Digressioni della resistenza (2000)

I
In questo momento sono all’avanguardia.
Le lettere che dovevo scrivere sono state scritte, le faccende di casa sono state spicciate, non ho più che da concentrarmi sul mio soggetto, ho un solo obiettivo e quello è avanti a me, debbo arrivare alla fine dell’articolo sulla resistenza che mi è stato richiesto per la manifestazione di Copenhagen.
Il terreno è sgombro, libero alla vista, davanti a me c’è solo il paesaggio aperto. Sono l’avanguardia di me stesso.
Sono seguito, a pochi centimetri di distanza, forse venti, dalla retroguardia di me stesso; solo lo spessore della carne separa ciò che di me è in posizione avanzata e ciò che, semplicemente, segue. Ma questi pochi decimetri fanno una grande differenza.
Ricordo come, nei racconti di guerra che leggevo da adolescente, essere colpiti alle spalle era il più grande disonore: significava che si stava fuggendo di fronte al nemico. Allo stesso modo, la fucilazione alla schiena era la condanna del traditore. E il partigiano, nella retorica dei fascisti e dei loro collaboratori, veniva rappresentato nell’atto di colpire al buio e alla schiena.
Ma le opposte retoriche della collaborazione e della resistenza1, così come quelle dell’avanguardia e della retroguardia, paiono oggi svuotate del loro essenziale significato, precisamente perché non sono più visibili i segni di un’opposizione frontale. E’ precisamente lo spazio fra rectus e versus, il taglio del foglio, la sua terza dimensione, che sembra oggi smisuratamente allargato. Resta, tuttavia, visibile solo concettualmente.
Se quello di resistenza pare un concetto pressoché impraticabile è perché si vive in una dispersione e frammentazione dei ruoli sociali; si mette mano tutti, nelle società dell’occidente, a una stessa materia; si impasta una stessa pasta. Come vuoi resistere a chi ti paga? Come un artista può resistere a chi gli dà da vivere?
Ma, senza paragonare le società del benessere all’occupante nazista (ciò che fa, a proposito del progresso tecnologico, Paul Virilio)2, non si può non notare come lo spazio fra collaborazione e resistenza è allo stesso tempo concettualmente enorme e fisicamente esiguo, come una sottilissima linea che passiamo e ripassiamo dieci volte il dì.
La ragione di questo è nell’idea stessa di resistenza. La resistenza – e qui l’esempio dell’ultima guerra mondiale, se estremo, è anche eloquente – si muove per definizione nello stesso terreno del suo avversario, condivide lo stesso spazio fisico, le stesse armi (le armi “prese al nemico”) simboliche e, parzialmente, gli stessi apparati concettuali. “Ogni resistenza è ambigua, lo dice il nome stesso”3; essa implica un coinvolgimento in un sistema imposto, una comprensione della mentalità dell’avversario, una costante sequenza di compromessi, una guerra di guerriglia in cui non ci sono attacchi e difese frontali ma corte avanzate e brevi ritirate, aggiramenti, spostamenti, deviazioni.
In questo senso la resistenza sembra essere un’attività di disturbo, simile a quella di una retroguardia che agisse nelle retrovie e rallentasse l’avanzata dell’esercito nemico. In questo après-coup è il senso della retroguardia: nell’agire secondo osservazione e riflessione, nell’agire in reazione a uno stimolo o un attacco (o un’eccitazione, come il reiz freudiano). E’ qui dove la retroguardia sembra tanto più interessante dell’avanguardia; essere all’avanguardia è ai nostri occhi essere nella pura creazione, avanzare su un terreno vergine, esplorare i nuovi terreni formali. Ma oggi la tecnologia sarà sempre più avanti di ogni avanguardia artistica; correrle dietro non ha molto senso. Gli inventori dei programmi informatici sono oggi l’avanguardia artistica; e gli artisti che quei programmi usano sono tutt’al più una para-avanguardia. E’ forse più interessante prendere e perdere tempo, attardarsi, fuori e contro tutte le mode, sull’ “appena passato”, far dire all’appena passato tutto quello che ancora può.
In questo atteggiamento di attenzione e riflessione è tutto il senso del “porsi alla retroguardia”. A questo atteggiamento corrisponde, mi pare, la predilezione per i momenti della storia che si situano appena prima, o appena dopo, l’evento: la stasi nel tempo che introduce alla consapevolezza che niente più sarà come prima, ma in cui c’è ancora un prolungamento dell’altro tempo.

II
Rallentamento e ritardamento dell’azione nemica sono i compiti comuni a retroguardia e resistenza4. Se vogliamo vedere l’artista come resistente, dobbiamo definire il suo nemico. Una volta l’artista era il cliente di un nobiluomo o di una confraternita; poi è stato un imprenditore in un mondo di imprenditori; oggi è un compilatore di dossier, indirizzati alle istituzioni. E’ l’istituzione il nemico dell’artista? Non si può dimenticare che gli artisti sono qui per disturbare5; perciò la relazione fra artista e istituzione non può essere basata che sul malinteso; costante malinteso e reciproco uso: non c’è alternativa a questo tipo di rapporto.
L’istituzione ha bisogno del suo contrario: l’istituzione, nel suo costante lavorio di auto-legittimazione, ha bisogno di gente che disturba6; ha bisogno soprattutto di selezionare e proteggere la fascia più creativa di coloro che disturbano, la fascia di coloro che disturbano con mezzi “estetici” e non caotici o privi di scopo. In questo senso l’arte è una forma di ricomposizione; non a caso esiste l’arte-terapia, così come i graffiti e il rap sono comunque preferibili ai negozi sfondati, e trovano quindi larghe forme di circolazione e sostegno sia istituzionali che commerciali.7
Ma, a vedere le cose da un altro punto di vista, come sciogliere questa contraddizione del fare resistenza a ciò da cui si dipende materialmente: i ministeri della cultura, le fondazioni, le accademie, i collezionisti, le gallerie, i musei?
La maggioranza degli artisti la risolve nel seguente modo: competere in uno spazio e in condizioni che sono date, ciò che significa: farsi guerra l’un l’altro. Perché no? Perché non farsi, anche, guerra l’un l’altro; perché non farsi contatti, e crearsi reti, e partecipare a gruppi e a volte a clientele. Ma lo sbaglio, penso, è quello di mancare di autonomia, è quello di spostare i propri pezzi in una scacchiera che è già disegnata, senza tentare di ridisegnarla.
La sola forma di resistenza che posso immaginare oggi è quella di aprire nuovi spazi di discorso e di relazione all’interno dei luoghi tradizionali. Perché, così come l’utopia politica, anche la resistenza non ha più i suoi luoghi propri.

