La vita di prima, quadri (2024-2025).

1968, inverno.
Il mio primo atto artistico – e allo stesso tempo politico – fu un manifesto appeso sulla facciata della parrocchia dei SS. Protomartiri a Roma. Vi si vedeva il viso di una giovane africana, sfigurato dalla lebbra. Avevo dipinto il manifesto di un rosso trasparente e vi avevo scritto: ‘’ Lei non usa Kaloderma’’. Tuttora non so se intendevo dire che non usava il cosmetico perché non le serviva o perché non poteva permetterselo. Ricordo che la mia intenzione era invitare a dare soldi agli africani malati piuttosto che all’industria farmaceutica. Credo avessi quindici anni e che si fosse quindi nel 1968.

1971, primavera.
Corro a perdifiato per i vicoli di Trastevere fra il ponte Sisto e via della Lungara. Il poliziotto pare voler acchiappare proprio me. Penso di conoscere bene il quartiere ma mi sbaglio, mi sguincio in un vicoletto convinto che mi riporterà sul lungotevere Mazzini ove dovrebbe esserci il resto della manifestazione, ma in effetti è un vicolo cieco. Mi accuccio dietro un camioncino, poi vedo una porticina di ferro socchiusa, la spingo e mi ritrovo in uno scantinato che è una tipografia in piena, rumorosa attività.

Due operai mi chiedono cosa faccio là, dico che mi riparavo perché fuori sparavano. Non parlo certo della piccola pistola lanciarazzi che tenevo in un astuccio di stoffa inconsapevolmente cucito da mia madre e sistemato sul pube, sotto la cintura.

Gli operai non mi lasciano andare, mi chiedono il numero di casa e telefonano. Fortuna vuole che sia mia nonna che risponde, sola in casa come sempre a quest’ora del pomeriggio. Probabilmente mia sorella è venuta alla mia stessa manifestazione, ma siccome non ci si parla non posso saperlo.

Mia nonna non capisce niente di quello che le racconta il tipografo, che alla fine si stufa di parlarle e mi dice di andarmene.

Fuori, il vicolo è deserto, la manifestazione sul lungotevere dispersa.

L’indomani incontro quello che scappava dietro di me e che mi aveva seguito nel vicolo cieco. Mi racconta che, arrivato al muro, si era girato e aveva brandito la fionda, armata di una biglia di vetro, contro il poliziotto che arrivava con la pistola puntata. Costui, vistosi solo, avrebbe rinfoderato e se ne sarebbe andato. Non ho motivo di dubitare del racconto del compagno Alex.

1972, inverno.
L’appuntamento è nei pressi di una piazza a Montesacro. Si tratta di sorprendere i fascisti che si riuniscono ogni mattina davanti a un bar prima di andare ad attaccare i compagni del liceo Gioberti.
Infilato in un’asola interna della mia giubba di cuoio ho un tondino di ferro zigrinato del diametro 1,5 e lunghezza 50, mi pare lo strumento più adatto per la sua maneggiabilità e leggerezza, molto meglio dei “mezzi stalin” che portano gli altri sotto gli eschimo e spuntano loro dalle tasche.
Arriviamo da quattro punti diversi e sorprendiamo i fascisti. Ce n’è uno più anziano degli altri, vestito di una giacchetta di pelle scamosciata e di jeans. Nel tentativo di sfuggirmi inciampa e cade fra due macchine parcheggiate rimanendo incastrato, rivolto verso me si para la testa con le braccia aspettando i colpi.
Rimango col braccio levato, la spranga di ferro mi pare vibrare sopra la mia testa.
Mi giro e mi allontano per raggiungere i compagni, si riparte verso le moto lasciate nelle strade vicine.
Ne abbiamo lasciati non pochi a terra.

1984, inverno.
Il corpo di mia nonna è disteso sul lettino della stanza da pranzo. Le zie hanno sistemato le sedie a semicerchio intorno al giaciglio. Zia Rosalia e zia Santina sgranano il rosario, lo zio Mimmo va e viene, si siede un poco poi esce a fumare una sigaretta. Dalla stanza da letto, attraverso la porta socchiusa, viene il russare forte di mio padre.

Ci hanno chiamato la sera precedente e abbiamo fatto in tempo a prendere il treno notturno da Roma ma abbiamo viaggiato nel corridoio e di conseguenza poco dormito.

Prendo anch’io una sedia e la sistemo a completare il semicerchio. Mi rialzo e vado a prendermi una birra nel frigo, mi riseggo sulla sedia rigirata alla cavallerizza. Bevo la birra, che non mi pare avere gusto né effetto, a piccoli sorsi. Mi viene il dubbio che non mi sto comportando bene quando la zia Santina mi propone di andare a dormire anch’io. Ma preferisco rimanere con loro, solamente rimetto la sedia come si deve. Penso poi di essermi addormentato seduto.

