Promemoria (Taggia 2005)

Una mostra “performativa”?

Ciò che la mostra di Taggia sul patrimonio culturale e i rischi sismici si propone è costituire un esempio di “memoria performativa”. E’ la proposta di una testimonianza fondata sì sull’indagine storica, sulla ricostruzione per quanto possibile accurata dei fatti avvenuti, ma che non è solo conservazione di conoscenze acquisite: è trasformazione di queste in avvenimento, manifesto, manifestazione e – eventualmente – drammatizzazione. E’ un approccio alle cose del passato e alla loro ri-creazione che richiede metodi e pratiche provenienti dal campo dell’estetica, e che intende superare l’alternativa tra memoria e oblio (bisogna conservare e testimoniare tutto il passato, oppure si può omettere e dimenticare qualcosa, per consentire una pacificazione di vecchie contese?). E’ un’alternativa falsa perché ognuno di questi termini – memoria e oblio – contiene l’altro in sé, lo implica necessariamente.

La mostra organizzata a Taggia nel gennaio-febbraio 2005 nasce da un evento, il terremoto del febbraio 1887, che costituisce una ferita nella storia e nella terra della Liguria di ponente. Evidenziare quanto e come tale ferita sia stata risanata è suo compito. Si vedrà come l’intreccio di reminiscenza e dimenticanza (con una certa prevalenza della seconda) ha creato l’aspetto attuale di quel territorio, assumendo nei fatti una funzione “performativa”.
Il tentativo di restituire allo sguardo ciò che è avvenuto in quell’anno e nei cento che lo hanno seguito – così come quello di mostrare lo stato di quei beni che l’uomo ha impiantato in questi luoghi – non può presentarsi come una mera opera di archiviazione e catalogazione. Per quanto le metafore dell’archivio e del catalogo siano sempre presenti nel percorso dell’esposizione Promemoria, si è preferito quella di “cantiere”. Così come lo stato delle nostre conoscenze è un continuo movimento di farsi e disfarsi, e la geografia stessa di queste terre è fatta di costruzioni e demolizioni, una mostra che vuole rendere conto di ciò non può avere una forma conclusa, né proporre un discorso finito. Una mostra che parla di ferite nel territorio, di cesure nella storia e dei modi e delle opportunità di risanarle o meno, non può non avere lati spigolosi, muri sbrecciati, voci dissonanti. L’aspetto performativo che si menzionava è quella pratica di trasformazione del materiale documentario che – nel renderlo leggibile sotto luci diverse – costituisce l’operazione critica di se stessa e del proprio oggetto.
A questo scopo – con un metodo che è allo stesso tempo filologico ed estetico – si sono usati i mezzi audiovisivi della nostra epoca: gli apparecchi fotografici digitali, i registratori, le videocamere. Nostro intento era precisamente superare il carattere dimostrativo e didattico di un’esposizione scientifica per farne un rendiconto, esaustivo per quanto possibile, ma aperto all’interpretazione – e all’emozione – di un pubblico che è il diretto interessato.

La mostra di Taggia è divisa in tre parti. Esse rispecchiano da una parte le opportunità e le costrizioni del luogo che la ospita – il palazzo Lercari – e rispettano dall’altra il principio della nostra “museografia”: fare con ciò che si trova, lavorare con le disponibilità umane, gli spazi e i materiali locali, intersecare le nostre conoscenze e le nostre pratiche con quelle di chi sul posto vive. Il rapporto che abbiamo cercato sia con l’amministrazione comunale che con il Circolo culturale tabiese che con tutte le persone incontrate è nato da questa convinzione: non si tratta tanto di restituire al territorio le informazioni che dal territorio si sono prese – sebbene “messe in forma” -, quanto di riesaminare insieme con coloro che qui vivono qualche aspetto della nostra temporanea presenza.
Un altro principio ha guidato il lavoro della mezza dozzina di persone che hanno montato l’esposizione: se esistono competenze specifiche, non ci sono mansioni separate. Tutti partecipano all’elaborazione concettuale e tutti danno una mano al montaggio. Ognuno sa cosa gli altri stanno facendo; un’idea di interscambiabilità si sostituisce, per quanto possibile, a quella di specializzazione. Questo è il motivo per cui l’allestimento della mostra di Taggia è stato firmato collettivamente.

Alcune note, infine, sulla struttura di Promemoria.
C’è una prima sala, che abbiamo battezzato Deposito. Questo è il luogo in cui il problema “si pone”, senza che per esso venga accennata alcuna soluzione. Immagini dei luoghi percorsi dalla nostra ricerca, materiale sparso e sedimentato, scarti del nostro lavoro che in negativo danno la forma della mostra, fotografie di edifici danneggiati: “c’è un problema”.
La seconda sala di palazzo Lercari è stata nominata Museo. E’ questo un luogo in cui si presentano documenti. L’allegoria è quella di un museo di storia locale “à l’ancienne”, in cui vengono raccolti, senza distinzioni gerarchiche o di qualità estetica, tutti gli oggetti e i dati che hanno a che fare con un determinato luogo o avvenimento, in questo caso il terremoto del 1887. Dalla profusione di documenti scaturisce l’immaginazione di ciò che un tale avvenimento ha potuto significare, e come possa continuare a essere presente malgrado il tempo trascorso e le necessarie ricostruzioni. Questa sala ospita quindi i materiali di archivio di carattere audiovisivo che abbiamo potuto rintracciare. Tali materiali già indicano alcune delle modalità in cui può rivivere un luogo colpito dalla catastrofe.
Si passa alla terza stanza, il Laboratorio. Così come tutta l’esposizione, essa è stata pensata secondo i principi di sovrapposizione e sbordatura. Così come il presente storico è fatto di stratificazioni, aggiunte, omissioni, riappropriazioni e dimenticanze, i materiali del cantiere che è la grande sala di palazzo Lercari si confondono a tratti fra di loro, si distinguono, tornano a confondersi.
I diversi supporti documentari o elaborati sbordano l’uno sull’altro: i paesaggi fotografici di Vittore Fossati, le fotografie digitali dell’UR8, le carte topografiche e geologiche, le immagini aeree. Si è voluta platealmente dare l’immagine di un intreccio da dipanare, di un diagramma da decifrare. Si è affidato questo “sdipanamento” alle storie esemplari di alcuni oggetti, a quattro microstorie che illustrano in altrettanti film punteggiati da didascalie sonore i modi diversi che hanno gli oggetti di sopravvivere ai cataclismi naturali e all’incuria (o alla cura) dell’uomo per le cose che ha ereditato.
La morale di queste storie è che non c’è una soluzione data al problema posto in partenza, ma tante soluzioni parziali e diverse. La mostra si conclude in questo modo, con un appello all’attenzione e alla cura.

Salvatore Puglia
Gennaio 2005

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