III
Ripenso alla mia personale esperienza dell’“eterotopia”. E` stato intorno ai primi mesi del 1977, in Italia: Era finita l’epoca dei gruppi politici “istituzionali”, con le loro strutture piramidali di “simpatizzanti”, “candidati”, “militanti”, etc. e il loro continuo contarsi per vedere chi si ingrandiva e chi si rimpiccioliva; e non era ancora il momento in cui i gruppi dell’Autonomia avrebbero sequestrato e violentato un movimento di massa che ancora esisteva e che stava cercando nuove forme di presenza8. Già allora, nell’inverno fra il 1976 e il 1977, c’erano coloro che facevano irruzione nei negozi chic per “espropriare” proletariamente non pane ma salmone affumicato, dimostrando così tutta la loro subordinazione ai cliché del lusso borghese; ma, allo stesso tempo, c’era un enorme desiderio di essere presenti a nuove forme di socialità e di occupare uno spazio nuovo, un desiderio che era quasi privo di oggetto.
A quel tempo si scendeva in piazza perché il biglietto del cinema fosse meno caro; a pensarci ora era una rivendicazione ridicola, e ridicolo pensare di occupare piazze e strade intere, a migliaia e migliaia, solo per pagare qualche centinaio di lire in meno la visione di un film di Hollywood, in un cinema appartenente a qualche multinazionale, nella quasi completa assenza di spazi alternativi. Ma lo spazio alternativo, in quei giorni, erano le piazze e le strade stesse: si decideva di un appuntamento a una riunione fra poche persone, ci si andava qualche giorno dopo e ci si trovava in mezzo a un folla, si iniziava a camminare e c’erano diecimila persone dietro di te, che chiacchieravano fra di loro e ogni tanto gridavano slogan quali “Andreotti vacce te a pagar duemila e tre”, Andreotti essendo il Presidente del Consiglio, credo, e il biglietto del cinema non costando duemila e trecento ma forse tremila, che però non faceva rima. Si faceva il giro dei cinema della capitale, un piccolo gruppo entrava, mentre i diecimila aspettavano fuori, faceva interrompere lo spettacolo e accendere le luci in sala, uno del gruppo saliva sulla scena e improvvisava un breve comizio sul fatto che il prezzo del biglietto era troppo caro, poi usciva e si ripartiva verso un altro cinema.
Tutto questo non aveva strettamente alcun senso. O, piuttosto, il senso di tutto questo era: I) costituire una comunità del tutto immaginaria, utopica se si vuole, priva di una propria sede e di un proprio spazio, costretta ad appropriarsi solo momentaneamente di spazi pubblici destinati ad altro scopo, le piazze, le strade, le sale cinematografiche; II) attraverso un obiettivo pretestuoso (nessuno era veramente interessato ad assistere, nemmeno gratis, alla proiezione di un film comico italiano o di una commedia americana) e obliquo, mostrare l’esistenza di un potere e la resistenza a questo potere, nelle forme che non sono necessariamente quelle del confronto in fabbrica fra operai e padroni, ma che possono anche essere quelle della rivendicazione di un semplice piacere, di un semplice diritto di scelta che viene sottratto.
Lo scopo di questo movimento di breve durata (se un movimento può avere uno scopo) non era implicitamente quello di cambiare le regole della società, né quello di esprimere un mero diritto individuale. Era quello di rivendicare come pubblici i luoghi dell’intrattenimento, di sottrarre l’intrattenimento alla sfera privata e confondere i limiti fra il piacere privato e il diritto pubblico. Rivendicare un diritto allo spettacolo senza veramente curarsi dello spettacolo era una maniera di allargare i limiti stessi del politico, mostrando l’esistenza di forze che, nell’evitare di essere etichettate come organiche controparti “politiche”, eludevano anche la politica come espressione di professionalismo e serietà. In una tale situazione, non occupi le strade “in quanto” artista o studente o lavoratore, non stai a rappresentare te stesso, se non nella parte di te stesso che, in un particolare luogo e in un particolare momento, rappresenta un particolare diritto collettivo.
Ecco perché, più che al non-luogo, posso ora credere alla creazione di luoghi necessariamente temporanei e provvisori, di scambio di incontro e di esposizione, sia interni che esterni alle istituzioni. A condizione che, per definizione, siano aperti. Ma non aperti in maniera indifferenziata. Mi trovavo una volta in un palazzo occupato, al centro di Roma, e arrivò uno che nessuno conosceva; disse che veniva da lontano e cercava da dormire, chiedeva ospitalità. “D’accordo, ma prima conosciamoci”, gli disse quello che stava alla porta.
Era quella una nuova forma di spazio pubblico? Forse sì, e proprio per la sua condizione di luogo temporaneo. Difatti quelle case occupate erano beni immobili, che appartenevano a qualcuno, e difatti prima o poi la polizia veniva a sgomberarli (così come oggi, in Italia, i Centri sociali). Uno spazio che sia pubblico e alternativo allo stesso tempo non può essere che temporaneo. E’ nel suo carattere di “possibile”, da un lato, e “passato”, dall’altro, che trova il suo senso; recipiente di una comunità immaginaria, e ricettacolo di una comunità che sarebbe stata possibile; di una comunità che non esiste se non nella tensione verso di essa, e nella nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere, ma che non è stata e non può essere. E solo il carattere provvisorio di tali spazi può permettere loro di sfuggire all’auto-marginalizzazione che è l’inevitabile condizione di tanti luoghi di “eterotopia”.
Designare altrimenti i luoghi dati, ribattezzarli, facendo intravedere gli altri usi ipotetici di un luogo, praticare un dirottamento dei segni, confondere il proprio gesto artistico con i segni sparsi della comunicazione urbana, diluire, dissipare, spargere il gesto, lasciare in giro segni che possono o non possono essere notati, che possono o non possono essere “artistici”9, sottrarsi ai luoghi consacrati della comunicazione e dell’esposizione; queste mi paiono forme possibili di resistenza. Ma su ciò tornerò più in là.
La rinuncia alla costanza dell’atto artistico, al volere sempre e comunque essere creatori, mi pare un’altra forma di resistenza. Penso a una situazione estrema: due pittori che vivevano nella stessa città occupata, in tempi di guerra; uno, Picasso, non smette per un giorno di dipingere; l’altro, Bram van Velde, che sopravvive grazie alle mense popolari, non tocca il pennello per cinque anni. Interrogato sul perché della sua inattività, non trova da rispondere altro che, in certe situazioni, non ci si può mettere a lavorare10.

IV
Torniamo alla resistenza. Mi pare, dopo questa digressione, che possa essere definita come un movimento di reazione, risposta e ritorsione, che si sviluppa nello stesso spazio fisico di ciò che contesta e che partecipa, in forme diverse, allo spazio linguistico del proprio avversario; allo stesso tempo crea, all’interno di quegli spazi e di quella lingua, i propri luoghi e i propri segni. Più che un non-luogo, crea un luogo sovrapposto e intersecato, una retrovia o un maquis, che ha una scala e forme di diffusione diverse da quelle dominanti. Penso a tutti i supporti grafici, più o meno ingegnosi, più o meno improvvisati inventati dalla Resistenza: i documenti falsi, i manifestini, i giornali ciclostilati, le scritte murali11, che possono essere paragonati alle fanzine, alle poesie stampate in proprio, ai giornalini scolastici o di caserma, alle riviste fotocopiate dell’era pre-Internet (sarebbe interessante seguire in una mostra una storicizzazione di queste forme di comunicazione, dalle calaveras messicane alle “musiche sulle ossa” russe12).
A vedere retrospettivamente, si vede come il “privately printed” era tutto tranne la mera espressione di una sfera privata; esso presupponeva, perché legato a materiali e a tecniche manuali, una serie di intermediazioni personali che l’Internet esclude, e si motivava in una diffusione “di mano in mano”; ma c’era, in questa limitazione di scala dello stampato a conto d’autore, l’idea di una circolazione allo stesso tempo casuale e orientata; un volantino o un giornale, che passavano di mano in mano potevano essere letti da due o da cento persone. Chi oggi lancia il suo sito sul web parla a tutti e a nessuno, parla, in fin dei conti, a sé stesso. Questo tipo di comunicazione è spesso privo di un oggetto che non sia la comunicazione stessa; è quindi una comunità illusoria. Le distanze non sono abolite dall’Internet, perché niente può sostituire la presenza fisica, il contatto e il tatto (con questo non voglio misconoscere il ruolo che Internet e telefoni cellulari hanno avuto nell’organizzare la resistenza all’ascesa al potere del partito di Haider, in Austria).
Se l’Internet appare, oggi, come lo spazio comune per eccellenza, è perché è quello in cui si muovono resistenti, dominanti e collaboratori, e dove i ruoli sono più facilmente e rapidamente interscambiabili. Esso ci mostra l’impossibilità di contrapposizioni frontali, così come l’impraticabilità delle formule ideologiche, delle scorciatoie hegeliane; in questo senso il nostro fine secolo non può essere paragonato al rapporto fra resistenti e occupanti che era quello dell’ultima guerra. Forse si può dire che oggi c’è una parte di occupante in ogni resistente, e viceversa; ciò non toglie che si è piuttosto resistenti o piuttosto occupanti. Forse si può dire che la resistenza più efficace è quella che sta in un costante movimento fra l’interno e l’esterno del potere, fra l’interno e l’esterno dell’istituzione.

