Intrusi in posti etruschi (2016)

(Etruscan Places, Intruders)

Spuglia Tarquinia B

Un testo introduttivo, sette scritture su carta Curious translucents 140 gr.
e sei stampe digitali d’arte al formato 15×15 su carta offset 350 gr.
50 esemplari firmati e numerati.

 

Spuglia Tarquinia B 01Tarquinia B 01. Caccia e Pesca/Ammassalik Inuit

 

Spuglia Tarquinia B 02
Tarquinia B 02. Caronti/Ainu

 

Spuglia Tarquinia B 03
Tarquinia B 03. Leonesse/breathing hole

 

Spuglia Tarquinia B 04
Tarquinia B 04. Fiore di Loto/Hopi e Ona

 

Spuglia Tarquinia B 05
Tarquinia B 05. Cacciatore/racial types

 

Spuglia Tarquinia B 06
Tarquinia B 06. Giocolieri/Kwakiutl

 

All’inizio l’antichità è stata per me una bocca d’anfora affiorante su un fondale sabbioso non più alto che tre metri. Mi ci avvicinavo con la fiocina cui avevo annodato uno straccio bianco. I polpi sono attratti dal bianco ed escono dalla loro tana preferita per avventarsi sul pezzetto di stoffa; è quello il momento di arpionarli; si tratta di una tecnica di caccia subacquea semplice e fruttuosa.
Dovevo avere sui quindici anni. Il fondale era quello del Porto Clementino, sul litorale di Tarquinia. Ancora non avevo visto le tombe dipinte.
Una volta tirai su un polpo insieme con il suo concavo rifugio e, quando mi indicarono un personaggio che pagava anche ventimila lire per un’anfora romana intera, mi spostai su altri fondi, di fronte al poligono militare di Pian dei Spilli, ove trovavo sui sei metri certe anfore tipo Dressel 1A o 1B. Con sagola e rullo di gomma mi ero fatto un rudimentale argano e potevo cavarmela da solo.
Già l’inverno successivo affittavo una moto da cross insieme con un amico, la domenica, e andavo alla ricerca di tombe etrusche nelle forre intorno a Blera e a Barbarano. Non eravamo i primi a entrarvi, ma ne riuscivamo sempre con qualche frammento di bucchero o di ceramica dipinta.
Nel febbraio del 1971 ci fu il terremoto di Tuscania. Con tre compagni mettemmo in macchina una pala trovata in garage e andammo a dare una mano. Alloggiavamo in tende militari e ci scaldavamo la sera con il “cordiale” in bustine di plastica che i marescialli ci distribuivano generosamente. Di giorno spalavamo le strade del centro storico ostruite dalle macerie; a volte, camminando raso al muro, entravamo in un appartamento sventrato: fotografie di famiglia in scatole da scarpe, ninnoli sparsi al suolo, centrini e pizzi coperti di calcinacci. Vidi i sarcofagi etruschi mutilati intorno alla piazza Basile: i defunti non erano stati decapitati dal terremoto ma dai tombaroli. Poi vidi l’abside smozzicato della più bella chiesa al mondo, la basilica romanica di San Pietro (è vero ricordo o mistura d’immagini? Chiese crollate ne ho viste anche in Irpinia nel 1980).
Più tardi, all’università, mi ero destinato a una carriera di etruscologo quando l’obbligo di superare un esame di tedesco dirottò altrove la mia attenzione; oltretutto si era sul più bello delle assemblee pugilistiche fra revisionisti come noi “amici del Manifesto” e le “Sturmtruppen” dell’Autonomia organizzata.
Nella vita ho fatto altro ma alle tombe di Tarquinia sono sempre tornato. Direi che le visito più di quella dei miei genitori, non me ne vogliano a male, loro e quell’altro.
Ci sono stato quando erano tutte accessibili, poi quando rimasero aperte secondo una rotazione annuale, e anche quando le hanno fatte visibili di là dei vetri blindati che ne sigillano l’ingresso. Confesso che, quando torno nella Tuscia, mi capita di lasciare moglie e figli in auto per scappare dieci minuti a rivederne una o due.
Lo scrittore britannico D. H. Lawrence (1885-1930) ne visitò un paio di dozzine fra un pomeriggio e una mattinata dell’aprile 1927 e ne descrisse quindici (Etruscan Places, pubblicato postumo nel 1932). La sua è la visione di una gioia di vivere e di un edonismo etruschi contrapposti all’austerità e al militarismo romani; è un’interpretazione di critica implicita al regime mussoliniano, che della potenza romana si voleva erede.
Alcune delle tombe in cui sono tornato recentemente furono visitate da Lawrence; le descriverò a modo mio.

