Anabasis. Natura manufatta (2016)

Anabasis. Natura manufatta. Un testo e sei stampe digitali d’arte al formato A5 su carta offset 350 gr.
99 esemplari firmati e numerati.

Anabasis copertina

Spuglia Anabasis 03

Spuglia Anabasis 06

Spuglia PN 01 Vallerosa

Spuglia PN 02 Valentano

Spuglia PN 03 Alès

Spuglia PN 04 Laval-Pradel

 Anabasis
Natura manufatta

 

1. Sull’altopiano.

Di anabasi Rigoni Stern ne ebbe due, una grande e una piccola. La prima fu la ritirata di Russia, nel gennaio 1943; Rigoni era uno dei 60.000 Alpini partiti, su ordine di Mussolini, a occupare l’Unione sovietica, e uno dei 20.000 che ne tornò. La seconda fu la sua fuga solitaria dalla prigionia tedesca, nell’aprile 1945; per una decina di giorni errò nelle foreste di Stiria e Carinzia, nutrendosi di bacche, uova di uccello e lumache, finché non incontrò, su un passo delle Alpi, un avamposto di partigiani italiani.
Mario Rigoni Stern (1921-2008) è uno dei miei padri, con Nuto Revelli (1919-2004) e Vittorio Foa (1910-2008). E fra i miei padri è colui che ha più approfondito la tematica del rapporto dell’uomo con la natura. Il soggetto della foresta, “logo” della natura (la foresta prealpina annichilita dalle bombe austriache e italiane fra il 1915 e il 1918 e poi ricostruita, ad esempio dell’artificiale che si confonde con il naturale) è centrale nella sua opera di scrittore.
Il bosco è per Rigoni “luogo di salvamento” (introduzione a Boschi d’Italia, Roma 1993), mentre la città è divenuta luogo di “solitudine spirituale”, dove “la barbarie si cela fin dentro il cuore degli uomini”. Rigoni riprende qui gli argomenti di Giambattista Vico (Principi di scienza nuova, 1725) ma dà loro un’inflessione più umanista e, alla fine, conciliante. Se l’uomo vuole sopravvivere “insieme con” la natura, deve essere capace di prelevarne la sua parte, senza intaccarne il capitale. Era forse tale ragionamento un modo di giustificare la sua passione di cacciatore d’urogalli?
Lontano tanto da un antagonismo di matrice illuminista quanto da una nostalgia romanticheggiante (sul confronto fra queste due “strade del pensiero” vedi: Robert Pogue Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà, Milano 1995), Rigoni esprime piuttosto un sobrio panteismo umanista: la “buona” foresta non è, secondo lui, quella che cresce spontaneamente e selvaggiamente; è quella che l’uomo, da bravo giardiniere, amministra e cura.
L’altopiano dei Sette Comuni è il luogo delle origini e del ritorno di Rigoni. Nel vagare, da turista, in quelle terre, ho registrato qualche immagine di siti naturali in cui sono visibili, a ben guardare, le tracce della guerra: i camminamenti crollati, i crateri aperti dalle bombe. Ritrovo in queste immagini il soggetto del mio lavoro precedente sul rupestre: si può parlare qui di siti “rupestri”, anche se non è la creatività dell’uomo che ha lasciato le sue impronte, ma la sua ingegneria diabolica?

I lavori che portano il titolo “Anabasis” nascono dalla sovrapposizione di queste fotografie e di immagini d’archivio: gli Alpini in ritirata nella neve di Russia, le postazioni dei fanti e i boschi dell’Altopiano sventrati dopo una battaglia d’artiglieria.

2. Paesaggi nuovi.

Ho intitolato “paesaggi nuovi” questi lavori recenti: gli è che descrivono, non senza un riferimento ironico al paesaggismo romantico, luoghi in cui la frontiera fra naturale e artificiale è quanto mai indistinta e riconoscibile, forse, solo dall’occhio esperto del geologo o del botanico.
Ciò che è certo è che non si sa chi dei due antagonisti, l’uomo o la natura, preceda o segua l’altro, né chi alla fine l’avrà vinta. Salvo che la vittoria dell’uno significherebbe la distruzione di entrambi e sarebbe quindi preferibile se finissero per intendersi.