V
Non si possono perdere di vista le infinite variazioni e intersezioni del potere, anche nelle situazioni di più estrema oppressione. A leggere il libro di Robert Antelme sulla deportazione13, si è indotti a seguire le molteplici variazioni di segni che differenziano progressivamente il corpo dei prigionieri, differenziandoli da un capo all’altro nella relazione con chi ha su di loro potere di vita e di morte. Questa differenziazione è allo stesso tempo strumento del dominio e affermazione di singolarità che sfuggono al dominio, ma che certo articolano altri piani di potere e di contropotere.14
In questa differenziazione interna al corpo dei prigionieri si creavano nuovi occupanti e nuovi resistenti; nella moltiplicazione dei livelli di potere si creava un caos che era perlopiù un’ulteriore forma di dominio, cui i resistenti opponevano una lotta per la legalità. Legalità in una tale situazione significa: stesse opportunità di vita e di morte per tutti.
Il potere è qualcosa che ha variabili e diversi livelli di intensità; anche il colore del potere è soggetto a variabilità; la padronanza della lingua, ad esempio, è un potere il cui colore è variabile. A più riprese Antelme analizza, nel suo unico libro, il ruolo nodale della traduzione15. Il potere del traduttore può essere, in tali situazioni estreme che citiamo per il loro valore paradigmatico, quello di alimentare il caos o quello di ristabilire una legalità. Legalità significa, in questo caso, mero diritto di circolazione e di comunicazione. La legalità, vista sotto questo angolo, si situa in un dirottamento della legge; chi lotta per essa non sente, sente male, “fa il sordo”, coltiva il malinteso nella trasmissione verticale del dominio. Il potere del traduttore è quello di allargare o di ridurre gli spazi della sopravvivenza, quando traduce “a modo suo”.
In una realtà infinitamente meno oppressiva, come quella delle società occidentali, si può dire che il nostro potere di traduzione è quello di una riappropriazione della lingua ufficiale, e di un suo dirottamento che consiste nel designare altrimenti i luoghi dello scambio sociale. La resistenza è, anche, un designare altrimenti: un edificio scolastico dismesso diventa “casa occupata”; un bollettino ciclostilato è un “giornale”, una collezione di francobolli un “museo”, eccetera.
La resistenza è, in questo senso, semplicemente la rivendicazione di un’altra sfera pubblica i cui confini non coincidono con quelli fissati dalla legge.
Prima dell’ultima guerra, quando non la si intendeva come una proprietà fisica dei materiali, per resistenza si intendeva solo “resistenza all’autorità”, punita in virtù dell’articolo 337 del codice penale italiano (“nella r. il privato insorge contro la volontà dell’autorità”) e assimilata al delitto di “violenza pubblica” (art. 336; il privato impone la propria volontà su quella dei rappresentanti dell’ordine). Chi commetteva tale delitto poteva essere solo un “privato” che, nell’opporsi ai rappresentanti del “pubblico”, esce dai confini della legge e della sfera pubblica.
Con l’ultima guerra mondiale e l’opposizione all’occupazione nazista in Europa (e al dominio nazionalsocialista in Germania) si è avuto allo stesso tempo un allargamento e un traviamento del termine di resistenza. Coloro che resistevano opponevano un diverso concetto di legalità e un diverso concetto di rappresentanza del “pubblico”. Perciò i fascisti dovettero trovare un nuovo attributo che li escludesse simbolicamente: i partigiani non potevano essere definiti, sulla stampa e alla radio, altrimenti che come “banditi” (etimologicamente: proscritti, esiliati, fuorilegge).
Queste fluttuazioni di significato delle parole sono esemplari: nella seconda metà del XIX secolo un resistente era per definizione qualcuno che si opponeva al progresso; nella seconda metà del XX secolo uno stato nazionale quale la Repubblica italiana trova la sua legittimità nella Resistenza come valore costituente.16
E` per questo che nessuno oggi rifiuterebbe di definirsi “resistente”. Forse la cosa più difficile è definire a cosa, di volta in volta e in modi diversi, intendiamo resistere.

Primavera 2000

ps: aggiungero’ le note di piè di pagina non appena possibile;

Traduzioni trasparenti (1999-2000)