 

1987, autunno.
All’arrivo del Palatino a Roma Termini, con un’ora di ritardo, trovo mio fratello ad attendermi al binario. Andiamo alla moto, la Morini 125 che era mia e che gli ho passato. Sistemiamo in qualche modo lo scatolone con le tirature del libretto Giallo Napoli che ho fatto stampare a Strasburgo da Philippe.
Partiamo a tutto gas verso l’aula Bunker del Foro Italico, ove si tiene il processo Moro Ter (o Quatuor?) in cui sono coimputato di una banda di terroristi e aspiranti tali rossi e neri, processo sopranominato “minestrone” perché combinava insieme i residui di inchieste giudiziarie sparse, a regolamento dei cosiddetti anni di piombo.
Mio fratello mi lascia davanti alla garitta blindata dell’ingresso, gli dico di rientrare a casa col pacco e mi trovo solo in un’aula immensa, con pochi testimoni o accusati sparsi qui e là sulle sedie o dentro i gabbioni.
I giudici, gli avvocati e gli uscieri confabulano o si guardano intorno annoiati. Viene chiamato il mio nome, mi alzo per andare davanti ai giudici ma mi si ferma, il mio avvocato è assente e non mi si può interrogare, si rimanda la cosa.
All’uscita dall’aula lo vedo arrivare trafelato in bicicletta, si scusa per il ritardo ma ormai è andata così, sarò interrogato un altro giorno, o forse mai.

Ci furono poi altri due interrogatori, per questo o per un altro processo. Il primo a Venezia, mentre ero in Andalusia  con Rodolphe e viaggiammo ventiquattr’ore per arrivare a tempo, con interludio di controllo da parte di due poliziotti ubriachi, verso Nizza, mentre tentavamo di dormire in macchina, mangiati dalle zanzare.
Il secondo a Treviso, ove arrivai con la Simca prestatami da Christine a Berlino, e ove nella sala d’attesa del tribunale tentavo di leggere un romanzo poliziesco di Juan Madrid, mentre quello che mi aveva denunciato, un vecchio amico, sedeva sulla panca accanto alla mia aspettando il suo turno.

1988, autunno.
C’è da andare a riconoscere il corpo di M. Mio padre dice che non se la sente proprio. Ci vado io, accompagnato da Max, un amico di mio fratello più grande.
Come al solito, si trova molto traffico per arrivare al Policlinico Gemelli. Mi fanno entrare in una sala il cui muro di fondo è fatto di grandi cassetti d’acciaio. Ne tirano fuori uno all’altezza del mio bacino e ne esce un tavolo con posato sopra un corpo.
Per un momento breve ho l’illusione che non sia lui, poi lo riconosco anche se mi rimane come estraneo. Il poliziotto della stradale che ci attendeva sulla porta registra la mia dichiarazione.
Mentre faccio per andarmene mi giro a guardarlo un’ultima volta: dalla fasciatura sommaria che gli hanno messo intorno al torace vengono giù man mano più rapide gocce di sangue. Come se non avesse finito di morire, mi dico.
Appena fuori, Max mi mette in bocca una sigaretta che aspiro troppo forte e mi fa venire da vomitare.
Rientriamo a casa, mio padre è sul divano del salone, il televisore ancora spento, come rimarrà per forse una settimana. Mi chiede che aspetto aveva mio fratello: “buono”, gli rispondo. Sorride, sollevato.

1998, inverno.
Al cimitero di Prima Porta. Debbono riesumare il corpo di M., perché sono passati dieci anni da che è in terra. Guido io e quando arriviamo chiedo ai miei genitori, che paiono abbastanza pietrificati, di rimanere in macchina.
Più giù, nei terreni da ricambiare e che accoglieranno un altro contingente di corpi, sono già al lavoro le scavatrici.
Avevamo sempre avuto il dubbio che avessimo messo le pietre e piantato il melograno al posto sbagliato. Ma, mentre mi avvicino al terreno ora irriconoscibile vedo un operaio che fruga coi guantoni nella terra smossa, poi tira in uno strappo e per un attimo tiene con le due mani un teschio sopra la testa, in un gesto che mi pare ieratico.
Noto che il teschio non è pulito e bianco come quello di Amleto al teatro.
L’operaio ricompone, con destrezza e delicatezza, le ossa e il cranio in una cassetta di zinco.
Quando gli sono vicino mi dà una catenina d’oro, che riconosco. La riporto a mia madre, dopo averla sommariamente ripulita dal terriccio che la copriva.
Quindi, non ci si era sbagliati di posto.