Quello che vedete davanti a voi, o meglio vicino ai vostri piedi, accomodato in un improvvisato e impreciso ordine della bottega-laboratorio antiquario di Daniel Gregory Di Domenico, mi dispiace dirlo, non è un pavimento. Non potete calpestarlo, non tanto perché potreste danneggiarlo, ma perché si presuppone che siate accorsi in tal numero a questa presentazione romana del lavoro di Salvatore Puglia che, se ci state sopra tutti, quanti siete, non potrete leggerlo.
Non è un pavimento questa griglia di maiolica di Vietri, ma piuttosto l’insieme di improbabili, incerti fogli quadrati di appunti, di tremolanti trascrizioni da La philosophie dans le boudoir di Sade. Trascrizioni, copiature mal riuscite, frammenti di conoscenza del male che casualmente sono stati tirati fuori da una tasca in una giornata di estate, all’interno di una bottega di Vietri, dove invano maestria artigiana e creazione d’artista cercano di coniugarsi, come ci spiega Puglia.
L’artista ricopia con esitante calligrafia davanti agli occhi incuriositi e poi disincantati dei maestri artigiani esperti nell’arte della maiolica, le prime sei pagine de La philosophie dans le boudoir, testo ampiamente noto e per la cui pubblicazione qualche decennio fa in Francia e in Italia alcuni editori furono coinvolti in vicende giudiziarie.
Saltando la prefazione, Puglia inizia a ricopiare il primo dialogo, sperimentando con una scelta cromatica essenziale del blu di Delft sul bianco del fondo, una grafia dipinta, insicura per l’uso di un mezzo improprio, di una tecnica non padroneggiata.
La grafia infatti è adoperata in modo ricorrente nei suoi lavori, per incidere la materia, per graffiare vetro o intonaco, e non come il risultato della pratica attenta e disciplinata, con colore e pennello, richiesta ad un calligrafo. Malgrado il colore scivoli sul supporto, il segno mantiene il medesimo aspetto confuso, le stesse angolosità e asprezze incisorie, questa volta inquadrate a fatica nella geometria delle piastrelle. Nonostante Puglia intenda assumere l’attitudine del copista, il risultato è soltanto una brutta copia dalla variegata e fluttuante veste grafica, incompleta, perché limitata alle prime pagine del testo. In realtà più che di una “copia” da Sade, di un amanuense contemporaneo, sembra trattarsi di una “citazione” da Sade. Il linguaggio di Sade come Barthes ha dimostrato non è linguaggio referenziale, ma piuttosto costruzione/ricostruzione della dimensione mentale del male. Sotto questo profilo Puglia trascrive sui “notes” bianchi delle piastrelle citazioni, ossia frammenti di linguaggio, nella convinzione novecentesca di essere sollevato dalle spiegazioni e di esortare le domande. I vari pezzi dove sono dipinte le parole secondo una trasposizione estraniante, ma di estrema precisione che intenderebbe riproporre cambi di carattere e andamento della pagina, possono essere letti a sé, come brani frammentari e/o ricomposti nella lettura dell’insieme del pavimento assieme a quadrati vuoti, senza testo, posizionati casualmente come cesure bianche. Sospeso tra la funzione di pavimento dipinto con parole, e di testo riprodotto con mezzi pittorici, La philosophie dans le boudoir di Puglia è un oggetto plastico che ammicca all’oggetto linguistico volutamente confondendo il ruolo del trascrittore e quello dell’artista, in modo che un artista con non determinate velleità calligrafiche si ponga come copista.
Esattezza e indeterminatezza sono i termini che caratterizzano questo lavoro, dal suo iniziale e ironico presupposto progettuale di trascrizione, alla sua contraddittoria realizzazione dentro e fuori le regole: dell’artigianato e della creazione, della geometria simmetrica e ripetitiva della griglia compositiva, delle possibili ordinate varianti della copia e della versione grafica.
A noi che restiamo ai margini per guardarlo come un testo dipinto non resta che leggerlo, rassicurati dal fatto che in ogni caso il prototipo resta sempre disponibile per un riscontro di conformità.