I

Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati,1 Primo Levi racconta di un incidente di traduzione, capitatogli in occasione della pubblicazione in tedesco di Se questo è un uomo.2
In un dialogo fra Gounan, un ebreo francese di origine polacca, e l’ungherese Kraus, il primo si rivolge al secondo con un’espressione che pare strana e inaccettabile al traduttore tedesco: “Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?”. Primo Levi, che aveva trascritto la frase così come gli pareva di averla udita, accettò, dopo una prolungata discussione epistolare, la versione proposta dal traduttore: “Langsam, du blöder Heini …“, Heini essendo il diminutivo di Heinrich.
Fu solamente una ventina di anni dopo che, leggendo un’opera sullo jiddish, Levi scoprì che si trattava difatti di una tipica forma di quella lingua: “Khamoyer du eyner!”, “Asino tu uno!”. “La memoria meccanica aveva funzionato correttamente”, commenta lo scrittore.
Nel 1959 la Fischer Bücherei aveva acquistato i diritti per la traduzione tedesca del suo libro su Auschwitz (che, apparso nel 1947, aveva conosciuto una diffusione confidenziale, prima di essere riedito da Einaudi nel 1958). Levi reagì con un sentimento di trionfo che svelò a lui stesso i “destinatari veri” di Se questo è un uomo. Scritto in italiano e per italiani, quell’opera parlava difatti a “quelli”, contro cui si puntava come un’arma.
“Ora l’arma era carica”, e Levi si apprestava a sorvegliare da presso il lavoro dell’editore e del traduttore tedeschi. Esige un controllo costante dell’iter editoriale, diffida dal modificare una sola parola del testo originale: “volevo controllarne la fedeltà, non solo lessicale ma intima”.3 Solo quando riceve una lunga lettera del traduttore capisce che di lui può fidarsi: disertore dell’esercito nazista, nel settembre 1943 Heinz Riedt (che Levi, curiosamente, non nomina mai) si era unito alle formazioni partigiane italiane e aveva combattuto contro i suoi compatrioti. Stabilitosi a Berlino dopo la guerra, si guadagnava da vivere come traduttore, per amore dell’indipendenza e per la difficoltà a trovare un impiego, in quanto ex disertore; italianista, Riedt era specialista dei dialetti del Veneto, la regione in cui aveva combattuto. Tradurre Se questo è un uomo era per lui un modo di continuare la sua battaglia politica. Non c’era di che sospettarne politicamente; ma c’era ancora il sospetto linguistico.
Il tedesco di Levi, imparato sui manuali di chimica prima e nei campi poi, era una lingua rozza e abbrutita, un “gergo degradato” che era stato un mero, e decisivo, strumento di sopravvivenza (a più riprese egli mostra come debba la vita all’aver intuito a tempo la necessità della traduzione quando, nei primi giorni ad Auschwitz, barattò pane in cambio di lezioni di lingua); Riedt, d’altro canto, “uomo di lettere e di raffinata educazione”, ignorava le peculiarità linguistiche del tedesco da campo di concentramento, che solo in parte derivava da quello da caserma.
Come si è visto, l’estraneità linguistica si ripercuoteva, oltre che fra le lingue straniere, all’interno stesso della lingua, fra le sue varianti: il traduttore, oltre che ignorante della versione concentrazionaria della Lingua Tertii Imperii, lo era anche di un dialetto tedesco quale lo jiddish. Levi, d’altro canto, era e rimase un cattivo conoscitore dell’alto-tedesco.
La collaborazione fra autore e traduttore fu lunga e faticosa: entrambi, per motivi simili e diversi, perfezionisti, spesero mesi in uno scambio epistolare di proposte e controproposte linguistiche.
“Lo schema era generale: io gli indicavo una tesi, quella che mi suggeriva la memoria acustica cui ho accennato a suo luogo; lui mi opponeva l’antitesi, ‘questo non è buon tedesco, i lettori di oggi non lo capirebbero’; io obiettavo che ‘laggiù si diceva proprio così; si arrivava infine alla sintesi, cioè al compromesso. L’esperienza mi ha poi insegnato che traduzione e compromesso sono sinonimi”.4
Questa asserzione mi pare piena di quel buon senso laico che era tipico di Levi e che, probabilmente, gli aveva salvato la vita. Ed è, certo, nella sua schematicità hegeliana, condivisibile, se ci limitiamo a considerare la traduzione come strumento di passaggio, un ponte d’assi fra una forma linguistica e l’altra.
Mi sembra, però, che in un paio di occasioni e forse inconsapevolmente Levi apra, almeno su un lato, questa sua sintesi, e ci porga così una passerella per un sentiero secondario, che vorremmo qui percorrere.
Vorrei richiamare l’attenzione su due passaggi. Il primo è incarnato nella singolarità di questa traduzione: scritto in italiano, il libro si “svolge” in realtà in tedesco; la sua lingua madre, se così si può dire, è il tedesco, ed è il tedesco particolare dei campi; si tratta di un linguaggio che è straniero anche agli intellettuali germanici di cui parla Améry; è solo con estrema reticenza che essi riescono, e non sempre riescono, a pronunciarlo.5
Ma, ugualmente, per Levi il principio di autenticità, di originalità, è decisivo: “In certo modo, non si trattava di una traduzione ma piuttosto di un restauro: la sua [del traduttore] era, o io volevo che fosse, una restitutio in pristinum, una retroversione alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano. Doveva essere, più che un libro, un nastro di magnetofono”6.
Doveva essere, vuol dire Levi, voce, suono, come se la riproduzione sonora dell’esperienza fosse ciò che più vicino potesse essere alla natura dell’esperienza. Levi si considera, certo, un testimone auricolare (si ricordi, nella pagina precedente, l’affermazione sull’esattezza della sua memoria acustica); ma c’è qui di più, quando si dice che si cerca nella traduzione una retroversione, un ritorno all’avvenimento che non può altrimenti essere rappresentato. Un libro è un oggetto cartaceo che arriva al termine di molteplici successive mediazioni, e la cui natura è ormai troppo lontana da quella dell’avvenimento che lo ha originato. Quel libro non doveva essere neanche un film, non doveva essere un montaggio o una sequenza di immagini, doveva essere un nastro di magnetofono. Doveva essere cioè la forma di riproduzione meccanica più fedele possibile. Quando parla della sua propria memoria “meccanica”, Levi la intende senza dubbio come uno strumento non soggettivo, quasi indipendente dalla sua persona e certo più affidabile della sua stessa volontà di testimonianza. La sola maniera di rappresentare l’esperienza sarebbe riprodurla, e ciò è ovviamente impossibile; la registrazione meccanica non è neanche disponibile, e non c’è altra scelta che essere il primo traduttore, nel linguaggio più accessibile, quello scritto, dei suoni registrati dalla memoria.
Di qui si vede come l’esigenza di “tornare” a una lingua in cui egli peraltro non aveva scritto contraddice la semplice idea di traduzione come processo di spostamento di un materiale linguistico, processo che esige tuttavia un “compromesso”. Levi sa bene che non si tratta qui di un mero trasporto, come indica l’accezione italiana della parola “traduzione”, che è quella con cui si descrive il trasferimento di un detenuto da un carcere all’altro, così come “tradotta” è il treno che trasporta le truppe in tempo di guerra.
Il secondo punto del suo testo, su cui vorrei attirare lo sguardo, perché è in contraddizione con l’idea di “retroversione” all’originale, è il passaggio in cui cita la lettera che scrisse al traduttore tedesco, nel maggio 1960, per ringraziarlo del suo lavoro. Levi usa una curiosa espressione: “Capisce, è il solo libro che io abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco….”7. C’è tutto tranne il parallelismo di un mero trasporto linguistico, in questo “trapiantare”. Fa pensare piuttosto a qualcosa di chirurgico, all’innesto di un organo estraneo in un corpo proprio; non si può non pensare a un trapianto senza immaginare un’operazione traumatica e pericolosa, su cui sempre incombe il rischio del rigetto. Certo, questo libro è “un’arma carica”, ed è chiaro come Levi la volesse dirompente per l’animo dei suoi lettori tedeschi, e non in ultimo luogo grazie alla riproduzione esatta di una lingua che diceva Fressen (divorare) invece che Essen (mangiare), Stücke (pezzi) invece che Männern (uomini) o Leiche (cadaveri). Ma trapiantare un testo, per definizione straniero, nel corpo di una lingua, significa sottoporre quella lingua a mutazione, contribuire alla sua trasformazione in un’altra forma. Si è lontani qui, di nuovo, dall’idea della traduzione come compromesso inevitabile. Questo intruso nella casa della lingua ne forza le barriere, per quanto Levi non a ciò si dicesse interessato, ma al mero fatto di “fare udire la mia voce al popolo tedesco”.
L’aspetto sovversivo del trapianto è, inoltre, precisamente nel fatto che, operandosi a partire da necessarie compatibilità, come quella del gruppo sanguigno, introduce un elemento “proprio” dell’umano in cui certe differenze non contano più: non solo quelle di “facies”, ma le più radicali, come quelle di razza o di sesso. Il cuore di una donna africana può funzionare nel corpo di un uomo europeo, una volta che le difese immunitarie di questo siano state abbassate.8
Diciamo, per portare oltre la metafora, che le compatibilità sono i limiti linguistici stessi della traducibilità, che permettono all’estraneità di introdursi e, senza fondersi, “combinarsi” nel corpo che la ospita, mettendone alla prova i limiti e mettendo il corpo stesso in pericolo. Questo è forse ciò che il traduttore di Primo Levi ha realizzato: un’applicazione di quello che Benjamin diceva fosse il compito del traduttore, allargare, cioè, i confini della propria lingua. Quanto al fatto di “restaurare” la lingua in cui le cose erano avvenute, ciò era semplicemente impossibile: il libro di Levi non era una registrazione, ma un’opera d’arte. Poteva essere tradotto solo in un’altra opera d’arte; poteva, in fin dei conti, solamente essere mutato.

II

Die Wahre Übersetzung ist durchscheinend. “La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua”.1