PN 01 Vallerosa (provincia di Viterbo, Italia).
Una cava di travertino dismessa. Nell’ampio bacino lasciato dagli scavi, dalle pareti bianche verticali, si è creato un microclima ed è ricresciuta una vegetazione lussureggiante e diversa. C’è chi dice che, in primavera, vi si possano catalogare trenta varietà di orchidee selvatiche. Il luogo è davvero tornato alla natura: nello scostare gli arbusti per raggiungerlo può capitare di imbattersi in un grosso cinghiale. A me è capitato, ma non so chi abbia avuto più paura: lui è fuggito da una parte ed io da quella opposta.

PN 02 Valentano (provincia di Viterbo, Italia).
Una cava di pozzolana (il lapillo vulcanico rosso, usato in passato per rivestire i muri di Roma). Dava una buona immagine dell’inferno, e fu usata come scenario per un paio di film medievaleggianti. Dopo l’abbandono delle attività estrattive, i suoi terrazzamenti sono stati ripiantati e gli alberi giovani non nascondono ancora la regolarità dei tagli nella collina. Al sito non si può più accedere, perché nel fondovalle è ricresciuto un sottobosco inestricabile.

PN 03 Alès (Gard, Francia).
Una montagna artificiale, un terril, formatosi con le scorie accumulate in decenni di sfruttamento delle miniere di carbone, alla periferia della città di Alès. Sarebbe forse passata inosservata fra le altre alture, a parte la sua curiosa forma conica, se nel 2004 un incendio di foresta non l’avesse denudata. Trasmesso dalle radici degli abeti ripiantati per nasconderla, l’incendio è arrivato al cuore della collina stessa, che sta ancora bruciando a fuoco lento e inestinguibile.

PN 04 Laval-Pradel (Gard, Francia).
Un grosso sito minerario nelle Cévennes, sfruttato intensamente negli anni ’70-’90 del secolo scorso, e per l’apertura del quale venne deviata su svariati chilometri una strada storica, le chémin de Régordane, che unisce la Loira e la Camargue sulla via di Compostela. Vi si sono formati tre laghi e grandi anfiteatri scavati dai bulldozer, sui quali ora l’Office National des Forêts sta ripiantando alberi. L’accesso all’area è proibito, e vi sono entrato clandestinamente. Il comune di Alès, dopo aver lasciato cadere un progetto più ecologico di “village cévénol”, prevede di farne un parco di divertimenti per “sport meccanici” (quad, cross, jet-ski, paintball); in ognuno dei tre laghi verrebbero immessi e si pescherebbero (sportivamente) specie di pesci differenti.

Dopo la natura artefatta, la natura manufatta.

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In Tuscia, land paintings (English version) 2016

A series of visual interventions in a « historicised » natural setting: a folder comprising a text and six digital prints giclée on offset paper 350 gr., sized 20×15 cm.  A limited edition of 99, numbered and signed.

 

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B-Land-paintings-12-2014OLYMPUS DIGITAL CAMERA

D-Rupestre-00-2012

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F-La-Nova-06-2015

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In Tuscia, land paintings

Rupestrian, 2011-2013
Although the term rupestrian denotes an art form ‘executed on or with rocks’ (e.g. tombs, sanctuaries, cave paintings or inscriptions), it can also refer to the process by which human-made creations fade away and become part of their surroundings.
In this sense, Rupestrian occurs at the meeting point of nature and history. In such instances, it is not only as if civilization and abandonment occurred in successive waves over the centuries; rather one was the pre-condition of the other. A natural site transformed into a “work” through human intervention is, in turn, retrieved by nature, which makes a “work” out of what remains of the initial human intervention. For me it is not so much about working horizontally in space (e.g. Land Art) as engaging vertically with time, which serves as a medium in a process of stratification ― a form of a ‘reverse archaeology’. Several of these works present the silhouette of a wild animal, either sewed on the plastic or transferred on the glass. They are taken from a Portuguese popularization booklet, found in a flea market, and are meant to symbolize the inevitable return of the wilderness (if we take further our Enlightenment drive).

