Ferro e vetro sono i materiali che Salvatore Puglia usa per racchiudere e delimitare le sue immagini pittoriche.
Cornici in ferro e, nel suo lavoro precedente in piombo, con vetri che contengono -quasi come un reliquiario, é stato già osservato, un reliquiario laico e domestico- materiali modesti che sottolineano a volte la labilità delle immagini: fotografie, fotocopie su carta e su acetato, radiografie, elementi di colore ottenuti con pigmenti o gelatine.
Il vetro non serve soltanto a racchiudere, ma spesso integra in un gioco di sovrapposizioni l’immagine, ricoprendola con la trasparenza di segni incisi sulla stessa superficie, formulazioni di un testo scritto. E’ l’ultimo -o il primo- di una serie di fogli sparsi, proposti alla nostra attenzione dall’artista, e da lui raccolti nella dispersione che ci e’ intorno; da noi leggibili secondo sequenze diverse, altre sovrapposizioni, o anche uno ad uno, leggibili come scrittura e come immagini, come suggerimenti di segni.
Il ferro poi non e’ limitato alla sola cornice ma diventa elemento costitutivo di un supporto che permette all’immagine di ruotare sulla parete fino a raggiungere la giusta inclinazione, fino a consentire grazie ad una apposita illuminazione lo sconfinamento sul muro, la proiezione della sua ombra ingrandita e/o deformata.
Il lavoro di Salvatore Puglia si muove sul terreno della memoria, terreno di particolare complessità indagato e penetrato dalla cultura del Novecento. Gli approfondimenti da lui suggeriti sono di notevole interesse in un momento in cui il progresso tecnologico e le innovazioni dell’elettronica permettono di classificare ogni forma di ricordo del passato, di archiviare sin nei dettagli storie personali e collettive. Oscilliamo così tra l’onnipotenza di chi tutto sembra possedere in un’ordinata e irreversibile sistematizzazione delle cose, e l’angoscia della conservazione.
Conservare tutto ciò che appartiene al passato, nella consapevolezza che i segni della nostra storia non sono sempre evidenti e manifesti. Conservare e trasmettere la conoscenza del nostro passato con la consapevolezza che i supporti su cui trasferiamo il nostro sapere, su cui archiviamo dati, notizie e immagini, hanno comunque vita limitata, sono in continua evoluzione e destinati a deperire rapidamente o comunque ad essere sostituiti in breve tempo. All’estensione del concetto di memoria, e al conseguente sconfinato allargamento delle ‘capacita’ di gestione del patrimonio del passato, corrisponde il timore dell’alterabilità della memoria, il terrore dell’annientamento, della sparizione nell’oblio.
Ossessionati dal non poter/dover dimenticare, siamo per altri versi inondati da una serie di banalità sulla memoria, consumata come argomento di discorsi convenzionali, trito rimescolamento di ben altre intuizioni e percorsi, e risucchiata nel generale appiattimento del nostro vivere odierno. Accade così spesso che il nostro passato più recente sia letto sotto la lente nostalgica del ricordo, divenendo oggetto di superficiali e nostalgiche rivisitazioni, offrendosi per insulsi remake.
Drammaticamente contraddittorio poi l’imperativo etico del “non dimenticare”, riferito agli orrori perpetrati nel nostro passato più recente, quando si assiste impotenti allo svolgersi quotidiano di eventi pari per atrocità e ferocia, ineguali forse solo per quantità ed estensione. Sembra dilagare nella nostra società un diffuso “disturbo di evocazione”, una morbosa patologia che non consente di riportare alla coscienza le esperienze memorizzate. Soltanto la nostra personale e totale adesione ai valori umani compromessi nel passato ci permette di avere.ancora fiducia nelle possibilità di trasmissione di quel patrimonio pregresso di tragiche esperienze, tenendo sempre vivo il ricordo così che sia ancora possibile offrire, nella negazione dell’ orrore, generazione dopo generazione un contributo all’opera comune, e in tal modo farla progredire.
L’operazione artistica di Salvatore Puglia ci mette innanzitutto in contatto con una serie di segni sparsi della memoria, foto, documenti, frammenti di scrittura. La sua frequentazione di studi storici, la consuetudine con gli archivi, una naturale attrazione per il dato materiale, per la storia espressa nella sua forma più frammentaria e marginale lo porta a selezionare un insieme di dati, a correlare tra loro frammenti diversi, scritture di segni. Una vivace curiosità intellettuale, contagiosa e dilagante, propria del suo modo d’essere assieme ad una inquietudine tipicamente novecentesca di continua messa in discussione, di continuo ribaltamento di tutto ciò che è ancora in via di acquisizione, lo ha portato da sempre a percorrere molteplici itinerari personali e culturali, secondo un andamento puntiforme, in cui si può ritrovare, e la sua pittura lo dimostra, la continuità della ricerca.
