che si accoglie senza nulla domandargli, che si riceve come se lo si riconoscesse, non significa restituirgli un radicamento impossibile quanto una comunità temporanea e una platea benevola da sedurre e da abbandonare (o davanti alla quale “mettersi alla gogna”).
Si dispone di uno spazio, di materiale, di cognizioni tecniche, di forza lavoro: la questione non è tanto “invitare” ad approfittarne, provando così un atteggiamento di omaggio o di condiscendenza verso il “povero” artista che abbisogna di strutture per poter creare e di fondi per poter sopravvivere. Non gli si chiede di esibire il curriculum vitae. Lo si accoglie come se stesse tornando a casa dopo una lunga assenza e riprendesse semplicemente il suo posto fra i familiari. Dare familiarità, se non si può dare origine. Porsi come fornitori e scambiatori d’intelligenza, secondo la formula di Nietzsche sopraccitata.
Proporsi come prestatori di manodopera e trasportatori, perché l’attività artistica non è “ozio creativo” ma sforzo con o senza retribuzione. Lasciarsi usare.

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Evidentemente, l’artista che qui si ritrae sono io.
Il tema da svolgere, secondo quanto richiestomi dal maestro Donnini, era la possibilità di una “residenza d’artista” a Roma. Spero di avere illustrato il senso possibile di una residenza per gli artisti espatriati di passaggio a casa. E’ il senso che la mia esperienza mi induce a riconoscergli.

Salvatore Puglia
Inverno 2004

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