Romitorio, 2011-2016
If you hike in the Fiora valley, in the Latium region just South of Tuscany, and go up and down on banks collapsed after recent floods, and you enter woodlands tangled like jungles, you can reach a couple of romitori, or hermits places, which survived the centuries, thanks to their isolation and to the little interest they have aroused in succeeding generations.
Here is Poggio Conte: past a waterfall that provided drinking water to the monks, you can see the remains of two tiny cells, to which lead arduous steps carved into the tufa, and a Cistercian-inspired rupestrian church. Its interior – in spite of the oculus carved into the facade – is completely dark: if you make photographs, it will be at random, and only the film development will reveal the surviving fragments of the paintings that decorated the vaults. You will discover that this hermit from end of XIII or beginning of XIV Century (perhaps a monk of French origin?) painted the walls with decorative motifs decisively prosaic, reminding more of an interior design than of an exercise of meditation or veneration.
Nature is slowly retaking its rights; mosses and lichens cover lily flowers, red griffins and phallic shapes. Slowly fades away the work of the solitary men who spent years in shaping and covering with colors this dark cavern, being aware that very few people would ever look at them. Over my intrusive flash photos I superimposed, as a weave backlit readable, a sonnet taken from the Canzoniere of Petrarch. It speaks, in beautiful metaphors, of priceless sufferings of love. I transcribed it in a continuum, like a telex.
I don’t know if there is anything in common between this text and these paintings, apart from the fact that both poet and painter belonged to the same half a Century.

Land paintings, 2013-2014
I call these photographic works Land paintings. They are an attempt to respond to a question about my own presence within historical space. I have tried to define this location through the concept of “rupestrian”.
In recent years, whenever I could, I hiked around the Tuscia region, in a sparsely inhabited land full of prehistoric and archaeological sites, with a leaf, or a tongue, made out of latex dipped in red fluorescent pigment, leaving it on the ground, and then shooting it. The Etruscan tombs, which become medieval hermitages, then sheepfolds, then wartime shelters, finally lovers hideouts, are the usual stops of my wanderings.
I decided to entitle this body of work “land paintings” partly as a reference to the notion of “picturesque” so dear to several land artists active in the 1960s and 1970, and in opposition to the modernist vision of a work of art seen as a unique, timeless experience, to be grasped in one single glance. The title is also meant to evoke the idea of stepping on earth, looking for hidden and forgotten places.
In my previous work, the sign placed on the photograph was a means of preventing the fruition of the image in its entirety, of opening up a gap of time within it, by using a fluorescent color that displaced the vision. This intrusive element is now a material one and becomes an artwork as soon as the photograph is taken. This is the reason I don’t usually add other semantic levels to it. Also, in contrast to Land art, I don’t transform the site into which I introduce myself; I just leave a sign.
This sign left on the sites before photographing them constitutes a marker of my “I have been there” but also a way of seizing the baton, in a relay race with the past. I would simply like to recall that, in Italian, the baton is called il testimone, “the witness”.

 

Nella selva antica, 2014
And what do these photographs have to do with the verses Dante penned to describe his entry into the “ancient forest”, at the summit of the Mount of Purgatory, and his encounter with the beautiful and spiritual Matelda, guardian of the Terrestrial Paradise, where flowers bloom without being sown? “Qui fu innocente l’umana radice; qui primavera sempre e ogni frutto…”, Here the root of Humanity was innocent: here is everlasting Spring, and every fruit… (Purgatorio, XXVIII, 142-143) (45-47)
Dante was certainly the last visitor to the Garden of Eden. No forest, not even the ancient forest that covered the volcanic formations of the Tuscia region in central Italy, can be considered primeval forest; even the conservation is an artificial fact. In the Selva del Lamone natural reserve, for instance, everywhere traces of human “civilization” can be found: dilapidated walls, the remains of road pavement, the furrows of the charcoal wagons, the heaps of stones that once constituted Etruscan walls, and today the strips of white and red paint on the network of trails.
This is all but the nature depicted by Leopardi in his Operette morali, a powerful and cruel nature that, in its manifestations, doesn’t even bother to know what happens to mankind (Dialogo della natura e di un islandese, 1824). This is a today European natural “park”, where the primeval is doomed to be just reminiscence: trees, bushes, rocks covered by moss look at my eyes like Romantic Age fake ruins.
My photographs taken in the Selva are reproduced on transparent layers and superimposed on reproductions and personal variations of prehistoric petroglyphs; those in Nevada date to ten thousand years ago and are the oldest discovered on the North American continent. They are the signs of an era when humankind was just beginning to appropriate nature. They are reproduced with red fluorescent acrylic paint, as a gesture of signage, the difference with the petroglyphs being only the technology of the reproduction.