Ogni elemento visivo dei suoi oggetti artistici, ogni frammento, è frutto di un percorso, di uno studio mosso da una irrequieta sollecitudine di approfondimento. Nella fase iniziale, quando la sua memoria personale sembrava essersi quasi saturata di tracce e impronte del passato ritenute durante un rapporto di studio con il dato d’archivio, Salvatore Puglia lavorava a superfici monocrome, tele di grandi dimensioni prive di telaio, in cui comparivano, come sulla superficie di un muro dipinto, grafemi, brani di scrittura, segni elementari secondo una ricerca influenzata dai rapporti tra segno, linguaggio e pittura indagati da Novelli e Twombly. Era già evidente una grande attenzione al dato materiale nell’individuazione di tecniche, supporti e procedimenti di manipolazione con una predilezione per la densità e la corposità della materia. E’ questa una costante nel lavoro di Puglia, caratterizzato anche da una certa ingegnosità manuale nel combinare tecniche e materiali per le sue creazioni. Successivamente la scrittura e’ stata affiancata da reperti di vario genere, parti di pagine, stampe, fotografie. Già in questo primo periodo Puglia giungeva alla formulazione di un suo linguaggio con alcune figure ‑ il “mamozio”, il geco ‑generate dall’affinamento delle sperimentazioni segniche e dall’approfondimento sulle strutture elementari del linguaggio. Si delinea progressivamente una personale genealogia di figure archetipe, suggerita dall’indagine insieme dotta e fantastica dei miti del patrimonio popolare e antropologico della cultura mediterranea.
Aschenglorie (presentato a Roma nel 1993 nella mostra che ha inaugurato l’ attività espositiva de Lo Studio) appartiene ad una nuova fase di ricerca. “Si mostra -ci avverte Puglia- quello che resta per dire quello e’ perduto”. Dopo l’interesse per la scrittura Puglia arriva ad un “catalogo di cose perdute”, realizza una propria sala del museo, di novelliana memoria, riportando in una sorta di gioco ironico i frammenti sparsi dell’ archivio del mondo. La presentazione dei segni, il sistema dei frammenti viene organizzato al di fuori dello spazio propriamente pittorico della tela, con una serie di quadri con cornici di piombo montati gli uni accanto agli altri in modo da definire un tutto unico, una sorta di “vetrata” con schegge o brandelli di segni, un insolito casellario che invece di ordinare e tenere distinti i pezzi diventa lo spazio di una mappa mutante, con infinite possibilità di percorso. All’interno dei quadri la sovrapposizione di pezzi e materiali: scritture, immagini riprodotte su carta o fotocopiate su acetato, segni di inchiostro appaiono e si celano, si mostrano nella loro identità di parti decontestualizzate confondendosi al tempo stesso nel gioco di frammistione di segni. Alla esigenza di concretezza materica si oppone, quasi un ossimoro, il gioco delle trasparenze, il sovrammettere lasciando intravedere quel che si modifica, il penetrare in profondità lo spessore opaco della materia stessa. E’ di questo momento della ricerca la comparsa, nella varietà infinita di documenti, anche delle radiografie.
In questi ultimi lavori qui presentati, dopo le recenti esposizioni di Strasburgo e New York, Salvatore Puglia approfondisce il senso della sua operazione nell’ambito della distinzione memoria/ricordo. E’ essenzialmente la fotografia ad interessare la sua ricerca, com’e’ naturale per un mezzo di conoscenza che e’ diventato immagine della storia, scrittura della storia, conoscenza esso stesso. La fotografia con la sua pretesa di una oggettività più o meno fredda evoca l’ immagine di ciò che non e’ più, ci restituisce nient’altro che fantasmi, ombre, figure incerte, impenetrabili, irriconoscibili.
Come in una sorta di personale “teatro delle ombre” Salvatore Puglia riconduce a noi i fantasmi. Sceglie e ritaglia le silhouette a lui congeniali, le studia, le compone per presentarle (o proiettarle) a noi che guardiamo. La sua operazione ci aiuta a liberarci dall’affastellamento delle immagini della memoria, dal peso dell’evocazione e ci invita all’esercizio del ricordo.
I suoi oggetti artistici -le fotografie segnaletiche di Bertillon, Charcot, Lombroso frammiste a testi incisi su vetro e a segni, scritture varie su fogli di acetato, in Ũber die Schádelnerven; o ancora i relitti della storia de Les ames du purgatoire o la storia privata di Ninnananna in rosso, presentati con stesure di colore rosso bruno di gelatina e a volte affioranti da una griglia geometrica sovrapposta, sagomata come le bandierine delle segnalazioni navali- hanno la funzione di reagenti, attivano in chi guarda la possibilità di richiamare la conoscenza passata e di renderla attuale o presente, suscitano il corto circuito della coscienza tra il percorso interiore di Salvatore Puglia e i possibili imprevedibili percorsi di noi, che guardiamo ciò che lui mostra.
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