Come può una traduzione essere trasparente?
La lingua scritta è essa stessa, l’abbiamo visto nel caso di Primo Levi, una traduzione. E’ il mezzo attraverso cui esprimere la necessaria testimonianza; è una mediazione, quindi, che è lì a rappresentare l’autenticità dell’esperienza.
Se la trasparenza può essere un attributo della traduzione, è per una comune proprietà di mediazione. La trasparenza, difatti, non rende visibile un oggetto, ne permette però la visibilità. In quanto medium, mette in rapporto o lega insieme due termini. Ma non è sinonimo di fedeltà all’uno dei due, non è riproduzione. Al contrario, è sempre presente nell’idea di trasparenza un concetto di contaminazione, di deformazione o d’inganno. La materia trasparente non si vede, perché si vede attraverso di essa, ma c’è, e l’immagine, o la sensazione, non può non venirne modificata. In informatica, l’espressione “interamente trasparente per l’utente” indica un’operazione che, mentre si svolge, è a questi ignota, non si fa percepire. Ciò che se ne vede è solo l’effetto. Qualcosa che si vede in trasparenza e qualcosa che si può vedere solo “a traverso”.
D’altro canto per trasparenza, soprattutto nelle lingue anglosassoni, si intende la sovrapposizione di elementi diversi, che siano materie, segni, tracciati; questa sovrapposizione dà luogo a intrecci che sono per definizione modifiche di materie, segni e tracciati originari, e molteplicità di elementi che si combinano insieme. La trasparenza, intesa in tal modo, appare dunque in contraddizione con l’idea di visibilità; dalla compresenza di testi disparati, che vengono in certo modo mutilati e ridotti a tracce, emerge una materia nuova, inizialmente oscura alla vista e alla leggibilità. Si può affermare che è in un certo “coprimento” che la trasparenza scopre le sue possibilità. Più precisamente, queste possibilità sono date, più che da una “luce” linguisticamente comune, dalle sovrapposizioni fra i bordi degli elementi dissimili. Lo svanire dei margini nell’intreccio dei testi, l’accavallamento delle forme distinte, è ciò che apre a una nuova forma.
Se c’è una metafora per questo concetto di trasparenza, è quella del missaggio. Il missaggio era, tecnicamente, in musica, l’incisione su un’unica banda di elementi sonori (strumentali, vocali) registrati separatamente, appartenenti a uno stesso brano. Ma con l’hip-hop e, poi, con la musica techno, il missaggio è diventato, in una dilatazione e un rivolgimento di senso, la forma stessa di un brano aperto all’infinito, senza limiti di tempo lineare né di scelta nella campionatura.
Il D.J., che è l’artefice di questo processo, ha una posizione che non coincide con quella di autore: il materiale estetico esiste già, si tratta di combinarlo insieme, di scegliere citazioni, sequenze, tempi, cesure, sovrapposizioni. Molto spesso del D.J. si conosce solo uno pseudonimo, e quasi mai se ne vede il volto; la traccia che del suo lavoro rimane è di solito anonima, priva di copyright. Mi pare che queste siano tutte analogie con la figura del traduttore, e in particolare con quella di un traduttore “trasparente”, colui che, non visto, lascia vedere attraverso di sé.
Poiché trasparente è ciò che si lascia attraversare: una materia traversata dalla luce, che lascia vedere ciò che le sta oltre; un corpo traversato dai raggi X, che svela, in segni tutti da decifrare, ciò che gli sta dentro. Condizione dell’attraversamento è quindi una forma di resistenza; sia nel senso letterale che in quello simbolico, il corpo trasparente è un ostacolo.
Ciò che appare è qualcosa che è dietro, sotto o dentro un corpo (lat. Trans-parere, apparire attraverso), non è certo il corpo stesso, che rimane per definizione nascosto al tipo di vista, o di esperienza, che consente; allo stesso tempo è esperibile, invece, al tipo di vista o di esperienza cui è di ostacolo (la durezza del vetro, l’involucro del corpo umano). Una traduzione trasparente sarebbe quindi una traduzione invisibile, che lascia vedere, e che, invece di proiettare ombra sul suo soggetto, ne apre, nelle combinazioni dei nuovi testi, le letture che, anche nella lingua originaria, erano contenute allo stato latente.
Torniamo alle metafore musicali. L’interprete (parola che in latino indicava il sensale, l’intermediario di bestiame o di beni immobili) è colui che, non possedendo nulla di proprio se non precisamente le sue qualità di interpretazione, dispiega, dipana, svolge, risolve un materiale che gli è stato affidato. Dalla qualità della sua prestazione dipende il fatto che essa “faccia” opera o sia, invece, mera comunicazione.
In un dialogo intorno alla musica techno,2 Jean-Luc Nancy sembra stabilire una differenza di qualità fra un lavoro che sarebbe una mera giustapposizione di elementi musicali diversi, una sorta di collage, capace al più di esprimere l’instabilità, l’invecchiamento di una data forma, e un mixage capace di produrre, a partire da identità sonore eterogenee, una forma nuova. D’altronde egli allarga all’estremo il concetto di mixage, in quanto concepisce la forma come qualcosa di permanente e di mutevole allo stesso tempo: “Ciò può necessitare di molto tempo, così come le diverse lingue latine che sono per noi il francese, lo spagnolo, il rumeno e l’italiano sono scaturite da lunghe operazioni di scomposizione del latino e di ricomposizione per missaggio con altre lingue, in processi che sono durati secoli. Allora appaiono le forme…. Ciò che intendo dire, è che esiste una vera questione della forma, così come c’è una vera questione dell’opera. Non per mero gusto delle forme, non per dire: ‘ci occorre una nuova forma, ma perché, malgrado tutto, la forma, lo si può dire nello stile di un certo Nietzsche, è anche ciò che ci protegge dall’abisso del fondo, dal ‘fondo senza fondo’”.3
Non posso non pensare qui, per riprendere il filo della traduzione, all’ultima pagina del saggio di Benjamin, dove, a proposito delle traduzioni holderliniane da Sofocle, si dice come “in esse il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo”4. E’ a questo stesso proposito che George Steiner parla, ne Le Antigoni, di traduzione come appropriazione e metamorfosi5.
Appropriazione e metamorfosi sono gli attributi del missaggio: si tratta di scegliere brani preesistenti (e qui andrebbe aperta la questione dei criteri di scelta e di campionatura), sottrarli al loro contesto, sovrapporli ad altri brani ridotti ugualmente a frammenti, scomporli in pezzi, ricomporre i pezzi in altri provvisori ordini, mutarne la durata, il volume, la massa sonora. In questa pratica che può essere chiamata di ri-presentazione ciò che si rappresenta è la perdita di originalità e di autonomia di un’opera ridotta a oggetto da manipolare, a simulacro di sé. Si può dire che è proprio nella mancanza di rispetto per l’originale che si pongono le condizioni della metamorfosi. E’ il caso delle traduzioni holderliniane, in cui la comprensione non è la chiave del livello eccelso di trasfigurazione raggiunto dal poeta tedesco. A volte un errore di grammatica, compiuto “forse per ignoranza, forse per trascuratezza o per fretta” conduce a soluzioni linguistiche luminose6. In questo senso la traduzione non è meno metamorfica del missaggio. In una tale ri-presentazione si trova un’altra originalità, un’altra autenticità. Allo stesso modo l’alienazione ripetuta e molteplice di un’opera appare come un ritrovamento, una restituzione o una “retroversione”, per usare la parola di Primo Levi, a un originale precedente l’opera stessa, a una sfera del possibile.
Questo movimento all’indietro, di “ripresa”, è particolarmente evidente nella musica hip-hop, anche in un’altra sua caratteristica, l’anacronismo. Nel momento in cui, alla metà degli anni ottanta, la tecnica digitale ha prodotto i laser-discs, che hanno rapidamente occupato il mercato musicale, rendendo obsoleti i dischi vinilici in quanto strumenti di riproduzione, questi sono stati ripresi come mero materiale sonoro, come materia prima di opere effimere e mutevoli. Dell’incisione su vinile sono stati esaltati appunto i difetti, come la cedevolezza all’impressione della puntina; lo stesso carattere desueto dello strumento, che è tornato a essere un “grammofono”, è diventato una qualità. La tecnica dello scratching, che è certo legata a quella pittorica dei graffiti7, esprime acusticamente, con le sue battute di arresto, gli scricchiolii, i tremolii, i tempi accelerati o rallentati, questo movimento di “contrattempo”.
La trasparenza, intesa come stratificazione e compenetrazione, è il metodo stesso di questa musica grafica. L’italiano “graffio” ne designa, in maniera quasi etimologica, lo strumento espressivo. L’analogia con i graffiti, in particolare con quelli preistorici, è evidente: anche lì i contorni delle figure si sovrapponevano, coesistendo simultaneamente, non nascosti ma intrecciati ad altri, in disegni di dettagli minuti o in linee sommariamente tracciate8.
Ciò che nel missaggio pare inaccessibile, o difficoltoso, alla percezione, è l’identità stessa del materiale originario. La riconoscibilità rimane quella di elementi singoli, emergenti per scelta o per caso dalla nuova forma che li ha adottati.
Questi elementi riconoscibili appaiono, come si dice in gergo fotografico, “scontornati”; sono isolati cioè da quello che avevano intorno e presentati come un nuovo testo. Il loro rapporto con gli elementi contigui è un’estremizzazione estetica dell’appoggiatura: un elemento si appoggia al successivo, occupando una parte della sua durata o del suo spazio. Nella musica classica l’appoggiatura era un abbellimento, in cui una nota era messa in rilievo da quella che la precedeva, a un intervallo di seconda superiore o inferiore. Nella ripresa e manipolazione di questo intervallo si articola il missaggio.
Negli interstizi delle sovrapposizioni fra le note (o fra le proposizioni, o fra le immagini) è la difficoltà di percezione. Qui è tutto l’interesse della trasparenza; esso risiede nel rapporto di questa con il “malvisibile”. Nello sforzo che si richiede ai sensi e nei mancamenti della vista e dell’udito è la chiave di una conoscenza non immediata e non intenzionale. Ciò vale anche per un altro tipo di missaggio, e cioè quello fra diverse strutture linguistiche: la scrittura e l’immagine, ad esempio. “Appoggiandosi” gli uni agli altri, sovrapponendosi pur rimanendo distinti, gli elementi diversi operano la presa di distanza da se stessi e degli altri da se stessi. E’ il caso di ogni forma di testo, che sia descrittivo o meno, appoggiato a un’immagine. Semplicemente, non possono essere letti insieme9.
Una certa inadeguatezza dei sensi, l’impossibilità di cogliere, afferrare, selezionare, accompagna un’opera che va nel senso della complessità piuttosto che in quello della semplificazione. Questa complessità ha la figura di una stratigrafia, le cui componenti non sono discernibili a prima vista. Una ulteriore mediazione della vista, un tempo approfondito dell’ascolto si rendono necessari.
La penetrabilità di una tale opera, che sia visiva, letteraria o musicale richiede un atteggiamento analogo da parte dello spettatore, del lettore, dell’ascoltatore. Non è un fatto di “messa a fuoco” del soggetto, né di schiarimento diffuso della percezione; piuttosto è un fatto di intensità variabile dell’attenzione, di interruzioni e di intervalli della presenza, di distrazioni rivelanti, di ascolti discontinui, di spostamenti dello sguardo, di sguardi sbiechi, indiretti. La trasparenza, abbiamo visto, è ciò che fa che le cose appaiano solo “di traverso”.