Eden, 2014-2016
Here you find a variation on this same subject; I just emphasize the relation to the theme of ruins into nature. This series means for me an open and unresolved reflection on nature seen as a historical phenomenon.

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In Tuscia, land paintings (français) 2016

Quelques interventions plastiques dans une nature “historicisée” ; une plaquette contenant un texte et six estampes numériques sur papier offset 350 gr., format 15×20. Tirage d’art limité à 99 exemplaires, signés et numérotés.

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Spuglia copertina In Tuscia

B Land paintings 12 2014

spuglia nella selva antica 01

D Rupestre 00 2012

E Eden 04 2014

F La Nova 06 2015

G Romitorio 00 2015

In Tuscia, land paintings

Un site rupestre : il s’agit là de la nature qui, déjà exploitée par l’homme pour en faire œuvre, reprend ses droits et laisse l’œuvre de l’homme seulement à l’état de trace. Le territoire de la Tuscie est plein de ces lieux : c’est comme si, non seulement la civilisation et l’abandon se succédaient par vagues centenaires, mais aussi l’une étant la condition de l’avènement de l’autre. La Tuscie est une terre solitaire. Et ce sont les activités de l’homme solitaire qui laissent – ou laissent imaginer – les empreintes les plus inattendues.
Si le terme « rupestre » définit des formes artistiques exécutées avec – ou sur – des rochers (les tombeaux, les sanctuaires, les ermitages, les graffitis, les peintures), il peut aussi décrire les artéfacts ensauvagés, une fois qu’ils sont devenus un avec la nature qui les entoure.
Pour un artiste, il s’agit de ré-intervenir sur les éléments naturels qui avaient été « informés » par l’intervention humaine et qui sont en train de réécrire leur propre histoire. « Rupestre » est le point où nature et histoire se croisent. Pour un artiste, il ne s’agit pas tant de travailler de manière horizontale dans l’espace, mais plutôt d’adopter le temps même comme une matière, dans une pratique de stratification qui serait comme une archéologie : une archéologie négative. Une fois le sujet identifié, le sédimenter à nouveau.

Land paintings, 2011-2016
Je suis monté au site protohistorique des Sorgenti della Nova, où les hommes se sont succédés au long des millénaires, utilisant les espaces aménagés par ceux qui étaient passés avant eux. A mes yeux profanes restaient visibles les traces d’une vie de simple subsistance : le noir de la suie des foyers sur les voûtes et les trous dans les parois, où l’on encastrait les structures des lits de paille.
Ensuite, je suis allé dans des lieux abandonnés que je laisserais à leur état d’abandon, comme si c’étaient des ruines artificielles d’époque romantique. Pourquoi faudrait-il sauver le passé à tout prix ? (et quel serait le moment du passé à cristalliser?) : Santa Maria di Sala dans la commune de Farnese, Castel d’Asso dans celle de Viterbo, ou Castro dans celle d’Ischia.
J’ai nommé Land paintings les travaux suscités par ces pérégrinations. En citant de manière parodique le Land art américain, on pourrait traduire Land painting par « peinture sur (ou avec) le terrain ». C’est une pratique qui répond à mes questionnements sur la présence de l’artiste dans l’espace historique. J’ai tenté de définir cette position en réemployant le terme « rupestre ».
Souvent, ces dernières années, je me suis trouvé à explorer les lieux de la Tuscie, comme je le faisais, adolescent. Pourtant, récemment, je n’y allais pas les mains vides : j’avais avec moi une sorte de feuille d’olivier, ou de langue, en latex imprégnée de pigments rouge fluorescent. Je la laissais au sol et la photographiais : le tombeau étrusque, devenu, ermitage moyenâgeux, devenu abri anti-aérien, devenu refuge d’amants furtifs, accueillait un dernier signe de passage, comme le témoin d’une course de relais.
Dans mes travaux précédents le signe intrusif correspondait à une volonté d’empêcher la jouissance de l’image dans son entièreté et de briser la saturation qui est propre à chaque photographie. La couleur fluorescente servait à ouvrir une brèche dans l’image et dans son historicité. Mais, en laissant directement une trace dans le lieu et en le photographiant, l’œuvre revient à marquer un moment de présence. Toutefois, le lieu n’est pas transformé : il est juste « signé ».

