Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch’io
non potea rivedere ond’io mi ‘ntrassi;
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Ruins in the Forest 02, 2016, 30×40.
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From Castro 02, 2017, 20×30.
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Romitorio 05, 2016, 20×30.
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From Rofalco 02, 2025, 20×30.
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From Rofalco 01, 2025, 20×30.
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Hopi a Poggio Rota 02, 2017, 20×30.
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Rovine nella selva 06, 2023, 30×40.
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Rovine nella selva 09, 2023, 30×40.
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Nella selva antica 08, 2024, 20×30.
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Ruins in the Forest 03, 2016, 30×40.
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Un sito rupestre: ivi si tratta della natura che, già sfruttata dall’uomo per farne opera, riprende i suoi diritti e non lascia l’opera dell’uomo che come traccia. La Tuscia è piena di questi luoghi; è come se non solo civiltà e abbandono si succedessero a ondate secolari, ma l’una fosse la condizione dell’altra. La Tuscia è un posto solitario. E sono le attività dell’uomo solitario che lasciano – o lasciano immaginare – le impronte più inattese.
Se il termine “rupestre” definisce forme d’arte fatta su o con le rocce (le tombe, i santuari, i graffiti, le pitture), può anche essere impiegato per descrivere i manufatti inselvatichiti, quando divengono parte della natura circostante.
Per l’artista, si tratta di re-intervenire sugli elementi naturali che sono stati fatti forma dall’intervento umano e stanno riscrivendo la propria storia. Rupestre è il punto in cui natura e storia s’incrociano: per l’artista non si tratta tanto di lavorare orizzontalmente nello spazio, quanto di avere come materia il tempo, in una pratica di stratificazione che sarebbe come uno scavo archeologico, ma al negativo. Sedimentare dopo aver individuato.
Spesso, negli anni recenti, mi sono trovato a esplorare i luoghi dell’Etruria, così come facevo da adolescente. Tuttavia negli anni recenti non andavo a mani vuote: portavo con me una forma, una specie di foglia d’olivo, o di lingua, fatta di lattice impregnato di pigmenti rossi fluorescenti. Oppure trasportavo una ferula raccolta verso il mare e ridipinta. La posavo al suolo e la fotografavo: la tomba etrusca, divenuta romitorio medievale, divenuto ovile, divenuto rifugio antiaereo, divenuto nascondiglio di amanti furtivi, accoglieva un ultimo segno di passaggio, come il testimone di una corsa a staffetta. Ma, contrariamente a ciò che fa la Land art, il luogo non è stato trasformato: è stato solo “segnato”.
Luoghi della civiltà etrusca, vestigia parzialmente conservate, ove la natura è tornata predominante. Fotografie stampate su supporti trasparenti, che lasciano leggere un passo dantesco oppure decifrare una carta dell’IGM che potrebbe riferirsi a quel luogo, oppure a un altro. I versi danteschi provengono dal Canto XXVIII del Purgatorio: il poeta vi descrive una “selva antica” che non è altro se non il paradiso terrestre, ove una volta l’uomo ha vissuto in stato di grazia, lontano dal peccato e dalla tecnologia.
Dante Alighieri è stato probabilmente l’ultimo visitatore di un giardino dell’Eden. Nessuna foresta, neanche la selva concresciuta fra le formazioni vulcaniche del Lamone può essere oggi chiamata “primordiale”. Anche la conservazione della natura è un fatto artificiale. Nella riserva naturale le tracce della “civiltà” sono visibili ovunque: mura di recinzione crollate, resti di pavimentazione romana, solchi scavati dai carri dei carbonai, cumuli di pietre che furono torri etrusche e, infine, le strisce rosse e bianche della segnaletica escursionistica.
Questa non è certo la natura descritta da Leopardi, la crudele deità che nelle sue manifestazioni distruttive non si preoccupa certo del destino umano (Dialogo della natura e di un islandese, 1824). Questa è una “riserva”, un posto in cui il “primigenio” è solo reminiscenza.