III

“E’ questa pena riflessa che intendo porre in rilievo e, per quant’è possibile, rendere evidente in alcuni ritratti. Li chiamerò ‘silhouettes’ sia per subito ricordare con questa denominazione che è dal lato oscuro della vita che li traggo, sia perché, cosiccome delle silhouettes, non sono immediatamente visibili. Se prendo tra le mani una silhouette, non ne ricavo nessuna impressione, non me ne posso fare nessuna vera rappresentazione, e solo quando la alzo verso la parete, e dunque non bado all’immagine immediata ma a quella che sulla parete si mostra, solo allora la vedo”1.

Per seguire quest’immagine, è necessario ricordare come la traduzione letterale del danese Skyggerids sarebbe piuttosto “contorno ombroso” o, meglio, “tracciato d’ombra”. Difatti occorre sapere come le silhouettes di cui è questione qui non erano solo i profili ritagliati sulla carta nera e incollati su un foglio bianco, in voga soprattutto nella seconda metà del settecento. L’immagine, al tempo di Kierkegaard, poteva essere tagliata sul bianco o traforata a giorno sulla carta. Ciò che si guardava era quindi la proiezione, sulla parete o su uno schermo, dei contorni traforati o ritagliati. Si leggeva, cioè, l’ombra. Era la creazione dell’ombra tramite la luce che, in una sorta di skia-graphia, permetteva una visione altrimenti impossibile, se fosse rimasta “immediata”.
Ma seguiremo in un’altra circostanza il percorso di queste ombre. Invece ci attarderemo su un’altra accezione della trasparenza cui ci introduce il testo di Kierkegaard.
“Se guardo un foglio di carta, all’osservazione immediate esso può forse risultare di nessun interesse, ma solo tenendolo alzato alla luce del giorno e penetrandolo con lo sguardo, insomma, guardandolo in trasparenza, ne scopro la sottile immagine interiore, che, per così dire, è troppo psichica per esser vista immediatamente”2.
Tutta la metafora di Kierkegaard è legata al rapporto fra il dubbio e la pena riflessa, che non si lascia rappresentare, perché è, oltre che rivolta all’interno, costantemente in divenire e in disaccordo con se stessa. “Solo un osservatore attento ne presente la scomparsa”; la pena riflessa, cioè, si lascia percepire solo nel momento e nel movimento della sua scomparsa.
“… così il pescatore se ne sta a dirigere il suo sguardo fisso sul fiume, ma non è il fiume che gli interessa, quanto i movimenti sul fondo. L’esterno ha perciò importanza per noi, certo, ma non come espressione dell’interno, quanto come un’informazione telegrafica del fatto che giù in fondo si nasconde qualcosa. Quando si studia a lungo e attentamente un volto, può capitare di scoprirne per così dire un altro entro a quello che si vede”3.
Ciò che può capitare di scoprire è, più che una verità oggettuale più vera di quella immediata, l’inquietante riflesso di un’immagine interiore all’osservatore stesso. Allo stesso modo ciò che si rivela al traduttore sono le nuove forme della propria lingua.
Torniamo al termine Skyggerids. Incidere, tracciare con l’ombra. Il verbo ridse è il to scratch inglese, che mantiene tutte le valenze del greco graphein. E il significato originario di questo verbo era quello di un attrezzo comune a diverse espressioni linguistiche: “Durante I secoli che definiamo come “oscuri”, cioè, grossomodo, dal XII° all’VIII° prima della nostra era, la Grecia che –per tutto questo periodo, lo sapete- ignora la scrittura, non conosce neanche, a propria mente dire, un arsenale di immagini, e tanto meno mette in opera un sistema di rappresentazione figurativa. La stessa parola, graphein, occorre notare, viene usata per la scrittura, il disegno e la pittura”.4
A questa citazione vorrei appoggiarne una ripresa da Rudolf Pannowitz, nel saggio benjaminiano: “L’errore fondamentale del traduttore è di attenersi allo stadio contingente della propria lingua invece di lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera. Egli deve, specie quando traduce da una lingua molto remota, risalire agli ultimi elementi della lingua stessa, dove parola, immagine e suono si confondono”5.
Se ci si accosta a questa accezione, in qualche modo “primitiva”, di graphein, non si può non pensare come la questione della traduzione da una lingua scritta a un’altra passa, come su un ponte, per quella della traduzione fra diverse forme di percezione e di esperienza acustica, iconica, grafica, tutte legate al contesto biografico e autobiografico del traduttore. Su queste egli deve innestare gli elementi intrusivi che gli si presentano, trasformandoli e trasformando con quelli la propria lingua.
“Accogliere lo straniero, significa anche subire la sua intrusione. Raramente lo si vuole ammettere: il soggetto dell’intruso è di per se stesso un’intrusione nella nostra correzione morale (è anche un esempio notevole del politicamente corretto). E tuttavia è indissociabile dalla verità dello straniero”6.
Un’opera in cui una verità dell’estraneità rimanga preservata può solamente essere un missaggio, poiché lì solamente si opera una trasformazione che va al di là della semplice testimonianza di diversità. Farò l’esempio di una forma antica di missaggio, il centone, che spesso si è considerato come una produzione artistica di second’ordine. Si trattava di un testo composto mettendo insieme versi e frasi appartenenti a testi altrui; estratti dal loro corpo originario, quelli erano snaturati nel momento stesso in cui venivano messi in valore.
Il centone (dal latino cento – centonis, abito fatto di pezze di diversa origine; patchwork, diremmo oggi) è un componimento letterario tipico dei tempi considerati di decadenza, dei tempi cioè in cui si è consumata una rottura della tradizione, e valori prima considerati evidenti hanno perso di significato. Era frequente nel tardo impero romano, benché si conoscano centoni omerici o virgiliani del secondo secolo dopo Cristo.
Ma anche nell’arte figurativa che oggi, da profani, chiameremmo “classica”, si usava questa tecnica. L’arco di Costantino a Roma ne è un esempio significativo. Tutto il monumento è un vero e proprio riciclaggio di elementi architettonici (cornici, capitelli, colonne), ma anche di rilievi e di sculture – detti dagli archeologi spoglie – provenienti da monumenti più antichi. Per gli studiosi è oggi difficile ricostruire, ammesso che ciò abbia senso, cosa è di epoca costantiniana e cosa è invece del tempo di Adriano o di Traiano. In certi rilievi le teste degli imperatori del II secolo sono state scalpellate e rimpiazzate con altrettanti ritratti di Costantino; che ciò fosse stato fatto per motivi di ideologia o di economia non è chiaro, ma ciò che interessa qui è il processo di spiazzamento e spostamento di un’iconografia, che di quella cambia il significato. Il fraintendimento, intenzionale o meno, pare dunque essere il cuore di questo procedimento.
Il fraintendimento pare inevitabile anche a causa del metodo stesso di costruzione di un’opera con i frammenti ricavati da opere preesistenti. Il metodo è quello della saggiatura, del prelievo, della giustapposizione. Esso si esprime, nella sua presa di libertà nei confronti del suo soggetto, indipendentemente dalla tradizione e contro la tradizione. Esso non copre con un velo di contemporaneità il materiale originario, così come farebbe un procedimento di estetizzazione. La saggiatura, il carotaggio, l’estrazione dell’elemento singolo preludono alla creazione di un’opera nuova. Questa non può passare che per un cambiamento di significato della precedente. Si tratta di un esercizio di violenza. Violenza dell’estrazione, violenza del trapianto. Così come nel missaggio musicale, nel centone la citazione è allo stesso tempo trasformazione del citato.
Il centone è una traduzione e allo stesso tempo non lo è. O, se lo è, è solo nella mancanza di rispetto, che è anche compassione, per il suo soggetto. Nello svelare le fattezze del soggetto, le traveste; nel ridurre la statua a troncone ne rivela le immagini latenti; nell’appoggiare l’una all’altra le forme diverse le riapre al regno delle possibilità.