Romitorio (Hermitage), 2011-2015
Si l’on sillonne la vallée du fleuve Fiora, dans le nord du Latium, à la lisière de la Toscane, et si l’on monte et que l’on descend par des berges effondrées après d’inondations récentes, et si l’on traverse des maquis emmêlés comme des jungles, on peut atteindre des ermitages qui ont survécu aux siècles grâce à leur éloignement des habitations.
A Poggio Conte, une fois franchie la petite cascade qui fournissait autrefois l’eau potable aux moines, on peut discerner les restes de deux minuscules cellules et une chapelle d’inspiration cistercienne creusée, elle aussi, à même la paroi de tuf. Son intérieur – malgré un oculus creusé dans la façade – est entièrement sombre : si l’on prend des photographies au flash au hasard, c’est seulement en les développant que l’on retrouvera les fragments de la peinture, qui couvraient la voûte.
On découvrira que cet ermite du XIIIe ou XIVe siècle (peut-être un artiste qui avait séjourné en France?) a peint les voiles avec des motifs décidément prosaïques, sûrement inspirés de tapisseries ou de carreaux de céramique ; ils font penser à du design d’intérieur plutôt qu’à un exercice de vénération ou de contemplation.
La nature revient petit à petit : les moisissures recouvrent les fleurs de lys, les griffons rouges et des formes vaguement phalliques. Disparait peu à peu le travail de l’homme solitaire qui passa des mois voire des années à couvrir de couleurs cet antre obscur, en sachant qu’il ne serait que rarement admiré.
J’ai superposé à mes images, comme une trame lisible à contrejour, un sonnet extrait du Canzoniere de Pétrarque. Il y est question, en de belles métaphores, d’impayables souffrances d’amour. Il se peut qu’il ait été écrit tandis que le peintre de Poggio Conte peignait. Je l’ai transcrit en continu et sans retour à la ligne, comme un télex.

Nella selva antica, 2014
Le dernier visiteur du jardin d’Eden fut probablement Dante Alighieri. De nos jours aucune forêt, même pas le bois touffu qui a poussé dans les formations volcaniques du Lamone, ne peut être considérée comme « première ». La conservation même de la nature est un fait artificiel. Dans la réserve naturelle Selva de Lamone les traces de la « civilisation » sont partout visibles : les murs d’enceinte écroulés, les restes d’une chaussée romaine, les sillons creusés par les chars des bûcherons, les tas de pierres qui furent des tours étrusques et, finalement, les marques blanches et rouges des chemins de randonnée.
Il ne s’agit sûrement pas de la nature comme elle est décrite par Giacomo Leopardi : la déité cruelle qui, dans ses manifestations destructrices ne se soucie guère de la destinée humaine (Dialogo della natura e di un islandese, 1824). On est dans une « réserve », un endroit où le « primordial » n’est que réminiscence.
Mes images de la Selva sont reproduites sur des supports transparents et sont superposées à des variations de graffitis préhistoriques : ce sont les signes d’une époque où l’humanité commençait à peine à s’affranchir de l’emprise de la nature. La seule différence entre mes dessins et mes modèles c’est la technologie de la reproduction ; pas d’ocre rouge à pleines mains, mais du Pantone 17-1463 TPX dans l’écran.

Eden, 2014-2015
Des lieux de la civilisation étrusque, des ruines conservées partiellement, assujetties à une nature redevenue dominatrice. Des photographies imprimées sur des supports transparents, qui laissent lire un vers de Dante ou bien déchiffrer une carte IGN où pourrait être marqué ce lieu même, ou alors un autre.
Les passages de Dante viennent du dernier Canto du Purgatoire : le poète y décrit une « selva antica », une forêt ancienne, qui n’est autre que le paradis terrestre, là où l’homme, autrefois, a vécu son état de grâce. Je leur ai superposé, comme une caricature, des silhouettes d’animaux sauvages, prises dans les planches de l’Histoire naturelle de Georges-Louis Leclerc, comte de Buffon; je les ai cousues avec un fil rouge, selon une technique de reproduction lente, imprécise et imparfaite.
La vision éclairée de Buffon est celle d’un être humain victorieux de la nature, secondé par ses fidèles mammifères domestiques, le cheval et le chien. Mais nous connaissons aujourd’hui le prix de cette victoire, si l’homme amenait les Lumières à leur extrême conséquence : le retour d’une nature méconnaissable, corrompue et déformée, dans laquelle ne nous survivrait, peut-être, que l’animal infime tant méprisé par Buffon : la mouche à cheval, l’odieux taon.

