Il rapporto fra l’arte e la storia può essere visto da diversi punti di vista. Dirò qui, molto concisamente, almeno tre dei modi in cui l’artista può guardare alla storia.
1. Come presenza, persistenza e continuità del passato, al cui capo estremo ci si trova. Di lì un’arte di citazione e di rappresentanza.
2. Come contesto, ambiente temporalmente definito nel quale si vive e si opera. Di lì l’arte politica, o impegnata che sia.
3. Come eredità riconosciuta, oggetto di riflessione e di ri-presentazione. Questo dà l’arte di storia.
Tutti questi modi necessariamente si intersecano e nell’operare si fondono, ma io ne isolerei piuttosto uno, che trovo più interessante e fecondo: l’ultimo, quello che appare come la forma attuale della “pittura di storia” e quello che più degli altri avvicina la pratica artistica a una funzione di interpretazione del mondo, a un “dire il non detto”.
Come punto di partenza, una visione ermeneutica dell’arte ha tutti i suoi limiti, certo, che si situano nella possibilità stessa dell’interpretazione di ciò che abbiamo intorno e dentro di noi. Ma, se ci si è autodefiniti “artisti”, se si è scelta l’arte come forma di vita, è perché ci si è trovati, all’origine, precisamente di fronte alla questione del significato, cui non si è saputo dare altra risposta che questa: né semplicemente registrare, né semplicemente esprimere, ma trasformare quello che è dato. In altre parole, attraversare e lasciarsi alle spalle l’interpretazione, e fare dell’opera d’arte un’opera di traduzione, di “appropriazione metamorfosante”, secondo la definizione che ne dà Georges Steiner.
Una pratica metamorfica del lavoro artistico ha, almeno, l’interesse di non lasciare questo alla pura affermazione di sé; dà forma comunque al tentativo, cui l’etica ci condanna, di ritessere, di ricucire, di rincollare i pezzi, senza posa e senza fine, in trame e in orditi diversi da quelli che, senza avervi ambito, abbiamo ereditato e di cui portiamo testimonianza. E questo senza la pretesa di poter ri-creare qualcosa, ma solo con quella di dire ciò che resta, che equivale a dire ciò che è perduto.
Un tale lavoro di appropriazione e di traduzione può, e anche deve, rimanere oscuro e anche inconsapevole nel suo farsi, essendo necessaria, al trascendere dell’oggetto scelto, una certa perdita di memoria da parte di colui che quell’oggetto ha scelto.
Un’arte che si interessa all’eredità storica non è, necessariamente, un’arte della memoria né, tanto meno, un’arte politica. Se ha qualità di arte, è politica. Quanto è facile celare l’insufficienza estetica dietro l’appello alla memoria come valore in sé positivo e comunque consolatorio, dietro la petizione di principio e la buona volontà riparatrice; mentre rimane intera, e decisiva, la questione della qualità del lavoro artistico, che sola giustifica la ripresa e la trasformazione delle immagini-storia, e restituisce all’artista una posizione di artefice. Altrimenti, il kitsch, che non trasforma ma solamente sposta, è dietro l’angolo.
Se è arte, non è storiografia. Non è lì per dire: “guardate, vi dico come è andata”. Non è neanche lì per dire che “avrebbe potuto andare in un altro modo” o per dare insegnamenti su come potrebbe andare. Per fortuna, anche fra gli storici si pensa ora diversamente. Che, allora, l’arte abbia una funzione di trasmissione di una verità più vera di quella che riuscirebbero ad avere le altre discipline? Non è neanche questo. Forse, però, più di altri un’arte della storia può dire il possibile, e questo proprio grazie alla sua vocazione “parassitaria”, di cui vogliamo rendere conto in questo piccolo volume.
Parassitaria, un’arte della storia lo è: essa dipende direttamente dal suo documento. La fonte storica viene vista generalmente in due modi: o come mera e veritiera testimonianza, o come un testo “suggestivo”, “evocativo”. Si cerca qui un altro modo di trattarlo, che metta al centro la sua eventuale trasformazione: essa può avvenire solo attraverso un processo allo stesso tempo interpretativo e metamorfico.
La storia venga dunque sottoposta all’arte, a condizione che si traccino – ed è per questo che il nostro discorso ruota intorno alla posizione del documento – le frontiere rispettive: da un lato le scorie, le spoglie, i reperti; dall’altro l’attenzione, la scelta, la metamorfosi.
Ed è primaria la questione dell’inclusione e dell’esclusione, la questione della scelta, quando si tratta, come qui si tratta, della ripresa di un materiale dato. Si torna, infatti, al primo interrogativo di questa raccolta: cosa è che viene designato come documento, perché viene scelto e attraverso quali percorsi diviene materia di una possibile opera? Nella scelta, nella ripresa, c’è evidentemente la riduzione del possibile a un disegno formato da tutte le condizioni di una soggettività e di un’epoca data. Ma, in taluni casi, scelta e ripresa spaziano proprio nel campo delle infinite possibilità.
Inverno 1998-1999