PS: questo testo presenta 23 note a piè di pagina, che copiero’/incollero’ non appena avro’ imparato come fare.

Per un’arte della storia (1999)

Il rapporto fra l’arte e la storia può essere visto da diversi punti di vista. Dirò qui, molto concisamente, almeno tre dei modi in cui l’artista può guardare alla storia.
1. Come presenza, persistenza e continuità del passato, al cui capo estremo ci si trova. Di lì un’arte di citazione e di rappresentanza.
2. Come contesto, ambiente temporalmente definito nel quale si vive e si opera. Di lì l’arte politica, o impegnata che sia.
3. Come eredità riconosciuta, oggetto di riflessione e di ri-presentazione. Questo dà l’arte di storia.
Tutti questi modi necessariamente si intersecano e nell’operare si fondono, ma io ne isolerei piuttosto uno, che trovo più interessante e fecondo: l’ultimo, quello che appare come la forma attuale della “pittura di storia” e quello che più degli altri avvicina la pratica artistica a una funzione di interpretazione del mondo, a un “dire il non detto”.
Come punto di partenza, una visione ermeneutica dell’arte ha tutti i suoi limiti, certo, che si situano nella possibilità stessa dell’interpretazione di ciò che abbiamo intorno e dentro di noi. Ma, se ci si è autodefiniti “artisti”, se si è scelta l’arte come forma di vita, è perché ci si è trovati, all’origine, precisamente di fronte alla questione del significato, cui non si è saputo dare altra risposta che questa: né semplicemente registrare, né semplicemente esprimere, ma trasformare quello che è dato. In altre parole, attraversare e lasciarsi alle spalle l’interpretazione, e fare dell’opera d’arte un’opera di traduzione, di “appropriazione metamorfosante”, secondo la definizione che ne dà Georges Steiner.
Una pratica metamorfica del lavoro artistico ha, almeno, l’interesse di non lasciare questo alla pura affermazione di sé; dà forma comunque al tentativo, cui l’etica ci condanna, di ritessere, di ricucire, di rincollare i pezzi, senza posa e senza fine, in trame e in orditi diversi da quelli che, senza avervi ambito, abbiamo ereditato e di cui portiamo testimonianza. E questo senza la pretesa di poter ri-creare qualcosa, ma solo con quella di dire ciò che resta, che equivale a dire ciò che è perduto.
Un tale lavoro di appropriazione e di traduzione può, e anche deve, rimanere oscuro e anche inconsapevole nel suo farsi, essendo necessaria, al trascendere dell’oggetto scelto, una certa perdita di memoria da parte di colui che quell’oggetto ha scelto.

Un’arte che si interessa all’eredità storica non è, necessariamente, un’arte della memoria né, tanto meno, un’arte politica. Se ha qualità di arte, è politica. Quanto è facile celare l’insufficienza estetica dietro l’appello alla memoria come valore in sé positivo e comunque consolatorio, dietro la petizione di principio e la buona volontà riparatrice; mentre rimane  intera, e decisiva, la questione della qualità del lavoro artistico, che sola giustifica la ripresa e la trasformazione delle immagini-storia, e restituisce all’artista una posizione di artefice. Altrimenti, il kitsch, che non trasforma ma solamente sposta, è dietro l’angolo.

Se è arte, non è storiografia. Non è lì per dire: “guardate, vi dico come è andata”. Non è neanche lì per dire che “avrebbe potuto andare in un altro modo” o per dare insegnamenti su come potrebbe andare. Per fortuna, anche fra gli storici si pensa ora diversamente. Che, allora, l’arte abbia una funzione di trasmissione di una verità più vera di quella che riuscirebbero ad avere le altre discipline? Non è neanche questo. Forse, però,  più di altri un’arte della storia può dire il possibile, e questo proprio grazie alla sua vocazione “parassitaria”, di cui vogliamo rendere conto in questo piccolo volume.
Parassitaria, un’arte della storia lo è: essa dipende direttamente dal suo documento. La fonte storica viene vista generalmente in due modi: o come mera e veritiera testimonianza, o come un testo “suggestivo”, “evocativo”. Si cerca qui un altro modo di trattarlo, che metta al centro la sua eventuale trasformazione: essa può avvenire solo attraverso un processo allo stesso tempo interpretativo e metamorfico.

La storia venga dunque sottoposta all’arte, a condizione che si traccino – ed è per questo che il nostro discorso ruota intorno alla posizione del documento – le frontiere  rispettive: da un lato le scorie, le spoglie, i reperti; dall’altro l’attenzione, la scelta, la metamorfosi.
Ed è primaria la questione dell’inclusione e dell’esclusione, la questione della scelta, quando si tratta, come qui si tratta, della ripresa di un materiale dato. Si torna, infatti, al primo interrogativo di questa raccolta: cosa è che viene designato come documento, perché viene scelto e attraverso quali percorsi diviene materia di una possibile opera?  Nella scelta, nella ripresa, c’è evidentemente la riduzione del possibile a un disegno formato da tutte le condizioni di una soggettività e di un’epoca data. Ma, in taluni casi, scelta e ripresa spaziano proprio nel campo delle infinite possibilità.
Inverno 1998-1999

Tradurre o imitare (1990)

  1. Traduzioni

Nel 1835, all’età di cinquantadue anni, il console francese a Civitavecchia decise di dedicarsi alla ricostruzione scritta della  sua vita, per combattere, come dichiarava, l’ozio e la noia in cui era immerso e per “darsi il piacere di guardare indietro un istante”. Questo scavo nella memoria, così minuzioso che nei tre grossi volumi che riuscì a  riempire lo Stendhal non arrivò a rievocare che i suoi primi diciassette anni, doveva procurargli un immenso piacere. Questo salta agli occhi quando vedono gli schizzi e le piantine con cui fin dalle prime pagine lo scrittore interrompeva e infarciva il suo manoscritto, rivisitazioni gioiose dei suoi luoghi d’infanzia.
Il libro, che rimase incompiuto, era destinato a essere pubblicato. Non sappiamo se i disegni sarebbero stati compresi nel testo oppure no. Un precedente c’era, ben conosciuto e amato da Stendhal, il Tristram  Shandy del pastore Laurence Sterne, pubblicato settantacinque anni prima. Come si sa la fittizia autobiografia di Shandy scava talmente all’indietro che dell’eroe non si vedrà mai la nascita. Simboli, disegni, schemi grafici sono spar si qui e là a intercalare la narrazione scritta, a testimoniare l’audacia inventiva di Sterne, l’intrusione e l’integrazione nel testo di codici impropri.
A un amatore di pittura potrebbe presentarsi, difronte a questi due libri, una sfida: utilizzare il procedimento anamnesico di Stendhal e Sterne ma invertirne i termini. Usare il mezzo pittorico, la presentazione visiva, agitandolo e stravolgendolo con l’incursione della scrittura. E’ una sfida che si pone immediatamente come un problema di traduzione, e di traduzione intesa come rifiuto di un approccio specialistico.
Praticare una contaminazione delle forme, porsi come traduttore (il traduttore è colui che sposta, è quindi per definizione estraneo all’originalità), significa fare proprio un atteggiamento da amatore. Da un lato è andare contro il primato della tecnica e dell’abilità e contro un certo appiattimento dell’individuo che la specializzazione comporta; dall’altro è scegliere, con la leggerezza, la possibilità continua di scelta che l’amatorialismo (dico amatorialismo e non dilettantismo) permette. C’è poi la considerazione determinante: che resta poco da dire oggi, in arte, è vero, e che, per quanto ognuno possa parlare all’infinito, e rappresentare sè stesso all’infinito, non ha, come dice Fitzgerald, che una o due idee originali e proprie da dire, una o due fissazioni, e passa la vita a dirle meglio che può e in tutti modi che può, ma rimane che sono sempre quelle,una o due. Percio’ non è necessario produrre e produrre, non è necessario. E’ meglio dare piuttosto il tempo all’attesa, caricare l’attesa, di esperienza e di sguardo, per tradurla, se capita, nell’opera.
C’è da aggiungere che essere amatori non è privo di rischio, perché il rischio non è nell’impegno prometeico e totalizzante, ma proprio nel vuoto e nell’attesa. Vuoto e attesa che non significano forzatamente concentrazione o contemplazione. Potrebbero incarnarsi, meglio, in una sorta di attenzione distratta, in un guardare di sbieco.
Non è l’intenzione che è interessante e ancor meno l’esecuzione che a quella segue, l’interessante è la sorpresa; non è l’artista che sorprende l’opera ma, al contrario, è l’opera che sorprende e cambia l’artista nei suoi momenti di negligenza, nella sua parte di cecità che quando c’è arriva come un dono.
Guardare di sbieco, parlare di sbieco. Non nominare, non prendere possesso, ma chiamare la cosa e lasciarla a sé.
C’è da confessare qui tra due capitoli una simulazione: che non si sia vista nessuna pittura di questo secolo, che si sia vergini davanti ai libri e che quindi la traduzione sia a senso unico, dagli scrittori cioè ai pittori.