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In Tuscia, land paintings (2016)

Alcuni interventi artistici in una natura “storicizzata”. Un’edizione a tiratura limitata (99 esemplari firmati e numerati): un testo e sei stampe Fine Art digitali formato 15×20 su carta offset da 350 gr.

 

In Tuscia set

 

Spuglia copertina In Tuscia

 

B Land paintings 12 2014

spuglia nella selva antica 01

D Rupestre 00 2012

E Eden 04 2014

F La Nova 06 2015

G Romitorio 00 2015

 

In Tuscia, land paintings

Un sito rupestre: ivi si tratta della natura che, già sfruttata dall’uomo per farne opera, riprende i suoi diritti e non lascia l’opera dell’uomo che come traccia. La Tuscia è piena di questi luoghi; è come se non solo civiltà e abbandono si succedessero a ondate secolari, ma l’una fosse la condizione dell’altra. La Tuscia è un posto solitario. E sono le attività dell’uomo solitario che lasciano – o lasciano immaginare – le impronte più inattese.
Se il termine “rupestre” definisce forme d’arte fatta su o con le rocce (le tombe, i santuari, i graffiti, le pitture), può anche essere impiegato per descrivere i manufatti inselvatichiti, quando divengono parte della natura circostante.
Per l’artista, si tratta di re-intervenire sugli elementi naturali che sono stati fatti forma dall’intervento umano e stanno riscrivendo la propria storia. Rupestre è il punto in cui natura e storia s’incrociano: per l’artista non si tratta tanto di lavorare orizzontalmente nello spazio, quanto di avere come materia il tempo, in una pratica di stratificazione che sarebbe come uno scavo archeologico, ma al negativo. Sedimentare dopo aver individuato.

Land paintings, 2011-2016
Sono salito all’insediamento protostorico delle Sorgenti della Nova, dove gli uomini si sono succeduti per millenni, utilizzando gli spazi organizzati da coloro che erano passati prima di loro. Rimanevano visibili, ai miei occhi profani, le tracce di una vita ridotta a mera sussistenza: il nerofumo dei focolai sulle volte, i fori nelle pareti di tufo, che servivano a incastrare i tralicci dei giacigli di strame.
Poi sono stato in siti abbandonati e che lascerei al loro abbandono, come fossero rovine artificiali di epoca romantica (perché occorrerebbe salvare il passato a tutti i costi? e quale sarebbe il momento del passato che vorremmo cristallizzare?): Santa Maria di Sala nel comune di Farnese, Castel d’Asso in quello di Viterbo, Castro in quello di Ischia.
Ho chiamato Land paintings i lavori derivati da queste peregrinazioni. In una citazione parodistica della Land art americana, Land painting si potrebbe tradurre come “pittura sul (con il) terreno”. E’ una pratica che risponde agli stessi miei interrogativi sulla presenza dell’artista nello spazio storico. Già ho voluto definire questa posizione riusando il termine “rupestre”.
Spesso, negli anni recenti, mi sono trovato a esplorare i luoghi della Tuscia, così come facevo da adolescente. Tuttavia negli anni recenti non andavo a mani vuote: portavo con me una forma, una specie di foglia d’olivo, o di lingua, fatta di lattice impregnato di pigmenti rossi fluorescenti. La posavo al suolo e la fotografavo: la tomba etrusca, divenuta romitorio medievale, divenuto ovile, divenuto rifugio antiaereo, divenuto nascondiglio di amanti furtivi, accoglieva un ultimo segno di passaggio, come il testimone di una corsa a staffetta.
Nei miei lavori precedenti il segno intrusivo era una maniera di impedire la fruizione dell’immagine nella sua interezza e di infrangere la saturazione propria di ogni fotografia. Il colore fluorescente aveva come la funzione di aprire una breccia nell’immagine e nella sua storicità. Ora, lasciando direttamente sul luogo un segno e fotografandolo, l’opera torna a farsi in quel momento di presenza. Ma contrariamente a ciò che fa la Land art, il luogo non è trasformato: è solo “segnato”.