Tarquinia B 00. Un poco strettino sotto i bassi soffitti della tomba 3713, Franz Boas mima, a beneficio dei costruttori di manichini presso il National Museum of Natural History, la cerimonia dell’hamatsa, la cosiddetta danza cannibale dei Kwakiutl della Colombia Britannica. A New York, nel 1895. Un poco impacciati nei loro abiti rossi di porpora slavati dal tempo che passa, danzatori etruschi del IV secolo a. C. lo accompagnano.

Tarquinia B 01. Sulla soglia della tomba della Caccia e della Pesca un poeta Inuit ritma la sua canzone da duello sul tamburo di pelle di foca, mentre le due spose di Ayukutok si schermiscono davanti all’obiettivo di William Thalbitzer, ad Ammassalik, nell’estate del 1903. Un giovane etrusco caccia uccelli a colpi di fionda. “Here is the real Etruscan liveliness and naturalness”, direbbe D. H. Lawrence.

Tarquinia B 02. I due Caronti variopinti che sorvegliano la porta degli Inferi hanno trovato dei compagni: sono Ainu, la minoranza etnica che abita l’isola giapponese di Hokkaido. L’antropologo “scientifico” che li aveva presi e fotografati come “tipi caucasici”, autore nel 1940 dell’utile opuscolo Comment reconnaître et expliquer le Juif? finì abbattuto dalla Resistenza francese nel 1944 e sicuramente sta in inferno.

Tarquinia B 03. Nella tomba delle Leonesse è in atto un festino; si danza, si suona il flauto, si consumano bevande inebrianti. I delfini saltano in un mare cinerino, mentre un cacciatore groenlandese si apposta presso il foro che ha scavato nel ghiaccio. Una foca vi si avvicinerà presto per prendere fiato. Sulla parete di destra, flemmatico, un uomo reclinato mostra al cortese pubblico un bianco “uovo della resurrezione”.

Tarquinia B 04. Nella camera del Fiore di Loto i guerrieri Hopi acconciati perbenino si producono per Aby Warburg in danze tradizionali, nel 1896, in Nuovo Messico. All’altro capo dell’America e qualche anno dopo un indigeno Ona della Patagonia sistema la sua acconciatura prima di compiere il rituale fallico di fronte al missionario e fotografo Martin Gusinde. Un leone e una pantera fanno loro compagnia. La parete è nuda, è un fondale adatto.

 Tarquinia B 05. La tomba del Cacciatore è ornata come fosse un padiglione di caccia e le sue quinte sono percorse in fila indiana da leoni, tori, fagiani, cervi, cani e cavalieri. In questo spazio si sono radunati vari tipi di cinesi. Si mostrano di fronte e di profilo ma non sono tanto riconoscibili, i motivi a scacchi del soffitto e le punteggiature sui muri ne confondono i tratti. Ma non si è tutti eguali lì sotto, uomini e animali confusi?

Tarquinia B 06. Nella tomba dei Giocolieri una ragazza mantiene un candelabro in equilibrio sul capo, mentre un giovane tenta di impilarvi dei dischetti; il defunto, seduto tranquillo sulla destra, li osserva. Due notabili Kwakiutl posano nei loro paramenti da cerimonia. È l’estate 1904. Approntano il tradizionale potlatch, in cui spezzeranno scudi di rame e distribuiranno coperte di lana e piatti inglesi, senza attenderne contropartita.

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