2. Aurora

I quadri devono essere silenziosi. Ma i silenzi non sono tutti uguali. Il difficile è trovare una buona qualità, un buon tono del silenzio. Il tono del silenzio è importante: è la restituzione di possibilità.
Il silenzio più profondo non è quello del vuoto ma quello del pieno; non è nell’assenza ma nella presenza. Il tempo passato contiene in sé il silenzio più profondo.
Come affondare nel tempo dentro a un quadro: tramite il movimento, che lega spazio e tempo; cercando il movimento, è l’unica cosa che valga la pena ricercare. La difficoltà è trovarlo con i colori, che sono i mezzi dell’amatore in pittura. Il verde e il rosso ad esempio, che malagevolmente vanno bene insieme, la lentezza di un verde e la velocità di un rosso.
Occorrerà affidarsi alla smemoratezza. Il quadro sarà il mare della dimenticanza, da cui riemergeranno i frammenti anamnesici. Visto che l’artista, l’amatore, è un traduttore, o un macinino, o un alambicco, o un crogiolo, i frammenti verranno a galla in modo arbitrario, a caso. Si può solo sperare che una qualche “mano di ferro della necessità scuota il bossolo del caso” (Deleuze).
L’artista sarebbe un nomade, che prende qui e là, confidando di essere strumento di qualcosa. Sarebbe un assemblatore, ma incompleto, perché lavora nel silenzio e il silenzio, visto che siamo in un mondo di umani, non presenta sé stesso ma il non detto, l’omissione sarà sempre lì quindi, e la frustrazione. Certo la felicità non è quella dell’oblio ma quella di poter ricordare tutto, di possedere dunque, siano solo i propri ricordi, ma è raro che  i ricordi dicano: “abbiamo bisogno di te”.
Si tende sempre a una qualche origine, in questo cammino a ritroso, forse quella di quando “sulla terra crescevano in gran numero delle teste senza collo, erravano delle braccia isolate e prive di spalle e vagavano degli occhi cos’ com’erano, che nessuna fronte li arricchiva” (Empedocle).
Tra i diritti che si arroga il nostro artista c’è quello di far convivere a forza sopravvivenze o scarti di campi semantici e di epoche diverse. Come se fosse un povero si interessa ai dettagli e ai rifiuti dello scambio sociale.

3. Muri

Vorrei indicare un percorso tra il mare della smemoratezza e il muro del tempo storico. Più che la scena della memoria, dicevamo, o l’alba del big bang), ciò che interessa è qualcosa che giri intorno all’origine, da qualche parte che non sia più preistoria e non ancora storia, non ancora burocrazia. Sarebbe una breccia in un punto indeterminato del tempo circolare, sul cerchio del tempo (si suppone che il tempo dell’artista sia antimoderno). Si suppone che l’artista mescoli passato e futuro, è lui che opera sotto questo emblema: Strach e touha, paura e desiderio-nostalgia.
La paura, che è il sentimento che domina i momenti più rischiosi e decisivi dell’operare e dello stare, quei momenti in cui dalla distrazione e dalla sventatezza prende corpo la chiara presenza, e in cui una sospensione dell’essere apre il varco all’incontro della coscienza e del rapimento.
Il desiderio-nostalgia, tensione dolente verso qualcosa che non si ha o non si ha più, che in tante lingue si esprime con una stessa parola, come touha in céco; si vagheggia il passato con la stessa  parola con cui si vagheggia il futuro. Tutto è buono tranne il presente. Del resto il sentimento vero e irrimediabile di qualcosa o di qualcuno è quello che si origina con la perdita, quando non c’è più, quando non è più presente. E anche, forse, quando non c’è ancora, e il tesoro è tutto nell’immagine: fare un figlio, cambiare continente, compiendo un gesto non diverso da quello “che sempre ci tenta: prendere un animale in casa, cane, gatto, uccello, tartaruga o criceto, attratti da un impulso profondo, subito da esso distratti” (Ramondino).

4. Corpi

I muri si incidono, i corpi anche.
Coi quadri si lotta corpo a corpo, si danno e si ricevono colpi dolorosi. Come dice Nietzsche, quasi tutti possono sopportare il dolore, dato che si ha poca scelta; arduo è trovare la forza di arrecarli i dolori. Ma si tratta di una restituzione, ché si dipinge o si scrive per pagare i propri debiti e siccome gli artisti sono rancorosi i loro sono risarcimenti avvelenati. Mordono l’opera con dente avvelenato.
Non c’è corpo senz’anima, non c’è niente da fare. L’anima è il segno, probabilmente, e nello stesso tempo porta il peso. Il corpo è il corpo e nel segno si disintegra. Questo è ciò che appare nella tortura etrusca descritta da Aristotele (via Cicerone): “Noi subiamo un supplizio simile a quello patito da coloro che in altri tempi, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, venivano uccisi con una crudeltà ricercata: i corpi vivi di costoro erano legati assieme a dei  morti con la massima precisione, dopo che la parte anteriore di ogni vivo era stata adattata alla parte anteriore di un morto. E come quei vivi erano congiunti con i morti, così le nostre anime sono strettamente legate ai corpi”.
5. Cifre

Poco rimane da dire ma rimane il primato della lingua. I segni, le cifre, ne sono il richiamo, i testimoni. Non si distinguono dal quadro, vi affondano.La pittura sarebbe solo una messa in pagina.
Ma la scrittura in questione, quella di un quadro siffatto, che sia greve di cifre galleggianti sul mare della smemoratezza o incise qui e là sui muri labirintici, dovrebbe imitare quella di un’orchestra. Sarebbe però un’orchestra che non esprime ancora niente di armonico, o solo a  tratti, a caso; sarebbe fermata in quel momento, “falsamente banale, spesso turbante che precede il concerto, e in cui si accorda, cioè si assembla.” (Burger)
Le cifre sono testimoni e non simboli; sono come elementi naturali, bastoncini o pietre, quasi ma non ancora lettere di alfabeto, perché non significano niente; sono dunque bozzoli del linguaggio, che stazionano nell’anticamera della grammatica e della sintassi, e non superano la porta dell’arti colazione. Corteggiano l’utopia della lingua inarticolata e del soffio nel deserto, dicono che “se il mondo ha un futuro, è un futuro ascetico” (Chatwin). In fondo sta l’immagine dell’immobilità geologica, dell’identità con la natura allo stato minerale, sgombro il campo dei residui del desiderio.

Inverno 1990