Romitorio, 2011-2015
Se si percorre la valle del fiume Fiora, nell’alto Lazio, appena a Sud della frontiera con la Toscana, e si sale e scende per ripe franate dopo esondazioni recenti, e ci s’inoltra in macchie boscose aggrovigliate come giungle, si possono raggiungere un paio di romitori, o luoghi per eremiti, che sono sopravvissuti ai secoli, grazie al loro isolamento e al poco interesse che hanno suscitato presso le generazioni successive.
Ecco Poggio Conte: oltrepassata una cascatella che forniva l’acqua potabile ai monaci, si possono vedere i resti di due minuscole celle, cui conducono scalette ardue scavate nel tufo, e una chiesetta rupestre d’ispirazione cistercense. L’interno di questa – nonostante l’oculo scavato nella facciata – è completamente buio: se si scattano fotografie, sarà con il flash e a caso, e solo lo sviluppo svelerà i frammenti superstiti delle pitture che ne decoravano la volta.
Si scoprirà che questo eremita del XIII o XIV secolo (forse un monaco di origine francese?) ha dipinto le vele con motivi decorativi decisamente prosaici, certo ispirati a tappezzerie o a pavimenti, che fanno pensare più a un design d’interni che a un esercizio di venerazione e di contemplazione.
La natura sta pian piano ritornando: le muffe coprono fiori di giglio, grifoni rossi e certe forme falliche. Scompare pian piano il lavoro dell’uomo solitario che passò mesi e anni a scolpire e coprire di colori la volta di un antro scuro, nella consapevolezza che a pochi sarebbe stato dato di ammirarli mai.
Alle mie intrusive foto al flash ho sovrapposto, come una trama leggibile in controluce, un sonetto tratto dal Canzoniere di Francesco Petrarca. Vi si parla, in belle metafore, d’impagabili sofferenze d’amore. Forse fu scritto mentre il pittore di Poggio Conte dipingeva. L’ho riportato senza intervalli né a capo, come un telex.

Nella selva antica, 2014
Probabilmente l’ultimo visitatore di un giardino dell’Eden è stato Dante Alighieri. Nessuna foresta, neanche la selva concresciuta fra le formazioni vulcaniche del Lamone può essere oggi chiamata “primordiale”. Anche la conservazione della natura è un fatto artificiale. Nella riserva naturale Selva del Lamone le tracce della “civiltà” sono visibili ovunque: mura di recinzione crollate, resti di pavimentazione romana, solchi scavati dai carri dei carbonai, cumuli di pietre che furono torri etrusche e, infine, le strisce rosse e bianche della segnaletica escursionistica.
Questa non è certo la natura descritta da Leopardi, la crudele deità che nelle sue manifestazioni distruttive non si preoccupa certo del destino umano (Dialogo della natura e di un islandese, 1824). Questa è una “riserva”, un posto in cui il “primigenio” è solo reminiscenza.
Le mie foto della Selva sono riprodotte su supporti trasparenti e sovrapposte a variazioni personali di graffiti preistorici: sono i segni di un’era in cui l’umanità iniziava appena ad affrancarsi dal mondo naturale. L’unica differenza con quei disegni è la tecnologia della riproduzione: non ocra rossa a piene mani ma Pantone 17-1463 TPX sullo schermo.

Eden, 2014-2015
Luoghi della civiltà etrusca, rovine parzialmente conservate, ove la natura è tornata predominante. Fotografie stampate su supporti trasparenti, che lasciano leggere un passo dantesco oppure decifrare una carta dell’IGM che potrebbe riferirsi a quel luogo, oppure a un altro.
I versi di Dante vengono dall’ultimo canto del Purgatorio: il poeta vi descrive una “selva antica” che non è altro se non il paradiso terrestre, ove una volta l’uomo ha vissuto in stato di grazia. Come una parodia, vi ho sovrapposto delle silhouette di animali selvatici, riprese dalle tavole dell’Histoire naturelle di Georges-Louis Leclerc de Buffon; le ho cucite con il filo rosso, in una tecnica di riproduzione lenta, imprecisa e imperfetta.
La visione illuministica di Buffon è quella dell’uomo vittorioso sulla natura, assecondato dai suoi fedeli mammiferi domestici, il cavallo, il cane. Ora sappiamo che il prezzo di questa vittoria, se l’uomo portasse l’Illuminismo alle sue estreme conseguenze, sarebbe il ritorno di una natura irriconoscibile, corrotta e deformata, in cui forse ci sopravvivrebbe solamente l’infimo animale dal Buffon disprezzato: la mosca cavallina o peggio, il tafano bovino.

Spuglia-copertina-In-Tuscia detail